IMPORTANT RENAISSANCE MAIOLICA

26 OCTOBER 2022

IMPORTANT RENAISSANCE MAIOLICA

Auction, 1176
FLORENCE
Palazzo Ramirez-Montalvo

h. 11 am
Lots: 1-57
Viewing

FLORENCE

Saturday 22 October 2022 10 am - 6 pm
Sunday 23 October 2022  10 am - 1 pm
Monday 24 October 2022 10 am - 6 pm
Tuesday 25 October 2022
10 am - 6 pm



 
 
 
Estimate   1500 € - 30000 €

All categories

1 - 30  of 57
1

A PLATE (TAGLIERE), SIENA, EARLY 16TH CENTURY

 

TAGLIERE, SIENA, INIZI SECOLO XVI

in maiolica dipinta in policromia giallo, giallo arancio, blu di cobalto, bruno di manganese, verde ramina e bianco di stagno; diam. cm 22,8, diam. piede cm 8,4, alt. cm 2

 

Bibliografia di confronto

M. Lucarelli, A. Migliori, L’evoluzione della maiolica senese dall’immaginario medievale al “capriccio” della grottesca, in M. Anselmi Zondadari, P. Torriti (a cura di), La ceramica a Siena dalle origini all’Ottocento, Siena 2012, pp. 53-89 figg. 51, 53-54, 72, 112

 

Il piatto presenta un cavetto poco profondo e larga tesa piana e orizzontale. Al centro dell’ornato nel cavetto, entro un medaglione delimitato da un motivo a punti rossi su campo blu e piccole riserve allungate centrate da una linea arancio listata di blu, campeggia un ritratto di filosofo o musicista (?) che indossa una toga gialla su una camiciola bianca, un manto verde e azzurro, e trattiene un libro o una partitura nelle mani. Lo sfondo giallo intersecato da un triangolo blu circonda e esalta la figura. La tesa presenta un ornato a grottesche su fondo arancio composte da delfini affrontati, girali sottili con piccole foglie che trattengono corone sormontate da libri aperti e centrate da tamburi e loriche, e motivi fitomorfi. L’orlo è decorato con un motivo continuo a nastro azzurro su fondo giallo. Il retro è interessato da un fitto ornato “a calza”.

Nei primi decenni del Cinquecento a Siena si assiste ad una stagione più originale e matura della maiolica senese, quando nella città si verifica l'arrivo di vasai faentini che ben si inseriscono nel già vitale tessuto produttivo. In un clima culturale già particolarmente attivo per l’avvento di pittori come il Sodoma, Signorelli e Pinturicchio, quest’ultimo particolarmente attento alla nuova contaminazione culturale delle grottesche, la produzione ceramica della città toscana vede la comparsa di nuove o rinnovate ispirazioni negli ornati. In questo periodo ci pare di poter inserire il piatto in esame, a nostro parere affine alla produzione senese più che a quella faentina, ma comunque da questa fortemente influenzato. Il retro del piatto con motivo “a calza” ci indurrebbe a una certa prudenza attributiva dell’opera, anche se sono testimoniati decori affini anche a Siena, seppure di rado, anche se i confronti più pertinenti si ritrovano comunque nei piatti o negli albarelli di area toscana.

I motivi dell’ornato, comuni alle due aree produttive qui assumono una facies differente: il ritmo decorativo è infatti semplificato nelle grottesche più veloci e spontanee, il personaggio, dall’atteggiamento severo, ricorda i volti dei personaggi del piatto dell’Ermitage con Muzio Scevola o il volto con la mandibola un poco squadrata del San Sebastiano del Museo di Sèvres; inoltre le grottesche, dalle maglie un poco allentate, i delfini imbronciati, che ritroviamo in opere maggiori, il bordo con ornato su una base di diverso colore di fondo, i tocchi di verde acido su alcuni dettagli, insieme alla qualità della materia con smalto avorio piuttosto tenero, ci confortano nell’attribuzione.

Estimate   € 8.000 / 12.000
2

A PAIR OF PHARMACY JARS (ALBARELLI), MONTELUPO, CIRCA 1500-1520

 

COPPIA DI ALBARELLI, MONTELUPO, 1500-1520 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia; alt. cm 25,3, diam. bocca cm 10, diam. piede cm 9,8 e 10,4

 

Bibliografia di confronto

F. Berti, Storia della ceramica di Montelupo. Vol. III, Montelupo 1997, p. 264 nn. 68-69;

C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliques italiennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon. Collection Gillet, Lione 2001, p. 30 nn. 32-34;

M. Marini, Passione e Collezione. Maioliche e ceramiche toscane dal XIV al XVIII secolo, Firenze 2014, pp. 118-119 n. 57

 

I due vasi presentano un’ampia imboccatura con orlo rifinito a stecca, collo breve e dritto, spalla incurvata dal profilo allungato a spigolo vivo che scende in un corpo cilindrico appena rastremato al centro, per terminare in un calice troncoconico con piede basso appena estroflesso e base piana. Il decoro è caratterizzato, nella zona mediana sul fronte e sul retro, da due festoni trattenuti da rosette e da un nastro, che racchiudono il trigramma IHS redatto in lettere gotiche con la lettera h sovrastata da una croce sormontata da un cerchio. A incorniciare la vasta porzione a risparmio nella quale sono inseriti i trigrammi, quattro riserve triangolari unite da una linea mossa blu contengono delle “palmetta persiane” tra spirali e puntini di gusto moresco. La spalla è decorata con un motivo a zig-zag centrato da fogliette stilizzate e incorniciato da linee blu e arancio.

Si ipotizza che questa coppia di albarelli appartenga ad un rilevante fornimento farmaceutico, forse di un ordine monastico, forse quello fondato da San Giovanni Colombini e poi divenuto l’ordine dei Gesuati, del quale si conservano altri esemplari particolarmente coerenti, seppur con minime varianti dimensionali, oggi distribuiti in importanti collezioni pubbliche e private. Al Museo di Faenza è conservato un boccale con lo stesso emblema, il quale reca sotto l’ansa la stessa P riconosciuta nei frammenti montelupini.

 

Estimate   € 3.000 / 5.000
Price realized  Registration
3

A SPOUTED PHARMACY JAR, MONTELUPO, FIRST HALF 16TH CENTURY

 

ORCIOLO, MONTELUPO, PRIMA METÀ SECOLO XVI

in maiolica dipinta in policromia; alt. cm 28,4, diam. bocca cm 12,8, diam. base cm 13

 

Bibliografia di confronto

C. Ravanelli Guidotti, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La Donazione Angiolo Fanfani. Ceramiche dal Medioevo al XX secolo, Faenza 1990, pp. 70-71 n. 35;

G.C. Bojani (a cura di), Gaetano Ballardini e la ceramica a Roma. Le maioliche del Museo Artistico Industriale, Firenze 2000, p. 63, pp. 108-109 n. 74;

F. Berti (a cura di), La farmacia storica fiorentina. I “fornimenti” in maiolica di Montelupo (secc. XV-XVIII), Firenze 2010, pp. 179-181 fig. 217

 

Il vaso ha corpo globulare con larga imboccatura dall’orlo liscio, collo basso e cilindrico, piede a base piana con un accenno di orlo. Dalla spalla, appena sotto il collo, si distaccano due ampie anse a nastro arricchite al centro da un bastoncello ritorto con attacco inferiore a pinzatura.

Entrambe le facce del vaso presentano una grande ghirlanda fogliata delineata su fondo a risparmio, centrata in alto e alla base da un fiore multipetalo e trattenuta ai lati da nastri, a racchiudere l’iscrizione apotecaria Z.BVGOLOSA, redatta in blu cobalto in lettere capitali. La superficie restante è interessata da un motivo a “fondale blu graffito”, con racemi vegetali ottenuti a graffito su fondo blu cobalto, che terminano in fiori realizzati a risparmio nei petali delineati in blu e poi riempiti di giallo, e centrati da un circolo rosso.

L’orciolo appartiene a una serie di vasellame classificato da Fausto Berti, in virtù del decoro, come “blu graffito tardo”, prodotta a Montelupo attorno nella prima metà del ‘500, che comprende albarelli di varie misure, vasi globulari biansati e brocche (utelli). L’omogeneità tecnico-decorativa alimenta l’ipotesi che gli stessi appartenessero a un unico corredo da spezieria, che Berti include tra i corredi “con simboli e stemmi di richiamo o destinazione incerta”, denominata del Vaso. Numerosi sono gli esemplari di confronto per questo tipo di decoro, di cui però l’unico finora noto con forma uguale al nostro è conservato nel Museo Artistico Industriale di Roma, anch’esso privo della figura del vaso, elemento che sembra distinguere l’immagine di questa spezieria, e accomunato tra l’altro dal medesimo cartiglio, che assume un ruolo di spicco in questo corredo: posto all’interno della bella ghirlanda fogliata occupa pressoché l’intera faccia del vaso, spiccando su un fondale dal quale emergono due corolle floreali, quasi fosse un elemento araldico.

Estimate   € 4.000 / 6.000
Price realized  Registration
4

AN EWER, DERUTA OR TUSCIA, EARLY 16TH CENTURY

 

VERSATOIO, DERUTA O TUSCIA, INIZIO SECOLO XVI

in maiolica decorata in blu di cobalto, giallo, giallo arancio, verde e rosso ferro; alt. cm 22,2, diam. bocca cm 10,8, diam. piede cm 10,7

 

Bibliografia di confronto

G.C. Bojani, C. Ravanelli Guidotti, A. Fanfani (a cura di), Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La donazione Galeazzo Cora. Ceramiche dal Medioevo al XIX secolo, Milano 1995, p. 289 n. 739

 

Il vaso da farmacia ha corpo di forma globulare, rastremato al collo, cilindrico e con bocca larga a orlo estroflesso e piano; il manico è a nastro, di spessore alto, mentre dalla pancia, sul fronte si alza un cannello cilindrico appena rastremato verso l’alto portato alto e dipinto in verde. L’interno è smaltato a bistro marrone cammello. L’ornato si concentra nella parte anteriore del contenitore con una ghirlanda fogliata di tipo robbiano con piccoli frutti, fermata da un nastro incrociato e centrata da piccoli dischi collocati in alto e in basso. Al suo interno il campo è riempito da pennellate arancio che circondano un motivo a riserva con cornucopie, rivolte in alto, e centrate da boccioli chiusi, mentre un’altra infiorescenza a foglie accartocciate si diparte dal cartiglio e riempie il campo sottostante. Al centro del decoro un cartiglio rettangolare, ombreggiato di azzurro, con una scritta farmaceutica delineate in caratteri cubitali in blu di cobalto DIA.MORO, ad indicare il preparato elettuario Diamoron di Galeno composto da more e miele. Nella parte posteriore, attorno al cartiglio, una sottile decorazione a nastri.

Il vaso è coerente con la produzione umbro-laziale dei primi anni del XVI secolo di cui sono noti esemplari con decori anche più complessi e raffinati. Tuttavia questo esemplare, che per dimensioni doveva appartenere a un servizio farmaceutico di facile uso, si distingue per stato di conservazione e schiettezza del decoro delineato con rapida sicurezza. Un orciolo simile, ma con decorazione alla porcellana nel medaglione, è conservato al MIC di Faenza (inv. 21055/c).

Estimate   € 1.500 / 2.500
Price realized  Registration
6

A PAIR OF DECORATIVE VASES, FLORENCE, CIRCA 1515/1520

 

Giovanni della Robbia

(Firenze 1469 - 1529/1530)

COPPIA DI VASI DECORATIVI, FIRENZE, 1515/1520 CIRCA

in terracotta invetriata color azzurro ceruleo. All’interno del collo di entrambi i vasi numero di collezione D475 in rosso; alt. cm 30,5, diam. bocca cm 16, diam. piede cm 13

 

Bibliografia di confronto:

A. Marquand, Giovanni della Robbia, Princeton 1920, p. 39 n. 35.1;

G. Cora, Vasi robbiani, in “Faenza”, XLV, 3-4, 1959, pp. 51-60.

G. Gentilini, I Della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, Firenze 1992, 275-279 nn. III.17-20;

G. Gentilini (a cura di), I Della Robbia e l’“arte nuova’’ della scultura invetriata, Firenze 1998, pp. 276-278 n. III.18

G. Gentilini (a cura di), I Della Robbia. Il dialogo tra le arti nel Rinascimento, Milano 2009, pp. 371-373 nn. 124-127, 129

 

I vasi sono del tipo ad anfora biansata, con manici a S in forma di delfino innestati sul collo, a sua volta decorato da embricazioni a ‘scaglie e freccette’, motivo ricorrente nei vasi robbiani che conferisce all’anfora un carattere architettonico a guisa d’urna. Il corpo, di proporzioni ampie ed erette, ha forma composita, costituita da una coppa svasata, decorata da robuste baccellature rilevate, e da una balza ornata da lacci geometrici variamente intrecciati, del tipo a decorazione di margini di miniatura, separata dal resto da cornici sporgenti, di cui quella superiore con una debole ovolatura. Il piede tornito, basso e solido, è invece costituito da semplici modanature levigate impreziosite da un anello a treccia. L’interno, data la funzione puramente decorativa di simili vasi, si presenta non invetriato, mentre al centro del piede è visibile un foro per l’ancoraggio, praticato durante la foggiatura.

Fu Andrea della Robbia, scultore versatile e intraprendente, nipote del celebre Luca dal quale aveva ereditato il “segreto” della scultura invetriata, ad avviare verso il 1490 una tale fortunata produzione di raffinati vasi ornamentali ‘all’antica’, traducendo in opere autonome tridimensionali le coppe che da qualche tempo venivano modellate a rilievo nelle cornici delle ancone robbiane come sorgivo supporto dei caratteristici festoni vegetali, smaltate a simulare il marmo o le pietre dure (lapislazzuli e porfido, perlopiù alternati). In seguito tra i numerosi figli di Andrea attivi nella bottega robbiana è proprio Giovanni, incline a un’esuberante vena decorativa nutrita dal repertorio archeologico in voga nel primo Cinquecento, il principale responsabile di una consistente produzione di vasi invetriati, raggruppabili per forma e ornato in quattro tipologie, ovoidi o ad anfora, di complessità crescente, perlopiù replicate con l’ausilio di calchi, ma spesso introducendo alcune varianti nell’ornato.

Le baccellature della coppa, le anse a delfino, le embricature a scaglie, che conferiscono un carattere architettonico a guisa d’urna, sono ornamenti d’ispirazione classica ricorrenti nei vasi robbiani, seppure in parti diverse (talora le scaglie ricoprono il corpo) e declinati con qualche variante (ad esempio le baccellature sono spesso profilate e meno rilevate, in specie negli esemplari più antichi), e così pure il fregio ad intrecci, adottato, con nodi di vario tipo, sia nella tipologia ad orciolo che nella più semplice delle tre tipologie ad anfora, verosimilmente quella realizzata per prima.

Della tipologia alla quale appartiene questa rara coppia di vasi Galeazzo Cora nel 1959 elencò quattordici esemplari, classificati come categoria A-III (“zona superiore: embricazioni; zona inferiore: baccellature; in mezzo: intrecci; piede liscio; forma quasi sferica. Al labbro foglioline, sopra al fregio centrale ovuli ed asta, sul piede perline sopra e cordonato sotto), tra i quali gli esemplari oggi conservati al Museo di Sèvres (Inv. 9121), al Victoria and Albert Museum di Londra (Inv. 2534-1856) e all’Ashmoleam Museum di Oxford (WA1888.CDEF.S18).

Estimate   € 20.000 / 30.000
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7

A DISH, FAENZA, CIRCA 1520

 

PIATTO, FAENZA, 1520 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, verde ramina, bruno di manganese, blu cobalto; diam. cm 19,5, diam. piede cm 5,5, alt. cm 3,4

 

Bibliografia di confronto

A.V.B Norman, Wallace Collection Catalogue of Ceramics 1: Pottery, Maiolica, Faience, Stoneware, Londra 1976, p. 103 n. C44;

J. Poole, Italian maiolica and incised slipware in the Fitzwilliam Museum, Cambridge 1995, n. 331;

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1998, p. 298 n. 67;

D. Thornton, T. Wilson (a cura di), Italian Renaissance Ceramics, A Catalogue of the British Museum’s Collection, Londra 2009, n. 69;

T. Wilson, Italian maiolica in the collection of international Gallery of Victoria, Melbourne 2015, pp. 72-73

 

Il piatto presenta cavetto poco profondo, piede ad anello rilevato e un’ampia tesa a bordo arrotondato profilato di giallo. Sulla tesa si estende una decorazione a grottesche a policromia con e delfini, mentre la balza è decorata con un motivo fitoforme realizzato con tecnica a “bianco su bianco” e centrato da sottili elementi a rombo delineati in blu; al centro del cavetto, entro un medaglione incorniciato da perle e ovali lumeggiati di arancio campeggia, un emblema forse riferibile a un ambito conventuale, delineato in bruno a doppia croce su fondo riservato sullo smalto. Gli elementi della tesa vedono strumenti musicali, scientifici e libri alati intervallati simmetricamente a cornucopie piccole ali. I colori sono il giallo, il verde e l’arancio a dare luce ai decori che si stagliano su un fondo dipinto in blu con pennellate parallele. Al verso si contano dodici archi tratteggiati di blu che spiccano su un fondo tratteggiato di arancio; al centro del piede si scorge un cerchio ombreggiato di blu.

Il piatto costituisce un tipico esempio della tipologia decorativa che interessò la produzione faentina tra il 1520 e il 1530 e che trova capisaldi cronologici in esemplari datati e iscritti, come il piatto del British Museum, in cui si legge la scritta “IN FAENCA”, ma anche nei reperti dagli sterri della città romagnola conservati nel Museo Internazionale della Ceramica.

Alcuni esemplari di confronto sono presenti in collezioni museali, quali il piatto datato 1520 del Fitzwilliam Museum di Cambridge o quello del “Assumption Painter” del Victoria & Albert Museum di Londra. Più complessa è invece la raffigurazione del piatto della Wallace Collection di Londra, come pure per quello della collezione della International Gallery of Victoria. La marca al centro del piede, qui molto semplificata, dovrebbe raffigurare la cosiddetta palla riferita alle manifatture faentine dalla famiglia Paterni, Dalle Palle e poi ancora utilizzata nella produzione della bottega di Piero e Paolo Bergantini.

Estimate   € 15.000 / 25.000
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8

A DISH, FAENZA, 1537 (?)

 

PIATTO, FAENZA, 1537 (?)

in maiolica decorata in policromia verde, arancio, giallo, blu di manganese e bianco di stagno, su smalto berettino; diam. cm 25, diam. piede cm 9,4, alt. cm 3

 

Bibliografia di confronto

B. Rackham, Catalogue of Italian Maiolica, London 1977, n. 296;

C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliques italiennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon, Collection Gillet, Dijon 2001, p. 18 n. 16;

T. Wilson, E.P. Sani, Le maioliche rinascimentali della fondazione cassa di Risparmio di Perugia, II, Perugia 2007, pp. 158-161 n.114

 

Il piatto presenta cavetto fondo, piede ad anello e un’ampia tesa a bordo arrotondato profilato di blu. Lo smalto “berettino” ricopre tutta la superficie. Sulla tesa si estende una decorazione a grottesche e delfini centrata da elementi arricchiti da teste di serafini, al di sopra dei quali si scorgono quattro piccoli cartigli con iscritta la data, poco leggibile, 1537; la balza invece è decorata con un sottile motivo fitoforme in bianco di stagno su fondo berettino, separato dal cavetto e dalla tesa con un sottile motivo a corda. Al centro del cavetto la raffigurazione con un piccolo amorino che avanza con fare orgoglioso in un paesaggio montuoso sorreggendo nella mano la faretra.

Il piatto, che reca al verso un complesso motivo decorativo a raggera di archi concentrici e tratteggiati in rosso arancio e blu, trova riscontro in alcuni esemplari con soggetto istoriato, come il piatto della Wallace Collection (inv. 1429) o quello della collezione Gillet di Lione. Particolarmente vicino per impostazione del decoro il piatto della Fondazione Cassa di Perugia con due putti al centro, dove il cartiglio, anch’esso poco leggibile, pare contenere la data 1524. Affinità anche nel piatto, sempre centrato da un amorino che con il nostro condivide anche la cifra stilistica, è un esemplare datato 1524 e conservato nelle collezioni del Victoria &Albert Museum di Londra (inv. 4624-1858).

Estimate   € 4.000 / 6.000
9

A DISH, FAENZA, CIRCA 1521

 

PIATTO, FAENZA, 1521 CIRCA

maiolica dipinta in policromia su fondo berettino azzurro; diam. cm 24,8, diam. piede cm 7, alt. cm 3

 

Bibliografia di confronto

E. Sani in B. Rackham, Italian Renaissance maiolica in the Victoria and Albert Museum – Part 1, in “Keramos” 210 (2010), pp. 1-30 n. 14;

C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliques italiennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon, Collection Gillet, Dijon 2001, pp. 34-35 nn. 14- 15

 

Il piatto presenta cavetto fondo, piede ad anello non rilevato e un’ampia tesa a bordo arrotondato profilato di blu. Lo smalto “berettino” ricopre tutta la superficie. Sulla tesa si estende una decorazione a grottesche e delfini, mentre la balza è decorata con un motivo sottile fitoforme in bianco di stagno su fondo berettino; l’unica nota di colore deriva dall’emblema nobiliare che campeggia al centro del cavetto. Sul retro si sviluppa un motivo decorativo a linee concentriche, realizzato su fondo berettino in tinta blu, filettato di giallo arancio a sottolineare la forma, che termina in una spirale al centro del piede, decoro che ricorda i motivi “a calza”.

Il piatto mostra la classica decorazione faentina “a grottesche” che ha caratterizzato la produzione della città romagnola in un periodo compreso tra il 1500 e il 1550 circa, attraverso una fortunata serie di opere che danno riscontro di alcune tra le più importanti committenze nobiliari del Rinascimento. Un confronto vicino, anche se con scelta differente nella disposizione delle grottesche, ci deriva dal piatto del V&A con emblema nobiliare (inv. 1732-1855) o anche dai due piatti con decoro analogo su fondo berettino e stemma nobiliare della collezione Gillet a Lione.

Una coppia di piatti dello stesso servizio, ma di dimensioni superiori, recanti la data 1521 in un cartiglio è recentemente transitata sul mercato (Asta Farsetti, Prato, 27 marzo 2010, lotto 151).

Estimate   € 4.000 / 6.000
Price realized  Registration
10

A PLATE (TONDINO), DERUTA, CIRCA 1520

 

TONDINO, DERUTA, 1520 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia blu di cobalto, giallo, giallo arancio e bianco di stagno; diam. cm 24,2, diam. piede cm 8,8, alt. cm 12,6

 

Biliografia di confronto

T. Wilson, Ashmolean Museum of Art and Archaeology, Oxford 2017, p. 110 n. 46;

T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a private collection, Torino 2018, pp. 56-59 nn. 16-17

 

Il tondino presenta cavetto profondo a larga tesa piana con orlo arrotondato. Il decoro vede, al centro del cavetto, un ritratto maschile rivolto a destra con il capo coperto da un fazzoletto annodato sulla nuca da cui escono alcuni boccoli biondi, mentre il corpo appena visibile è coperto da una tunica; lo sfondo è ombreggiato di cobalto, mentre il tondo che racchiude la figura è delimitato da un motivo decorativo a corda, cui si sovrappone una fascia ad archetti delineati in giallo arancio e giallo accompagnati da sottilissimi fioretti blu. La balza è lasciata bianca con uno smalto un po' rosato e crettato, mentre la tesa è interessata da un fitto motivo a embricazioni redatte in blu cobalto, ombreggiate a tratti su un lato e centrate da un motivo puntinato giallo che spicca sul fondo campito in giallo arancio; l’orlo infine è ornato con più elementi a corda, prima più spessa e poi sottile, e quindi orlato di giallo. Al verso un classico motivo a petal back, con il piede lasciato bianco.

Lo studio del gruppo di piatti petal back associati o meno a monogrammi o lettere fu iniziato da Bernard Rackham nel 1915 con un'iniziale attribuzione alle botteghe di Deruta. In opposizione a Rackham, Otto Von Falke sosteneva invece l’attribuzione di questo gruppo alla bottega di maestro Benedetto di Siena, ipotesi sposata dagli studiosi per lungo tempo. La scoperta di resti di fornace e la pubblicazione dei frammenti nella città umbra sembra però aver risolto l’annosa questione, nonostante evidenze produttive nell’area che dalla città umbra porta a Siena, chiaramente spiegabili con il permanere di pittori derutesi nella città toscana, che spesso accolse maestranze straniere.

Due confronti appartenenti ad un'importante collezione privata ci sembrano molto pertinenti sono stati recentemente pubblicati da Timothy Wilson, alla cui scheda rimandiamo per approfondimento e bibliografia. Ma anche l'inevitabile confronto con il magnifico piatto dell’Ashmolean Museum di Oxford con emblema Piccolomini, che presenta una tesa con decoro simile al nostro, ma invero più accurato, rafforza a nostro avviso l'attribuzione a Deruta.

Estimate   € 12.000 / 18.000
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11

A CHARGER, DERUTA, CIRCA 1500-1520

 

PIATTO DA PARATA, DERUTA, 1500-1520 CIRCA

in maiolica decorata in blu di cobalto e lustro dorato; diam. cm 45,5, diam. piede cm 14,6, alt. cm 9,5

 

Bibliografia di confronto

T. Hausmann, Majolika. Spanische und italienische Keramik vom 14. bis zum 18. Jahrhundert, Berlino 1972, pp 205-208 nn. 154-155;

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, pp. 180-181 n. 588;

R. Ausenda (a cura di). Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche. I, Milano 2000, p. 84 n. 70

 

Il piatto da pompa o da parata mostra la tipica forma con cavetto profondo e largo e tesa ampia, obliqua e terminante in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello anch’esso appena rilevato e forato prima della cottura per consentirne l’esposizione a parete. Il decoro è realizzato con tecnica mista ottenuta in due cotture: la prima a gran fuoco con blu a due toni, la seconda in riduzione per l’ottenimento del lustro. Il retro mostra un’invetriatura appesantita di bistro beige camoscio, a ricoprire l’intera superficie.

Al centro del cavetto una giovane donna, dal volto imbronciato, è raffigurata di tre quarti rivolta a sinistra, a mezzo busto; indossa un abito leggero che lascia intravvedere il seno, al collo porta una collana con piccole perle mentre il capo è adorno di veli che serrano i capelli con nodi voluminosi, mentre alle sue spalle si stagliano due alti rami di fiori con boccioli e foglie di varie fogge; il profilo della sagoma è ombreggiato con più linee di blu cobalto. Una fascia con motivo decorativo a corona fogliata separa il cavetto dalla tesa, decorata invece da metope che alternano un fitto motivo a embricazioni al classico ornato a infiorescenze.

Questo esemplare si inserisce a pieno in quel gruppo di piatti con figure femminili, ispirate probabilmente dai dipinti del Pinturicchio, databile grazie al confronto con il noto piatto del British Museum recante lo stemma di papa Giulio II, che colloca l’intera serie come compresa negli anni del suo pontificato, durato dal 1503 fino al 1513, e pertanto al primo trentennio del XVI secolo.

Nonostante il soggetto del ritratto amatorio sia stato spesso raffigurato nella produzione derutese, gli esemplari con figure rappresentate di tre quarti sono meno frequenti. Un esempio particolarmente vicino ci deriva da un piatto conservato al Kunstgewerbemuseum di Berlino (inv. K1697), mentre altri piatti, però con il cartiglio al posto dei rami fioriti, sono ancora al Kunstgewerbemuseum di Berlino (inv. K1698), al Boymans Van Beuninge Museo di Rotterdam (inv. A3653) e nella collezione Campana al Louvre (inv. OA1433). Infine possiamo ricordare l’esemplare conservato al Museo di Arti applicate del Castello Sforzesco di Milano, anch’esso con figura di tre quarti, ma con cartiglio al posto dei rami fioriti, che si avvicina molto all’opera in esame (inv. 105).

Estimate   € 7.000 / 10.000
Price realized  Registration
12

A CHARGER, DERUTA, FIRST THIRD 16TH CENTURY

 

PIATTO DA POMPA, DERUTA, PRIMO TERZO SECOLO XVI

in maiolica dipinta in blu cobalto e lustro metallico dorato; diam. cm 40, diam. piede cm 12,5, alt. cm 7,5

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, pp. 198-200 nn. 643-647;

P. Bonali, R. Gresta, Girolamo e Giacomo Lanfranco dalle Gabicce maiolicari a Pesaro nel secolo XVI, Rimini 1987, p.37 nota 54;

A. Satolli, Annotazioni della presenza di lustri a Orvieto, in G. Busti, F. Cocchi, Maiolica, lustri oro e rubino della ceramica dal Rinascimento a oggi, Perugia 2019, pp. 63-67 fig. 9

 

Il grande piatto ha la forma tipica dei piatti da parata derutesi con cavetto profondo, larga tesa obliqua e piede ad anello. L’intera superficie è ricoperta da un fitto decoro “alla damaschina” o “a rabesche” di derivazione islamica, tipica delle opere metalliche, mutuata in occidente attraverso le ceramiche ispano moresche. Il verso è lasciato al naturale con sola applicazione di bistro scuro, su cui si scorgono ampie colature di smalto bianco crema, dove si notano i fori coevi alla produzione, per consentire la sospensione dell’opera.

Questo tipo di decoro, datato abbastanza precocemente nel Cinquecento, è qui eseguito con maestria sia nel delineare il disegno in blu cobalto sullo smalto bianco-crema, sia nel riempimento delle campiture anche minute con il lustro nella seconda cottura. L’ornato è usato nelle opere prodotte a Deruta, ma sono attestati anche esemplari realizzati in altri centri di produzione. Ad esempio alcuni frammenti di bacili con modalità decorative affini sono stati rinvenuti a Pesaro, ma anche i frammenti recuperati dal Pozzo della Cava a Orvieto testimoniano un’attività di produzione a lustro in città.

L’opera, caratterizzata da grandi dimensioni, trova puntuale riscontro in tre bacini conservati al Louvre (inv. n. OA 7574 e OA 1225) e al Museo di Cluny (inv. n. 2064b).

Estimate   € 3.000 / 5.000
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13

A BOWL, DERUTA, CIRCA 1520

 

CIOTOLA, DERUTA, 1520 CIRCA

in maiolica decorata in blu di cobalto con lustro oro e rosso; diam. cm 16,1, diam. piede cm 7,2, alt. cm 2,5

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, p.167 nn. 546-547; C. Fiocco, G. Gherardi, La maiolica rinascimentale a lustro in Umbria, in G. Guaitini (a cura di), Maioliche umbre decorate a lustro, Firenze 1982, pp. 59-73;

W. Watson, Italian RenaissanceCeramics from the Howard I. And Janet H. Stein Collection and the Philadelphia Museum of Art, Philadelphia 2001, p. 192 n. 35;

G. Busti, F. Cocchi (a cura di), Maiolica. Lustri oro e rubino della ceramica dal Rinascimento ad oggi, Perugia 2019, p. 92 figg. 2-4, p. 110 n. 16

 

La ciotola emisferica poggia su un piede basso e concavo al centro, è dotata di un cavetto umbonato che si raccorda con una tesa alta e verticale con orlo sottile. La maiolica è interamente smaltata e mostra un decoro tipico della produzione rinascimentale con una lettera “B” nel cavetto delineata in modo complesso, a richiamare nell’asticella motivi floreali, ombreggiata di blu sul fondo smaltato e accompagnata da piccoli fioretti circolari e trattini alla porcellana, mentre la tesa è decorata da un fitto motivo a embricazioni e mostra una lumeggiatura ricca con note ramate. Al verso un decoro a linee lumeggiate parallele.

La coppa ha pochi precedenti in ambito derutese e si sono cercati confronti anche in altri luoghi produttivi, ma senza esito. Tuttavia per morfologia, per decoro, per la qualità del lustro e della realizzazione dell’ornato, ma soprattutto per certi esiti decorativi della tesa, che avvicina l’opera agli esemplari più prestigiosi della produzione derutese quali il piatto da pompa con figura femminile del Museo Civico di Pesaro, riteniamo che la ciotola in esame sia stata realizzata appunto a Deruta negli anni venti del Cinquecento, risultando infatti molto prossima ai taglieri con emblema nobiliare o a coppe di spessore sottile, di cui si sono trovati frammenti insieme a piattelli nell’ambito degli sterri nella città umbra. Utile il confronto con la coppa su alto piede con lettera al centro, che presenta però il decoro a dente di lupo, che sembra redatta con stile e modalità simili.

Estimate   € 3.000 / 5.000
14

AN EWER STAND, DERUTA, 1500-1530

 

PIATTO DA ACQUARECCIA, DERUTA, 1500-1530

in maiolica a lustro, diam. cm 32

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, p. 171 nn. 561-563;

D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics, A Catalogue of the British Museum’s Collection, Londra 2009, p. 462 n. 276;

C. Leprince, J. Raccanello (a cura di), Back to Deruta. Sacre and Profane Beauty, Parigi 2018, pp. 98-105 n. 14

 

Il bacile ha un cavetto ampio e concavo centrato da un umbone a fondo piano, circondato da una cornice a rilievo con orlo arrotondato, che scende in una seconda cornice a gola, idoneo a sorreggere un versatoio, a imitazione del vasellame metallico.

Al centro della composizione un ritratto muliebre di profilo con i capelli raccolti sulla nuca e legati da un sottile nastro che le cinge la fronte, annodato anch’esso sulla nuca, rivolato a sinistra, e accanto un cartiglio amatorio in cui si legge VSEPIA. B. Nella cornice a gola si scorge un motivo a nodo delineato in blu su fondo lustrato, mentre nel resto del cavetto si sviluppa un decoro a embricazioni alternato a inflorescenze, e sulla tesa corre un motivo continuo a infiorescenze lanceolate. Tutto il decoro è delineato con pennellature blu, evidenti nel ritratto, e quindi arricchito con lustro dorato.

Bacili di questo tipo furono prodotti a Deruta in un periodo compreso tra il 1500 e il 1530, e sono molti i confronti, spesso caratterizzati da varianti, conservati nelle collezioni pubbliche e private. Un esempio pertinente ci deriva dal bacile conservato al Museo Fitzwilliam di Cambridge (inv. C. 84-1961), seppure con decoro più articolato, ma anche dall’esemplare del British Museum con fanciulla accompagnata da una iniziale N e con tesa decorata da una classica sequenza di piccoli fruttini. Ricordiamo infine una serie di cinque bacili esposti recentemente al museo di Deruta in occasione della mostra intitolata Back to Deruta.

Estimate   € 2.500 / 3.500
Price realized  Registration
15

A CHARGER, DERUTA, 1520-1530

 

PIATTO DA PARATA, DERUTA, 1520-1530

in maiolica decorata in blu di cobalto e lustro dorato; diam. cm 40,2, diam. piede cm 12,4, alt. cm 8

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux., Parigi 1974, p. 169 n. 555-556;

T. Wilson, Italian Maiolica of the Renaissance, Milan 1996, pp. 78-79 n. 35

T. Wilson, Italian maiolica in the collection of international Gallery of Victoria, Melbourne 2015, pp. 56-57

C. Fiocco, G. Gherardi, in G. Busti, F. Cocchi, Maiolica, lustri oro e rubino della ceramica dal Rinascimento a oggi, Perugia 2019, nn. 22-23

 

Il piatto da pompa mostra la caratteristica forma con cavetto profondo e largo, tesa ampia, obliqua e terminante in un orlo rifinito a stecca appena rilevato; poggia su piede ad anello, anch’esso appena rilevato, forato in origine prima della cottura per consentirne l’esposizione. Il decoro è realizzato con tecnica mista ottenuta in due cotture: la prima a gran fuoco con blu a due toni, la seconda in riduzione per l’ottenimento del lustro. Il retro è interamente ricoperto da un’invetriatura appesantita di bistro camoscio.

Al centro del cavetto una figura di imperatore romano, ritratto di profilo con il capo cinto da una corona trionfale e il busto avvolto nella toga che lascia scoperti il collo e una porzione delle spalle; alle sue spalle una porzione scura ombreggiata di blu e di fronte uno scorcio di paesaggio con colline arrotondate ornate da corolle di gigli e sullo sfondo alcune casette. La tesa, poco comune, è interamente decorata con un motivo a baccellature campite di lustro dorato e sottolineate da tratti arrotondati ricavati a risparmio e ombreggiati di blu.

I piatti con figura di imperatore, come i ritratti amatori o quelli con ritratti di condottieri, appartengono al repertorio dei grandi bacili da pompa di produzione derutese e se ne conoscono numerosi esemplari di confronto, sia decorati a lustro, sia a policromia, accompagnati da un paesaggio oppure da cartigli con motti. Secondo alcuni studiosi questi ritratti derivano forse da medaglie bronzee o monete riprodotte in disegni o incisioni.

La qualità pittorica, la cifra stilistica importante nella realizzazione della tesa e del paesaggio, lo stile sicuro nella realizzazione del volto e della capigliatura rendono l’esemplare in oggetto particolarmente prestigioso. Un esemplare prossimo al nostro piatto, databile al 1525, con tesa a embricazioni è conservato al Walters Art Museum (Inv. 481321). Ma il confronto con un piatto da pompa raffigurante una figura femminile di profilo con copricapo e tesa del tutto coerente, custodito alla National Gallery di Victoria in Australia, costituisce a nostro avviso un riferimento fondamentale: nella sua pubblicazione infatti Timothy Wilson ha riconosciuto i modi dell’importante pittore derutese Nicola Francioli detto “Co”.

Estimate   € 8.000 / 12.000
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16

A PLATE (TAGLIERE), GUBBIO, MASTRO GIORGIO, 1531

 

TAGLIERE, GUBBIO, MASTRO GIORGIO, 1531

in maiolica dipinta in policromia con bistro chiaro e blu di cobalto, lustro applicato in terza cottura oro e rosso. Sul retro sigla M°G° e data 1531 in lustro rosso; diam. cm 22,1, diam. piede cm 8,8, alt. cm 2,5

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, p. 231 n. 755;

A.V.B. Norman, Wallace Collection Catalogue of Ceramics. 1. Pottery, Maiolica, Faience, Stoneware, Londra 1976, p. 147 n. C69; pp. 101-103 nn. C42-C43;

M. Mancini Della Chiara, Maioliche del Museo civico di Pesaro, Pesaro 1979, n. 160;

D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics: a catalogue of the British Museum collection, Londra 2009, n. 319;

E.P.Sani, Gubbio 1515-1525. Reflections onearly Lustreware, in J.V.G.Mallet , E.P. Sani (a cura di), Papers Of A Symposium Held At Oxford In Celebration Of Timothy Wilson's Catalogue Of Maiolica In The Ashmolean Museum, Londra 2021, pp. 82 ss.;

E. A. Sannipoli, "Mastro Giorgio finì de maiolica” I rovesci dei piatti lustrati nella bottega Andreoli di Gubbio, in L. Pesante, A. Satolli (a cura di), La bottega del vasaio. Uomini, tecniche, modelli, Orvieto 2021, pp. 41-85

 

Il piatto ha basso cavetto e larga tesa orizzontale che termina in un orlo appena rilevato e rifinito a stecca, e poggia su un basso piede ad anello. Il fronte è interamente ricoperto da una decorazione “a cerquate” che, a partire dal basso, vede una testa di un amorino alato sopra la quale si apre un complesso decoro costituito da due zampe ungulate che si intrecciano e si allargano a formare una prima riserva quadrangolare che contiene le teste di due sparvieri, prosegue in una riserva polilobata che contiene un vaso baccellato ricolmo di frutta per terminare in due bocche di liuto. Tutt'intorno la tesa dipinta di blu cobalto con un motivo a trofei accompagnati da nastri graffiti sul blu e lustrati di rosso. Il decoro a lustro rosso interessa poi alcuni dettagli dell’ornato ed è associato a lustro oro a riempire alcune campiture delineate dal decoro a trofei, secondo l’uso di Castel Durante. Tra i trofei si scorgono due cartigli con un motto in caratteri corsivi Omnia vincit amor, nel primo, et nos cedamus, nel secondo, un chiaro messaggio amatorio. Al verso la tesa è decorata da tre girali in lustro rosso che incorniciano al centro del piede la data 1531 e le iniziali di Mastro Giorgio M°G°.

Il piatto trova confronti pertinenti con un tagliere con ritratto al centro del cavetto e tesa a “cerquate” e “trofei” conservato al Louvre (inv. OA 1921), e con uno oggi al British Museum (inv. 1851.1201.69), datato sulla tesa 1531, con ritratto di Polita Diva, decoro “a cerquate” e centrato in basso da una testa di amorino coerente con il nostro, inoltre siglato al retro M°G° e datato 1521. A questi esemplari si aggiunge il piatto molto simile per scelta decorativa, ma purtroppo mal riparato, della Wallace Collection (inv. C69). Un ulteriore confronto si può fare con un piatto attribuito alla bottega di Maestro Prestino, sempre con decoro a mezza tinta, candelabra e lustro, conservato al museo di Pesaro.

Una notazione doverosa sull’attribuzione di queste opere ci viene anche dalla lettura delle schede di due piatti conservati alla Wallace Collection di Londra (inv. C42 e C43), di cui uno molto prossimo al nostro per stile decorativo, ma non rifinito a lustro, attribuiti a Fabriano o Casteldurante. Ma questo decoro trova riscontri anche molto precoci all’interno della bottega di Gubbio, con opere recentemente analizzate da Elisa Paola Sani in un saggio sulle firme precoci di Mastro Giorgio, mentre un’analisi della grande quantità di informazioni, derivate da un'attenta lettura dei retri delle opere di Mastro Giorgio, è pubblicata in un recente studio di Ettore A. Sannipoli.

Estimate   € 8.000 / 12.000
Price realized  Registration
17

A PLATE (TAGLIERE), GUBBIO, WORKSHOP OF MASTRO GIORGIO ANDREOLI, CIRCA 1525-1540

 

TAGLIERE, GUBBIO, BOTTEGA DI MASTRO GIORGIO ANDREOLI, 1525-1540 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con tecnica mista a gran fuoco per i colori e a piccolo fuoco per l’applicazione del lustro metallico nei toni dell’oro e del rosso rubino; diam. cm 25,1, diam. piede cm 11, alt. cm 2,6

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, pp. 234-236 nn. 773-774;

A.V.B. Norman, Wallace Collection Catalogue of Ceramics. 1: Pottery, Maiolica, Faience, Stoneware, Londra 1976, pp. 66-67 n. C.20;

C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliques italiennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon. Collection Gillet. Lione 2001, p. 144 n. 100;

E. A. Sannipoli (a cura di), La via della ceramica tra Umbria e Marche: maioliche rinascimentali da collezioni private, Gubbio 2010, p. 142 n. 2.17

 

Il piatto ha cavetto basso, tesa larga e orizzontale con orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello appena accennato. Al recto il piatto presenta una complessa e ricca decorazione che vede al centro del cavetto un amorino adagiato su una zolla erbosa con la mano appoggiata sul cuore con fare meditabondo; sullo sfondo un paesaggio montuoso con cielo al crepuscolo. Tale decorazione, che interessa tutto il cavetto inclusa la balza, è separata dalla tesa con due sottili filettature blu, in seguito decorate da una linea a lustro. La tesa è interessata da una decorazione a trofei con armi e strumenti musicali distribuita simmetricamente e realizzata in mezza tinta fredda. I trofei, abbondantemente coperti e lumeggiati a lustro, sono realizzati a risparmio, come pure i nastri che li circondano, su un fondo poi coperto da uno spesso strato di blu cobalto. Il lustro in due toni valorizza l’intero decoro con tocchi di oro nei trofei e di rosso nei nastri e lungo il bordo e gli stacchi della forma. Al verso il tagliere non presenta alcun decoro.

Questa tipologia di piatti a decoro è stata variamente attribuita all’interno del territorio del ducato di Urbino. Mentre per alcuni studiosi apparterrebbe alla produzione pesarese, sembra comunemente accettata l’ipotesi attributiva alla bottega di Giorgio Andreoli a Gubbio, dove sappiamo attivi molti pittori e decoratori che si spostavano all’interno del Ducato. L’ornato centrato da putti in vari atteggiamenti perdura per tutta la prima metà del Cinquecento, con un arco cronologico delimitato da esemplari datati che va dal 1524 al 1540. Si ravvisano confronti pertinenti in alcuni piatti con uguale impostazione decorativa, che prevede trofei e putto al centro. Tra questi, ne ricordiamo uno nella collezione del Musée des Art Decoratif di Lione, uno in collezione privata ad Assisi, uno con un muscoloso Amorino con tridente alla Wallace di Londra (inv. C.20), e infine i due taglieri del Louvre con partitura della tesa in cui sono inseriti i trofei e entrambi con puntinature nel cielo (invv. OA1547 e OA1531). Infine un recente riscontro ci deriva da un piatto con soldato nudo e trofei, dipinto in policromia e lustro dalle collezioni del Met di New York (inv. 04.9.27), che condivide lo stesso substrato culturale e produttivo dell'esemplari qui proposto, con chiare influenze durantine, attribuito alla bottega di Mastro Giorgio.

Estimate   € 7.000 / 10.000
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18

A DISH, URBINO, CIRCLE OF NICOLA DI URBINO, “MAESTRO DEL BACILE DI APOLLO” OR “MAESTRO DELLA DECOLLAZIONE”, CIRCA 1530

 

PIATTO, URBINO, AMBITO DI NICOLA DI URBINO, MAESTRO DEL BACILE DI APOLLO O MAESTRO DELLA DECOLLAZIONE, 1530 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con verde rame, verde oliva, giallo, giallo arancio, blu di cobalto, bruno di manganese nella tonalità del nero e del marrone, bianco di stagno; diam. cm 29, diam. piede cm 11, alt. cm 2,9

 

Bibliografia di confronto

M. Mancini Della Chiara, Maioliche del Museo Civico di Pesaro, Pesaro 1979, n. 61;

J.V.G. Mallet in G.C. Bojani (a cura di), I Della Rovere nell’Italia delle corti, atti del convegno 16-19 settembre 1999, vol IV, Arte della maiolica, Urbino 2002, pp.

89-90;

J.V.G. Mallet, Il pittore del Bacile di Apollo, in “La maiolica italiana del Cinquecento il lustro eugubino e l’istoriato del ducato di Urbino. Atti del convegno di studi.

Gubbio 21-23 settembre 1998”, a cura di G.C. Bojani, Firenze 2002, p. 36 e nota 181;

C. Ravanelli Guidotti, Per il pittore del bacile di Apollo, in “Faenza” XCVII, 2011, pp. 19, 31;

D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics, A Catalogue of the British Museum’s Collection, Londra 2009, pp. 528-529 n. 328

T. Wilson, Italian Maiolica and Europe. Medieval, Renaissance and later Italian pottery in the Ashmolean Museum, Ashmolean Museum, Oxford 2017, pp. 251-253

n. 111;

T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting, Torino 2019, p. 202, n. 87, pp. 394-396, nn. 174-175.

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede piano piuttosto ampio. Il verso è privo di decorazione. Sul recto una scena istoriata: San Girolamo eremita in meditazione in un paesaggio roccioso, mentre sullo sfondo una città con contrafforti si erge su un monte neipressi di un lago. Lo stile è severo e ordinato, e la scena a tutto campo è scandita anche dalle grandi dimensioni del piatto. La protagonista qui è la natura, nella quale il santo si è isolato: la roccia fa da schermo alla civiltà, che appare solo sullo sfondo con stilemi tipici dell’ambito marchigiano, mentre il personaggio principale, pur relegato sulla tesa, è pacato protagonista con la mano appena alzata in meditazione davanti a un sottile crocifisso su cui il Cristo è appena delineato in bianco di stagno. I dettagli sono resi con attenzione: il teschio su una radice secca e scura, il cappello cardinalizio a terra accanto al Vangelo chiuso, e il leone, piccolo e mansueto, accucciato nella caverna, così come gli alberi scuri dal tronco sinuoso caratterizzati da un nodo alla radice, le rocce alte e frastagliate con elementi vegetali su zolle erbose e i ciottoli, anch’essi realizzati con perizia e attenzione al punto da dar loro forma e consistenza. La mano del pittore è sicura, e la materia, abbondante, ha subito un‘eccessiva cottura, lasciando un effetto puntinato un poco opaco, che determina però una consistenza importante al manto abbassato in grembo al Santo eremita. La figura del santo è ben proporzionata rispetto alla roccia che funge da quinta architettonica ed è protagonista della scena.

La recente rilettura delle opere dei due più noti maestri maiolicari e la loro cronologia, unita alla sempre più accurata pubblicazione delle opere istoriate del periodo, provano - come afferma John Mallet - come nello sviluppo dello stile pittorico urbinate abbiano contemporaneamente partecipato sia Xanto Avelli che Nicola da Urbino. E la difficoltà attributiva di piatti della qualità dell’opera in esame conferma la vivacità creativa delle botteghe urbinati, tra le quali ricordiamo quelle di Guido da Merlino e di Guido Durantino.

Per composizione e realizzazione stilistica il piatto s’inserisce pienamente nell’ambito cronologico relativo al primo trentennio del Cinquecento, ma si distingue per stile pittorico, più affine alle prove maggiori di Nicola da Urbino, conducendoci quindi verso un’attribuzione a personalità artistiche prossime all’opera del maestro urbinate quale il Pittore del Bacile di Apollo o anche il Pittore della Decollazione o Pittore di Enea in Italia. Il primo pittore trae il nome da un bacile conservato al Museo di arti applicate di Milano e ascritto ad un arco cronologico posteriore al 1532 da un bacile che reca tale data conservato nel museo di Pesaro, è stato identificato e studiato da John Mallet. Il confronto con particolari presenti in opere del pittore, ad esempio la radice che sorregge il teschio del nostro piatto con la radice al centro del cavetto nel piatto con Giuditta con la testa di Oloferne del British Museum (inv. 1878,1230.437), unitamente allo stile degli alberi e dei ciottoli o al panneggio delle vesti farebbero ipotizzare la mano del Pittore del Bacile di Apollo in quest’opera. Anche l’uso della natura qui protagonista nel piatto con la Cacciata di Adamo ed Eva nello stesso museo londinese (inv. 1855,1201.43), in cui i volti seri, quasi imbronciati e l’ampio uso del bruno di manganese trovano riscontro nella nostra opera. Affinità ancora maggiori le troviamo con un’opera della collezione Biscontini Ugolini recentemente transitato sul mercato, caratterizzato dall’applicazione del lustro, che raffigura una scena dantesca, che condivide con il nostro la medesima qualità pittorica, a conferma inoltre della capacità del pittore di affrontare con disinvoltura tematiche istoriate assai differenti, come ampiamente dimostrato nello studio di Carmen Ravanelli Guidotti relativo ad altre opere di questa personalità artistica. Detto ciò il confronto con le opere di un altro pittore, anch’esso non ancora completamente identificato, ci fornisce un interessante spunto di riflessione: il pittore, variamente definito dagli studiosi come il Pittore della Decollazione o Pittore di Enea in Italia. Il confronto, fondamentale, nel piatto con la Decollazione di San Giovanni dell’Ashmolean Museum mostra alcuni personaggi barbati che hanno affinità con il nostro personaggio: il volto imbronciato, gli occhi piccoli incavati nella fronte un poco prominente alle sopracciglia. Un piatto già transitato in questa sede e attribuito a questa personalità artistica da Timothy Wilson nella pubblicazione di un’importante collezione genovese trova infine riscontri stilistici e pittorici molto calzanti con il piatto in oggetto di studio: la mano del Cristo che riceve Maria Maddalena, dalla veste bruno manganese, riproduce il gesto del nostro San Girolamo. Lo stile sicuro, il colore steso e un poco diluito, il paesaggio disposto in salita arroccato sullo sfondo e una accurata disposizione all’interno del piatto ci confortano nell’attribuzione pur nella consapevolezza che ci troviamo di fronte a una personalità molto prossima alla figura di Nicola di Urbino.

Estimate   € 30.000 / 50.000
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19

A DISH, URBINO, CIRCLE OF FRANCESCO XANTO AVELLI, PROBABLY GIULIO DA URBINO, CIRCA 1534

 

PIATTO, URBINO, CERCHIA DI FRANCESCO XANTO AVELLI, PROBABILMENTE GIULIO DA URBINO, 1534 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con verde rame, verde oliva, giallo, giallo arancio, blu di cobalto, bruno di manganese nella tonalità del nero e del marrone, bianco di stagno; diam cm 25,5, diam. piede cm 7,2, alt. cm 4

 

Bibliografia di confronto

J.V.G. Mallet, Xanto: i suoi compagni e seguaci, in “Francesco Xanto Avelli da Rovigo. Atti del Convegno Internazionale di Studi 1980”, Rovigo 1988, pp. 67-84;

D. Thornton, Giulio da Urbino and his role as a copyist of Xanto, in “Faenza”, XCIII, 2007, pp. 269-285;

T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 262-265 n. 114

Il piatto ha cavetto ampio e profondo, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede piano con anello accennato. Il verso è privo di decorazione. Sul recto una scena istoriata: al centro del cavetto una figura, di dimensioni appena maggiori rispetto al resto della raffigurazione, seduta con le gambe accavallate, coperta da una larga tunica panneggiata e raffigurata nell’atto di scrivere su una tavoletta, il capo rivolto in alto a cercare l’ispirazione; alle sue spalle il paesaggio con una città fortificata dipinta in rosso ferro con le finestre lumeggiate di bianco di stagno, circondata da alberelli e protetta alle spalle da un monte dal profilo squadrato, delineato per il resto con tratto veloce che alterna piani erbosi sovrapposti e una strada guarnita di ciottoli arrotondati. La scena è inquadrata sulla destra da un arco che circonda il cavetto, e letteralmente tagliata sul centro-sinistra da un albero dal tronco scuro con chiome a ciuffi arrotondati dipinti a getto in verde scuro e bianco di stagno; sulla tesa a destra, seduta su una roccia davanti all’arco una figura allegorica mostruosa, con il corpo umano e la testa ferina dotata di una lunga lingua, rivolta al centro, mentre sulla tesa a sinistra un satiro nell’atto di brandire una spada.

La rappresentazione dei personaggi è probabilmente mutuata da incisioni di più autori, secondo una tecnica in voga e utilizzata da Francesco Xanto Avelli e seguaci nella prima metà del XVI secolo. La figura seduta intenta a scrivere su una tavoletta deriva, con evidenti modifiche nel vestiario, da quella del poeta Ennio mentre ascolta Omero, raffigurato da Raffaello nel Parnaso in una parete nella stanza della Segnatura in Vaticano. Il satiro, che alza una spada in atto di aggressione, è forse ispirato da un’incisione con Marsia legato a un albero per essere scorticato dopo aver perso la sfida con Apollo, qui reinterpretata e utilizzata dal pittore in altra chiave di lettura. La figura a destra è anch’essa frutto di un’elaborazione del pittore. È chiara la volontà dell’autore di dare alla scena una lettura allegorica: forse la Poesia, a cui si ispira il personaggio principale, in contrasto alle forze brutali, o forse una lettura in chiave politica. Il pittore in questo caso non ne fornisce una spiegazione al verso del piatto.

Le modalità compositive, quali ad esempio il dettaglio dello steccato che chiude il paesaggio in prossimità dello specchio d’acqua, fanno ipotizzare la mano di Francesco Xanto Avelli nel periodo tra il 1532 e il 1540. Tuttavia le incertezze stilistiche e una certa rapidità esecutiva, da copista, portano a ritenere l’opera frutto di una collaborazione con il maestro o forse di mano del pittore conosciuto come " Lu Ur" o della mano di Giulio di Urbino, uno dei maggiori epigoni di Xanto. In quel decennio infatti il pittore rovigese occupava sul mercato una posizione tale da permettergli l’impiego di assistenti, così come ci ricorda il dettagliato studio di Dora Thornton, che ben chiarisce sia la posizione di Giulio come copista, sia la sua evoluzione e il suo affrancarsi dal maestro con il raggiungimento in seguito di uno stile proprio.

I profili sottolineati di bruno, gli occhi piccoli lumeggiati di bianco con un piccolo puntino e soprattutto le mani piccole con le dita appuntite portano al confronto con opere di Giulio da Urbino degli anni trenta del Cinquecento, come il piatto firmato e datato 1534 del British Museum (inv. PGE1997,0401.1), rispetto al quale però mancano qui le muscolature potenti lumeggiate di bianco; discorso diverso invece per le ginocchia con le rotule sporgenti, che in realtà sembrano caratterizzare scolasticamente lo stile di tutti i collaboratori di Xanto.

L’invenzione e la composizione dunque, molto prossime all’opera di Xanto Avelli, e la consolidata presenza della figura di Giulio da Urbino come suo copista attorno al 1534, aiutano a ipotizzare la probabile esistenza di un piatto analogo del maestro, a noi ignoto o andato perduto, confermando a maggior ragione l’importanza del piatto in esame nell’ambito degli studi specialistici.

Estimate   € 25.000 / 35.000
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20

A DISH, URBINO OR CASTELDURANTE, 1525-1535

 

PIATTO, URBINO O CASTELDURANTE, 1525-1535

in maiolica dipinta in policromia con verde rame, verde oliva, giallo, giallo arancio, blu di cobalto, bruno di manganese nella tonalità del nero e del marrone. Sul retro etichetta di collezione EDWARD HAILSTONE/ WALTON HALL e parte di sigillo in ceralacca rossa; diam. cm 26,4, diam. piede cm 7,8, alt. cm 3,5

 

Provenienza

Edward Hailston Collection, Walton Hall, Warwick

 

Bibliografia di confronto

A.V.B Norman., Wallace Collection Catalogue of Ceramics 1: Pottery, Maiolica, Faience, Stoneware, Londra 1976, pp.259-230 n. C130;

J.V.G. Mallet, Xanto: i suoi compagni e seguaci, in “Francesco Xanto Avelli da Rovigo. Atti del Convegno Internazionale di Studi 1980”, Rovigo 1988, pp. 67-84;

D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics, A Catalogue of the British Museum’s Collection, Londra 2009, p. 252 n.149, pp. 294-295 n. 173;

V. Mazzotti in M. Marini (a cura di), Fabulae pictae. Miti e storie nelle maioliche del Rinascimento, Firenze 2012, p. 238 n. 28

J. Triolo, Figures in a landscape: elements and developments in Xanto’s early istoriati, in “Faenza”, XCIII, 2007, pp. 112-126

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello. Il verso è privo di decorazione. Sul recto una scena istoriata si sviluppa sull’intera superficie del piatto: al centro un paesaggio all’imbrunire con un tronco spezzato su una collina rocciosa con un boschetto sulla cima, mentre sullo sfondo un paesaggio lacustre con una piccola barca circondato da montagne, e una piccola città sullo sfondo appena illuminata dal sole nascente e in alto un volo di uccelli migratori appena accennati in bruno di manganese; in primo piano sulla tesa due personaggi: a sinistra un soldato con alabarda, appoggiato a un albero spoglio accanto a un braciere ardente, sulla sinistra un personaggio maturo, seduto di spalle, indica l’orizzonte. Come d’uso la raffigurazione dei personaggi trae spunto da incisioni disponibili nelle botteghe, e qui nello specifico il personaggio seduto richiama la figura che indica la scena principale nell’incisione di Marcantonio Raimondi, da Raffaello Sanzio, nota come Il martirio di S. Felicita, oggi in realtà ritenuta Il martirio di Santa Cecilia e la decapitazione del marito Valeriano e di suo fratello Tiburzio (Bartsch, XIV, p. 104 n. 117), soggetto ideato da Raffaello negli anni 1517-1519 per la Cappella di San Giovanni nel Casale Pontificio della Magliana, parzialmente distrutto nel 1830, di cui si conservano tracce in disegni come quello di Dresda, considerato il modello per l'incisione. La figura del soldato merita invece ancora approfondimento.

La modalità esecutiva del soggetto, ancora da definire, è anomala e trova riscontro stilistico preciso in un piatto raffigurante Il Martirio di San Sebastiano con soggetto da Girolamo Genga, oggi conservato al British Museum (inv. 1878,12-30,438), accostabile non solo per la resa del paesaggio – le nuvole a chiocciola, il cielo all’alba, gli alberi spogli -, ma anche per la tecnica pittorica e l’uso del colore, con una maestria raffinata nel delineare la muscolatura e i tratti somatici giocando con il bianco dello smalto sottostante. Il piatto di Londra, che finora non aveva riscontri precisi, è stato considerato opera urbinate attorno agli anni 1525-1535; privo di incisione di riferimento rispetto al dipinto di Girolamo Genga, si ritiene che fosse ispirato direttamente da un disegno presente alla corte di Urbino. Inoltre ci pare di poter accostare entrambe le opere anche a una coppa con Saturno che divora i propri figli, conservata alla Wallace Collection di Londra, anch’essa di anonimo pittore attivo a Urbino.

L’opera in esame, di grande interesse, si presta però anche a confronti con l’attività del pittore rovigese Xanto Avelli, soprattutto in rapporto con opere attribuite al Pittore in Casteldurante, rilevando una certa affinità con la produzione attribuita a Xanto attorno al 1525, come ad esempio il piato con Narciso alla fontana dell’amore (1525-1526) della Wallace Collection (inv. C47), quello della danza dei Cupidi (1527-1528), dello stesso museo (inv. C46), fino alla coppa lustrata con Ercole e Onfale del 1528, oggi al museo di Arezzo (inv. 14582).

Inoltre prendendo in considerazione lo studio di Julia Triolo, che in occasione del Convegno di Londra del 2007 ipotizzava un’interessante interazione tra il Pittore F.R. e il Pittore in Casteldurante negli anni dell’affermazione di Xanto in ambito marchigiano, e considerando proprio questo periodo come il momento di passaggio da una visione del paesaggio ancora legata alle visioni nordiche verso una visione collinare e un paesaggio più idealizzato, si giustificherebbero certe affinità con opere del pittore durantino. Ma non è da escludere, naturalmente, neppure l’apporto della frequentazione e dell’influenza di Nicola di Urbino, riscontrabile per esempio negli alberi e nelle nuvole, ma anche nell’elemento degli uccelli aggiunti a riempire il cielo, che troviamo per esempio in una placca con la Madonna che legge in un ambito architettonico, di ambiente genericamente urbinate e vicino a Nicola, del British Museum (inv. 1885,0508.28), presenti anche nella coppa con il Giudizio di Paride del Museo di Faenza, anch’essa vicina all’ambiente di Nicola di Urbino attorno agli anni 1530, a conferma dell’humus culturale di realizzazione del piatto in oggetto.

Estimate   € 20.000 / 30.000
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21

A SHALLOW BOWL, DERUTA, 1532

 

COPPA, DERUTA, 1532

in maiolica dipinta in verde, giallo giallo arancio blu di cobalto. Sul retro marca P paraffata in blu di cobalto; diam. cm 21,4, diam. piede cm 9,4, alt. cm 3,5

 

Bibliografia di confronto

B. Rackham, Islamic Pottery and Italian Maiolica. Illustrated Catalogue of a Private Collection, Londra 1959, p. 106 n. 382, tav. 170B;

T. Hausmann, Majolika. Spanische und italienische Keramik vom 14. bis zum 18. Jahrhundert, Berlino 1972, pp. 201-203 n. 151;

A.V.B. Norman, Wallace Collection Catalogue of Ceramics 1: Pottery, Maiolica, Faience, Stoneware, Londra 1976, pp. 91-94 nn. C37-C38;

C. Fiocco, G. Gherardi, Alcuni spunti per futuri studi: il servizio G_A e la serie del Lavare il capo all’asino. Una targa della collezione Cora attribuibile alla bottega del Frate da Deruta, in "Faenza", LXX, 1984, 5-6, pp. 403-416;

C. Fiocco, G. Gherardi, Ceramiche umbre dal Medioevo allo Storicismo. Parte prima: Orvieto e Deruta, Faenza 1988, pp. 128-129 fig. 79;

C. Fiocco, G. Gherardi (a cura di), La ceramica di Deruta, Perugia 1994, p. 273 n. 170

 

La coppa presenta cavetto concavo con tesa alta e terminante in orlo sottile e arrotondato, mentre la larga tesa è appena inclinata e poggia su un alto piede a orlo estroflesso. Il decoro policromo, che ricopre l’intera superficie, si basa su un motivo a grottesche che si sviluppa in una candelabra centrale con base a mascherone e terminante in un braciere ardente, affiancata nella parte mediana da due draghi simmetrici contrapposti, dalle cui fauci escono due cornucopie sinuose ricolme di frutta e una catenella con perle bicolore. Intorno, a completare la decorazione, alcuni trofei e un tendaggio. Tra i trofei in alto entro un cartiglio si legge in caratteri corsivi ano domini/ 1532. Al verso un orlo definito da sottili archetti blu e una marca a P paraffata.

Il decoro a grottesche e a candelabra interessa trasversalmente tutte le produzioni ceramiche dell’Italia centrale agli inizi del Cinquecento. Coppe di questa foggia, e con simili esiti decorativi, venivano genericamente attribuite alla produzione di Casteldurante, per poi trovare, con il progredire degli studi, diverse e più precise collocazioni. Ricordiamo in proposito la prima proposta di Rackham di assegnare alla bottega Mancini i piatti che sul retro portavano la lettera M paraffata. L’attribuzione alla città umbra di Deruta è ormai generalmente accettata, con i doverosi distinguo, anche in base confronti stilistici, considerando la recente rilettura di opere simili da parte di Franco Cocchi e Giulio Busti, che ipotizzano un coinvolgimento del “Frate” nella bottega dello zio Nicola Francioli, ma soprattutto la diffusione delle loro proposte decorative anche delle botteghe nel territorio limitrofo.

Questo ci indirizza nell’attribuzione della coppa alle botteghe di Nicola Francioli e di Giacomo Mancini, nella consapevolezza che, spesso, le marche con lettere paraffate, sono da ascrivere all’ambito della bottega e non a singoli pittori, in virtù della lunga durata dell’attività, documentata nell'arco di due secoli. La coppa trova infatti alcuni utili confronti in ambito derutese, non ultimo quello con i piatti del cosiddetto servizio “GA” decorato a grottesche in policromia con uno stile rapido e colorato, ma anche in opere a lustro, come il grande piatto recentemente aggiunto alle collezioni del Museo di Deruta nel quale l’ornato mostra il caratteristico mascherone con lunga barba e ricche cornucopie. Il confronto, inevitabile, con opere prestigiose della prima bottega derutese di Francioli, come il piatto del Victoria and Albert Museum, soddisfa solo e unicamente per la grafia della scritta, con il quale ha qualche affinità. Più interessante invece il confronto con opere più prossime agli anni trenta del Cinquecento, che ci fornisce qualche spunto di riflessione. La coppa della bottega Mancini con scena di corteggiamento della Wallace Collection (IIIC133) condivide con la nostra la forma, la policromia e soprattutto la materia spessa e crettata nello smalto, oltre al decoro semplificato redatto in blu sul retro lungo l’orlo e attorno al piede, nonché una lettera paraffata, probabilmente una S. Tuttavia il confronto più pertinente si può effettuare con una scodella da impagliata del Kunstgewerbemuseum di Berlino (inv. 11,40) decorata a candelabra in blu e blu pallido, che mostra caratteristiche stilistiche molto pertinenti: le figure ricavate a risparmio sul fondo blu, il decoro a piccoli punti sul corpo degli animali, in questo caso pavoni, i grossi frutti che emergono da una fruttiera centrale e un decoro veloce, anche se qui più complesso, al verso.

Estimate   € 15.000 / 25.000
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22

A PLATE (TONDINO), URBINO, WORKSHOP OF GUIDO DI MERLINO, CIRCA 1540-1550

 

TONDINO, URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DI MERLINO, 1540-1550 CIRCA

in maiolica dipinta in blu di cobalto, verde, giallo, giallo arancio, bruno di manganese, bianco di stagno. Al verso la scritta in blu cobalto con caratteri corsivi Aquariio; diam. cm 24,2, diam. piede cm 7, alt. cm 4

 

Bibliografia di confronto

C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliques italiennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon. Collection Gillet, Lione 2001, pp. 251-252 n. 168;

G. Anversa, La Collezione Francesco Franchi e la donazione alla Pinacoteca di Varallo Sesia, Vol. 2, Borgosesia 2007, p. 42 n. 12.

 

Il piatto ha cavetto profondo, larga tesa appena obliqua, e poggia su basso piede privo di anello, secondo la forma generalmente definita come "tondino". La superficie è decorata con una complessa scena istoriata: alcuni personaggi barbati sono intenti a riversare acqua da alcune anfore, secondo la tradizionale iconografia classica del "fiume", raffigurato appunto come un vecchio che riversa l’acqua da un vaso. Al verso, all’interno del piede, un’iscrizione redatta in blu cobalto con caratteri corsivi Aquariio.

I Fiumi sono qui appunto rappresentati secondo la visione classica che li raffigura come dei vecchi barbati che riversano le acque da contenitori dalla varia foggia in una fenditura del terreno, qui posta all’esergo sulla tesa. Il pittore, con una visione del tutto personale, ritrae i Fiumi con più dita dei piedi, a rappresentare probabilmente i piedi palmati. I personaggi sono sei, in pose diverse e ritratti su più piani prospettici, di cui uno in alto su una balza erbosa. Il decoro istoriato interessa l’intera superficie del piatto ed è racchiuso tra due quinte di alberi e un’alta roccia, con un paesaggio montuoso sullo sfondo. Il pittore molto probabilmente trae spunto da una o più incisioni, forse interpretando a suo modo la costellazione dell’Acquario, oppure proponendo nell'iscrizione una definizione più semplificata e generale della scena. Ci pare di poter indicare come fonte iconografica per quest’opera l'incisione del Maestro del Dado, da Giulio Romano, che ritrae Peneo consolato dai fiumi dopo la metamorfosi di Dafne (A. Bartsch, Le peintre graveur, XV, Nieuwkoop 1982, p. 112 n. 22).

I modi sono quelli di un pittore attivo nella bottega di Guido da Merlino studiato da Carola Fiocco e Gabriella Gherardi, che hanno raccolto attorno a questa figura anonima una serie di piatti. Il pittore, che già era stato definito come Pittore di Sansone e i Filistei da una coppa del Louvre, è per le due studiose l’autore di un piatto ora al Museo di Sèvres dietro al quale compare un’iscrizione che ne attesta la produzione nella bottega di Guido di Merlino il 30 marzo del 1542. Si tratta di una delle botteghe più importanti di Urbino, nella quale hanno lavorato alcuni pittori tra i quali Luca di Bartolomeo da Casteldurante, Fedele di Giovanni e Francesco Durantino. I piatti e le coppe, alcune lumeggiate a lustro, sono elencate in dettaglio nella scheda che accompagna un esemplare molto prossimo al nostro per stile figurativo, ma anche per la distribuzione della scena su più piani: si tratta di un opera con scena allegorica della collezione Gillet al Museo di Lione, alla cui scheda rimandiamo per confronto e analisi critica. Alle opere elencate con attenzione dalle studiose si può aggiungere a nostro parere il piatto oggetto di studio unitamente a un piatto, lumeggiato in lustro rosso, ora alla Pinacoteca di Varallo nella collezione Francesco Franchi.

Estimate   € 15.000 / 25.000
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23

A BOWL, MARCHE, PROBABLY PESARO, WORKSHOP OF LANFRANCO GIROLAMO DALLE GABICCE, 1542 

 

COPPA, MARCHE, PROBABILMENTE PESARO, BOTTEGA DI LANFRANCO GIROLAMO DALLE GABICCE, 1542

in maiolica dipinta in policromia con bruno di manganese, verde ramina, blu di cobalto giallo e giallo arancio. Sul retro iscrizione in caratteri corsivi redatti in blu cobalto “Ateon converse in/ cervio da diana-1542"; diam. cm 28,2, diam, piede cm 12,7, alt. cm 7

 

Bibliografia di confronto

G. Biscontini Ugolini, Di alcuni piatti pesaresi della Bottega di Lanfranco delle Gabicce, in "Faenza", 2, 1978;

P. Bonali, R. Gresta, Girolamo e Giacomo Lanfranco dalle Gabicce maiolicari a Pesaro nel secolo XVI, Rimini 1987;

G. Bojani, Fatti di ceramica nelle marche dal Trecento al Novecento, Macerata 1997

Bibliografia di confronto

G. Biscontini Ugolini, Di alcuni piatti pesaresi della Bottega di Lanfranco delle Gabicce, in "Faenza", 2, 1978;

P. Bonali, R. Gresta, Girolamo e Giacomo Lanfranco dalle Gabicce maiolicari a Pesaro nel secolo XVI, Rimini 1987;

G. Bojani, Fatti di ceramica nelle marche dal Trecento al Novecento, Macerata 1997

 

La coppa presenta cavetto concavo con tesa alta terminante in orlo sottile arrotondato e larga tesa appena inclinata, e poggia su un piede alto dall’orlo svasato. Al verso sotto il piede in caratteri corsivi redatti in blu cobalto si legge “Ateon converse in/ cervio da diana-1542". L'episodio, derivato dal mito, raffigura Atteone che, dopo aver sorpreso Diana e le compagne mentre facevano il bagno, viene tramutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Qui la dea e le compagne sono raffigurate con aria sorpresa mentre si ritraggono, parzialmente coperte da alcuni veli svolazzanti, e Diana sembra spruzzare con la mano destra dell’acqua verso lo sventurato cacciatore che tenta la fuga mentre i cani lo aggrediscono.

Il paesaggio circostante è dipinto con grande incisività: una grande roccia forata fa da sfondo, mentre su un’altra cresce un alberello da una zolla arrotondata, e in lontananza si vede un paesaggio lacustre con una piccola città con cupole e contrafforti ad archi, mentre sulla sinistra se ne scorge un’altra in lontananza, ombreggiata di blu. Ciuffi di fiori appena percepibili ornano le rocce, uno steccato delimita la riva. I corpi delle donne sono robusti con muscolatura evidente e seni rotondi, i volti larghi con piccole bocche appena socchiuse. Tanti di questi elementi stilistici richiamano alcune opere riferibili al Pittore del Pianeta Venere, probabilmente Nicola da Fano, attivo in questo periodo a Pesaro presso la bottega di Lanfranco Girolamo dalle Gabicce. Purtuttavia siamo propensi a attenerci ad una attribuzione ancora prudenziale alla bottega.

Estimate   € 6.000 / 9.000
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24

A DISH, MARCHE, PROBABLY PESARO, WORKSHOP OF LANFRANCO GIROLAMO DALLE GABICCE, CIRCA 1540-1550

 

PIATTO, MARCHE, PROBABILMENTE PESARO, BOTTEGA DI LANFRANCO GIROLAMO DALLE GABICCE, 1540-1550 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con bruno di manganese, verde, verde ramina, blu di cobalto, giallo e giallo arancio. Sul retro iscrizione in caratteri corsivi in blu cobalto "Questo sie qundo moise aue la lege"; diam. cm 28,8, diam piede cm 11,2, alt. cm 4,6

 

Bibliografia di confronto

G. Biscontini Ugolini, Di alcuni piatti pesaresi della Bottega di Lanfranco delle Gabicce, in "Faenza", 2, 1978, tav. XIV;

L. Fontebuoni, Raccolta D. Mazza. Ceramiche rinascimentali, vol. 2, 1985–1986, scheda n. 30

 

Il piatto presenta cavetto profondo e larga tesa obliqua, e poggia su un basso piede privo di anello. L’ornato istoriato interessa l’intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura l’episodio biblico nel quale Mosè riceve le tavole della legge, come spiegato dall’iscrizione in caratteri corsivi redatta in blu cobalto sul retro del piatto "Questo sie qundo moise aue la lege".

Il patriarca, raffigurato sulla tesa in alto a destra in cima a un monte parzialmente coperto da un albero che cresce su una roccia scoscesa, riceve le tavole da una nuvola parzialmente dipinta a risparmio sullo smalto con arancio e bistro. Al di sotto, al centro del cavetto, tre personaggi accompagnati da un gregge di pecore discutono, mentre in lontananza sulla tesa a sinistra si scorge un villaggio su una falda rocciosa unita alla terraferma con un ponte. Sembra che qui l'ispirazione sia tratta da una o più incisioni, magari rielaborate secondo l'estro del momento.

Il pittore dipinge con grande velocità riempiendo la scena con infiniti dettagli (steccati, ciuffi d’erba, cespugli), lumeggia con abbondante bianco di stagno e definisce i dettagli delle vesti e i contorni dei volti con abbondante bruno di manganese, che utilizza anche in maniera evidente per ombreggiare le rocce. Lo stile pittorico è deciso e rapido, ma non trova per il momento un riscontro stilistico preciso. Si tratta di un pittore che conosce la modalità figurative urbinati, ma senza la capacità compositiva delle stesse, forse più vicino alla cifra stilistica delle botteghe pesaresi e in particolare a quella di Lanfranco Girolamo dalle Gabicce, al riguardo del quale può essere utile un confronto con il piatto del Museo di Pesaro (inv. 4159) raffigurante la dea Latona che muta i villani in rane.

Estimate   € 6.000 / 9.000
Price realized  Registration
25

A DISH, URBINO, WORKSHOP OF FONTANA, PROBABLY ANTONIO PATANAZZI, CIRCA 1540-1550

 

PIATTO, URBINO, BOTTEGA FONTANA, PROBABILMENTE ANTONIO PATANAZZI, 1540-1550 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con bruno di manganese, verde ramina, blu di cobalto, giallo e giallo arancio; diam. cm 31,2, diam. piede cm 21,4, alt. cm 4,5

 

Bibliografia di confronto

J. Lessmann, Herzog Anton Ulrich-Museum Braunschweig. Italienische Majolika, Katalog der Sammlung, Brunswick 1979, nn. 243-245;

J. Lessmann, Italienische Majolika Aus Goethes Besitz Bestandskatalog Klassik Stiftung Weimar Goethe-Nationalmuseum, Weimar 2015, p. 246 n. 96

 

Il piatto ha un ampio cavetto, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello. La decorazione interessa l’intera superficie del fronte con la rappresentazione della salita al Calvario: Gesù caduto sotto il peso della croce cerca di rialzarsi appoggiandosi a un masso, mentre le guardie lo incitano colpendolo con nodosi bastoni e verghe; alle sue spalle, all’uscita della porta delle mura raffigurate sullo sfondo, una folla con soldati e pie donne segue il percorso del condannato.

La scena, probabilmente ispirata a un’incisione della Bibbia illustrata, risente dell’humus culturale urbinate, dove l'arte di Raffaello veniva assiduamente seguita proprio grazie alle riproduzioni a stampa delle sue opere. Si ravvisa infatti una certa vicinanza a opere del pittore urbinate, ed in particolare alla tela del Calvario oggi al Prado di Madrid, di cui circolava tra le botteghe la riproduzione a stampa ad opera di Marcantonio Raimondi. Infatti un piatto con uguale soggetto è stato prodotto nello stesso periodo nella bottega di Mastro Domenico, oggi conservato al Goethe National Museum. In entrambe le opere i pittori usano liberamente le fonti, aggiungendo e indulgendo su dettagli del tutto originali. Il nostro pittore si sofferma in particolare sull’edificio che circonda la scena e sulla strada aperta di fronte al corteo, realizzando la raffigurazione alla luce della propria tecnica e stile pittorico: le figure hanno visi piccoli, quelle femminili con labbra sorridenti, le ombre sono realizzate con sottili tratti, mentre i volti, i dettagli delle vesti e delle armature sono lumeggiati in bianco di stagno. Questi dettagli, oltre ad un ordine compositivo particolarmente accorto anche nella realizzazione dei particolari della vegetazione e nella resa del legno della croce, ma soprattutto i volti delle figure ci indirizzano a ricercare l’autore di questo piatto nell'ambito dei Patanazzi, opera forse proprio di Antonio, attivo dapprima nella bottega Fontana e poi imprenditore di sé stesso, dopo il 1540, ma comunque sempre legato alla bottega dello zio Guido Durantino e del cugino Antonio, di cui ripercorre alcuni stilemi stilistici, arrivando a firmare in autonomia la propria opera solo nel 1580. Ci pare che a lui si possano associare le figure del soldato con lorica lunga segnata anatomicamente, come pure le teste piccole coperte da elmi con visiere e i piedi piccoli allungati e appuntiti, che ricordano quelli presenti nel bacile oggi conservato all'Herzog Anton Ulrich di Braunschweig con La vittoria di Abramo, dove riconosciamo anche i volti sorridenti associabili con quelli della folla del nostro piatto.

Estimate   € 7.000 / 10.000
26

A DISH, URBINO OR DUCHY OF URBINO, HALF 16TH CENTURY

 

ALZATA, URBINO O DUCATO, METÀ SECOLO XVI

in maiolica dipinta in policromia in blu di cobalto, verde, giallo, giallo arancio, bruno di manganese, bianco di stagno, diam. cm 26,8, diam. piede (tagliato) cm 10, alt. cm 4

 

Bibliografia di confronto

T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a private collection, Torino 2018, p. 338 n. 147

 

L'alzata in maiolica ha fondo liscio con bordo rialzato e breve dall’orlo arrotondato, e in origine poggiava su piede probabilmente alto poco svasato applicato in cottura, ora mancante asportato forse per inserire l’opera in una cornice. Il recto è interamente interessato da una decorazione istoriata che narra l'episodio della flagellazione di Cristo. Al verso una sola linea gialla lista il bordo.

Gesù è legato alla colonna e subisce la flagellazione da parte di due personaggi armati di verghe. La scena è ambientata in un porticato con colonne marmoree marezzate, cui fa da sfondo una vasta piazza circondata da palazzi con cupole, portici ad archi, mentre in lontananza si intravede un'alta torre circolare. Il pittore, che si ispira alla xilografia di Bernard Salomon del 1554, pubblicata per la prima volta in italiano a Lione nel 1559 nel volume Figure del nuovo testamento illustrate da versi vulgari italiani, lascia spazio alle architetture, che non sempre interpreta con correttezza, ma dedica mota cura anche alla realizzazione dei personaggi. Il Cristo, che indossa un solo perizoma legato in vita di colore verde intenso, tiene alto il capo mentre i due aguzzini infieriscono, uno con una tunica blu lumeggiata di giallo e l’altro con una lorica e un cappello frigio e calzari verdi. L’elemento coloristico è predominante e contribuisce a far emergere le figure dallo sfondo.

Un esemplare di confronto interessante ci è fornito da un piatto conservato in collezione privata, recentemente pubblicato da Timothy Wilson, con analoga scena, ma dipinto secondo i canoni di Gironimo Tommasi a Lione, che si distingue per le architetture e per il modo assai personale di dipingere le figure. Qui invece il pittore utilizza modalità decisamente urbinati, che si avvicinano a certi esiti stilistici delle opere della metà del secolo per la capacità pittorica, il colorismo e le proporzioni, elementi che ci portano a ritenere l'opera non di bottega, e quindi meritevole di ulteriori approfondimenti.

Estimate   € 10.000 / 15.000
27

A MOULDED BOWL (CRESPINA), FAENZA, CIRCA 1540

 

CRESPINA, FAENZA, 1540 CIRCA

in maiolica, dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, blu di cobalto e bruno di manganese; diam. cm 22, diam. piede (tagliato) cm 8,7, alt. cm 4,2

 

Bibliografia di confronto

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, pp. 307-309 nn. 936, 940-941;

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1998, pp. 382-383 n. 96;

E. Ivanova, Il secolo d’oro della maiolica. Ceramica italiana dei secoli XV-XVI dalla raccolta del Museo Statale dell’Ermitage, Faenza 2003, p. 44 n. 9

 

La coppa ha umbone centrale rilevato, tesa baccellata con orlo sagomato molto regolare e appena estroflesso, e poggia su alto piede appena estroflesso, parzialmente mutilo. La decorazione è a settori alternati, disposti simmetricamente attorno all’umbone centrale, con quattro spicchi ovaleggianti con decori a girali fogliate e boccioli dipinti in azzurro parzialmente a riserva su fondo arancio, mentre le restanti porzioni con girali fogliate delineate a risparmio in giallo e giallo arancio su fondo blu cobalto, che si ripetono in una sequenza continua sul breve orlo. L’umbone mostra al centro su fondo giallo un ritratto virile di un giovane con la capigliatura mossa e la clamide annodata a coprire il busto. Il ritratto, ben delineato e ombreggiato di bruno di manganese, è accompagnato da un cartiglio che reca il nome MUTIO in caratteri capitali. Sul retro un motivo nei colori blu e giallo arancio disposti a sottolineare la forma con piccoli tratti.

La crespina “a quartieri”, tipica della produzione faentina, ebbe grande successo nel corso del Cinquecento, e due opere datate costituiscono i capisaldi cronologici entro cui inserire la produzione, esemplari datati 1538 e 1547. La tipologia continua però anche nel periodo compendiario con esemplari “bianchi” almeno fino al 1575, quando la foggia, probabilmente tratta da forme metalliche, è particolarmente esaltata.

La coppa in analisi trova confronto in due crespine conservate nei musei tedeschi: una con decoro a quartieri e una con un decoro a ramage floreali: entrambe gli oggetti condividono con la nostra coppa anche la inconsueta decorazione del retro a tocchi colorati collocati a esaltare la forma. Altri confronti ci derivano dalle collezioni dei Musei Francesi sempre con disposizione dell’ornato a quartieri, ma con umbone variamente ornato: con Giovanni Battista (inv. OA1594), con una santa martire (inv. 16) e con una figura di soldato barbato con cartiglio “Davit” (inv. 15). La forma trova poi riscontro nella nota coppa dell’Ermitage di San Pietroburgo (inv. F 1490) con scritta “Faenzie” al retro e in alcune coppe del V&A, tutte databili attorno al 1540.

Estimate   € 2.000 / 3.000
Price realized  Registration
28

A MOULDED BOWL (CRESPINA), FAENZA, 1540-1560

 

CRESPINA, FAENZA, 1540-1560

in maiolica, dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, blu di cobalto e bruno di manganese; diam. cm 25,2, diam. piede cm 12,8, alt. cm 7

 

Bibliografia di confronto

T. Hausmann, Majolika. Spanische und italienische Keramik vom 14. bis zum 18. Jahrhundert, Kataloge des Kunstgewerbemuseums Berlin VI, Berlino 1972, pp.174-177 nn. 131-132;

J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Parigi 1974, pp. 307-309 nn. 936, 940-941;

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1998, pp. 389-391 n. 99 n. 96).

 

La coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata e orlo sagomato poggia su alto piede appena estroflesso. La coppa è decorata con settori alternati, disposti simmetricamente attorno all’umbone, in più spicchi sagomati che si dipartono dal centro per raggiungere l’orlo, dove abbracciano una riserva ovale. L’ornato alterna motivi con girali fogliate delineate a risparmio in giallo e giallo arancio su fondo blu cobalto con decori “a candelabra” con delfini, boccioli e teste di amorini dipinti in azzurro su fondo arancio. L’umbone al centro vede su fondo giallo un ritratto virile con la clamide: un uomo maturo, barbato, con il capo coperto da un piccolo copricapo, la clamide annodata a coprire il busto lasciando parzialmente scoperto lo scollo quadrato della tunica. Il ritratto, ben delineato lumeggiato da tocchi di stagno, è accompagnato da un cartiglio che reca il nome ANIBALO in caratteri capitali. Sul retro un motivo nei colori blu e giallo arancio sottolinea la forma e riempie le riserve con un sottile motivo fitoforme.

La raffigurazione di personaggi dalla romanità caratterizza questa tipologia ceramica con raffigurazioni di condottieri, letterati, ma anche personaggi biblici. La disposizione dei quartieri, quasi mai uguale, costituisce un discrimine tra le varie opere, simili, ma mai identiche, consentendo ai pittori una grande libertà decorativa.

La crespina “a quartieri”, che come quella che precede appartiene alla tipica produzione faentina, si distingue per qualità, materia e stile pittorico, trovando confronto ad esempio nei grandi vasi con ritratti di condottieri romani prodotti a Faenza attorno alla metà del secolo, ora conservati al MIC di Faenza (invv. 7599-7600).

Estimate   € 3.000 / 5.000
Price realized  Registration
29

A BULBOUS JAR, VENICE, CIRCA 1530

 

BOCCIA, VENEZIA, 1530 CIRCA

in maiolica dipinta a policromia in blu, giallo, giallo arancio e verde ramina; alt. cm 32, diam. bocca cm 15,2, diam. piede cm 15

 

Bibliografia di confronto

G.C. Bojani, C. Ravanelli Guidotti, A. Fanfani, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La donazione Galeazzo Cora. Ceramiche dal Medioevo al XIX secolo, Milano 1995, p. 316 n. 817;

F. Saccardo in R. Ausenda (a cura di), Le ceramiche. Museo d'Arti Applicate, Milano 2000, p. 275 schede 295-298, p. 285-286 scheda 313;

R. Perale, Maioliche da farmacia nella Serenissima, Venezia 2021, pp. 85-90

 

Il vaso farmaceutico ha corpo globulare, collo basso e cilindrico terminante in un orlo estroflesso tagliato a stecca, e poggia su una base piana a disco. La decorazione interessa l’intera superficie con un motivo ad ampie volute vegetali con foglie e piccoli fruttini tondi che incorniciano gruppi di grandi frutti quali pere e melograni; sul collo una catena continua di foglie, mentre al centro della pancia si dipana un cartiglio farmaceutico scritto in blu in caratteri gotici S de RoSa Solitivo.

L’opera appartiene a una serie di vasi con attribuzione controversa tra la Sicilia e Venezia, anche se il vaso appartiene comunque alla tipologia veneziana a frutti e racemi su fondo candido e trova riscontro preciso in un esemplare conservato al Castello Sforzesco di Milano, alla cui scheda facciamo riferimento per confronti, e in un vaso della Collezione Cora a Faenza datato 1579, anch’esso con melagrane spezzate. Riguardo a due vasi sempre “a frutta grossa” dello stesso museo faentino, provenienti dalla Raccolta Spanò di Palermo, si veda quanto scritto da Carmen Ravanelli Guidotti sulle tipologie decorative dei vasi a boccia con decoro a frutta, sulla varietà dei decori secondari che ne caratterizzano l’ornato del collo e sull’importanza della loro influenza sulla produzione locale siciliana, e soprattutto sulla presenza, già indicata da Liverani, di frammenti con frutta nei butti faentini.

Una differente lettura quindi sulla paternità delle bocce "a frutta grossa", ascrivibile a Mastro Domenico, è discussa da Riccardo Perale nel suo recente studio sulla maiolica veneziana, dove per questa tipologia non si esclude una produzione veneziana, pur invitando ad una rilettura alla luce delle vaste produzioni che dalla città lagunare si svilupparono in Italia. Lo studioso, superando la citazione di Piccolpasso che vede in questo decoro una produzione tipicamente veneziana, ci ricorda non solo la precocità del prototipo di frutta grossa sul piatto del Victoria and Albert Museum con testa di satiro, databile tra il 1530 e il 1540, ma anche i precedenti nord-europei databili al 1508 e altri esempi che anticiperebbero la datazione di queste opere.

Estimate   € 2.000 / 3.000
Price realized  Registration
30

A DISH, CASTELDURANTE, 1552

 

PIATTO, CASTELDURANTE, 1552

in maiolica dipinta in policromia in verde, blu di cobalto, bruno, bistro. Reca sul fronte entro due cartigli separati la sigla P.B. e la data 1532; diam. cm 23,1, diam. base cm 10, alt. cm 3

 

Bibliografia di confronto

C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliquesitaliennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon. Collection Gillet, Lione 2001. p. 194 n. 129

 

Il piatto ha cavetto poco profondo, una tesa larga, orizzontale con orlo arrotondato e poggia su un basso piede ad anello. Al centro del cavetto, poggiato su un tappeto erboso e circondato da nastri svolazzanti, uno stemma (non identificato) centrato da un leone rampante d’argento con banda orizzontale blu cobalto su fondo giallo, ai lati del quale due lettere “P” entro una sottile riserva ovale. La tesa è interessata da quattro gruppi maggiori di trofei disposti a formare un quadrato, redatti con tratto rapido in color bruno grisaille, molto acquarellato e sfumato con il bistro, posti sul fondo blu cobalto decorato a sgraffio con sottili nastri; ai centri destro e sinistro la data 1552 e la sigla PB entro cartigli rettangolari.

L’opera in esame appartiene ad una tipologia tradizionalmente attribuita alle botteghe di Casteldurante, pur essendo presente in tutto il Ducato di Urbino, e vanta tra gli altri due significativi esemplari di confronto, uno al Museo di Lione nella collezione Gillet, coerente per forma e decoro, e l’altro nella collezione Formica di Rimini.

Estimate   € 6.000 / 9.000
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