Dipinti Antichi

26 NOVEMBRE 2014

Dipinti Antichi

Asta, 0030Part 1
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 16.00
Esposizione

FIRENZE
dal 21 al 24 novembre 2014
orario 10 – 13 / 14 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   800 € - 80000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 85
30
Stima   € 7.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
55

Astolfo Petrazzi

(Siena 1580-1653)

CUCINIERA E SERVITORE CON CACCIAGIONE DI PESCE

olio su tela, cm 167x124

 

Corredato da parere scritto di Sandro Bellesi

 

Bibliografia:

G. Cantelli, Postille per la pittura di natura morta in Toscana, ovvero i prodotti della terra tra paradosso e bellezza, in L. Bonelli, A. Brilli, G. Cantelli, Il paesaggio toscano, storia e rappresentazione, Cinisello Balsamo 2004, fig.5, p.359; Le immagini affamate. Donne e cibo nell’arte. Dalla natura morta ai disordini alimentari, catalogo della mostra, a cura di M. Corgnati, Aosta 2005, ill. p. 81, scheda n. 12 p. 179; Luce e ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, catalogo della mostra, a cura di P. Carofano, Pisa 2005, scheda n. 43 p. 120

 

Proveniente da una collezione privata oggi sconosciuta, l’opera illustra con ricchezza di dettagli l’interno di una cucina con figure umane e animali morti disposti con cura su piani scenograficamente digradanti. Nella parte anteriore compaiono una cuciniera e un servitore dialoganti in atto di preparare un pesce e un trancio di carne per la cottura e, sopra di essi, un tacchino spennato e gruppi per lo più di uccelli appiccati per il becco a ganci metallici. La parte interna, suggestivamente inquadrata da pareti in ombra, mostra un ampio vano con due donne, accompagnate da un bambino e da un gatto pezzato, intente rispettivamente a disporre dei piatti metallici su una mensola di legno e a seguire la cottura di un cibo messo a bollire in un paiolo sul fuoco.

Le tipologie particolari dei volti delle figure protagoniste e l’alta qualità esecutiva, enfatizzata dalla squisita selezione cromatica, consentono di ascrivere la tela al catalogo autografo di Astolfo Petrazzi, pittore nato a Siena nel 1580 e ivi morto nel 1653.

Indirizzato in area senese allo studio delle arti figurative sotto la guida di Francesco Vanni, l’artista completò la sua educazione a Roma, dove, documentato dai primi anni Venti del Seicento, realizzò un’importante pala per al chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Non insensibile alla poetica naturalistica caravaggesca, diffusa dai pittori legati all’ambito di manfrediana methodus, e attratto dalla nouvelle vague fiorentina, il Petrazzi ideò, al suo rientro a Siena, un tipo di pittura corsivamente gradevole, molto apprezzata dai committenti pubblici e privati. La fase centrale e l’ultimo tempo della sua attività furono contrassegnati essenzialmente dagli interessi verso la pittura bolognese coeva, deferente al raffinato classicismo del Domenichino e alle suadenti immagini di Guido Reni (per un consutivo sul Petrazzi, cfr. A.M. Guiducci, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano, 1989, II, pp. 842-843).

Il dipinto in esame, rapportabile a opere petrazziane come la Cuciniera con cacciagione, frutta, vegetali e pesce e la Cuciniera con cacciagione, frutta e vegetali in collezioni private a Siena e Firenze (cfr. E. Avanzati, in La natura morta in Italia, Milano, 1989, II, pp. 542-543), mostra caratteri stilistici che consentono di porre la sua realizzazione alcuni anni dopo la parentesi romana dell’artista.

Sebbene noto soprattutto per composizioni istoriate ricche di figure, destinate essenzialmente alla committenza sacra, il pittore risulta, sulla traccia delle fonti antiche, autore apprezzato di nature morte, oggi solo in parte identificate.

La sua notorietà in questo genere si diffuse con successo anche extra moenia, come attesta l’appartenenza ab antiquo di una coppia di dipinti con Strumenti musicali, al momento sconosciuta, eseguita nel 1630 per il cardinale Giovan Carlo de’ Medici.

Paradigmatiche dell’attività dedicata da Astolfo Petrazzi a questo particolare settore tematico appaiono composizioni di vario genere, frequentemente popolate da una o più figure. Significative, a tale riguardo, risultano, oltre alle pitture sopra citate, la Donna con un bambino e natura morta di ortaggi e vaso di fiori e il Giovane davanti a una tavola imbandita di ubicazione sconosciuta (cfr. M. Gregori, in La natura morta, op. cit., p. 516) o, ancora, la Suonatrice di liuto già nella collezione di Giovanni Pratesi a Firenze e oggi nella Pinacoteca Nazionale di Siena (cfr. E. Avanzati, in Pitture senesi del Seicento, Torino, 1989, pp. 24-27) e l’ Allegoria dell’Amore vincitore in Palazzo Barberini a Roma (cfr. R. Vodret, in Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi da Palazzo Barberini, catalogo della mostra, Roma, 1999, pp. 76-77). Questi dipinti, punti di riferimento essenziali dell’attività naturamortista del Petrazzi, attestano l’abilità pittorica ampiamente lodata dai critici del XVII e XVIII secolo e rivelano legami lessicali diretti con la corrente naturalistica fiorentina di Jacopo da Empoli, nonché contatti con i nuovi orientamenti romani di Pietro Paolo Bonzi e Tommaso Salini.

Sulla traccia di tali considerazioni e in base ai riferimenti con alcune pale d’altare cronologicamente certe possiamo collocare l’esecuzione della tela in esame agli anni Trenta del Seicento.

Stima   € 18.000 / 22.000
Aggiudicazione  Registrazione
9

Attribuito al Maestro di Montefloscoli

(Firenze, prima metà del XV secolo)

MADONNA CON BAMBINO TRA SANT'ANTONIO ABATE, SAN GIOVANNI BATTISTA, SANTA CATERINA D'ALESSANDRIA E SANTO VESCOVO

tempera su tavola fondo oro cuspidata, cm 67x36 con cornice di epoca posteriore dorata, laccata e intagliata a motivo di foglie sulla cuspide, ai lati due colonnine tortili e basamento a gradino, cm 84x42,5

 

Provenienza:

asta Fisher 16-17 giugno 1972 lotto 19, Lucerna (come Bernardo Daddi);

collezione privata;

collezione privata, Parma

 

Referenze fotografiche: Fototeca Zeri, Bologna, busta 0136 Pittura italiana sec. XV. Firenze. Rossello di Jacopo Franchi, Maestro di Montefloscoli, fasc. 4 Maestro di Montefloscoli, scheda n. 10600, invv. 33277; 33278

 

Il fondo oro qui proposto raffigurante la Madonna con Bambino e santi risulta documentato presso la Fototeca della Fondazione Zeri di Bologna come opera del Maestro di Montefloscoli e come si può dedurre dalle dimensioni doveva avere in origine la funzione di piccola anconetta per la devozione privata.

Questo anonimo maestro fu per lo più attivo per località periferiche, dal Mugello alla Val di Pesa fino alla Lunigiana, offrendo una interpretazione provinciale dei modelli più colti della pittura tardogotica fiorentina. Tale fortuna presso una committenza minore determinò quindi il successo della produzione di anconette per la devozione privata che si conservano numerose rispetto alle sporadiche pale d'altare, da cui ha avuto inizio la ricostruzione del corpus del pittore (indicato anche col nome di Maestro di Ristonchi) compiuta da Richard Offner (Offner 1933, p. 174 nota 23) e da Roberto Longhi (Longhi 1940, ed. 1975 pp. 42 e 51 nota 19). Tra le pale d'altare si ricordano il polittico di Ristonchi, ora nel Museo di San Clemente a Pelago, quello di Santa Maria di Montefloscoli a Borgo S. Lorenzo, un Santo papa nella chiesa di Santa Maria a San Donato in poggio a Tavernelle e un trittico nella pieve dei Santi Cornelio e Cipriano a Codiponte (in Lunigiana).

Apparsa sul mercato antiquario nel 1972 in occasione di una vendita all'asta tenutasi a Lucerna, la nostra tavola veniva presentata con un riferimento a Bernardo Daddi formulato da Alfred Stange.

Dalla documentazione fotografica conservata presso la Fototeca Zeri è possibile risalire ad una fotografia antecedente la vendita all'asta (inv. 33277), sulla quale Zeri aveva annotato un riferimento dubitativo al Maestro di Ristonchi. Nonostante alcune ridipinture evidenziate dallo studioso, le figure della nostra tavola si presentavano in questo scatto fotografico più vicine alle fisionomie filiformi e poco strutturate tipiche del Maestro, rispetto all'aspetto assunto nel momento in cui fu presentato all'asta. Presso la Fototeca Zeri è conservata anche la fotografia (inv. 33278, recante indicazioni di Zeri al Mestro di Ristonchi del 14 luglio 1972) che documenta questo stadio successivo e che ci permette di comprendere come un altro intervento avesse rinforzato il plasticismo dei corpi, strutturato le forme e ingentilito le fisionomie.

 

E' possibile cogliere taluni riscontri compositivi e nell'impostazione delle figure con la tavola raffigurante Madonna con Bambino, san Giacomo Maggiore, sant'Antonio Abate e sante del Musée des Beaux-Arts di Digione e con quella conservata presso il santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, Santa Brigida (Firenze), in particolare per la figura del San Giovanni Battista per cui si colgono ulteriori affinità con il polittico del Museo Beato Angelico di Vicchio, proveniente dalla chiesa di Santa Maria a Montefloscoli.

 

Bibliografia di confronto: R. Offner, The Mostra del tesoro di Firenze Sacra. II, in "The Burlington Magazine", LXIII, 1933, p. 166-178; R. Longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, in "La Critica d'Arte", V, 1940, pp. 145-191, rieditato in Opere complete, VIII/1, Firenze 1975, pp. 3-65; A. De Marchi, Maestro di Montefloscoli, in Sumptuosa tabula picta. Pittori a Lucca tra gotico e rinascimento, catalogo della mostra di Lucca, a cura di Maria Teresa Filieri e Michele Bacci, Livorno 1998, pp. 360-364.

Stima   € 55.000 / 75.000
Aggiudicazione  Registrazione
13

Domenico di Bartolomeo detto Domenico Puligo

(Firenze 1492-1527)

SACRA FAMIGLIA

olio su tavola, cm 75x60 con cornice argentata a mecca di epoca posteriore con decoro fogliato a pastiglia e intagliata a motivo di ovuli

 

Provenienza:

collezione privata, Firenze

 

Corredato da parere scritto di Carlo Falciani, Firenze, 27 luglio 2014

Questa Sacra Famiglia va inserita senza dubbio fra le opere autografe di Domenico Puligo, pittore fiorentino della prim’ora, contemporaneo del Pontormo e del Rosso, e lodato da Giorgio Vasari come il miglior allievo di Ridolfo del Ghirlandaio, sopra tutti gli altri “eccellente nel disegno e più vago e grazioso nel colorito”. Il discepolato presso Ridolfo è subito visibile in alcuni elementi dell’opera quali la composizione arcaica delle figure, ripresa ed elaborata su modelli fiorentini di inizio secolo raffaelleschi, della scuola di San Marco, e sarteschi. Un ricordo dello stile di Ridolfo è poi evidente nel disegno armonico del viso di Maria posto quasi a confronto con quello di Giuseppe, rugoso e segnato in ossequio ai Vangeli apocrifi che lo descrivono vecchio rispetto alla sposa fanciulla.

Fra i pochi studi dedicati al Puligo, rimane strumento essenziale il catalogo della mostra tenutasi a Palazzo Pitti nel 2002 (Domenico Puligo, catalogo della mostra a cura di Elena Capretti e Serena Padovani, Livorno 2002), dove è stato riunito per la prima volta il corpus dei dipinti attribuiti all’artista. Fra le opere pubblicate non appare infatti nessuna composizione identica a quella del dipinto in esame, a dimostrazione di come, anche in questo caso, Domenico Puligo offra una variazione su un tema trattato più volte durante la sua breve carriera terminata con la peste del 1527.

A confronto con questa tavola potranno essere ricordati dipinti come la Sacra Famiglia della Galleria Palatina (inv. 1912 n. 486, in Domenico Puligo, catalogo della mostra, cit., p. 46, n. 23), dove la figura del san Giuseppe sembra aggiunta in un secondo momento a completare una composizione già articolata secondo stilemi usati varie volte anche da Ridolfo. La fisionomia quieta di Maria espressa attraverso lineamenti armonici che sono, come già detto un’eco del disegno composto del maestro, andrà accostata invece a dipinti quali il Ritratto femminile, della Galleria Nazionale del Canada a Ottawa (inv. 567, in Domenico Puligo, catalogo della mostra, catalogo della mostra, cit., p. 48 n. 41); oppure alla Sacra Famiglia in collezione privata (in Domenico Puligo, catalogo della mostra, cit., p. 61, n. 70) dove il volto della Madonna è quasi sovrapponibile a quello dipinto dal Puligo in questa tavola. Rispetto a quell’opera appare invece variata la figura del Bambino, parimenti seduto, che qui tiene le mani in grembo, mentre nel dipinto a confronto indica con la mano destra il seno della madre e si volge verso il padre ad istituire un muto colloquio. In entrambe le composizioni il san Giuseppe sembra quasi inserito in un secondo momento a riempire uno spazio rimasto vuoto, lì in basso a sinistra, qui dietro alla Madonna nell’angolo destro, ma sempre avvolto in un’ombra soffusa che rende morbida e avvolgente l’atmosfera dell’opera. Tale carattere è ancora tipico dell’opera di Domenico Puligo, che ha sempre prediletto una pittura fatta di velature capaci di sfumare i contorni in un’atmosfera ombrosa di radice leonardesca. La sua pittura è infatti riconoscibile dal modo in cui il colore viene steso con velature sovrapposte a costruire una superficie di grande fragilità e sovente abrase se il dipinto ha subito drastiche puliture. I toni ombrosi si ispessiscono soprattutto nei panneggi ma restano invece trasparenti negli incarnati e nei capelli che vengono di solito rilevati da fili luminosi, come in questa tavola i riccioli del Bambino. Lo stesso Vasari, nella biografia dell’artista, indicava questo suo carattere, ricordando che egli preferiva dipingere con “dolcezza senza tignere l’opere o dar loro crudezza” facendo “a poco a poco sfuggire i lontani, come velati da una certa nebbia, dava rilievo e grazia alle sue pitture “. Tale modo di stendere il colore, e quella certa “nebbia”, secondo Vasari talvolta serviva al Puligo per nascondere alcune durezze del disegno, così che “i contorni delle figure che faceva si andavano perdendo, in modo che occultando gl’errori non si potevano vedere ne’ fondi dove erano terminate le figure; che nondimeno il suo colorire e la bell’aria delle teste facevano piacere l’opere sue”. Lo sfumato nascondeva dunque agli occhi dello storico aretino le durezze del disegno che anche qui, come in molte altre opere di Domenico, rimangono visibili se si concentra lo sguardo sulle mani o sui piedi del Bambino. Sempre secondo Vasari, Domenico era così affezionato al suo stile che “tenne sempre il medesimo modo di fare e la medesima maniera che lo fece essere in pregio mentre che visse”. Da questa fedeltà alla propria maniera pittorica mista di elementi sarteschi, ridolfiani e leonardeschi deriva la difficoltà di datazione delle opere del Puligo, che sembrano vivere di minute trasformazioni più legate alla differenza fra i soggetti (le pale d’altare, i ritratti, o le Madonne col bambino) piuttosto che al passare del tempo. Tuttavia, una proposta di sequenza cronologica è stata fatto da Elena Capretti, (E. Capretti, Domenico Puligo, un protagonista ‘ritrovato’ dell’arte fiorentina del Cinquecento, in Domenico Puligo, catalogo della mostra, cit., pp. 24-53, con bibliografia), anche se talvolta le variazioni sono lievissime e la progressione stilistica difficile da ancorare ad opere certe. Seguendo alcuni punti fermi stabiliti dalla Capretti si può proporre dunque, anche per questa tavola, una possibile datazione all’interno dell’esiguo corpus del Puligo dove convivono dipinti di qualità alterna ma comunque autografi. In via del tutto ipotetica, visto l’esiguo numero di riscontri, questa Sacra Famiglia, andrà ritenuta un’opera degli anni estremi del Puligo giacché sono visibili alcune abbreviazioni del disegno, e sfaccettature della forma simili a quelle evidenti nel bel Ritratto di uomo che scrive a Firle Place nel Sussex, unica opera datata del Puligo al 1523, che già risente delle eccentriche forzature della coeva pittura fiorentina degli anni Venti del Cinquecento.

Il dipinto si presenta in buone condizioni anche se la superficie pittorica appare leggermente abrasa in modo uniforme come sovente accade nelle opere dell’artista.

Stima   € 30.000 / 40.000
12
Bottega di Gian Lorenzo Bernini, sec. XVII
CRISTO CROCIFISSO
scultura in bronzo dorato, alt. cm 50
 
Questo Cristo crocifisso in bronzo dorato, che originariamente doveva essere dotato di una Croce della quale oggi è privo, è immediatamente accostabile alla serie dei Crocifissicommissionati a Gian Lorenzo Bernini per dotare gli altari della nuova basilica di San Pietro. Fu Romano Battaglia, nel 1942, a pubblicare i documenti che permettevano di riferire al grande artista l’invenzione dei modelli destinati poi ad essere fusi in bronzo: un pagamento allo specialista Paolo Carnieri, incaricato di fondere i Crocifissi, specificava che questi erano stati fatti per servizio della Reverenda Fabbrica conforme al modello del sig. Cavaliere Bernini architetto (R. Battaglia, Crocifissi del Bernini in S. Pietro in Vaticano, Roma 1942, pp. 7 e 24).
I modelli stessi, peraltro, erano stati eseguiti da Ercole Ferrata, il quale, nel giugno del 1658 riceveva venti scudi per il modello del Crocifisso “che serve per l’altari”; nel maggio dell’anno successivo lo stesso Ferrata era pagato 15 scudi “per avere fatto un altro modello d’un Crocifisso vivo” (Battaglia, op. cit., pp. 5 e 23). Il modello eseguito nel 1658, quindi, doveva essere relativo ad un “Crocifisso morto”: attualmente, infatti, si conservano ancora in San Pietro ventitré Crocifissi, diciotto secondo il modello ‘vivo’ e cinque secondo quello ‘morto’ o ‘spirante’. In origine, dai documenti, apprendiamo che i Crocifissi erano venticinque: uno è erduto, un altro è nei depositi della basilica (C. Savettieri, scheda in, La Basilica di San Pietro in Vaticani (Mirabilia Italiae10), a cura di A. Pinelli, 4 voll., Modena 2000, II, pp. 806-807). Quelli giunti fino a noi misurano tutti 43 cm., sette in meno rispetto all’esemplare qui in esame. 
Bernini si era già  confrontato, in precedenza, con il medesimo tema, in una prova più impegnativa, il Crocifisso bronzeo destinato all’Escorial presso Madrid (ancora in situ), databile al 1655-1656, e vi sarebbe tornato, ancora una volta con un formato monumentale, con il Crocifisso sempre bronzeo oggi alla National Gallery of Ontario di Toronto, riferito al 1659 circa (T. Montanari, Bernini per Bernini: il secondo “Crocifisso” monumentale; con una digressione su Domenico Guidi, in “Prospettiva”, 136, 2009, pp. 2-25). Infine, questa volta di nuovo per un piccolo pezzo di un arredo sacro destinato sempre alla basilica di San Pietro, Bernini avrebbe nel 1678 affidato ad un altro specialista, Girolamo Lucenti, la fusione del Crocifissobronzeo per il ciborio della Cappella del Santissimo Sacramento (V. Martinelli, L’ultimo Crocifisso del Bernini, in L’ultimo Bernini 1665-1680: nuovi argomenti, documenti, immagini, a cura di V. Martinelli, Roma 1996, pp. 163-179, in particolare p. 164).
 L’esemplare qui presentato si avvicina alla tipologia del ‘Cristo morto’, la medesima che accomuna i cinque piccoli per gli altari di San Pietro ai due grandi capolavori dell’Escorial e di Toronto. Sono molti gli elementi che permettono di accostare questoCrocifisso ai prototipi berniniani: il capo chinato, sulla spalla destra, con i capelli che scendono morbidamente lungo la guancia destra, le mani abbandonate (solo in quello all’Escorial sono ancora tese, spalancate, per il dolore), il perizoma tormentato secondo un modo di panneggiare tipico di Gian Lorenzo. Ci sono, peraltro, anche alcune significative differenze: in nessuna delle invenzioni berniniane il perizoma si allunga, a fianco della gamba destra, in modo così prorompente; nè i capelli che scendono lungo la guancia sono così abbondanti. E' da notare, inoltre, l’assenza della corona di spine, presente neiCrocifissi dell’Escorial e di Toronto, ma non in quelli più piccoli per San Pietro, dal quale certamente deriva questo esemplare un poco più grande. Altre derivazioni dalla medesima invenzione, che misurano però sempre 43 cm., sono state presentate alla mostra La Passione di Cristo secondo Bernini (collezione privata e Perugia, Museo Martinelli) (F.Petrucci, schede in La Passione di Cristo secondo Bernini: dipinti e sculture del Barocco romano, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Incontro) a cura di G. Morello, F. Petrucci, C. Strinati, Roma 2007, pp. 106-107, catt. 23-24 e 118, cat. 28).
 
Si ringrazia Andrea Bacchi per le preziose indicazioni utili alla redazione della scheda di catalogo
Stima   € 18.000 / 22.000
Aggiudicazione  Registrazione
41

Elisabetta Marchioni                                                      

(attiva a Rovigo nella seconda metà del XVII secolo-Rovigo, circa 1700)   

COMPOSIZIONI DI FIORI ALL'APERTO                                          

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 151,5x210 ciascuno                  

(2)                                                                       

                                                                          

Disposti in cesti di vimini e in ricchi vasi di metallo sbalzato, o ancora

intrecciati a formare festoni e ghirlande, i fiori primaverili nelle tele 

qui offerte costituiscono un saggio eloquente della straordinaria abilità 

della Marchioni nel declinare in tutte le varianti la presentazione di    

fiori allaperto. Una capacità che valse allartista ampio successo di      

pubblico, sebbene circoscritto alla città di Rovigo dove, secondo Francesco

Bartoli a cui si devono le uniche notizie su di lei, le composizioni      

floreali di Elisabetta Marchioni erano presenti in tutte le collezioni e  

addirittura in coppie o in serie più numerose. Nessuna delle tele oggi a  

lei riferite concordemente risulta firmata: tutte si appoggiano invece al 

notissimo paliotto daltare donato dalla Marchioni ai Padri Cappuccini di  

Rovigo, ora alla Pinacoteca dei Concordi nella stessa città insieme ad    

altre sue opere di antica provenienza locale. Un nucleo che ha consentito 

di restituire allartista rodigina una fisionomia coerente con quanto      

tramandato dalle fonti e di distinguere la sua produzione da quella, per  

molti versi affine, della lombarda Margherita Caffi. Tipica della Marchioni

è la pennellata spumeggiante che definisce le corolle variopinte (tra cui,

sempre presenti, narcisi e tuberose) ma su una gamma cromatica più        

contenuta e sommessa di quella, squillante, della Caffi, pure così vicina 

nelle scelte compositive.                                                 

Stima   € 12.000 / 16.000
Aggiudicazione  Registrazione
28

Felice Ficherelli detto il Riposo

(San Gimignano1603-Firenze 1660)

GIUDITTA E OLOFERNE

olio su tela, cm 133x152

 

Provenienza:

collezione del marchese Gian Francesco Giaquili Ferrini, Firenze;

mercato antiquario, Firenze;

collezione privata, Firenze

 

Esposizioni:

M. Gregori, in Mostra dei tesori segreti delle case fiorentine. Catalogo della mostra, Firenze 1960, p. 43, scheda n.92, tav. 71

 

Bibliografia: M. Gregori, Mostra dei tesori segreti delle case fiorentine, catalogo della mostra, Firenze, 1960, p. 43, n. 92; M. Gregori, 70 pitture e sculture del ‘600 e ‘700 fiorentino, catalogo della mostra, Firenze, 1965, p. 19; J. Nissman, Florentine Baroque Art from American Collections, catalogo della mostra con prefazione di H. Hibbard, New York, 1969, p. 45 al n. 40; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole, 1983, n. 329; M. Winne, Later Italian Paintings in the National Gallery of Ireland, Dublino, 1986, p. 34; M. Gregori, Felice Ficherelli, voce in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra ideata da P. Bigongiari e M. Gregori, 3 voll., Firenze, 1986, III, p. 88; G. Leoncini, voce Ficherelli, Felice, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, 1997, XLVII, pp. 373; S. Bellesi, Collezione Gianfranco Luzzetti : primo nucleo del lascito di opere destinate al Museo Archeologico e d'Arte della Maremma, Grosseto, catalogo della mostra (Grosseto), Firenze, 1999, p. 62, al n. 14; T. Sacchi Lodispoto, in Il Male. Esercizi di Pittura Crudele, catalogo della mostra, a cura di V. Sgarbi, coordinamento di A. Algranti (Torino), Milano, 2005, p. 331; F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Torino, 2009, p. 361 e tav. 172; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700, 3 voll., Firenze, 2009, I, p. 145; II, p. 284, fig. 616; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, 2 voll., Pontedera, 2009, I, p. 99; II, p. 203, n. 142; A. Spiriti, Fiorentini di Vico Morcote.La cappella di San Domenico di Guzmán nella parrocchiale dei santi Fedele e Simone, in “Arte & storia, 11, 2010, 48, p. 179; S. Benassai, Il Seicento fiorentino intorno a Giovanni da San Giovanni, in Quiete invenzione e inquietudine. Il Seicento fiorentino intorno a Giovanni da San Giovanni, catalogo della mostra a cura di S. Benassai e M. Visonà, (San Giovanni Valdarno), Firenze, 2011, p. 40, fig. 23; M. Gregori, Mon incipit, presque un diario, in Florence au Grand Siècle entre peinture et literature, catalogo della mostra a cura di E. Fumagalli e M. Rossi (Ajaccio), Cinisello Balsamo, 2011, p. 13; S. Benassai, Felice Ficherelli, in corso di pubblicazione.

 

Referenze fotografiche: Fototeca del Kunsthistorisches Institut in Florenz, Mal. Bar. busta Fiandrini-Fidanza (ausser Fiasella), inv. 442896, 546161

 

Corredato di attestato di libera circolazione

 

Accompagnato da parere scritto di Silvia Benassai. Il dipinto sarà inserito dalla studiosa nella monografia  del pittore di prossima pubblicazione.

 

La tela, appartenuta alla collezione del marchese Gian Francesco Giaquili Ferrini, fu esposta alla mostra dei Tesori segreti delle case fiorentine nel 1960 e pubblicata nel relativo catalogo da Mina Gregori, alla quale si deve l’attribuzione a Felice Ficherelli di questo notevole dipinto. La stessa studiosa riferì successivamente (1965) l’opera alla fase matura del pittore di San Gimignano, nel momento in cui questi espresse una più spiccata predilezione per la rappresentazione di scene di carattere violento ed intensamente drammatico. Avvicinata da Joan Nissman (1969) alla Giuditta dell’ Art Institute di Chicago, la tela fu inclusa da Giuseppe Cantelli nel suo Repertorio della pittura fiorentina del Seicento (1983) e, in seguito, fu nuovamente oggetto degli studi di Mina Gregori (1986) e di Michael Winne (1986) che ne rilevò le affinità stilistiche con il Lot e le figlie della National Gallery of Ireland di Dublino.

Citato in numerosi, ulteriori, contributi di carattere scientifico (G. Leoncini, 1997; S. Bellesi, 1999; T. Sacchi Lodispoto, in Il Male 2005; F. Baldassari, 2009; S. Bellesi, 2009; G. Cantelli, 2009; A. Spiriti, 2010; M. Gregori, 2011) il dipinto, pubblicato anche dalla scrivente (2011), rappresenta il drammatico momento in cui Giuditta, la biblica eroina ebrea, si appresta a decapitare Oloferne, generale di Nabucodonosor, dopo averlo sedotto per liberare la propria città, Betulia, assediata dagli Assiri guidati dallo stesso Oloferne. I versetti biblici (Giuditta, 16, 9) ben esemplificano la seduzione e la feroce determinazione della giovane donna nei confronti del nemico: “I suoi sandali rapirono i suoi occhi,/ la sua bellezza avvinse il suo cuore/ e la scimitarra gli troncò il collo”.

La scelta di rappresentare il momento di maggior drammaticità della scena si concreta nella tensione della violenza imminente ma non ancora compiuta che vede l’inutile agitarsi della vittima di fronte alla spietata determinazione dell’eroina. La scena è ambientata, presumibilmente, all’interno di una tenda dell’accampamento assiro dalla quale s’intravedono, sullo sfondo, altre tende e i corpi dei soldati nemici. Tutta la composizione s’incentra sul gesto deciso della giovane donna, la cui sensuale bellezza è posta in risalto dalla camicia abbassata sul seno, intenta con la sinistra a bloccare la testa di Oloferne e con la destra a impugnare la spada con la quale decapiterà l’uomo, raffigurato nudo, nello sforzo spasmodico di sfuggire al proprio destino. Assiste al delitto la fantesca Abra, che, con la mano sinistra, afferra i capelli del generale nemico, aiutando Giuditta nel compiere la propria eroica azione.

L’opera si rivela una delle più interessanti dell’intero catalogo autografo di Ficherelli, trasferitosi dalla natia San Gimignano, ancora ragazzo, nel capoluogo mediceo: qui godette della protezione del conte Alberto de’ Bardi di Vernio, mecenate tra i più generosi della città, che lo introdusse verso la fine del secondo decennio del secolo nella bottega di Jacopo da Empoli, dove per le sue brillanti qualità Felice ebbe modo in poco tempo di distinguersi tra i numerosi allievi che allora frequentavano l’atelier dell’affermato pittore fiorentino. Immatricolatosi all’Accademia del Disegno nel 1630, Ficherelli rimase per lungo tempo legato alla prestigiosa famiglia dei Bardi di Vernio. Stipendiato da Alberto, prima, e, dopo la sua morte dal di lui fratello Carlo, Felice dipingeva e ricopriva l’incarico di maestro di pittura per i giovani di casa.  Di carattere sanguigno e saturnino, Ficherelli fu uno dei pittori più interessanti della Firenze del suo tempo. Amico in gioventù di Cristofano Allori e cresciuto nel clima che, sull’esempio di Ludovico Cigoli e Domenico Passignano, vide fiorire in città, tra gli altri, Cesare e Vincenzo Dandini, Jacopo Vignali, Francesco Furini, Cecco Bravo, Lorenzo Lippi e Giovanni Martinelli, Felice si dedicò essenzialmente alla pittura da stanza, nella quale espresse un linguaggio personale e sempre orientato alla ricerca dell’espressione degli affetti. Nella pittura da stanza egli raggiunse vertici di straordinario livello qualitativo e di acutissima indagine psicologica e drammatica, favorita dalla propria predilezione per temi e soggetti che potessero esaltare l’espressione vigorosa dei sentimenti e una certa vena violenta, scopertamente sadica ed ambigua molto apprezzata dal gusto dei committenti dell’epoca. Egli, inoltre, si cimentò con discreti risultati anche alla pittura di carattere sacro, come dimostrano, in particolare, dipinti tardi quali La Madonna offre il Bambino a Sant’Antonio della chiesa di Sant’Egidio a Firenze o La visione di San Filippo Neri nella chiesa di San Lorenzo presso la Certosa del Galluzzo (sulla figura di Felice Ficherelli si vedano seguenti i contributi della scrivente: Il Collezionismo dei Bardi: nuove acquisizioni per Felice Ficherelli, in “Paragone”, LIII, 43, maggio 2002, pp. 33-51; Novità e tradizione nelle pale d’altare di Felice Ficherelli, in “Annali del Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo”, IV, 2003, pp. 181-191; Su Felice Ficherelli: juvenilia ed altre novità, in “Paragone”, 77, 2008, pp. 53-66, con ulteriore bibliografia precedente).

Per tornare alla tela qui in esame, elemento utile a sottolinearne la forte carica teatrale risulta l’inserimento del drappo come un sipario tirato, espediente scenico che Ficherelli utilizzò in altre occasioni, come nel citato Lot e le figlie della National Gallery of Ireland di Dublino o nel celebre Tarquinio e Lucrezia dell’Accademia di San Luca di Roma, con il quale il dipinto dimostra notevoli affinità, specie nel trattamento del panneggio, sfrangiato e materico, che compone la coperta in primo piano. La tela è prossima nell’esasperata drammaticità del soggetto, anche al drammatico Giaele e Sisara delle Gallerie Fiorentine, nel quale sta per compiersi un altro orrendo delitto per mano di un’eroina biblica; in entrambi i casi la vittima è distesa, le gambe aperte nell’ultimo moto disperato prima di essere uccisa da una giovane donna, la cui risoluta attitudine non dimostra minima traccia di esitazione.

La prossimità stilistica ai dipinti citati, specie al Tarquinio e Lucrezia di Roma, inducono proporre per il dipinto una datazione attorno alla metà degli anni quaranta del secolo.

 

Stima   € 80.000 / 120.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Francesco Furini (Firenze 1603-1646) e pittore della bottega di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano

LA MADONNA APPARE A SAN FRANCESCO

olio su tela, cm 183x140

 

Provenienza:

Castello di Monteacuto, Bagno a Ripoli (Firenze);

mercato antiquario;

collezione privata, Firenze

 

Bibliografia:

G. Cantelli, Francesco Furini e i Furiniani, in Studi d'arte e collezionismo, Pontedera 2010, scheda 107 p. 158, tav. LXXX, fig. 107

 

L'opera qui proposta raffigurante la Madonna che appare a San Francesco è stata individuata da Giuseppe Cantelli come un dipinto "di bella invenzione e qualità" riferibile a Furini, rimasto incompiuto nel suo studio e terminato dopo la sua morte per far fronte probabilmente al desiderio di possesso di sue opere da parte degli estimatori. Lo studioso restituisce alla mano di Furini la figura del santo vescovo "vestito con uno splendido piviale con una pittura analiticamente perfetta che risale agli esordi dell'artista ripresa dal Franceschini nella tela della Pinacoteca Civica di Volterra". La Madonna in atto di presentare il Bambino a san Francesco è stata invece ricondotta a un pittore della bottega di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano in un momento di particolare vicinanza stilistica e cromatica a Pietro da Cortona. Il volto della Vergine riprende infatti i tratti fisionomici di quella eseguita dal Volterrano nello Sposalizio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, Cassa di Risparmio e Depositi di Prato. La raffigurazione della Madonna e del Bambino nel nostro dipinto, eseguita con una pennellata veloce e con una materia morbida e soffusa, si distingue dall'accurata conduzione pittorica del Santo Vescovo, come pure del San Francesco, fortemente caratterizzato nei tratti fisionomici, nel quale Cantelli ha individuato tracce dello stile di Furini.

Stima   € 25.000 / 35.000
60

Francesco Montelatici detto Cecco Bravo

(Firenze 1601-Innsbruck 1661)

FANCIULLA CON NATURA MORTA AUTUNNALE

olio su tela, cm 100x141

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Provenienza:

collezione privata, Firenze

 

Bibliografia:

C. Del Bravo, Un'osservazione su inediti secenteschi, in "Antichità Viva", 10, 5, 1971, pp. 22-23, fig. 6; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 115; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, Pontedera 2009, p. 260, n. 208; A. Barsanti, Cecco Bravo (Francesco Montelatici), in La natura morta in Italia, a cura di Francesco Porzio, II, Milano 1989, p. 577 fig. 685; Cecco Bravo pittore senza regola. Firenze 1601-Innsbruck 1661, a cura di Anna Barsanti e Roberto Contini, Milano 1999, p. 62 fig. a

 

L’opera qui proposta, raffigurante Fanciulla con natura morta autunnale, di Francesco Montelatici detto Cecco Bravo, artista dalla natura anti-accademica e irregolare, presenta elementi tipici della sua produzione, caratterizzata da una pittura morbida e sensuale in cui la materia sfumata accentua l'atmosfera misteriosa e incantata. I singoli elementi del nostro dipinto emergono infatti dalla penombra: la luce lambisce il braccio e la spalla della giovane donna, il suo curioso copricapo, i fiori tra le sue braccia realizzati con piccoli tocchi di colore, il cavolfiore in primo piano sulla destra e la torre sullo sfondo. Tali aspetti lirici venivano messi in evidenza da Carlo Del Bravo che per primo rendeva nota l'opera, descrivendola “tutta soffusa di metamorfosi su una situazione sentimentale crepuscolare e d'attesa, con un lento abbraccio da sogno a un mazzo di pigre accensioni – come di crisantemi nella sera -, qualche disponibile grano di dolcezza – come di fichi e pere d’ottobre - , e un autonomo sviluppo misterioso, scuro eppur amico – come di un grande cavolfiore che sul terriccio diventi una luna velata, una piovra grande”.

 

La corrispondenza di misure e la particolare impaginazione compositiva ha reso possibile da parte di Anna Barsanti l'individuazione nel dipinto Figura virile con natura morta estiva di collezione privata quale pendant della nostra opera, in cui allo stesso modo le figure in primo piano vengono collocate rispetto alla retrostante apertura di paesaggio, secondo uno schema che si ritrova nella pittura fiorentina sull’esempio del Cerquozzi che per primo aveva rappresentato questa tematica della natura morta all’aperto: “Agli sfondi di intensa vena romantica (…) corrispondono nel tono liricamente crepuscolare i fiori, le frutta e gli ortaggi disposti in primo piano”.

L'originaria formazione del pittore, basata su modelli della natura morta fiorentina, con influenze romane e lucchesi, sembra rivelarsi nella nostra tela nel semplice andamento compositivo e nella presenza costante di taluni vegetali, che risulta tuttavia arricchita dalle suggestioni tratte dalla pittura veneta che ne ha determinato una materia sciolta e sfaldata.

Infatti l'accostamento all'ambiente artistico veneto, in particolare a pittori quali Sebastiano Mazzoni, Francesco Maffei, Domenico Fetti ma anche agli esempi di Bernardo Strozzi, sembra aver rafforzato i caratteri misteriosi e bizzarri che lo avevano avvicinato alla corrente più eccentrica e stravagante della pittura fiorentina del tempo e alle opere sensuali di Furini e agli esempi del Volterrano.

La datazione del nostro dipinto, come pure quella del suo pendant, è stata collocata entro gli anni Cinquanta grazie alle analogie riscontrabili con altre opere eseguite da Cecco Bravo in questi anni, quali il David ed Abigail di collezione privata, Firenze, dove “le frutta raccolte per terra affiorano dall’atmosfera azzurrina con la stessa magica evidenza” e la Castità di Giuseppe della Galleria degli Uffizi, Firenze in cui il profilo della fanciulla del nostro dipinto si avvicina stilisticamente a quello della moglie di Putifarre.

Si è tentato di identificare il soggetto della nostra opera, insieme a quello del pendant, con le raffigurazioni allegoriche dell'Estate e dell'Autunno, che tuttavia per talune incoerenze nella presenza del cavolfiore sulla destra e del tulipano nel mazzo di fiori tenuto dalla giovane non può essere espresso con certezza. Sicura invece l'interpretazione come allegoria della Primavera della tela raffigurante Giovane donna con cestino di rose e vaso con fiori primaverili di collezione privata che corrisponde alla descrizione di Cesare Ripa: "si dipinge per la Primavera, Flora coronata di fiori de' quali ha anco piene le mani" (C. Ripa, Iconologia,  Roma 1603, ed. 1970, pp. 473-474).

La nostra Fanciulla con natura morta autunnale è da mettere anche in relazione con il Riposo nella fuga in Egitto di collezione privata in cui si ritrova la rappresentazione "alla moda che oggi diremmo "cinese" del rigido cappellone di paglia (diversa da quella consueta a larghe tese, comune in tempi non troppo lontani al manierismo rudolfino ma anche ai fiorentini e allo stesso Montelatici" (Barsanti-Contini 1999, p. 62).

 

L'attività di Cecco Bravo come pittore di nature morte, come evidenziato da  Anna Barsanti, è emersa nel tempo con maggiore chiarezza grazie alle sue "mezze figure" con frutta fiori e verdure che ne hanno messo in luce una personalità complessa e sfaccettata propensa ad evidenziare particolari di naturalismo prezioso, veri brani di natura morta inseriti in composizioni di storia.  Rimane invece ancora da scoprire la sua attività di pittore di nature morte in senso stretto (senza figure) come testimonierebbe l'inventario redatto alla partenza dell'artista per Innsbruck dove vengono registrati 25 dipinti di naturalia su un totale di 163 opere. Nell'inventario venivano citati quattro dipinti rappresentanti la Primavera, l'Autunno, l'Inverno e l'Estate e, nonostante la corrispondenza di misure, la studiosa indicava come fosse difficile identificare l'Estate e l'Autunno con il nostro dipinto e il suo pendant anche se non completamente da escludere.

Stima   € 50.000 / 60.000
27

Giovan Francesco Guerrieri

(Fossombrone 1589 - Pesaro 1657)

MADONNA CON BAMBINO TRA SAN GIUSEPPE E SANT'ANNA

olio su tela, cm 175x245

 

Provenienza:

da un nobile palazzo di Reggio Emilia

 

Tradizionalmente attribuito ad Antiveduto Grammatica nella raccolta privata di origine, questo inedito dipinto appare piuttosto riconducibile al catalogo di Giovan Francesco Guerrieri. Si tratta, piu esattamente, di una replica variata della composizione del tutto simile nei suoi protagonisti restituita al pittore di Fossombrone su suggerimento di Filippo Todini (come da nota manoscritta sulla fotografia conservata all Istituto Germanico di Firenze) ed esposta come di sua mano in una recente rassegna marchigiana (Meraviglie del Barocco nelle Marche 1. San Severino e l alto maceratese. A cura di V. Sgarbi e S. Papetti, Sanseverino 2010, p. 190, n. 29).

In quella occasione se ne ricostruiva la provenienza dal convento dei Disciplinati di Serra San Quirico e se ne proponeva una datazione intorno al 1614/15, individuando correttamente la sua relazione stilistica con la tela raffigurante San Sebastiano curato da Santa Irene ora a Milano, Museo dell Arcivescovado, anch'essa un tempo nella medesima cittadina marchigiana.

Il dipinto citato, poi in asta da Dorotheum nell'aprile 2013, diverge da quello qui presentato nella gamma cromatica piu variegata (ma una opportuna pulitura del nostro potrebbe riservare sorprese) e soprattutto per la presenza di una cesta di panni in primo piano, sostituita nella nostra tela dal gatto acciambellato nel sonno.

Vari motivi suggeriscono tuttavia di distanziare cronologicamente il nostro dipinto dalla versione già nota, più esplicitamente caravaggesca nelle ombre insistite e, per l'appunto, nella cesta in primo piano, evidente citazione romana. La stesura pittorica della nostra tela, sensibilmente piu morbida e attenta agli impasti dei pittori bolognesi, in particolare Guercino, suggerisce di ritardarne l'esecuzione almeno fino al terzo decennio del Seicento, quando Guerrieri era da tempo tornato nelle Marche.

Stima   € 50.000 / 70.000
1 - 30  di 85