Importanti Maioliche Rinascimentali

9 NOVEMBRE 2016

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0186
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
Ore 17.30
Esposizione

FIRENZE
4-8 Novembre 2016
orario 10 – 19
9 Novembre 2016
orario 10 – 13 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   3000 € - 120000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 46
1

ORCIOLO

AREA FIORENTINA, PRIMA METÀ SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico di colore camoscio chiaro; smalto color crema opaco, che si estende anche all’interno del contenitore e sotto il piede. Decoro “a zaffera” in blu di cobalto e piombo, abbastanza rilevato, unito a tratti sottili di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 24,6, diam. bocca cm 13,5, diam. piede cm 12,7.

Sotto le anse marca ad asterisco arricchita da punti blu.

 

Bibliografia

G. Conti, A. Alinari, F. Berti, M. Lucarelli, C. Ravanelli Guidotti, R. Luzi, Zaffera et similia nella maiolica italiana, Viterbo 1991, p. 62 n. 4;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 52-54 n. 21

 

L’orciolo ha corpo globoso che si assottiglia verso il piede, che si presenta basso e con base piana. Il collo, cilindrico, è breve e termina in un orlo arrotondato appena estroflesso. Dalla spalla fino alla parte più esterna del corpo si allargano due brevi anse a nastro con piega ortogonale.

Il collo è decorato da una fila di “bacche” in blu con tratti in bruno di manganese, e, sull’unica ansa originale, un serto ondulato circonda lo stesso motivo decorativo. Al centro il corpo accoglie un decoro che ripete parallelamente il motivo del “vaio” o “a lambelli”, così definito dal fatto che la serie di gocce parallele ricorda le pellicce araldiche, il vaio appunto (1). Nella schedatura dell’opera a cura di Marino Marino (2) che l’ha recentemente pubblicata è ben spiegato come questo tipo di decoro fosse molto diffuso nella prima metà secolo: si ritrova infatti, con varianti, in esemplari presenti a Faenza (3) e a Siena (4). 

È importante notare la distribuzione del decoro, che si svolge su tutta la superficie, mentre di solito un siffatto ornato è limitato all’area accanto alle anse o al collo dell’oggetto: si vedano a proposito i boccali viterbesi recentemente passati in asta in questa sede (5).

La marca apposta sotto l’ansa che corrisponde alla classificazione che ne ha dato il Cora negli anni settanta è riferita a una bottega che partecipa alla fornitura della grande Speziera dello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze nel corso del XV secolo. La Speziera, organizzata da Michele di Fruosino, aveva impegnato nella fornitura i vasai Maso e Miniato di Domenico e Giunta di Tugio.

Va comunque detto che a tutt’oggi non vi è ancora certezza su una corretta associazione tra i materiali ritrovati e la documentazione archivistica che li assocerebbe ai vasai sopracitati (6).

 

 

 1 MOORE VALERI 1984, pp. 486-487;

 2 MARINI 2014, p. 52 n. 21;

 3 GELICHI 1992, p. 147 n. 107;

 4 FRANCOVICH 1989, pp. 32-33 n. 7;

 5 PANDOLFINI 2015, pp. 24-31 nn. 3-4;

 6 MARINI 2014, pp. 14-16.

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
2

BOCCALE

MONTELUPO (BACCHERETO), PRIMO TERZO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro, smalto color bianco-grigio di buona consistenza, abbastanza lucente con qualche inclusione, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu e verde” è realizzato con ossido di cobalto, piombo e verde ramina con effetto rilevato, con alcuni tocchi di bruno di manganese piuttosto diluito con colature.

Alt. cm 24,2, diam. piede cm 9,8.

 

Provenienza

Collezione Strozzi Sacrati, Firenze (Pandolfini, 18-21 aprile 1989, lotto 681);

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

G. Cora, Storia della maiolica di Firenze e del contado. Secoli XIV e XV, Firenze 1973, tav. 41a;

G. Conti, A. Alinari, F. Berti, M. Lucarelli, C. Ravanelli Guidotti, R. Luzi, Zaffera et similia nella maiolica italiana, Viterbo 1991, p. 86 n. 26;

F. Berti, Storia della ceramica di Montelupo, Vol. I, Montelupo Fiorentino 1997, p. 235 tav. 35;

F. Berti, Capolavori della maiolica rinascimentale. Montelupo “fabbrica” di Firenze 1400-1630, cat. della mostra, Firenze 2002, pp. 64-65 n. 5;

F. Berti, Figura, spazio, colore: origini e sviluppo del linguaggio figurativo nella maiolica di Montelupo, in C. Ravanelli Guidotti, Maioliche figurate di Montelupo, Firenze 2012, p. 24 fig. 16;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 64-65 n. 27.

 

Il contenitore ha un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo marcato. Il collo leggermente troncoconico si allarga in un corpo dalla forma piriforme con pancia rigonfia che scende fino a formare un piede basso, a disco, con orlo arrotondato e base piana, privo di smalto. Nella parte posteriore, appena al di sotto dell’imboccatura, si scorge un’ansa a nastro, che arriva fino al di sotto della massima espansione del vaso.

Sul fronte il decoro principale mostra un giovane visto di profilo, con lunghi capelli, disegnato in manganese. La veste è ampia e realizzata con tocchi di verde rame a riempire le campiture delineate anch’esse in manganese, mentre al centro risalta un tocco di blu. Tutto intorno un decoro fitto di bacche e di foglie dal contorno frastagliato.

È questo un raro esempio della produzione a “zaffera tricolore”, tipica della zona del bacino dell’Arno tra Firenze e Pistoia, con esempi a Livorno e addirittura in Liguria (1), che vanta un importante confronto nel boccale con cane corrente del Museo del Bargello (2).

Fausto Berti, data la stretta vicinanza con un boccale del Museo di Montelupo, iconograficamente assai simile, ha ipotizzato per quest’opera una produzione montelupina (3).

 

 

 1 Per un elenco puntuale dei centri in cui si sono ritrovati frammenti analoghi si veda MARINI 2014, p. 64;

 2 CONTI et alii 1991, p. 87 n. 27;

 3 BERTI 2002, p. 64.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

RINFRESCATOIO

AREA FIORENTINA, PRIMO TERZO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico color camoscio chiaro, smalto color bianco-grigio di buona consistenza opaco, steso in uno strato spesso sul fronte e meno spesso sul retro. Il decoro in “zaffera blu e verde” è realizzato con ossido di cobalto, piombo e verde ramina con effetto rilevato, con alcuni tocchi di bruno di manganese piuttosto diluito con colature.

Alt. cm 6,5, diam. cm 39, diam. fondo cm 27,5.

 

Provenienza

Collezione Frizzi Baccioni, Firenze;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 66-67 n. 28

 

Il grande rinfrescato a fondo piano, privo di piede d’appoggio, ha vasca a profilo troncoconico con tesa piana e presenta due prese orizzontali contrapposte applicate all’esterno. Il decoro occupa tutta la superficie e mostra al centro una creatura antropomorfa con corpo di felino e volto umano, che indossa un copricapo appuntito, inserita in una fitta decorazione a bacche e foglie dal profilo frastagliato disposte a formare una ghirlanda. Sulla tesa un motivo a tratti paralleli disposti in modo radiale dipinti in bruno è intervallato in maniera regolare ad un motivo a graticcio tracciato in blu.

Questo tipo di rappresentazione, probabilmente tratta dai bestiari medievali, è comune in esemplari databili alla prima metà del XV secolo, come confermato dai confronti proposti da Marini (1), provenienti per lo più dall’area compresa tra Orvieto e Viterbo e dalla Tuscia in generale, ma con alcune valide testimonianze anche in area fiorentina. E con una caratteristica comune a tutti gli esemplari: la presenza sulla figura di un cappello, a punta o tondeggiante, quale testimonianza dell’epoca.

Di grande interesse infine la segnalazione, ancora di Marini, di un recupero di un frammento di forma aperta da San Donato in Polverosa (Firenze) che mostra due zampe ferine confrontabili con il nostro esemplare.

 

1 MARINI 2014, p. 66.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
4
Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
5

BOCCALE

AREA FIORENTINA, BACCHERETO (?), SECONDO QUARTO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico color beige rosato chiaro, smalto color bianco-grigio, di buona consistenza, opaco e steso in uno strato spesso, la smaltatura non si estende all’interno del contenitore e lascia scoperta la base. Il decoro a “zaffera” è dipinto con ossido di cobalto e piombo e di bruno di manganese.

Alt. cm 21, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 11,8.

Sotto l’ansa marca di bottega.

 

Provenienza

Collezione Strozzi Sacrati, Firenze (Pandolfini, 18-21 aprile 1989 lotto 697);

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

G. Cora, Storia della maiolica di Firenze e del contado. Secoli XIV e XV, Firenze 1973, tav. 181c;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 72-73 n. 32

 

Il boccale ha bocca trilobata, breve collo inserito su corpo globulare ribassato con piede a disco. Un’ansa a doppio bastoncello scende dal collo fino al punto di massima espansione del corpo.

La decorazione in azzurro prevede un medaglione centrale racchiuso in una cornice a “comparto gotico” che comprende uno stemma a mandorla con giglio araldico fiorentino. Intorno si sviluppa un ornato a motivi fogliati entro riserve circolari circondate da puntinature e motivi orientali a riempimento delle campiture vuote. Una fascia con motivo a serpentine porta verso l’ansa, decorata da un ornato a spina di pesce che copre una metopa lasciata vuota.

La marca di bottega collocata sotto l’ansa non è riconoscibile tra quelle censite da Galeazzo Cora e da Fausto Berti nei loro approfonditi studi sulla materia.

Marino Marini, che nel 2014 ha pubblicato l'orciolo, ricorda che la cornice gotica compare sulle maioliche fiorentine nel corso del XV secolo e che è frequente su manufatti provenienti da scavi a Montelupo. La forma della cornice è inoltre peculiare delle formelle bronzee delle porte del Battistero a Firenze, e quindi databile tra il 1336 e il 1424 (1).

L’esemplare ha un confronto stringente in un boccale proveniente da un pozzo dello Spedale degli Innocenti (2), con la stessa impostazione decorativa e una marca assai prossima. La cornice così dipinta è presente poi in numerosi esemplari con decori Italo-moreschi conservati in collezioni pubbliche e private, ricordati da Marini nella già citata scheda di catalogo della mostra nella quale fu esposto il boccale.

Molti i frammenti rinvenuti attorno a Firenze pubblicati da Galeazzo Cora (3), e numerose le testimonianze provenienti da Montelupo (4), Bacchereto (5), Vaiano (6), ma anche gli esemplari con decoro a foglia triangolare custoditi in collezioni pubbliche e private, ricordati da Marino Marini, ai quali vogliamo aggiungere i due albarelli passati in asta da Pandolfini lo scorso anno (7), che esibivano un analogo decoro con foglia, in uno delineata in modo più corrivo.

 

 1 MARINI 2014, p. 72. La prima porta ad opera di Andrea Pisano fu realizzata già nel 1336 e l’ultima opera di Lorenzo Ghiberti fu terminata nel 1424;

 2 BELLOSI 1977, p. 260 n. 217 (tav. 254);

 3 CORA 1973, tav. 129b, 147c, 148c, 182a, 192a, 196c, 202c, 203b;

 4 BERTI 1993-2003, I (1997), p. 185 fig. 54;

 5 BACCHERETO 1992, p. 64 n. 128; p. 66 n. 137;

 6 RONCAGLIA 2005, pp.197-198 nn. 23, 26;

 7 PANDOLFINI 2015, pp. 54-63 nn. 10-11 (entrambi gli esemplari erano già noti per il loro passaggio in asta presso Sotheby’s nel 1973).

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
6

BOCCALE

AREA FIORENTINA, MONTELUPO O FIRENZE (?), SECONDO QUARTO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico color beige rosato chiaro, smalto color bianco-grigio, di buona consistenza, opaco e steso in uno strato spesso, la smaltatura non si estende all’interno del contenitore e lascia scoperta la base. Il decoro a “zaffera” è dipinto con ossido di cobalto e piombo e di bruno di manganese e giallo citrino.

Alt. cm 22,5, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 12.

Sotto l’ansa marca di bottega: scaletta a cinque pioli.

 

Provenienza

Farsetti, Prato, 3 aprile 2009, lotto 271;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

G. Cora, Storia della maiolica di Firenze e del contado. Secoli XIV e XV, Firenze 1973, tav. 153c;

C. Ravanelli Guidotti, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La Donazione Angiolo Fanfani. Ceramiche dal Medioevo al XX secolo, Faenza 1990, p. 49 fig. 14l;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 74-75 n. 33

 

Il boccale ha bocca trilobata, breve collo che scende su un corpo globulare ribassato e piede a disco. Un’ansa a doppio bastoncello scende dal collo fino al punto di massima espansione del corpo.

La decorazione in azzurro, con tocchi di giallo nel blasone, mostra un medaglione centrale racchiuso in una cornice a “comparto gotico” (1) che comprende lo stemma a mandorla della famiglia Mannucci: “d’azzurro, a due scaglioni d’oro, racchiudenti una stella a otto punte dello stesso”. L’emblema è sorretto sui fianchi da due putti alati circoscritti in riserve che ne seguono le forme. Un motivo orientale fitomorfo riempie le campiture vuote, mentre una fascia con decoro a serpentine porta verso l’ansa che reca un ornato a spina di pesce a coprire una metopa lasciata vuota sul corpo.

Sotto l’ansa è dipinta la marca di bottega “a scala” a cinque pioli  ripetuta due volte. Tale marca viene utilizzata in opere che hanno trovato riscontro in un’area compresa tra Firenze, Bacchereto e Montelupo (2): ciò comunque non esclude la possibile presenza di un vasaio di Montelupo trasferitosi a Firenze. Proprio questa marca fu lungamente studiata da Galeazzo Cora, che nel suo monumentale lavoro raccolse  un cospicuo campionario di opere con tale contrassegno (3). Marino Marini, che ha studiato approfonditamente l’oggetto, ricorda altri esemplari con questa marca da aggiungere allo studio del Cora, e propone inoltre una serie di confronti tipologici-stilistici che mostrano pregnanti affinità con l’opera in esame, come il boccale con stemma Ridolfi di Piazza, oggi al Museo di Edimburgo (4), e i già citati esempi della Badia di Vaiano (5).

Concordiamo inoltre con chi prima di noi ha così diffusamente studiato l’opera con i confronti suggeriti sia per il decoro dell’ansa sia per i decori accessori, nonché con le osservazioni circa l’uso dei due putti che sostengono l’emblema, soggetto questo che rimane in voga per buona parte del Quattrocento.

Di particolare interesse infine la segnalazione della mancanza di frammenti graffiti con il segno della scala, da collocare nell’ultima fase di produzione, nella zona di Montelupo, mentre ne è attestata la presenza alla Badia di San Salvatore a Scandicci in resti che esibiscono l’emblema del monastero, forse ad attestare una produzione in ambito fiorentino (6).

 

 1 Si veda in merito quanto alla scritto al lotto 5, nota 1;

 2 BERTI 1993-2003, III (1999), p. 124;

 3 CORA 1973, tavv. 67, 72-74, 141a, 141b, 156, 171c, 192c;

 4 CURNOW 1992, p. 28 n. 10;

 5 RONCAGLIA 2005, pp.193 n.8;

 6 MARINI 2014, pp. 74-75 n. 33.

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
7

BOCCALE

MONTELUPO, SECONDO QUARTO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico color beige rosato chiaro, smalto color bianco-grigio di buona consistenza opaco steso in uno strato spesso, la smaltatura non si estende all’interno del contenitore e lascia scoperta la base. Il decoro in monocromia turchina è dipinto con ossido di cobalto.

Alt. cm 24, diam. bocca cm 12,2, diam. piede cm 12.

Sotto l’ansa un segno “V”.

 

Provenienza

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 82-83 n. 38

 

Il boccale ha bocca trilobata, breve collo che scende su un corpo ovoidale poggiante su piede a disco, un’ansa a nastro che dal collo arriva fino al punto di massima espansione del corpo.

La decorazione, in azzurro, esibisce sul fronte il profilo di una dama con i capelli raccolti in una complessa acconciatura e con indosso un abito dal colletto alto racchiuso da un alto nastro chiaro; il busto è coperto da un corpetto decorato con due lune crescenti. Il ritratto, forse idealizzato, è compreso in una cornice che ne segue la forma e lo separa dalla decorazione circostante con un motivo fitomorfo con foglie di palma stilizzate e decori di riempimento. Due fasce a linee intrecciate completano la composizione. Sotto l’ansa, ornata da sottili linee parallele, si scorge il segno del vasaio: una “V”.

Il motivo a lune crescenti è stato messo da  Marino Marini in possibile relazione all’emblema della famiglia Strozzi, e comunque considerato come un motivo peculiare nella cultura islamica spesso presente su boccali italo-moreschi e in particolare con il celebre boccale conservato al Museo del Bargello raffigurante un uomo a mezzo busto con grande cappello e mezzelune sulla giacca (1).

I confronti più prossimi derivano da boccali e catini provenienti da scavi nell’aretino (2). Tuttavia la marca di bottega è stata ascritta da Galeazzo Cora (3) a boccali a zaffera e italo moreschi databili alla prima metà del XV secolo.

 

 1 CONTI 1971, n. 619;

 2 CAROSCIO, in VANNINI 2009, pp. 247-248, nn. 32, 36 e tav. LXI nn. 2, 6;

 3 CORA 1973, M211, M213.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
8

ORCIOLO

MONTELUPO, METÀ SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico di colore beige chiaro; smalto color crema opaco, la smaltatura non si estende all’interno del contenitore e lascia scoperta la base. Dipinto in bicromia con blu di cobalto e tratti di bruno di manganese nel tono del nero.

Alt cm 23,5, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 11.

Sotto le anse marca B in carattere capitale con tratto allungato ripetuta due volte.

 

Provenienza

Collezione Frizzi Baccioni, Firenze;

Farsetti, Prato, 30 ottobre 2009, lotto 36;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

F. Berti, Storia della ceramica di Montelupo, Vol. III, Montelupo Fiorentino 1999, p. 247 tavv. 31-32;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 90-91 n. 43

 

L’orciolo ha corpo ovoidale che si assottiglia verso il piede, che si presenta basso e con base piana. Il collo, cilindrico, si alza appena e termina in un orlo arrotondato appena estroflesso. Dalla spalla scendono fino al punto di massima espansione due brevi anse a nastro a piega ortogonale.

Il collo, come il contorno della figura principale, è decorato da una fascia con ornato della tipologia italo-moresca con minuti girali fogliati. Le anse invece sono dipinte con un motivo a spina di pesce e mostrano sotto l’attacco inferiore marca con una doppia B in carattere capitale con tratto allungato.

Il decoro principale su entrambi i lati del corpo mostra un medaglione delimitato da una cornice con fascia a trattini e centrato da un gruppo di tre melograni uniti alla base con rami fogliati.

Marino Marini, autore della scheda di catalogo redatta in occasione della mostra tenutasi a Firenze nel 2014 nella quale l’orciolo è stato esposto, si sofferma diffusamente sui significati simbolici del frutto del melograno, ma soprattutto su una probabile diffusione di questo tipo di decoro tramite la mediazione di prodotti orientali, in particolare cinesi, nel terzo quarto del XV secolo.

I confronti più aderenti per l’opera sono un rinfrescatoio della tipologia italo-moresca, già in collezione Bardini, con melograni inseriti nel decoro accessorio (1), e un boccale proveniente da scavi a Lucca, che mostra un medaglione con motivo a due melograni unitamente al decoro a spina di pesce dell’ansa (2).

La marca del nostro orciolo è presente anche nel boccale con Stemma Rucellai del Museo Nazionale del Bargello (3), su un boccale lacunoso transitato in un’asta (4), su un boccale recuperato dagli scavi di Rocca Silana a Pomarance, ora a Palazzo Ricci, e infine sull’orciolo con stemma Corbinelli (o Cepparello) del Fitzwilliam Museum a Cambridge (5).

 

 1 CORA 1973, tav. 121b;

 2 CIAMPOLTRINI 2005, p. 66 fig. 6.2;

 3 CORA 1973, tav. 159c;

 4 Farsetti, Prato, 3 aprile 2009, lotto 270;

 5 POOLE 1995, pp. 115-116, n. 169.

Stima   € 25.000 / 35.000
9

ALBARELLO

MONTELUPO, SECONDO QUARTO SECOLO XV

Maiolica decorata in monocromia blu su fondo maiolicato.

Alt. cm 24,8, diam. bocca cm 10,6, diam. piede cm 10,2.

 

Provenienza

Christie’s, Londra, 5 luglio 2012, lotto 1;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, p. 71 n. 31

 

Il vaso apotecario ha un’imboccatura larga con orlo piano estroflesso e breve collo cilindrico terminante in una spalla carenata. Il corpo è  anch’esso cilindrico e termina in un calice appena accennato, con una strozzatura che finisce nel piede a base piana e con orlo arrotondato.

Il decoro, dipinto in blu di cobalto, è incentrato su una distribuzione simmetrica in registri sovrapposti senza soluzione di continuità.

La morfologia del contenitore è ben nota e peculiare dei manufatti in maiolica della famiglia italo-moresca prodotti delle officine toscane già nel corso del secolo XIV, ma con massima diffusione nel corso del secolo XV (1).

Chompret (2) già nel 1949 attribuiva questa serie di opere ad area fiorentina, elencandone diversi esemplari: l’albarello cosiddetto “cufico” presentato in asta in questa sede nel 2014 (3), l’albarello del Victoria and Albert Museum, morfologicamente e stilisticamente assai vicino al nostro vaso (4), quello del Fitzwilliam Museum di Cambridge che presenta una variante nella piccola ansa aggiunta appena sotto il collo (5), ed uno al Museo di Berlino (6). Un ulteriore confronto ci viene dall’albarello simile della collezione della Cassa di Risparmio di Perugia, considerato di produzione montelupina e, in base ai confronti musealizzati già citati, datato agli anni 1440-1470 (7).

Fausto Berti ha fornito un’accurata analisi di questa tipologia (8), raggruppando i confronti della tipologia in blu prevalente nella versione ispirata alla pittografia araba (9) e pertanto definita “cufico” o meglio “pseudocufico” o alla damaschina.  Si tratta di un uso decorativo medio-orientale che, oltre a veicolare i versetti del Corano, fungeva da motivo ornamentale e si rifaceva al vasellame di produzione dei vasai moreschi di Valenza, ma impreziositi dal lustro metallico. Questo decoro divenne un riferimento per i vasari occidentali, che ne utilizzarono l’intreccio compositivo a puro scopo ornamentale. Tale modalità stilistica rimase in auge per circa un cinquantennio, fino all’incirca alla fine del ’400 (10): proprio per questa ragione la datazione della famiglia andrebbe collocata nel periodo compreso tra il 1430 e il 1460 circa (11).

Marino Marini, che ci fornisce una scheda dettagliata di quest’opera, ricorda che questi prodotti s’ispiravano agli esemplari provenienti direttamente dalla Spagna, giunti tramite le compagnie mercantili soprattutto quelli a lustro metallico, proponendo per quest’opera una collocazione geografica di produzione da parte di una bottega del medio Valdarno probabilmente a Montelupo dato l’alto numero di frammenti coerenti provenienti dalla zona.

 

 1 SPALLANZANI 2006;

 2 CHOMPRET 1949 (rist. 1986), Vol. II, p. 83 n. 656;

 3 PANDOLFINI 2014, pp. 14-17 lotto 2;

 4 RACKHAM 1977, p. 14 n. 51, inv. 1143-1904;

 5 POOLE 1995, pp. 108-110 n. 164, inv. 181-1991;

 6 HAUSMANN 1972, pp. 99-101 n. 76;

 7 M. MARINI in WILSON-SANI 2007, pp.38-41 n. 84;

 8 BERTI 1997-2003, Vol. III, p. 126 e tavv. 11-15;

 9 RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 22-25;

 10 Datazione proposta in CORA 1973, p. 129;

 11 Berti sottolinea come, al momento, l’assenza di scavi al di fuori di Montelupo impedisca una corretta attribuzione all’una o all’altra fabbrica di Valdarno, pur ammettendo la presenza del decoro anche nelle manifatture di Bacchereto, presso Firenze; inoltre, la mancanza di segni di bottega limiterebbe l’attribuzione a luoghi diversi da Montelupo.

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
10

ALBARELLO

AREA FIORENTINA, METÀ SECOLO XV

Maiolica rivestita da smalto bianco decorata con lustri metallici.

Alt. cm 24,5, diam. bocca cm 10,5, diam. piede cm 9,9.

 

Provenienza

Collezione privata, Firenze;

Bonhams, Londra, 6 luglio 2010, lotto 116;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 86-87 n. 41;

A. Feit, C. Feit, Spanish Fayencen: 15 bis 19 Jahrhundert, Munchen 2012, p. 24

 

L’albarello ha corpo cilindrico, ristretto al centro, rastremato in basso e poggiante su piede ad anello. Il collo è alto con imboccatura larga dall’orlo appena aggettante, con profilo tagliato a stecca.

Il corpo è interamente ricoperto di smalto bianco anche all’interno e sotto il piede. Un motivo decorativo a fasce verticali parallele centrate da un ornato a steli sinuosi con fogliette tripartite, noto come motivo a “foglia di prezzemolo”, interessa la superficie del corpo, mentre il collo è abbellito da fasce parallele entro le quali si scorge un motivo continuo di ispirazione orientale. Si tratta di un decoro ispano-moresca che prese piede in Italia tra la fine del trecento e per tutto il quattrocento.

Il ductus pittorico incerto, la scarsa padronanza della tecnica del lustro e il supporto ceramico di qualità non elevata hanno fatto ipotizzare a Marino Marini, che ha lungamente studiato l’opera, che l’albarello possa essere stato prodotto in Italia forse per rimpiazzare un esemplare originale andato perduto. Questa pratica è documentata a Manises per conto di committenti italiani (1), e l’evidente ricerca di aderire il più possibile al modello ispanico sia nella morfologia sia nel decoro avvalorerebbe questa ipotesi.

Alcuni reperti con struttura e dettagli dell’ornato simili all’albarello in esame sono emersi in scavi da fornaci non lontano da Firenze (2), mentre riscontri di lustro di ispirazione derutese sono stati trovati negli scavi di Cafaggiolo, e nella zona di Montelupo  dove sono stati riscontrati lustri di matrice iconografica moresca (3).

Un raffronto è stato individuato nell’albarello a lustro con segno della farmacia della “scala” in collezione privata (4), ma in mancanza di ulteriori riscontri che aiutino una collocazione produttiva più precisa, l’opera viene inserita in un panorama più ampio delle produzioni fiorentine della seconda metà del XV secolo, rappresentando una delle attestazioni più precoci dell’uso di lustri metallici in area fiorentina.

 

 1 SPALLANZANI 1978, p. 73;

 2 CORA 1973, tavv. 142, 143, 145;

 3 BERTI 1997-2003, I (1997), tavv. 191-193, p. 303;

 4 BERTI 1997-2003, I (1997), p. 203.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
11

ALBARELLO

MONTELUPO, TERZO QUARTO SECOLO XV

Maiolica rivestita di smalto bianco dipinta in policromia con blu di cobalto, verde ramina e giallo citrino.

Alt. cm 19, diam. bocca cm 9, diam. piede cm 8,7.

 

Provenienza

Collezione Frizzi Baccioni, Firenze;

Semenzato, Firenze, 27-28 maggio 2006, lotto 590;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, p. 85 n. 40

 

L’albarello ha corpo cilindrico ristretto al centro, rastremato alla spalla e al piede e poggiante su base piana. Il collo è basso con imboccatura larga dall’orlo appena aggettante a profilo arrotondato.

Il corpo è interamente ricoperto da smalto bianco, grasso, anche all’interno e sotto il piede. Un motivo decorativo a fasce parallele, una delle quali a piccoli segni e con un orientamento opposto rispetto al corpo, corre lungo il collo. Sul corpo corre un ornato a foglie sottili blu, alternate a tratti manganese, su un sottile stelo sinuoso, compreso entro riquadri delimitati da fasce parallele separate da linee blu e verde.

L’attribuzione dell’opera all’area produttiva di Montelupo si basa sui confronti con decoro analogo “a serto vegetale” che è stato riscontrato in opere di forma chiusa rinvenute in scarti di fornace a Montelupo e databili al terzo quarto del XV secolo (1), con numerosi confronti musealizzati (2).

 

 1 BERTI 1997-2003, I (1997), pp. 292-293 tavv. 165-169, in particolare tav. 167;

 2 CORA 1973, tav 163, oggi in RACKHAM 1977, pp. 21-22 n. 83, tav. 15; e VREEKEN 1994, p. 179.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
12

PIATTO

BACCHERETO, TERZO QUARTO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico color beige giallino chiaro, smalto color bianco-grigio di buona consistenza, opaco steso in uno strato spesso sul fronte e meno spesso sul retro. Il decoro è dipinto in blu di cobalto, bruno di manganese e giallo citrino.

Alt. cm 6,5, diam. cm 39, diam. fondo cm 27,5.

 

Provenienza

Collezione Frizzi Baccioni, Firenze;

Farsetti, Prato, 30 ottobre 2009, lotto 327;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 108-109 n. 52

 

Il piatto, di grandi dimensioni, ha una tesa larga, appena obliqua, e un cavetto ampio poco profondo; il piede è a disco. L’intera superficie è interessata da una fitta decorazione a tralci vegetali con fogliette cuoriformi dalla nervatura evidenziata, dipinte in blu di cobalto; tutt’intorno si sviluppa una fitta decorazione a puntini e spirali  a riempimento  delle campiture libere. Al centro del cavetto, entro un medaglione delimitato da linee blu, uno stemma nobiliare (troncato di oro e di rosso a tre rocchi di scacchiere d’argento, 2.1, nel secondo) nel quale s’intravedono labili tracce di una figura araldica delineata in bruno nella parte superiore, non riconoscibile a causa del restauro.

Il motivo decorativo è quello tipico della Spagna moresca, da cui come abbiamo visto traggono ispirazione le botteghe toscane del XV secolo. Si tratta della cosiddetta “foglia d’edera”, che i vasai di Val d’Arno rielaborano in ornati di grande originalità.

Marino Marini ha confrontato il nostro piatto con un largo frammento di boccale, ora al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1), e con numerosi altri frammenti derivati da scavi a Montelupo, ma soprattutto a Bacchereto, con resa grafica dei tralci simili a quelli delineati sul piatto in esame (2).

 

 1 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, pp. 50-51 n. 15;

 2 BACCHERETO 1992, p. 74; CORA 1973, tav. 201b.

 

Stima   € 5.000 / 7.000
Aggiudicazione  Registrazione
13

ORCIOLO

MONTELUPO, ULTIMO VENTENNIO SECOLO XV

Maiolica, corpo ceramico di colore beige chiaro; smalto color crema abbastanza lucente, la smaltatura si estende all’interno del contenitore e lascia scoperta la base. Dipinto in policromia con blu di cobalto, bruno di manganese nel tono del nero violaceo, verde ramina e giallo arancio.

Alt cm 30,5; diam. bocca cm 14,8; diam. piede cm 12.

Sotto le anse marca B in carattere capitale con tratto allungato che si interseca con un trattino minore a formare una croce.

 

Provenienza

Collezione Edgar Speyer, Londra;

Collezione Dr. Robert Bak, New York;

Sotheby’s, 7 luglio 1965, lotto 51;

Sotheby’s, 11 aprile 1978, lotto 103;

Sotheby’s, 7 novembre 2010, lotto 1;

Sotheby’s, 4 dicembre 2012, lotto 304;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

G. Cora, Storia della maiolica di Firenze e del contado. Secoli XIV e XV, Firenze 1973, tav. 220a;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 110-111 n. 53

 

L’orciolo ha corpo ovoidale che si assottiglia verso il piede, che si presenta a base piana. Il collo, cilindrico, si alza appena e termina in un orlo leggermente estroflesso. Dalla spalla scendono fino alla parte più ampia del corpo due brevi anse a nastro a piega ortogonale.

Il collo reca una fascia decorata con un motivo a nastro intrecciato, mentre le anse sono adornate con un motivo a “penna di pavone” e mostrano sotto l’attacco inferiore la marca B in carattere capitale con tratto allungato tagliato. Il motivo a “penna di pavone” si estende su tutta la superficie del vaso ad eccezione di una porzione sul fronte, occupata da un ampio medaglione rotondo con cornice a ghirlanda, contenente uno scudo araldico della tipologia a “testa di cavallo” con emblema dei Ridolfi di Piazza di Firenze (d’azzurro al monte di sei cime d’oro alla banda di rosso passante accompagnato da una corona d’oro contenente due rami di palma decussati dello stesso).

Il decoro principale è considerato peculiare tra quelli che contraddistinguono le manifatture di Montelupo dalle maioliche d’importazione e dalle loro imitazioni in loco. Si ritiene che anche in questo caso le fonti d’ispirazione dovessero essere orientali, ed ebbero un discreto successo a Montelupo per tutto il secolo XV.

Marino Marini, autore della scheda di catalogo redatta in occasione della mostra tenutasi a Firenze nel 2014, si sofferma diffusamente sull’uso di questo impianto decorativo nelle stoffe, come testimoniato da numerose opere riproducenti personaggi facoltosi o oggetti di culto (1).

L’orciolo, unitamente alle varie tipologie di decoro su forme prevalentemente chiuse, ha numerosi esemplari di confronto: l’orciolo della collezione Otto Beit poi Adda (2), e quello dalla stessa raccolta Beit (3) poi confluito nella collezione Gillet (ora al Musée des Art Décoratifs di Lione), l’orciolo dalla collezione Glogowski (poi J.W.L. Glaisher, ora al Fitzwilliam di Cambridge -4) e quello della collezione E.L. Paget di Londra (5). Si ricordano poi un esemplare dalla collezione Cora (ora al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza - 6), uno della collezione Pringsheim (ora nella Lehman di New York - 7) e uno della collezione Ridout (adesso alla National Gallery of Victoria a Melburne - 8).

Una notazione finale sulla marca, che si ripete su esemplari cronologicamente collocabili tra la fine del XV secolo e gli esordi del nuovo secolo, ci indirizza verso una datazione più circoscritta. Il tipo di festone infatti secondo Marini è indicativo del periodo iniziale della produzione di tali decori: esistono inoltre testimonianze di simili ghirlande in frammenti da area fiorentina (9) databili tra il 1488 e il 1493. Gli altri elementi di decoro, quali la forma dello stemma e le caratteristiche morfologiche, indirizzano verso l’opera di una manifattura di Montelupo o di un vasaio montelupino attivo in una bottega fiorentina intorno al 1480.

 

 1 MARINI 2014, p. 110 n 53;

 2 RACHKHAM-VAN DEPUT 1916, p. 79 n. 745;

 3 RACHKHAM-VAN DEPUT 1916, p. 80 n. 746; CORA 1973, tav. 219c;

 4 POOLE 1995, pp. 115-116 n. 169;

 5 Sotheby’s, 11 ottobre 1949, lotto 13;

 6 BOJANI et alii 1985, p. 192 n. 478;

 7 RASMUSSEN 1989, pp. 22-23 n. 13;

 8 WILSON 2015, pp. 48-49 inv. 3866-D3 (con stemma Medici);

 9 SPALLANZANI 1990, pp. 277-281, tav LXII a,b.

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
14

PIATTO

MONTELUPO, 1520 circa

Maiolica, corpo ceramico color beige-biancastro chiaro, smalto color bianco-grigio di buona consistenza opaco steso in uno strato spesso. Il decoro è dipinto in policromia con verde ramina, blu di cobalto, rosso ferraccia e giallo arancio.

Alt. cm 5, diam. cm 34,8, diam. piede cm 15,6.

 

Provenienza

Collezione Joseph Chompret, Parigi;

Chayette & Cheval, 19 ottobre 2011, lotto 36;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 124-125 n. 61

 

Il piatto ha forma poco profonda con cavetto piano, larga tesa obliqua e piede a disco piano poco rilevato. Il decoro segue la morfologia dell’oggetto e mostra una fitta scacchiera dipinta in verde e rosso a ricoprire tutto il cavetto. Questo è delimitato da una fascia decorata a perle in due toni d’azzurro e da una fascia più larga con elementi fogliati triangolari, anch’essi dipinti in bicromia: verde e rosso. La tesa è abbellita da un motivo continuo di ovali e rombi intrecciati tra loro, contornati da sottili spirali blu. Questo tipo di ornato a fasce caratterizza le produzioni montelupine della fine del Quattrocento, e l’uniformità della produzione è per gli studiosi dovuta al cosiddetto “trust Antinori” (1): una commissione particolarmente ricca e di lunga durata nota

Il decoro della tesa con tocchi di arancio diviene invece sistematico nell’ultimo quarto del XV secolo, ed è utilizzato sul vasellame per simulare il lustro a imitazione del vasellame ispanico (2).

Per la datazione Marino Marini, che ha già pubblicato il piatto, propone il primo ventennio del Cinquecento, in virtù della vicinanza del decoro della tesa con un piatto frammentario simile, recante lo stemma di papa Leone X, proveniente da scavi lucchesi e databile tra la fine del 1515 e l’inizio del 1516, data del trionfale ingresso del Papa de’ Medici a Firenze (3).

 

 1 CORA 1973, pp. 108-112; BERTI 1997-2003, V (2003), pp. 65-66;

 2 BERTI 1997-2003, I (1997), p. 318 tav. 232;

 3 MARINI 2012, p. 28.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
15

COPPIA DI ORCIOLI

CAFAGGIOLO, 1520-1530 CIRCA

Maiolica, corpo ceramico di colore beige rosato chiaro rivestito di ingobbio; smalto color bianco abbastanza lucente, che si estende all’interno del contenitore. Dipinti in bicromia con blu di cobalto e giallo ocra.

Alt. cm 14,2, diam. bocca cm 9, diam. piede cm 7,3.

 

Provenienza

Collezione Della Gherardesca, Bolgheri;

Finarte, 10-11 marzo 1964, lotti 60-61;

Sotheby’s, 26 novembre 1985, lotto 17;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

Le maioliche della collezione D. Serra, Milano 1964, Vol. II, pp. 23-24 nn. 60-61;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 137-139 n. 69

 

I due orcioli sono morfologicamente identici: presentano corpo ovoidale espanso che si assottiglia verso il piede a disco; il collo, breve, si alza appena e termina in un orlo leggermente estroflesso. Dalla spalla fino alla parte di massima espansione del corpo si allargano due brevi anse a nastro a doppia costolatura e a piega ortogonale.

Il collo è decorato da una fascia abbellita con un motivo a sottili linee parallele delimitate da linee gialle, mentre le anse mostrano un ornato a lisca di pesce molto compatto. Tutta la superficie del corpo è interessata a sua volta da una fitta decorazione fitomorfa con girali fogliate e fiorellini dalla corolla espansa, secondo i canoni del motivo cosiddetto “alla porcellana”: di ispirazione orientale, si rifà ai vasi della dinastia Ming che cominciano a essere documentati in Toscana a partire dal XV secolo. Questo decoro è attestato a Montelupo alla fine del secolo: proprio da qui i vasai Stefano e Piero di Filippo si trasferirono a Cafaggiolo nel 1498, continuando in quel sito la loro produzione con l’utilizzo del prototipo valdarnese del fiore a larga corolla sezionato trasversalmente, definito da Galeazzo Cosa come “mezzaluna dentata” (1).

Su questo tipo di decoro molto è stato scritto, e sulla sua evoluzione si rimanda a quanto indicato da Marino Marini nello studio di questi orcioli e in quanto osservato dallo stesso autore in relazione ad un’opera della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia (2).

Gli orcioli, attribuiti alle botteghe di Cafaggiolo già nel catalogo d’asta della collezione Della Gherardesca (1964), trovano riscontro in alcuni esemplari forniti di marca di bottega, con una collocazione cronologica tra il primo e il secondo quarto del XVI secolo.

 

1 CORA 1973, p. 145;

2 MARINI in WILSON-SANI 2007, p. 50 e nn. 7-8.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
16

ANGELO REGGICANDELABRO

FIRENZE, BOTTEGA DI GIOVANNI DELLA ROBBIA, 1520-1525 CIRCA

Terracotta smaltata e dipinta in policromia nei toni del giallo, azzurro, verde, marrone e bianco.

Cm 38x23x12.

Sotto la base etichetta cartacea rettangolare con n. 671 stampato.

 

Provenienza

Collezione Chieffi, Firenze;

Collezione Frizzi Baccioni, Firenze;

Tajan, 30 giugno 2009, lotto 76;

Collezione privata, Firenze

 

Esposizioni

XXIV Mostra Mercato Internazionale dell’Antiquariato, Firenze, Palazzo Corsini, ottobre 2005

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 232-233 n. 126

 

La scultura di terracotta mostra l’angelo genuflesso su un alto plinto di forma ovale, nell’atto si sorreggere un candelabro. La mancanza di modellato nella parte posteriore della scultura fa supporre la creazione dell’opera in funzione di una sua collocazione a ridosso di un parato murario; il foro a crudo sul lato posteriore dell’aureola conferma quest’ipotesi, permettendo esso stesso di fissare l’opera alla parete.

La figura, ben proporzionata, mostra attenzione nel modellato del volto, delle mani e soprattutto del panneggio delle vesti e del piumaggio delle ali. Anche lo smalto che ricopre la terracotta è spesso, denso e sottolinea con i colori i dettagli della veste e delle ali, a differenza del volto e delle mani dipinte in smalto bianco con tocchi di manganese a marcare le sopracciglia e la pupilla dell’occhio.

La figura dell’angelo reggicandelabro inginocchiato è stata più volte riprodotta nella bottega robbiana a partire dai primi modelli di Luca per la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. Giovanni fu l’artefice che più di tutti si dedicò a questo genere di scultura, al punto che sono noti circa una ventina di esemplari con rivestimento smaltato o anche in semplice terracotta.

Confronti utili per l’attribuzione a Giovanni sono gli angeli della ex collezione Campana, ora al Louvre (1), e quelli che affiancano la Natività del 1521 al convento di San Girolamo delle poverine a Firenze, ora al Museo del Bargello (2).

La particolare tipologia della tunica, da cui fuoriescono le maniche di una doppia camicia, la lunga capigliatura ondulata, il nastro incrociato sul petto e il modellato delle ali trovano poi riscontro negli angeli realizzati da Giovanni per il portico dell’Ospedale di Pistoia (3) e in altre opere prodotte dalla bottega di Benedetto Buglioni (4).

 

1 GABORIT-BORMAND 2002, pp. 63-65 n. II.4;

2 PAOLOZZI STROZZI-CISERI 2012, pp. 210-211 n. 76;

3 PAOLOZZI STROZZI-CISERI 2012, pp. 232-233 n. 83;

4 GENTILINI 1998, p. 353.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
17

DUE MATTONELLE

FIRENZE, BOTTEGA DI ANDREA DELLA ROBBIA, 1500 CIRCA

Maiolica smaltata e dipinta in policromia con blu di cobalto e tocchi in bruno di manganese.

Cm 3,5/4,5x16,5x32,5.

 

Provenienza

San Lorenzo, Cappella del Latte, Montevarchi;

Farsetti, Prato, 26 ottobre 2012, lotto 325;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 228-229 nn. 124.a-b

 

Le due piastrelle murali facevano parte di un complesso apparato decorativo maiolicato realizzato per la Cappella del Latte collocata all’interno della Chiesa di San Lorenzo a Montevarchi (Arezzo).

Le mattonelle, di grosso spessore, sono realizzate con una terracotta bianco grigiastra ricoperta da uno smalto bianco latte abbellito con un motivo di chiara ispirazione islamica, che prevede l’accostamento dei motivi a fiori pluripetalo e foglie dentellate a formare una complessa decorazione, con chiaro richiamo agli ornati delle stoffe coeve utilizzate architettonicamente a guisa di tendaggi.

Il rivestimento era stato commissionato alla bottega di Andrea della Robbia dalla locale Fraternità del Sacro Latte per adornare la cappella dedicata appunto alla reliquia del Sacro Latte della Vergine, oggetto di culto popolare a partire dal secolo XIII. Un fregio, sempre opera della bottega di Andrea della Robbia e ora conservato al locale Museo di Arte Sacra, testimonia l’arrivo della reliquia a Montevarchi.

Francesca de Luca ha dettagliatamente studiato queste opere nel catalogo realizzato in occasione dell’importante mostra sui Della Robbia, tenutasi a Fiesole nel 1998 (1), nella quale furono inserite due mattonelle analoghe provenienti dalla stessa raccolta.

Altre piastrelle dello stesso parato murario sono esposte nel già citato Museo d’Arte Sacra di Montevarchi, dove è conservata anche la parte finale del tendaggio a frange, con la resa plastica delle pieghe caratteristiche di un tessuto appeso. Questo genere di ornato con disegno “a tappeto” era spesso realizzato dalla bottega robbiana tra la fine del XV e gli inizi del secolo XVI, come testimoniato da resti presenti anche in altre collezioni private.

 

1 DE LUCA in GENTILINI 1998, pp. 245-247 n. II.43.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
18

ORCIOLO

MONTELUPO, 1540-1550

Maiolica, corpo ceramico di colore beige, smalto color bianco crema abbastanza lucente, che si estende all’interno del contenitore e lascia scoperta la base. Dipinto in policromia con blu di cobalto e giallo.

Alt. cm 44,8; diam. bocca cm 12,5; diam. piede cm 15.

 

Provenienza

Christie’s, 5 dicembre 1994, lotto 319;

Artcurial Briest-Poulain-Le Fur, 15 marzo 2005, lotto 55;

Della Rocca, 2 dicembre 2009, lotto 569;

Wannenes, 19 novembre 2013, lotto 529;

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

G. Gardelli, Italika. Maiolica italiana del Rinascimento. Saggi e Studi, Faenza 1999, pp. 346-349 n. 152;

F. Berti (a cura di), La farmacia storica fiorentina. I “fornimenti” in maiolica di Montelupo (secc. XV-XVIII), Firenze 2010, p. 150 fig. 152;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 140-142 n. 70

 

L’orciolo ha corpo ovale con piede a disco, collo cilindrico breve che termina in un orlo appena estroflesso, mentre dalla spalla scendono due anse a forma di drago.

Il collo è decorato da una linea continua blu.  Anche le anse sono dipinte in monocromia blu con tocchi più scuri a definire gli occhi, lasciati riservati di bianco, e le squame dei mostri.

Un motivo decorativo “alla porcellana” si estende su tutta la superficie del vaso ad eccezione di una vasta porzione sul fronte, occupata da un largo medaglione ovale circondato da una cornice con, nei punti cardinali, abbellimenti a palmetta e sormontata da un mascherone. All’interno del medaglione spicca l’arme della famiglia fiorentina dei Chiavacci (1) (d’azzurro, al cane rampante d’argento, accompagnato nel cantone destro del capo da un crescente rivolto dello stesso, e da tre stelle a sei o otto punte d’oro, ordinate due ai lati e una in punta).

Anche in questo caso, come per la coppia di orcioli al lotto quindici di questo catalogo, il decoro “alla porcellana” è accompagnato dal motivo a mezzaluna dentata, ed i confronti più affini ci conducono a un’attribuzione sicura alle manifatture di Montelupo attorno alla prima metà del XVI secolo. Particolarmente attinenti per il decoro sembrano i due utelli della Spezieria di Santa Maria Novella (2) unitamente a un terzo esemplare da scavo nella stessa sede (3), dotato di marca con il tridente.

Per la morfologia delle anse del tipo “draghiforme”, o a delfino, con la coda chiusa a formare un occhiello sono noti nove esemplari di produzione montelupina con emblema della famiglia fiorentina Aldobrandini di Lippo, dei quali quello datato 1541 già in collezione Beit (4).

L’orciolo qui presentato faceva coppia con un esemplare identico, già nell’asta londinese del 1964, fino all’ultimo passaggio in asta nel novembre del 2013.

 

1 Precedentemente attribuito alla famiglia Altoviti (GARDELLI 1999, p. 348);

2 BERTI 1993-2003, III (1999), p. 90 figg. 36-37 e p. 273 tav 88;

3 RONCAGLIA in COPPELLOTTI-DE BENEDICTIS-DIANA 2006, p. 27 n. 5;

4 RACKHAM-VAN DE PUT 1916, n. 748.

 

Stima   € 7.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
19

COPPIA DI ORCIOLI

MONTELUPO, 1620 CIRCA

Maiolica, corpo ceramico di colore beige; smalto color bianco crema, abbastanza lucente, che si estende all’interno del contenitore e sotto la base. Dipinti in policromia con blu di cobalto, nel tono dell’azzurro e del giallo, giallo-arancio, verde rame e bruno di manganese.

a) Alt. cm 37,5, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 13, ingombro anse cm 43;

b) Alt. cm 38,5, diam. bocca cm 14, diam. piede cm 13,5, ingombro anse cm 43.

Iscrizione entro cartiglio: a) MELVIOLATO; b) OSSIMEL.S.

Sotto il piede di a) tracciato a pennello il numero 405 [...] 

 

I due orcioli farmaceutici hanno corpo ovale con piede a disco, collo cilindrico breve terminante in un orlo appena estroflesso. Dalla spalla scendono due anse a forma di drago che terminano con un mascherone nel punto di giunzione con il corpo.

Il collo è decorato da una linea gialla con filetti in nero di manganese. Le anse sono dipinte in monocromia verde con tocchi più scuri a definire le squame dei mostri lumeggiate in giallo, mentre gli occhi e la bocca sono dipinti di giallo: lo stesso colore applicato ai mascheroni, i cui caratteri fisiognomici sono sottolineati con tratti in manganese.

Un largo motivo decorativo “a grottesche” si estende su tutta la superficie del vaso ad eccezione di una vasta porzione sul fronte occupata da uno stemma a cartouches con le armi Medici-Asburgo, sormontato da una corona. Al di sotto, inseriti in riserve quadrangolari circondate da complesse cornici si leggono i nomi dei preparati: a) MELVIOLATO; b) OSSIMEL.S.(1).

I due vasi, pur appartenendo a un medesimo contesto farmaceutico, mostrano alcune caratteristiche stilistiche differenti: nel modo di dipingere le grottesche e i loro elementi accessori, dove il primo vaso mostra uno stile dal tratto più marcato, ma anche nel colore dello smalto, più azzurrato nel primo vaso e più caldo nel secondo.

Lo stemma raffigurato è quello bipartito Medici-Austria, da riferire all’unione di Francesco I con Giovanna d’Austria (1565-1578) o più probabilmente a quella di Cosimo II con Maria Maddalena d’Austria (1608-1621). Un accurato studio sul vasellame farmaceutico con emblema Medici a cura di Marino Marini e Giovanni Piccardi, cui rimandiamo per approfondimenti, ha condotto a una fondamentale classificazione del vasellame farmaceutico prodotto dalle botteghe toscane per i Granduchi (3). L’analisi della documentazione della Spezieria presente presso la corte fiorentina ha circoscritto una campionatura di contenitori in maiolica, tutti con emblemi medicei, che potrebbero essere messi in relazione ai corredi farmaceutici granducali succedutesi nel tempo. Tuttavia, in base a quanto già osservato da Spallanzani (3), nello studio si è tenuto conto che la presenza dello stemma mediceo su ceramiche non è garanzia della provenienza dalla residenza dei sovrani, dato l’alto numero di opere presenti in collezioni pubbliche e private provenienti da scavi che recano l’emblema.

Per i corredi farmaceutici con arme Medici-Asburgo, riferibili al matrimonio fra il Granduca Cosimo II e Maria Maddalena d’Austria (1608-1621), le testimonianze che si collocano nel XVII secolo mostrano un uso peculiare del decoro a “raffaellesche”. Tale decoro, in attesa di una migliore definizione della produzione pisana con tale ornato, è stato analizzato da Fausto Berti nel contesto produttivo di Montelupo agli inizi del secolo XVII(4). Il riferimento cronologico e produttivo deriva da un orciolo della Spezieria di Santa Maria Novella che reca la scritta Montelupo in associazione con esemplari simili datati 1620. Il decoro deriva dai più noti ornati cinquecenteschi urbinati e denuncia una ricezione tardiva dell’ornato stesso da parte delle maestranze Montelupine (5).

Questo decoro associato allo stemma partito Medici-Asburgo si ritrova in numerosi esemplari di orcioli biansati e di utelli con versatore, caratterizzati dalla marca della bottega montelupina del “crescente lunare crucifero”, nei quali si riconoscono le date di vari fornimenti (1613, 1616, 1617, 1621, 1626) (6).

Gli orcioli in oggetto di studio con stemma partito Medici-Asburgo mostrano alcune differenze nella scelta compositiva del decoro, probabilmente dovuta alla differenza di destinazione tra le varie produzioni, e trovano comunque riscontro diretto, anche cronologico, con altri 15 manufatti di varia forma della stessa bottega montelupina, che sono stati dettagliatamente elencati da Marino Marini (7).

 

1 Sciroppo di viola: ha virtù pettorali, cordiali raddolcenti. L’ossimele è uno sciroppo a base di miele e aceto chiarificato con bianco d’uovo;

2 MARINI-PICCARDI 2008, pp. 29-52;

3 SPALLANZANI 1994, pp. 20-21;

4 BERTI 1997-2003, III (1999), pp. 157-158 tavv. 228-237;

5 BERTI 1997-2003, II (1998), pp. 199-201 tavv. 165-169 gruppo 65; BERTI 1997-2003, V (2003), pp. 326-331;

6 MARINI-PICCARDI 2008, p. 33 (lista nn.19-21, 29-30; figg. 16-22);

7 MARINI-PICCARDI 2008, pp. 36-40.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

TONDINO

DERUTA, 1500-1520 CIRCA

Maiolica decorata in policromia con arancio, blu, verde rame e bruno di manganese nei toni del nero-marrone, su smalto bianco crema crettato.

Alt. cm 2,8, diam. cm 25, diam. piede cm 8,2.

Sigla sul retro Co.

 

Il tondino presenta un cavetto profondo a larga tesa piana con orlo arrotondato.

Il decoro si distribuisce in fasce concentriche che, a partire dal centro, mostrano un fiore a più corolle che si allargano alternando i colori blu e giallo al bianco dello smalto lasciato scoperto a risparmio. Segue una sottile linea, anch’essa lasciata a risparmio, su cui poggia un fregio dentellato a raggiera in blu e arancio. Una sottile fascia decorata con leggere linee parallele blu delimita il bordo del cavetto e lo separa dalla tesa che reca dipinto un complesso motivo a ghirlanda floreale simmetrica che si dipana sul fondo arancio, alternando foglie lanceolate e accartocciate a eleganti boccioli. Il tutto è dipinto nei toni del blu e dell’azzurro. Una sottile fascia a trattini paralleli, a sottolineare il bordo, conclude la composizione. Il retro presenta un decoro a raggiera di petali delineati in blu e dipinti a righe parallele arancio con asterischi e sottili decori a riempimento delle campiture vuote. Al centro del piede si legge una lettera “C” delineata in blu al centro della quale sta una lettera “o” di minori dimensioni, dipinta in arancio e centrata a sua volta da un puntino che riprende la serie di punti che incorniciano entrambe le lettere.

Il piatto mostra caratteristiche decorative tipiche dei rari piatti a noi giunti, opera delle botteghe artigiane tra la fine del XV secolo e il primo ventennio del successivo, ma l’associazione con la sigla apposta sul retro ne fa, a nostro parere, un’opera di grande interesse.

L’attribuzione alla città umbra di Deruta è ormai generalmente accettata e così pure la cronologia che si è andata a definire attraverso la pubblicazione dei frammenti provenienti da scavi cittadini (1). Un bacile da versatore con umbone rilevato, ora al Museo di Deruta, mostra un retro a petal-back con “petali radiali con strisce trasversali che si alternano a motivi triangolari” e “smalto grigio chiaro” molto prossimi a quello raffigurato sul nostro piatto: il bacile è assegnato ad un ambito cronologico attorno agli anni 1550. Invece un esempio più antico, con decoro a motivi geometrizzanti, ci deriva dal museo Duca di Martina di Napoli, il quale mostra un retro a petal-back del tutto simile a quello dell’esemplare in studio e una datazione proposta all’ultimo quarto del secolo XV (2).

Studi recenti hanno meglio definito delle personalità di pittori ai quali si è potuto attribuire alcune delle sigle apposte sul retro dei piatti. È il caso del “pittore Co”, identificato con Nicola Francioli detto “Co” (3), la cui produzione comprende piatti da pompa e vassoi a rilievo di altissima qualità, identificato anche come il pittore del Pavimento di San Francesco di Deruta, considerato il suo capolavoro, che reca la data (forse celebrativa) del 1524. La fama di questo artista è però legata, oltre che al pavimento, a opere dalla decorazione figurata con figure e animali fantastici dipinti con minuzia ed estrema grazia, al punto da farne uno dei maggiori artefici della maiolica derutese del XVI secolo.

Il confronto tra la sigla Co presente sul nostro piatto e quella ormai nota con C paraffata, studiata da Busti e Cocchi (4) in relazione ai documenti di archivio, non è tuttavia conforme. Ci pare comunque che l’ambiente culturale di produzione di quest’opera sia senza dubbio quello umbro. Inoltre una rapida analisi dei frammenti esposti nelle vetrine del Museo di Deruta ci conferma la presenza sia di decori coerenti al retro della nostra opera, sia di decori affini, seppur non identici, a quelli estremamente raffinati del fronte, come pure il fondo arancio con decoro in verde acqua (5).

Il piatto in esame, allo stato attuale degli studi, è dunque pienamente ascrivibile al primo trentennio del secolo XVI, quando anche a Deruta si ritrova l’avvicendarsi di decori più arcaici con ornati più innovativi già di gusto rinascimentale: un mutamento del gusto di cui il Nicola Francioli sembra essere uno dei protagonisti.

 

1 BUSTI COCCHI 1999, pp. 152-153;

2 ARBACE 1996, p. 36 n. 25;

3 Si deve a Clara Menganna e Lidia Mazzerioli l’approfondito studio dei documenti d’archivio che hanno portato all’identificazione di Nicola Francioli detto Co, soprannome con cui compare in molti documenti. La comunicazione di Busti Cocchi al convegno di Norimberga nel 2001 e la successiva pubblicazione in BUSTI COCCHI 2004, pp. 67-69, cui rimandiamo, definisce appieno questa personalità spesso citata negli archivi tra il 1513 e il 1565, proveniente da una delle più antiche famiglie di vasai derutesi discendenti da Giovanni Foramelli, e zio materno di Giacomo Mancini detto il Frate, uno dei più conosciuti pittori derutesi;

4 BUSTI–COCCHI in GLASER 2004, pp. 157-173.

5 Decori simili sono presenti anche in opere di area Pesarese, tuttavia non ci sembrano per il momento sufficienti per una variazione dell’attribuzione (BERARDI 1984, pp. 170-178).

 

Stima   € 15.000 / 20.000
21

TONDINO

DERUTA, JACOPO MANCINI DETTO IL FRATE O NICOLA FRANCIOLI, 1530-1540 CIRCA

Maiolica decorata in policromia con blu, arancio, verde rame, giallo antimonio su smalto bianco crema.

Alt. cm 4, diam. cm 23,3, diam. piede cm 7.

 

Provenienza

Collezione Sir William Sterling Maxwell;

Collezione Adda;

Palais Galliera, 29 novembre 3 dicembre 1965, lotto 505;

Collezione Bellucci, Perugia;

Collezione privata, Perugia

 

Bibliografia

B. Rackham, Islamic Pottery and Italian Maiolica. Illustrated Catalogue of a Private Collection, Londra 1959, p. 106 n. 382, tav. 170B;

C. Fiocco, G. Gherardi, Ceramiche umbre dal Medioevo allo Storicismo. Parte prima: Orvieto e Deruta, Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Faenza 1988, pp. 128-129 fig. 79;

C. Fiocco, G. Gherardi (a cura di), La ceramica di Deruta, Perugia 1994, p. 273 n. 170

 

Il tondino presenta un cavetto profondo e larga tesa piana con orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello basso appena concavo.

Il decoro è realizzato a riserva sul fondo bianco: il pittore ha tracciato le campiture decorative riempiendole in blu, in manganese e in verde ramina. Il braccio che nella porzione superiore sorregge un ramo fiorito, i due grifoni alati che affiancano il cavetto, la testa di aquila nella parte inferiore e le ghirlande fogliate che riempiono armonicamente la tesa sono sapientemente ombreggiate in giallo antimonio. Qua e là, lungo la tesa, alcuni dettagli sono colorati da tocchi di verde ramina, ed in particolare nelle ali dei grifoni, che diventano i protagonisti della decorazione unitamente allo stemma centrale.

Al centro del cavetto il decoro prevede uno stemma, non identificato, tripartito (il canton destro in campo d’azzurro vede un braccio che regge un ramoscello fiorito con tre rose; al canton destro di punta su campo d’argento con otto fasce d’argento e di rosso; in campo sinistro d’oro una fascia verde con tre teste di lupo in oro) e sormontato da una decorazione fitomorfa circondata da nastri blu. Alcune ombreggiature in blu diluito danno profondità alla composizione. Al fianco dello stemma le lettere “G” e “A”.

Sul retro del piatto un sottile decoro alla porcellana con sottili girali fogliate delineate in blu e, al centro del piede una M corsiva parafatta.

Lo stemma riprodotto accomuna, con alcune lievi varianti, un buon numero di piatti, tanto da permettere gli studiosi di parlare di “Servizio G.A.” (1). Il piatto in oggetto, ben noto agli studi, appartiene a questo gruppo di stoviglie decorate a grottesche su fondo blu, che recano appunto al centro il medesimo emblema e, sul retro, alcune girali ricurve “ alla porcellana” che circondano una lettera “M” corsiva paraffata, spesso associata ad altri decori e attribuita alla produzione derutese.

I piatti di questa serie a noi noti sono i seguenti: un piatto ora al Museo di Cluny (2), messo in relazione da Fiocco Gherardi con il coperchio del Kunstgewerbemuseum di Berlino (3), un piatto al Museo del Louvre (4), uno al museo Gulbekian di Lisbona ed uno infine segnalato al museo di Lindenau in Turingia (5).

Il piatto apparteneva alla prestigiosa collezione Adda ed era stato attribuito da Rackham alla bottega Mancini. Lo studioso (6) nella sua scheda avvicinava stilisticamente questa opera a quelle derutesi che recano sul retro la M paraffata, ed in particolare ad un piatto del Victoria and Albert Museum (7) e ad uno del Fitzwilliam Museum di Cambridge (8), ricordando come i piatti recanti questo tipo di sigla sul retro fossero da attribuire alle manifatture derutesi (9). Tale aggiudicazione alla città umbra di Deruta è ormai generalmente accettata.

L’opera è stata ampiamente studiata e pubblicata, come si evince in bibliografia, in particolare da Carola Fiocco e Gabriella Gherardi, che la inseriscono con buona probabilità nell’attività produttiva della bottega di Giacomo Mancini attraverso una serie di interessanti confronti stilistici. Il paragone con i piatti dello stesso servizio, sia pure con le minime differenziazioni su alcune scelte decorative (le fisionomie dei mostri affrontati della grottesca sulla tesa o la presenza nel solo piatto in analisi, in alto, di una mano che regge tre fiori), prende spunto soprattutto dal decoro del retro utilizzato non solo nella coppa del Louvre, databile dopo il 1533, e dalla lettera “M” paraffata, spesso presente nelle ceramiche derutesi anche nel cosiddetto gruppo “Petal-back”, e quindi prima o contemporaneamente alla bottega del Frate (10). Le studiose ritengono comunque che si tratti di una marca le cui differenze andrebbero appianate in virtù della lunga durata dell’attività, documentata nell'arco di due secoli, che si avvalse nel tempo di artefici diversi.

Altri manufatti di confronto con decoro simile sono un coperchio del Kunstgewerbemuseum di Berlino (11) con a grottesche con cani mostruosi simili a quelli raffigurati sul già citato piatto di Cluny, ma anche il piatto con candelabra centrale e testa di putto che reca data “1544” e una “M” non paraffata del Victoria and Albert (12), già attribuito dal Rackham al Frate, assieme a un altro da pompa nello stesso museo (13), con profilo di guerriero barbuto entro tesa a scomparti suffragano la proposta attributiva.

Una più recente rilettura del piatto del servizio G.A. del Museo del Louvre, esposto in una mostra tematica sulla maiolica di Deruta al tempo del Perugino, a cura di Franco Cocchi e Giulio Busti, propone una paternità di queste opere a Nicola Francioli (14), ipotizzando un coinvolgimento del “Frate” nella bottega dello zio.

L'intero gruppo inoltre per uso del colore, forme e particolari decorativi, pare per i due studiosi coerentemente legato alla produzione generalmente attribuita al Maestro del Pavimento di S. Francesco a Deruta.

 

 

1 FIOCCO-GHERARDI 1984, pp. 403-416;

2 GIACOMOTTI 1974, n. 459 inv. 2093. Attribuito da Chompret a Deruta in contraddizione con quello del Louvre di cui alla nota successiva. Questo piatto mostra un decoro alla porcellana sul retro dipinto in modo più pesante rispetto all’esemplare in analisi.

3 HAUSMANN 1972, n. 151 inv. II.40; e CHOMPRET 1949, fig. 97, ancora attribuito a Castel Durante;

4 GIACOMOTTI 1974, n. 458 inv. OA6089;

5 Gli ultimi due piatti segnalati (Lisbona e Turingia) non sono stati da noi verificati;

6 RACKHAM 1959, fig. 170 e GUAITI 1980, p. 73;

7 RACKHAM 1940, n. 783, inv. 4378-1857;

8 POOLE 1995, pp.185 n. 260 inv C:105-197. Nella scheda del museo si osserva che la m è la sigla più comune negli oggetti con monogrammi e la lettera in questo piatto è appena differente rispetto a quelle note su piatti derutesi. L’opera è pertanto attribuita più generalmente all’Umbria;

9 RACKHAM 1915, p. 32;

10 FIOCCO–GHERARDI 1984, p. 411;

11 HAUSMANN 1972, pp. 201-202 n. 151;

12 RACKHAM 1940, n. 783, inv. 4378-1857;

13 RACKHAM 1940, n. 782, inv. 2594-1856;

14 BUSTI–COCCHI 2004, pp. 138-139.

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

PIATTO DA POMPA

DERUTA, 1520 CIRCA

Maiolica decorata in blu di cobalto e lustro dorato.

Alt. cm 7, diam. cm 41, diam. piede cm 13,5.

 

Bibliografia

M. Bellini, G. Conti, Maioliche italiane del Rinascimento, Milano 1964, p. 125;

G. Batini, L’amico della ceramica. Guida per i collezionisti di terracotta, maiolica e porcellana, Firenze 1974, p. 141

 

L’esemplare ha un cavetto profondo e largo, tesa ampia e appena obliqua che termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello anch’esso piuttosto alto, che presenta i consueti fori di sospensione predisposti prima della cottura.

La morfologia è tipica delle produzioni derutesi, destinata ad accogliere i celeberrimi ritratti di belle donne, stemmi nobiliari o soggetti comunque importanti.

Il decoro è stato tracciato con una certa sicurezza, ma anche con ampie licenze da parte del pittore come dimostra la mancanza di proporzione e simmetria tra le parti, causa della fuoriuscita di una delle cornucopie dall’incavo del cavetto. L’ornato è delineato con tecnica mista ottenuta in due cotture: la prima a gran fuoco con blu a due toni, la seconda in riduzione per l’ottenimento del lustro. Il retro presenta invetriatura appesantita di bistro di colore giallo ocra molto spesso con alcune colature a ricoprire l’intera superficie.

Al centro del cavetto è raffigurata, di profilo, una Sfinge con il capo decorato da un ventaglio di piume sottili trattenute da una perla, dal volto e busto di donna e dal corpo ferino dotato di ali con lungo piumaggio. La figura sostiene con la zampa destra un emblema araldico in scudo a mandorla. La raffigurazione è compresa tra due lunghe cornucopie unite alla base, traboccanti di fiori multipetalo e a forma di pannocchia. La tesa è adornata con un motivo fitoforme con foglie arricciate unite da ghirlande di fruttini arrotondati e boccioli coerenti con quelli riprodotti nelle cornucopie. Alla sommità della tesa, sopra la Sfinge, il decoro è centrato da un ornato vegetale che prevede foglie arricciate e dentellate trattenute alla base.

Si ipotizza che lo stemma raffigurato con “scudo losangato d'oro e d'azzurro” possa essere pertinente all'antica famiglia Elisei di Firenze, frequentemente associata alla famiglia degli Alighieri (1).

Com’è consuetudine in questa tipologia ceramica, il soggetto ritorna in modo sostanzialmente simile in altri piatti con analoga impostazione decorativa. Com’è consuetudine in questa tipologia ceramica, il soggetto ritorna in modo sostanzialmente simile in altri piatti con analoga impostazione decorativa. Come confronti si vedano l’esemplare con “Sfinge che sorregge uno scudo” del Musée national de la Renaissance - Château d'Ecouen (2), che mostra la stessa decorazione con stemma a mandorla, ma la Sfinge poggia su un pavimento piastrellato e la tesa è decorata dalla più comune decorazione a metope con embricazioni, elementi fitomorfi e catene di fruttini. Un altro piatto con la stessa impostazione decorativa, già in collezione Dutuit (3), mostra tra le branche della Sfinge lo stemma della famiglia Orsini di Roma, sullo sfondo tre cipressi e la tesa decorata ad embricazioni. Infine il piatto datato al primo trentennio del secolo XVI dal Musèe del Petit Palais condivide con il nostro una certa rapidità nell’esecuzione, ma non la medesima grazia nel volto della fiera e nella raffinata ricerca dell’ornato di contorno(4).

La Sfinge è peraltro presente in altri piatti, tra cui uno al Victoria and Albert Museum (5), uno al Musée Jacquemart-André (6), uno ad Amburgo (7) ed uno formalmente nella collezione Pringsheim (8).

Un piatto con la sola Sfinge è transitato sul mercato antiquario negli anni settanta del secolo scorso (9), mentre nel De Mauri (10) riceviamo la segnalazione di frammenti che recano la figura della Sfinge.

Molti sono peraltro gli esempi di piatti armoriali con emblema associato a figure fantastiche, e un esempio che ci presenta una scelta decorativa vicina a quella del nostro piatto ci deriva da un’opera del Metropolitan Museum di New York (11) databile tra il 1504 e il 1506 grazie alla presenza dello stemma del vescovo Troilo Baglioni.

Nonostante le affinità ci pare comunque valido attenerci a quanto indicato a suo tempo da Conti, che aveva assegnato cronologicamente l’opera al primo ventennio del XVI secolo.

 

1 Nelle pubblicazioni ottocentesche l’emblema è raffigurato come parte dell'armoriale della famiglia di Dante Alighieri (PADIGLIONE 1865). Sembra che Dante ci tenesse molto a essere consorte degli Elisei, per quanto sia improbabile che conoscesse di persona qualcuno dei maschi della famiglia. La linea di parentela doveva passare attraverso il trisavolo Cacciaguida, idealizzato dal poeta (Parad. XV, vv. 130-148; XVI, vv. 34-45) come tipo del fiorentino antico, nato nel cerchio delle mura romane, da nobile prosapia perdentesi nella gloria dell'età classica, rinnovatore della nobiltà familiare per mezzo di quella sua personale (per approfondimenti SCARTAZZINI 1896, pp. 280-281);

2 Inv. E.CI. 16864;

3 Inv. Dutuit, n. 1116;

4 Giacomotti 1974, n. 576; BARBE in BARBE-RAVANELLI GUIDOTTI 2006, p. 160 n. 81;

5 Rackham 1940, n. 487 inv. 2173-1910;

6 Musèe Jacquemart-André, n. 519;

7 RASMUSSEN 1989, 106;

8 FALKE 1923, n. 137;

9 Sotheby’s, Firenze, 11 ottobre 1972;

10 DE MAURI 1924, p. 56;

11 Inv. 1975.1.1005, in BUSTI-COCCHI 2004, p. 91 n. 10.

 

 

Stima   € 28.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
23

VASO BIANSATO

DERUTA, 1540

Maiolica decorata in monocromia blu di cobalto con applicazione di lustro oro, su smalto stannifero che si estende anche sotto il piede.

Alt. cm 23,7, diam. bocca cm 13, diam. piede cm 11, largh. massima cm 22.

 

Esposizioni

Mostra Mercato Antiquari Milanesi, Milano 1989

 

Provenienza

Collezione Sangiorgi;

Collezione Guy G. Hannaford;

Sotheby’s, Firenze, 17 ottobre 1969, lotto 27;

Florence Taccani, Milano;

Collezione privata, Milano

 

Il vaso ha corpo ovoidale appiattito su alto piede a base svasata, che si apre in una bocca larga a bordo sagomato. Appena sotto l’orlo due anse a cordolo scendono arcuate per ricongiungersi al corpo nel punto di massima espansione. La forma è assai comune nella ceramica derutese del Cinquecento, talvolta dotata di coperchio a cono con presa a bottone. I vasi di questa tipologia erano costituiti da parti assemblate a freddo con argilla morbida a saldare il piede al corpo.

Appena sotto il bordo una sottile fascia mostra il caratteristico decoro a infiorescenze ovali, cui fa seguito caratteristico decoro a embricazioni che interessa tutto la superficie superiore del corpo e parte del collo. La parte mediana del corpo è decorata a fiori di girasole e quindi con un motivo a larghe baccellature, mentre una serie di fasce ornano il piede. L’ornato è realizzato in blu di cobalto su smalto stannifero con decori a lustro giallo dorato nelle parte lasciate riservate.

Gli studiosi ritengono che questi vasi potessero probabilmente essere abbinati a bacili da acquereccia (1): erano vasi specifici della produzione della città di Deruta (2), opera probabile di più botteghe, come testimonierebbero numerosi dati di archivio già dal 1496 (3). La probabile associazione ai bacili ricollocherebbe questa tipologia ceramica ai piatti da parata e alle credenze più importanti.

Numerosi esemplari sono conservati nelle collezioni pubbliche di grandi musei e in collezioni private, caratterizzati da decorazioni geometriche o fitomorfe, talvolta con la presenza di medaglioni con ritratti amatori, che ne attesterebbero l’uso di gamelio. Si vedano come confronto gli esemplari pubblicati dalla Giacomotti nel regesto dei musei francesi (4), ed in particolare il vaso del museo del Louvre con motivo floreale sul corpo, databile al primo terzo del XVI secolo, e gli esemplari a lui vicini. Più prossimo al nostro esemplare il vaso biansato pubblicato da Giovanni Conti della collezione Bellini di Firenze, caratterizzato da un analogo decoro con piccole varianti con decori in blu e lustro oro (5). Si vedano anche il vaso della raccolta di ceramiche del Museo d’Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano (6), databile anch’esso in pieno Cinquecento e molto vicino al nostro esemplare per modalità decorative, e quello della Pinacoteca di Varallo Sesia della collezione Franchi (7). Un ultimo confronto, che mostra la medesima scelta decorativa, ci viene fornito dalla collezione del museo di Berlino (8): esso mostra analoga decorazione a embricazioni o squame sul corpo, ma propone un motivo floreale al posto delle “bacellature oblique” nella parte inferiore del corpo.

 

 

1 FIOCCO GHERARDI 2001, p. 46 n. 68; BARBE 2006, p. 180;

2 Un esemplare è raffigurato in miniatura in cima al catasto del Comune di Deruta nel 1491 (Deruta Catasto ASP, ASCP, Catasti II gruppo, 43, C.5R), vedi BUSTI COCCHI 2004, p. 92;

3 BIGANTIMOTTI 1987, pp. 209-225;

4 GIACOMOTTI 1974, pp. 194-195 n. 630;

5 BELLINI-CONTI 1964, p. 126;

6 BUSTI COCCHI in AUSENDA 2000, pp. 86-88 n. 75;

7 ANVERSA 2004, p. 198 n. 91;

8 HAUSSMANN 1972, pp. 203-204.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
24

TAGLIERE

GUBBIO, 1520-1530

Maiolica decorata in policromia con blu, verde, giallo, arancio, bianco, lustro dorato e rubino.

Alt. cm 2, diam. cm 24,8, diam. piede cm 8,8.

Sul retro tracce di timbro a ceralacca ed etichetta circolare “MOSTRA DELLA MAIOLICA ITALIANA / 1400-1600 / LA MIA CASA 1972”.

 

Esposizioni

Mostra della maiolica italiana dal 1400 al 1600, Milano, Palazzo dell’Arte, 28 ottobre - 12 novembre 1972

 

Provenienza

Collezione Mame;

Collezione Florence Taccani, Milano;

Collezione privata, Milano

 

Bibliografia

J. Chompret, Répertoire de la majolique italienne, Parigi (rist. Milano 1986), p. 91 fig. 716

 

Il piatto ha cavetto poco profondo,una tesa larga e poggia su un basso piede ad anello. Al centro del cavetto la figura di un amorino ignudo con gli occhi bendati legato ad un albero, tracciata dal pittore in manganese e collocata sulla linea di orizzonte delineata in bistro diluito, come pure l’albero su cui è legato l’amorino; tocchi di lustro rubino sottolineano le piccole ali e gli elementi del paesaggio. La tesa è decorata con un elegante motivo a palmette classiche contrapposte, tracciate a graffito a stecca sullo smalto fresco, e poi riempite di lustro metallico dorato con tocchi di lustro rubino; le restanti campiture sono colorate con blu di cobalto (1). Il retro presenta cerchi concentrici tracciati a lustro color rubino.

Questa tipologia è tipica della produzione eugubina nella bottega di maestro Giorgio a partire dal 1520, quando i motivi più propriamente gotici lasciano spazio a quello a "palmetta classica", frequentissimo proprio sulle tese di piattelli con al centro putti che giocano, o stemmi miniati. Il motivo classico della palmetta deriva dal decoro di fregi architettonici presenti un po’ ovunque in Italia, derivanti dalle ceramiche greche rinvenute in tombe etrusche. A Gubbio in particolare questo ornato si ritrova sulle architravi dei portali della basilica del beato Ubaldo, ricostruita proprio in quegli anni, e nel Palazzo Ducale. Tale produzione a palmette cessa verso la metà degli anni trenta, sostituita dalle notissime coppe a rilievo su basso piede che costituiscono, nella fase tarda della bottega, la tipologia di gran lunga prevalente (2).

L’associazione ai putti giocosi è stata interpretata da alcuni come riferimento al motivo alchemico del ludus puerorum (3), mentre il putto legato e bendato viene letto come simbolo dell’amore cieco o come simbolo della lotta tra Eros e Anteros (4).

Un piattello con putto alato e tesa a palmette contrapposte, simile a quello in esame, è custodito nelle raccolte dei Musei Civici di Pesaro e reca la data 1536 (5), mentre un piattello datato 1528 si trovava un tempo nella collezione Beit (6). Numerosi sono poi gli esemplari di confronto nei musei francesi (7). Più vicino agli esemplari in cui lo sfondo della scena di cui il putto è protagonista è interamente realizzato a lustro piuttosto che colorato in blu e a esemplari privi di tocchi di verde, il piattello in oggetto di studio ha confronti anche nelle collezioni dei musei inglesi e americani (8). Infine anche un piattello della bottega di Mastro Giorgio Andreoli datato 1528, conservato al British Museum (9), mostra un putto su sfondo lustrato giallo, con identica modalità nella realizzazione della tesa e del retro, fornendoci così un utile riferimento cronologico.

 

1 Sulla tecnica utilizzata si veda quanto descritto riguardo alla decorazione “par enlevage” da Ettore Sannipoli nella scheda di un esemplare confrontabile al nostro (SANNIPOLI 2010, p. 144 n. 2.18);

2 FIOCCO-GHERARDI 1998, pp. 183-193;

3 La metafora alchemica del ludus puerorum, a significare come il complesso opus sia “un gioco da bambini” per chi possiede la chiave della Conoscenza. Ci pare a tal proposito interessante notare come i fanciulli vengano raffigurati su coppe a lustro metallico, oppure, nel periodo compendiario, su forme comunque ispirate a vasellame metallico;

4 Interessante in merito l’annotazione al piatto con cupido bendato del Museo di Lione, in cui si fa riferimento alla lettura neoplatonica della figura di Eros bendato come lotta appunto tra amore sacro e amor profano: il Dio bendato richiamerebbe la castità, con riferimento all’opera petrarchesca Il trionfo della pudicizia (FIOCCO-GHERARDI-FAKHRI 2015, p. 190 n. 60);

5 FIOCCO-GHERARDI-TERENZI 2004, p. 405 scheda XII.29;

6 BALLARDINI 1933, n. 226 fig. 211;

7 GIACOMOTTI 1974, pp. 210-212 nn. 676-686;

8 Victoria and Albert Museum, Londra, inv. C2193-1910; Metropolitan Museum of Art, New York, inv 1975.1.1107;

9 TORNTHON-WILSON 2009, pp. 515-516 n. 315. Il putto di questo piatto è dipinto con modalità stilistiche meno scolastiche e attribuito al pittore di Fetonte.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
25

CIOTOLA

GUBBIO, 1535-1540

Maiolica decorata in blu di cobalto, lustro rosso e lustro dorato.

Alt. cm 3,5, diam. cm 17, diam. piede cm 8,5.

Sul retro cartellino cartaceo con scritta stampata in oro e blu: “FLORENCE TACCANI ANTICHITÀ / Milano Via Santo Spirito 24 / tel 781288”.

 

Provenienza

Collezione Florence Taccani, Milano;

Collezione privata, Milano

 

Esposizioni

XXIII Mostra Mercato Antiquari Milanesi, 1986

 

La ciotola ha forma emisferica priva di piede d’appoggio, forma leggermente umbonata al centro e concava al retro.

Sul fronte il cavetto mostra il ritratto di una fanciulla di profilo rivolta a sinistra, delineato in blu di cobalto a punta di pennello con ombreggiature realizzate con pennellate maggiormente diluite. La giovane porta i capelli sciolti sulle spalle e appena trattenuti da un nodo sulla nuca per lasciare scoperta la fronte. Una sottile camiciola pieghettata copre il petto mentre un corpetto accollato, realizzato in lustro oro, le cinge il busto lasciando scoperte le ampie maniche dell’abito, colorate con lustro rubino. Di fronte alla fanciulla un sottile tralcio fogliato delineato in lustro dorato riempie la campitura. Sulla tesa alcune riserve alternate mostrano decori a larghe foglie accartocciate, un motivo a dente di lupo alternato a fruttini e metope rettangolari: tutti elementi realizzati in lustro oro e rubino e delineati in blu di cobalto. Sul retro cerchi concentrici in rosso rubino.

L’impianto decorativo è quello classico delle “belle” donne, che ha molti confronti e innumerevoli esempi in tutta la produzione ceramica del Cinquecento. Tuttavia per forma, dimensioni e realizzazione decorativa l’esemplare in analisi si distingue per l’accuratezza nella stesura dei dettagli e per la perizia nell’applicazione del lustro, che s’insinua nelle campiture ad esso riservate, distinte non solo dalle linee blu, ma anche dalla sottile incisione dello smalto.

Per forma e per modalità decorativa i confronti più significativi si ritrovano nell’ambito della produzione ceramica eugubina, di cui la Giacomotti ha proposto un interessante repertorio: notevole è la somiglianza nel modo di proporre il ritratto di profilo in due coppe con santa Maddalena del Musée national de céramique de Sèvres e del musée national du Moyen Âge di Cluny (1), ma anche l’elemento della foglia accartocciata, qui proposto con rilievo appena accennato, che trova riscontro in numerosi esemplari con varianti, sempre però associata alla forma a basso piede privo di cercine (2).

 

1 GIACOMOTTI 1974, pp. 224-225 nn. 735, 739;

2 GIACOMOTTI 1974, pp. 223-226.

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
26

COPPA

FAENZA, PROBABILMENTE NELLA BOTTEGA DI CASA PIROTA, 1515-1520

Maiolica dipinta in policromia con verde, giallo, giallo-arancio, blu di cobalto, bruno di manganese.

Alt. cm 3, diam. cm 25,6

 

Provenienza

Sotheby’s, Londra, 21 novembre 1978, lotto 45;

Collezione privata, Faenza

 

Bibliografia

T. Wilson (a cura di), Italian Renaissance Pottery, Papers written in association with a colloquium at the British Museum, Londra 1991, p. 159, p. 165 fig. 8

 

La coppa è liscia con orlo leggermente rialzato e arrotondato e poggiava su un alto piede a parete svasata, oggi perduto.

Al centro del cavetto una scena istoriata occupa tutto lo spazio, presentando un gruppo di personaggi su una zolla di terra con sponde ondulate. A destra, assiso in trono, un giovane in abiti eleganti con un cappello piumato e lunghi capelli, indosso una lorica che copre una camiciola dalle maniche a tre quarti trattenute da un laccio sull’omero, le spalle coperte da un manto azzurro, e ai piedi calzari con schiniere. Al suo fianco un personaggio dalle vesti simili, privo però di mantello e con un copricapo rinascimentale in testa, mentre regge un’alzata di metallo. Accanto a lui un vecchio con una tunica corta e con la barba bianca sembra ascoltare un giovane dai capelli biondi vestito di una corta tunica ornata da un manto trattenuto sulla schiena da un nodo. Davanti al gruppo un giovane nudo con le mani legate dietro alla schiena. La scena è inserita in un paesaggio lacustre di fantasia con isole dalla foggia ondulata, abitate da villaggi con case dal tetto aguzzo, chiese con campanili, torri merlate e siepi tondeggianti. Sulla destra un pozzo e palazzi con torri, mentre sullo sfondo alcune montagne dal profilo allungato e cima appiattita, davanti alle quali sosta un veliero dalla carena arcuata. Colpisce il cielo, dipinto al tramonto, con nuvolette a chiocciola sopra un nimbo allungato reso roseo dal riflesso del sole.

L’iconografia di quest’opera e di quelle a lei affini è mutuata da un affresco di Gerolamo Genga, dipinto nel Palazzo Petrucci di Siena intorno al 1507 (1).

Timothy Wilson ha lungamente studiato quest’opera e i tre esemplari di confronto fino ad ora noti, e proprio da uno di essi, quello più vicino per morfologia e scelta decorativa, ma non per stile pittorico, partiamo nella nostra analisi. Si tratta della coppa con Il figlio di Fabio Massimo di fronte a Annibale, conservata al British Museum (2), sul cui soggetto si è per lungo tempo discusso, leggendolo come Giulio Cesare e Ariovisto che negoziano per i prigionieri Edui, episodio tratto dal De bello Gallico di Giulio Cesare (3). E anche se un piatto di confronto conservato al Louvre reca al verso la didascalia La storia di cesare Imperatore romano, Wilson sostiene che l’identificazione con Cesare del soggetto di questo piatto sia sempre stata difficile (4).

La storia degli studi dell’opera del British passa quindi dal riconoscimento del soggetto raffigurato con più interpretazioni. Tatrai nel 1978 propose di interpretare il soggetto come Fabio Massimo che riscatta i prigionieri romani, da Tito Livio (XXII, 23.6), Valerio Massimo (IV,VIII,I) e Plutarco (Fabio Massimo, 7), dove si racconta che Fabio Massimo e Annibale trattarono per i prigionieri uno a uno, ma a causa dell’enorme spesa il Senato romano si rifiutò di procedere ulteriormente e Fabio Massimo inviò il proprio figlio con istruzioni scritte ben precise per la trattativa. L’interpretazione dell’affresco da parte di Agosti è dunque come la trattativa fatta dal figlio di Fabio Massimo (5); il tema dell’affresco riguardava infatti il committente, che lo fece realizzare al ritorno dal proprio esilio in Francia grazie al supporto del re Luigi XII. Lo stesso affresco fu copiato su pergamena in un album per lungo tempo attribuito a Jacopo da Bologna, che ne firma il soggetto a mostri marini disegnato sul retro nel 1516. Ma anche gli studi interpretativi sul disegno e sullo stile del medesimo sono complessi, e un'ipotesi è che l’album fosse in realtà destinato a un orefice bolognese (6).

La somiglianza tra il soggetto raffigurato, l’affresco e il piatto del British hanno comunque fatto pensare a un modello comune e all’esistenza di istoriati con soggetti da Palazzo Petrucci. Probabile poi un buon successo dei dipinti, anche se l’unico piatto che si riferisce fedelmente all’album è quello inglese. Il disegno o una sua copia giunsero comunque nella bottega di un vasaio faentino attorno al 1520, come testimoniato dalla scelta del soggetto in diversi piatti che traggono spunto dalla medesima fonte, pur non essendo opera di una stessa mano: il piatto del Louvre datato 1524, uno formalmente nella collezione Damiron con scritto al retro GONELA e il piatto qui presentato.

Un frammento di un piatto del Museo dell’Ermitage, coerente con i piatti e recante la sigla CI, ha poi dato nome al gruppo faentino e non è mai stato discusso (7). L’attribuzione alle botteghe faentine deriva dalla stretta somiglianza con piatti molto vicini a quello di Londra, noti come opere della Casa Pirota: su tutti il piatto con l’Incoronazione di Carlo V (8) del museo di Bologna e quello con la scena di Giuseppe e Beniamino del Museo di Sèvres, entrambi opera probabilmente dello stesso pittore (9).

Il confronto tra la coppa in oggetto di studio e quella del British Museum, che mostra un gruppo di persone più nutrito, la presenza di cavalli e un maggior numero di prigionieri, e un paesaggio più realistico e decisamente meno favolistico, rende evidente l’opera di due pittori differenti. Tuttavia l’impostazione è tratta sicuramente, come abbiamo visto, dal medesimo soggetto, i personaggi principali compaiono in entrambi i piatti e il retro esibisce lo stesso decoro tipico faentino, seppure con scelte cromatiche diverse. Tutto questo ci porta a ipotizzare che il piatto in oggetto sia un prototipo o addirittura un sunto di quello inglese, ma conferma comunque che i due pittori (quattro se consideriamo i confronti sopraindicati) abbiano lavorato insieme, avvalorando quanto già ipotizzato da John Mallet.

 

 

1 Noto soprattutto per le opere di architettura eseguite in età matura per i Duchi di Urbino, scenografo e scultore, artista rinascimentale completo. Si pensa abbia realizzato l’affresco forse in occasione del matrimonio tra Alfonso Petrucci e Vittoria Piccolomini, probabilmente al seguito di Signorelli: egli sarebbe l’autore delle scene della Fuga di Enea da Troia e Il figlio di Quinto Fabio Massimo che riscatta da Annibale i prigionieri romani;

2 TORNTHON-WILSON 2009, pp. 121-123 n. 76. A tale scheda facciamo riferimento per studio e approfondimenti bibliografici;

3 Cesare, De bello Gallico, I;

4 L’iscrizione sul recto recita: 1524 Die 8 iu[?]nius questa sie instoria d.Zesaro inperatore romano (BALLARDINI 1933-1938, I, nn. 125, 154, 287R; GIACOMOTTI 1974, n. 337WILSON 1991, p. 159 fig. 8; MALLET 1996, pp. 49-50 figg. 7-8);

5 AGOSTI 1982, p. 77; SIENA 1990, p. 592;

6 FAIETTI-OBERHUBER 1988, pp. 237-245;

7 RACKHAM 1940, pp. 81-87;

8 RAVANELLI GUIDOTTI 1985, p. 343 n. 42 fig. 9, che attribuisce a questo gruppo anche un frammento a fondo berettino;

9 MALLET 1996, p. 50.

 

Stima   € 120.000 / 180.000
Aggiudicazione  Registrazione
27

ORCIOLO

FAENZA, "1549"

Maiolica dipinta in policromia con giallo, verde e blu.

Alt. cm 22, diam. bocca cm 9,5, diam. piede cm 10,4.

Sul corpo entro due cartigli compaiono la scritta "Faenza" e la data "1546", oltre alla scritta apotecaria "Aceto di : duplicis :".

 

Bibliografia

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1998, p. 395 figg. 12-14

 

La brocca ha corpo ovoidale, alto collo cilindrico dal quale scende una larga ansa a nastro, sul fronte mostra un versatore a tubetto alto e poggia su un alto piede con base piana. Sotto il piede sono incisi segni apotecari.

Il corpo è interamente interessato da una decorazione a "trofei" (1) delineati in bruno di manganese a risparmio su fondo blu e ombreggiati in bistro chiaro. Il beccuccio è posto in risalto grazie a un decoro giallo e giallo-arancio che lo abbraccia e simula una applicazione metallica. L’orlo e il bordo del piede sono anch’essi decorati in giallo e giallo-arancio con righe concentriche, così come l’ansa, anch’essa campita in giallo. Sul fronte un largo cartiglio con finali in giallo e verde ramina reca la scritta apotecaria in caratteri gotici "Aceto di : duplicis :".

Un orciolo analogo della collezione J.C., anch’esso datato 1549, era descritto dallo Chompret (2) come ricoperto da decori caratteristici delle botteghe di Castel Durante, seguendo la tradizione che vedeva in tale decoro una tipicità di questa città. Di diverso avviso invece Carmen Ravanelli Guidotti, che già nel 1985 aveva spostato questa attribuzione, sia pure ancora in forma di ipotesi verso la città di Faenza, pubblicando un orciolo appartenente a un corredo farmaceutico molto vicino, che si differenzia unicamente per l’ombreggiatura dei trofei resa in blu, ora conservato al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza nella collezione Cora (3). La stessa studiosa tornò sull’orciolo Cora nel Tesaurus della ceramica faentina analizzando le forme chiuse da farmacia in relazione con il decoro "a trofei", e nell’occasione pubblicò come confronto il nostro orciolo come proveniente dal medesimo corredo farmaceutico, sottolineandone l’importanza soprattutto per la presenza del decoro a foglia frastagliata alla base del versatore, determinante per l’analisi delle coeve coppe a diamante (4).

L’opera è dunque una riscoperta e una riconferma, sancendo l’arco cronologico nel quale il corredo di spezieria è stato ordinato alle botteghe faentine.

 

 

1 RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 392;

2 CHOMPRET 1949, p. 23 fig. 168;

3 RAVANELLI GUIDOTTI 1985, p. 57 n. 109;

4 RAVANELLI GUIDOTTI 1988, p. 223, tavv. XVIII a,b e XIX a,b.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
28

ALBARELLO

FAENZA, BOTTEGA ENEA UTILI, ULTIMO QUARTO SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno. Smaltato all'interno.

Alt. cm 28,5, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 10,5.

Sotto il piede delineato in bruno AEV sormontato da Ω.

 

La forma è quella tipica degli albarelli faentini con bocca larga, appena estroflessa, collo breve con marcata rastrematura che si ripropone anche nella parte inferiore. Il corpo ha forma leggermente troncoconica, con spalla e calice dal profilo angolato. Lo smalto è abbondante e lucente, mostra crettature diffuse e si estende all’interno del contenitore e sotto il piede.

Il progetto decorativo mostra al centro del corpo un medaglione ovale con una cornice a C rovesciate, che si uniscono a ricciolo nel punto di giunzione. All’interno è raffigurata una santa dipinta in policromia nella quale, per la presenza dell’aureola e dell’unguentario nella mano destra, si può riconoscere la figura della Maddalena. Il retro dell’albarello è poi completamente interessato da una ricca decorazione a girali fogliate colorate in giallo e giallo-arancio a riempimento delle riserve ricavate su fondo blu. La spalla e il piede sono decorati con un motivo a foglie arricciate, anch’esse a riserva, su fondo verde intenso. Tutti questi ornati sono tipici del decoro “a quartieri” di produzione faentina e delle sue successive figliazioni in Sicilia.

Sotto il piede la sigla AEV sormontata da Ω maiuscola, firma della bottega Utili, da leggere come Aenea Utili Faventinus (1).

Numerosi i confronti presenti nelle principali raccolte museali, come ad esempio una coppia di vasi apotecari del British Museum (2), la cui scheda ci rammenta come questa tipologia presenti spesso figure iscritte in medaglioni ovali e sia priva di iscrizione farmaceutica. Spesso questi albarelli, come nel nostro caso, recano la sigla di Enea Utili, databile tra il 1542 e il 1570, anche se non mancano gli esemplari firmati nella bottega Calamelli.

Confronti particolarmente pertinenti si riscontrano nei frammenti di sterri della città di Faenza, pubblicati da Carmen Ravanelli Guidotti nel Tesaurus (3), dove si trovano esemplari con firma della medesima bottega (4). La studiosa ricorda che questo genere decorativo trova impiego a Faenza in sede apotecaria in tutte le forme possibili: brocche, bottiglie e vasi globulari.

Questa stessa importante famiglia ceramica ebbe grande successo a Palermo, dove si trasferirono alcuni vasai faentini (5) dando inizio ad una ricca produzione verso il 1600.

 

1 RAVANELLI GUIDOTTI 1996, p. 234; pp 238-262 (con datazione di questa marca all’ultimo quarto del XVI secolo);

2 TORNTHON–WILSON 2009, p. 158 n. 102; per il decoro del retro si veda TORNTHON–WILSON 2009, p. 160 n. 103;

3 RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 394, fig. 11;

4 RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 386, fig. 97i per la sigla di bottega, fig. 97g per l’impostazione del decoro e per confronto morfologico;

5 RAGONA 1975, tav. 115; GOVERNALE 1995, p. 245.

 

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
29

COPPIA DI ORCIOLI DA FARMACIA

FAENZA(?), 1550 CIRCA

Maiolica dipinta in monocromia blu con alcune parti in bruno marrone e giallo ocra, su fondo smaltato azzurro detto berettino. Tocchi di bianco stagno.

Alt. cm 25, diam. bocca cm 7,8, diam. piede cm 9,9.

Sul fronte iscrizione apotecaria: a)D De Capari; b)D. De Mastici.

Sul fondo di entrambi i vasi etichetta circolare “MOSTRA DELLA MAIOLICA ITALIANA / 1400-1600 / LA MIA CASA 1972” (una poco leggibile).

 

Esposizioni

Mostra della maiolica italiana dal 1400 al 1600, Milano, Palazzo dell’Arte, 28 ottobre - 12 novembre 1972

 

I vasi apotecari hanno forma ovoidale su stretto piede piano molto espanso. Il collo è breve e termina in una larga bocca con orlo estroflesso, l’ansa è piana a nastro dallo spessore marcato e scende brevemente per ricongiungersi al corpo nel punto di massima espansione, il corto beccuccio è a cannello cilindrico.

La decorazione interessa l'intera superficie del vaso con motivo a larghe foglie tripartite dal contorno irregolare e boccioli stilizzati. Sotto l’ansa si estende un largo cartiglio arricciato ed accartocciato ai lati che reca la dicitura: "D De Capari" (1) nel primo esemplare e “D. De Mastici” (2) nel secondo, delineati in lettere gotiche. L’orlo e il piede sono ornati da una sottile fascetta che contiene una fila continua di fogliette lanceolate stilizzate.

La ripetitività della decorazione a fogliame in monocromia turchina, come ornamento per vasi apotecari, è da tempo motivo di riflessione da parte degli studiosi per la determinazione certa della provenienza di questa tipologia apotecaria. Il repertorio decorativo fitomorfo a foglia bipartita in monocromia cobalto su fondo azzurrato, usato in prevalenza per corredi apotecari, è stato per molto tempo attribuito a più centri di produzione italiana tra la fine del XVI e gli inizi del XVIII secolo.

I confronti con esemplari simili, ma dotati di manico desinente a ricciolo, sono numerosi, come ad esempio l'orciolo della collezione Bayer (3), di forma più panciuta, nel quale si legge un intento decorativo comunque simile. Il confronto invece con alcuni manufatti del Museo Artistico Industriale di Roma (4), e con le opere pubblicate da Mazzuccato (5), che hanno comportato l’assegnazione a botteghe romane di attribuzioni tradizionalmente considerate veneziane o faentine, non ci ha soddisfatto.

Riteniamo possibile invece anche un’eventuale attribuzione in ambito veneto, sostenuta dal confronto con i grandi piatti a fondo berettino con decoro fogliato, come ad esempio quello del Museo di Norimberga (6), nel quale il decoro mostra foglie bipartite in blu e azzurro e piccoli fruttini tondeggianti, che, seppur in uno stile più raffinato, ricordano molto l’ornato dei nostri vasi. Un piatto di minori dimensioni dello stesso museo, con solo decoro fogliato, sembra fornire inoltre un esempio stringente: lo stile più corrivo e soprattutto il bordo decorato con lo stesso motivo che compare sul collo e sul piede dei nostri vasi apotecari è spesso presente in opere venete, che hanno costituito un esempio per tutte le manifatture coeve. Infine però anche il confronto con opere faentine con decoro “a fogliami” del secolo XVI ci pare convincente (7), e forse più degli altri. La forma allungata dell’orciolo, il cannello rivolto verso l’alto decorato con foglia frastagliata alla base, ma soprattutto la forma del piede alta su base molto aggettante dal profilo arrotondato, molto vicino a quelle morfologie faentine, ci orientano verso questa attribuzione, sostenuta anche dal confronto con l’orciolo pubblicato in questo catalogo al lotto precedente (lotto 28). Il ductus pittorico del decoro, del cartiglio e del decoro minore, per quanto ispirato a esemplari veneti, trova valido riscontro in opere faentine, con le quali ci pare affine anche la qualità dello smalto berettino e del decoro “scuro”.

 

 

1 Il decotto di capperi (Capparis spinosa L. Capparidea), che in antichità si utilizzava come digestivo o diuretico e comunque come particolarmente “adatto alla durezza della milza”, era già noto agli Arabi, da cui il nome “kabar”. Tra i vari usi veniva usato anche per la tristezza o l’ipocondria;

2 Il Lentisco (Pistacia Lentiscus L. Anacardiacea) produce una resina che va sotto il nome di mastice (dal greco Mastikà). Il legno è astringente e fortificante e anche l’olio dei frutti è astringente. La resina è invece una delle gommo-resine più famose fin dalla più remota antichità: il Mastice dell’isola di Chio era infatti celebre nei mercati e nei traffici del mondo antico. Il mastice veniva masticato: astringente, anodino, fortificante e in grado di fermare il vomito;

3 BISCONTINI UGOLINI 1997, pag.126 n. 40;

4 BOJANI 2000, 99. 119-121 nn. 39-94;

5 MAZZUCCATO 1990, p. 84 n. 19;

6 GLASER 2000, pp. 231-233 n. 200;

7 RAVANELLI GUIDOTTI 1998, pp. 481-484.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
30

COPPA

CASTEL DURANTE O PESARO, 1540-1550

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno. Smalto spesso con molte inclusioni e punte di spillo.

Alt. cm 6, diam. cm 22, diam. piede cm 10,5.

Sul retro traccia di cartellino cartaceo quadrato recante il numero 020 impresso con un timbro; cartellino cartaceo ovale stampato “EUGÉNE VINOT / Curiosités / 7 Quai Malaqua.. / PARIS”; iscrizione a pennello in nero sovrasmalto solo parzialmente leggibile: “Plate du Duc de Parme ( …1888)”; iscrizione poco leggibile all’interno del piede “1539 Dona da… Bernardina…”.

 

La coppa presenta corpo concavo con tesa alta, terminante in un orlo arrotondato, e poggia su un piede basso con orlo rifinito a stecca.

Sul fronte un bel ritratto femminile di giovane donna dipinta frontalmente, il volto verso l’alto in atteggiamento di estasi con gli occhi al cielo, i capelli sciolti sulle spalle e le mani giunte in atteggiamento di preghiera, la bocca carnosa semichiusa. La folta capigliatura è trattenuta sulla nuca da un fermaglio verde da cui scende una veletta bianca che va a confondersi con i capelli di colore fulvo-ramato, lasciando scoperte soltanto le orecchie. Il busto, compresso all’interno della coppa, è rivestito di un abito morbido di colore arancio dal quale spiccano le maniche dipinte in verde.

La coppa appartiene alla tipologia delle “belle”, piatti utilizzati com’è noto per celebrare le future spose da parte del promesso, o come dono di fidanzamento. L’effigiata, probabilmente una fanciulla nubile a giudicare dall’acconciatura, risponde ai canoni della bellezza ideale rinascimentale: pelle chiara, capelli fulvi e atteggiamento che ne sottolinea la virtù.

Tra gli interessanti confronti in collezioni private e pubbliche, ricordiamo la coppa non integra del museo di Baltimora, decorata con l’immagine della Maddalena, realizzata con le medesime accortezze pittoriche: lo sguardo estatico, i capelli sciolti, e l’aggiunta di una mano che sorregge l’unguentario; tale coppa è attribuita a Castel Durante o a Venezia intorno alla metà del secolo XVI. Particolarmente vicina stilisticamente alla nostra anche la coppa del Museo Correr di Venezia attribuita alle manifatture di Castel Durante o Venezia e datata tra il 1530 e il 1540 (1), dove diversi elementi, quali la figura realizzata a risparmio sul fondo con un tratto sottile di bistro che la racchiude, il modo di rendere l’incarnato con tecnica di velature di bianco su bianco, bistro e tocchi di arancio, ma anche la resa degli occhi sottolineati in manganese poi utilizzato per descrivere la linea delle sopracciglia con un tratto ondulato e per sottolineare alcuni dettagli dei capelli, delle unghie delle dita, ci fanno riflettere sulla possibile provenienza da uno stesso ambito produttivo e addirittura da uno stesso artefice.

La coppa è stata citata da Carmen Ravanelli Guidotti nella scheda relativa a una opera analoga con ritratto di “bella” donna proveniente dalla collezione Dutuit, ora nella collezione del Petit Palais a Parigi (2). La studiosa sottolinea come il ritratto realizzato con l’uso di una mezza tinta diluita su sfondo blu, realizzato con ampie pennellate parallele per tutta la lunghezza alle spalle della figura, ben si inserisca in una serie ascrivibile ad una non meglio identificata bottega marchigiana che caratterizza i ritratti con uno sguardo ammiccante. Chi scrive ha potuto ritrovare una coppa simile anche nella collezione Franchi alla Pinacoteca di Varallo Sesia (3).

Riccardo Gresta (4) ha pubblicato una coppa con figura femminile molto simile a quella del Petit Palais, che a nostro avviso si può avvicinare all’opera in studio, anche se propone la figura su uno sfondo giallo e accompagnata da una scritta amatoria. Lo studioso ritiene superata l’attribuzione a Castel Durante per questa serie, e riespone invece una possibile produzione pesarese.

Alla serie di opere proposta dagli studiosi sopracitati si aggiunge quindi questa coppa, nella speranza di poter un domani meglio identificare il pittore o comunque la bottega artefice di questa raffinata serie.

 

 

1 MARIACHER 1958, fig. 21;

2 RAVANNELLI GUIDOTTI in BARBE-GUIDOTTI 2006, pp.122-123 n. 51.

3 ANVERSA 2004, n. 80;

4 GRESTA in SANNIPOLI 2010, p. 254 n. 3.6; ma anche GRESTA 1997, pp. 22-37 fig. 9.

 

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