OLD MASTER PAINTINGS

14 MAY 2019

OLD MASTER PAINTINGS

Auction, 0295
FLORENCE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
3.30 p. m. 
Viewing
FLORENCE
10th - 13th May 2019
10 a.m. - 6 p.m.
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Estimate   1000 € - 150000 €

All categories

1 - 30  of 68
58

Giovanni Montini

(Firenze, 1613 - 1673)

I SANTI JACOPO E DOMENICO CON ANGELI ADORANTI

olio su tela, cm 263x173,5

 

SAINT JACOB AND SAINT DOMINIC KNEELING, WITH ANGELS

oil on canvas, cm 263x173,5

 

Bibliografia

F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Milano 2009, p. 583; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del '600 e '700, Firenze 2009, vol. 2, ill. 1113 p. 138.

 

Riconosciuta come opera di Giovanni Montini dagli specialisti del settore, la tela qui offerta rivela una evidente dipendenza dai modelli di Jacopo Vignali presso la cui illustre scuola si formò e al quale rimase legato stilisticamente per tutto il prosieguo della sua carriera.

A partire dal 1635 Montini risulta pittore autonomo, ottenendo successivamente anche il titolo di accademico presso la prestigiosa Accademia del Disegno; tra il 1647 e il 1666 il suo nome compare frequentemente nei registri di pagamento del cardinale Giovan Carlo de' Medici per il quale ricoprì il ruolo di consulente artistico oltre che di pittore. 

Presso l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze è conservato un ottagono raffigurante Sant'Antonio da Padova eseguito proprio per il prelato di casa Medici (pubblicato in Bellesi 2009, vol. 2, ill. 1107, p. 136): emerge in questo esemplare, databile al 1663, la stessa vena creativa intrisa di intensa religiosità presente anche nel nostro dipinto che per l'analoga morbidezza nella stesura pittorica può essere parimente collocato nell'ultimo periodo di attività di Montini.

Si segnala inoltre la cura descrittiva nella resa dell'espressività dei volti dei due santi, in adorazione probabilmente della raffigurazione di una Madonna col Bambino che si trovava incorniciata al centro della pala e portata in gloria dagli angeli, forse antica immagine ritenuta miracolosa.

 

 

Estimate   € 8.000 / 12.000
57

Francesco Morosini, detto il Montepulciano

(Montepulciano? 1600 c.a. - 1646 c. a.)

DIANA DORMIENTE

olio su tela, cm 174x147

 

SLEEPING DIANA

oil on canvas, cm 174x147

 

L’opera è corredata di expertise di Francesca Baldassari.

Soprannominato “il Montepulciano” dal biografo Filippo Baldinucci per via delle sue origini, Francesco Morosini si fece conoscere sulla scena artistica fiorentina all’inizio degli anni venti del Seicento, ottenendo in breve tempo grande consenso anche all’interno dell’Accademia del Disegno dove venne eletto console nel 1642.

L’opera è da collocare secondo la Baldassari lungo il corso del quarto decennio del secolo per il suo richiamare i languidi prototipi femminili di Francesco Furini che avevano riscosso un notevole successo intorno agli anni trenta: anche la Diana qui raffigurata sensualmente abbandonata al sonno è immersa nella notte e il suo incarnato perlaceo riluce grazie al chiarore della luna proprio come nella celebre Maddalena furiniana oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

La solidità della figura della dea cacciatrice deriva invece dalla precoce formazione senese del pittore, ingentilita dalla virtuosistica resa del drappo damascato di un intenso blu, mutuata da Giovanni Bilivert presso la cui scuola il Morosini fu accolto al suo arrivo a Firenze.

L’arricciato svolgimento dei panneggi oltre che l’accuratissima resa di motivi decorativi e stoffe si configurano quale cifra stilistica tipica del corpus pittorico noto del Montepulciano, all’interno del quale si segnala l’Arianna abbandonata da Teseo di collezione privata, esposta nella mostra del 2017 dedicata ad Artemisia Gentileschi (Artemisia Gentileschi e il suo tempo, catalogo della mostra, Roma, Museo di Roma, a cura di F. Baldassari, Milano 2016, pp. 166-167, scheda 41). Se pur ascrivibile a un tempo precedente ritroviamo similarità nell’impaginazione e soprattutto la stessa vibrante e iridescente resa del velluto.

 

 

 

 

 

 

Estimate   € 35.000 / 50.000
56

Giovanni o Niccolò Stanchi

(Roma, 1608 – 1675; 1623 - 1690 circa)

VASO DI FIORI SU UN PIANO ALL'APERTO CON ANGURIA, MELOGRANI E MELECOTOGNE

olio su tela, cm 127x103

 

FLOWERS IN A VASE WITH WATERMELON, POMEGRANATES AND QUINCES IN A LANDSCAPE

oil on canvas, cm 127x103

 

Questa raffinata e variopinta composizione si iscrive a pieno titolo nella produzione, ormai circoscritta e messa a fuoco dalle ricerche di Silvia Proni, di una delle botteghe di maggior successo nella Roma seicentesca, quella di Giovanni, Niccolò e Angelo Stanchi che, diversi per età, operarono con successo lungo tutto il secolo.

L’assenza di opere firmate individualmente e di riferimenti cronologici, con l’eccezione degli specchi dipinti a palazzo Borghese e a palazzo Colonna, comunque in collaborazione tra i fratelli, hanno fatto preferire la dicitura adottata anche qui a una difficile e infine sterile distinzione di mani all’interno di quello che fu un vero e proprio marchio.

Il dipinto qui offerto si accosta ad altri da tempo noti in cui le importanti dimensioni e il formato verticale consentono, come in questo caso, un’elaborata presentazione di frutta e fiori all’aperto. Si vedano appunto le tele già a Pesaro presso Altomani e in collezione privata a Lodi in tutto vicine alla nostra (S. Proni, La famiglia Stanchi, in G. e U. Bocchi, Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630 – 1750, Casalmaggiore 2005, pp. 286-87, figg. FS 51 e 52). Tipica la scelta di raffinatissime rose antiche (diverse ad esempio dalla varietà prediletta da Abraham Brueghel e poi da Franz Werner Tamm) che costituiscono quasi il marchio della bottega. I colori vivaci e discordanti, sempre esaltati dalla buona conservazione e dagli ottimi pigmenti utilizzati, sottolineano il legame degli Stanchi, e forse di Giovanni in particolare, con i modelli della pittura fiamminga, a cui spesso la bottega farà riferimento anche nella scelta di tipologie nordiche, quali le ghirlande di fiori, nelle quali si distinsero a Roma.

 

 

Estimate   € 35.000 / 50.000
53

Guglielmo Courtois, il Borgognone

(Saint-Hippolyte, 1628 – Roma, 1679)

 

ENEA E LA SIBILLA CUMANA SULLE RIVE DELLO STIGE

olio su tela, cm 51,5x67

 

AENEAS AND THE CUMEAN SYBIL ON THE BANKS OF THE RIVER STYX

oil on canvas, cm 51,5x67

 

Provenienza

Germania, collezione privata; Londra, Whitfield Fine Arts

 

Attribuito oralmente a Guglielmo Courtois da Erich Schleier e poi da Simonetta Prosperi Valenti in una comunicazione scritta alla proprietà, questo inedito e raffinato dipinto propone un soggetto davvero inconsueto nella pittura seicentesca, il viaggio di Enea agli Inferi narrato da Virgilio nel sesto libro dell’Eneide (VI, v. 123 e ss.). La scena raffigura più esattamente il prologo a quel viaggio, il momento cioè in cui l’eroe troiano, guidato dalla Sibilla che gli ha rivelato il modo di accedere all’Oltretomba, attende sulle rive dello Stige la barca di Caronte che lo traghetterà, unico vivente, nel regno di Ade: lì Enea incontrerà le ombre dei defunti e, motivo primo del poema, avrà visione anticipata della propria discendenza fino alla dinastia giulio-claudia. Come disposto, egli reca in mano il ramo d’oro da offrire in dono a Proserpina, ed è questo uno degli elementi (l’altro è la figura di Cerbero sullo sfondo) che consente di identificare con sicurezza la scena raffigurata.

Contrariamente a quanto descritto nel poema virgiliano, la scena è ambientata in un ameno paesaggio boscoso concluso sullo sfondo da archi rocciosi: una citazione, come indica Simonetta Prosperi, dell’affresco del I secolo rinvenuto a Roma nel 1627 in occasione dei lavori di sterro per la costruzione di palazzo Barberini, noto alla cerchia degli eruditi seicenteschi come “Ninfeo Barberini”. Distrutto non molto tempo dopo il suo ritrovamento, è documentato da incisioni eseguite nella dotta cerchia di Cassiano dal Pozzo, e da un disegno di Claude Lorrain, forse tratto da una di esse: insieme alla rarità del soggetto, quest’ultimo elemento suggerisce per il nostro dipinto una committenza colta e sofisticata, forse rintracciabile nella cerchia della famiglia Pamphilj, che appunto a Enea faceva risalire la propria ascendenza mitica, e per la quale l’artista borgognone fu attivo fin dai primi anni Cinquanta.

Soggetti tratti dal poema virgiliano furono comunque raffigurati da Courtois con soluzioni compositive non troppo diverse dalla nostra se pure meno originali: ci riferiamo ai due dipinti già a Roma nella collezione di Fabrizio e Fiammetta Lemme (Venere dona le armi a Enea; Enea e Didone sorpresi dalla tempesta; cfr. S. Prosperi Valenti Rodinò, in Il Seicento e Settecento romano nella collezione Lemme. Catalogo della mostra, Roma 1998, pp. 130-31, nn. 45-46). Come i dipinti citati, anche il nostro certifica la capacità raggiunta da Guglielmo Cortese nella pittura di paesaggio, probabilmente in virtù della stretta frequentazione di Gaspar Dughet, con cui collaborò e comunque fu in contatto nei primi anni Cinquanta, ancora una volta per i Pamphilj.

 

 

 

Estimate   € 15.000 / 20.000
Price realized  Registration
48

Vincenzo Malò

(Cambray, circa 1605 – Roma?, 1660 circa)

CAMILLO E IL MAESTRO DI SCUOLA DI FALERII

olio su tela, cm 250x300

 

CAMILLO AND THE MASTER OF FALERII

oil on canvas, cm 250x330

 

Bibliografia

A. Orlando, in Van Dyck e i suoi amici. Fiamminghi a Genova 1600 – 1640. Catalogo della mostra (Genova, Palazzo della Meridiana, febbraio – giugno 2018, a cura di Anna Orlando), Genova 2018, p. 66 e fig. 66.

 

Raro per il soggetto, narrato da Plutarco e da Tito Livio, e imponente per dimensioni, il dipinto qui offerto va identificato con il modello, fino a questo momento ignoto, da cui, fra il 1764 e il 1766, Domenico Corvi trasse una copia di minore formato come cartone d’arazzo per la celebre Arazzeria Pontificia.

La storia di questa commissione, destinata ad ornare la sala del Trono nel palazzo dei Conservatori in Campidoglio con una serie di arazzi che illustrassero gli episodi più significativi della storia di Roma ed esaltassero le antiche virtù repubblicane, è stata ricostruita grazie ai documenti analizzati da Carlo Pietrangeli (1962) e più recentemente riassunta da Patrizia Masini nel catalogo generale della Pinacoteca Capitolina (2006) dove appunto si conservano i cinque cartoni ad olio su tela di Domenico Corvi, come pure gli arazzi nella loro collocazione originaria.

A seguito dell’approvazione da parte di Clemente XIII del progetto presentato dai Conservatori, nel gennaio del 1764 Domenico Corvi (Viterbo 1721 – Roma 1803) ebbe l’incarico di dipingere quattro scene figurate come modello per gli arazzieri pontifici, copiando i dipinti che gli sarebbero stati indicati dal marchese Camillo Francesco Massimi, Fabbriciere del Campidoglio e, in un solo caso, fornendo un’invenzione originale.

Oltre all’episodio di Marco Furio Camillo, celebre exemplum di integrità morale, furono illustrati quelli relativi a Romolo e Remo e alla Vestale Tuccia, oltre all’immagine della cosiddetta Dea Roma, quest’ultima un’invenzione originale di Domenico Corvi sulla base del celebre gruppo statuario capitolino.

Fino ad anni recenti solo il modello per il Ritrovamento di Romolo e Remo era stato identificato: fu infatti copiato dal celebre dipinto di Rubens già allora nelle raccolte capitoline, dalla collezione Pio di Savoia. Recente è invece l’identificazione dell’originale della Vestale Tuccia con un dipinto ora nelle raccolte del Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, dalla collezione Sellon d’Allaman, dove era anch’esso attribuito a Rubens mentre oggi è stato ricondotto all’ambito di Domenico Fiasella. Come è noto, molti dipinti di quella importante collezione ginevrina venivano dalla raccolta del marchese Raggi, nobile genovese trapiantato a Roma, e non a caso una nota di Domenico Corvi del 1766 specifica che la Vestale Tuccia era stata copiata da un dipinto in casa Raggi.

Niente di conclusivo è stato detto finora circa l’identificazione del modello copiato da Domenico Corvi per l’episodio di Camillo, che una guida del primo Novecento dichiara tratto da Nicolas Poussin. Ne è forse motivo la famosa composizione del pittore francese, nota in due esemplari simili tra loro ma privi di qualunque relazione con l’arazzo capitolino (Parigi, Louvre e Norton Simon Museum, Pasadena). E’ interessante osservare però come nella collezione Massimi fossero presenti numerosi dipinti di Poussin raccolti un secolo prima da Camillo II e inventariati nel 1677, insieme a un album di suoi disegni, ora a Windsor nelle raccolte reali inglesi. Uno dei fogli (Windsor 11914; A. Blunt, in “Master Drawings” 1976, pp. 14 e 26, n. 40, ill.) illustra appunto la storia di Camillo, soggetto particolarmente caro a Camillo Massimi.

Non si può quindi escludere, pur nel silenzio delle fonti e degli inventari, che il modello proposto dal marchese a Domenico Corvi venisse proprio dalla sua raccolta e che, per questo motivo venisse erroneamente associato a Nicolas Poussin. Riteniamo che, in ogni caso, vada identificato col dipinto qui offerto.

Correttamente collocato nell’ambito rubensiano, e più precisamente riferito a Theodor van Thulden in una comunicazione scritta alla proprietà ormai superata, il dipinto è stato invece restituito da Anna Orlando al catalogo di Vincent (o Vincenzo) Malò, pittore oltremontano attivo a Genova a partire dal 1634. Allievo di Rubens ad Anversa, dove è documentato fra il 1623 e il 1634, Malò si trasferì a Genova presso i fratelli Lucas e Cornelis de Wael, punto di riferimento della comunità fiamminga. Le fonti genovesi riferiscono di numerosi dipinti, per lo più di soggetto religioso usciti dalla sua bottega, a testimonianza del suo successo presso la committenza pubblica e privata. Maestro di Antonio Vassallo, Malò costituì in qualche modo il punto di snodo tra i grandi maestri fiamminghi, peraltro attivi a Genova e presenti con i loro capolavori nelle raccolte aristocratiche della Superba, e il loro seguito in città, di cui Vassallo fu appunto il principale esponente.

 

 

 

Estimate   € 25.000 / 35.000
46

Giovan Francesco Guerrieri

(Fossombrone 1589 – Pesaro 1657)

SAN GIOVANNI A PATMOS

olio su tela, cm 131x95

 

SAINT JOHN THE EVANGELIST IN PATMOS

oil on canvas, cm 131x95

 

Provenienza

Vienna, collezione privata; Vienna, Dorotheum, 30 marzo 2000, n. 71

 

Bibliografia

M. Pulini, Il Fossombrone ritrattista degli oratoriani. La raccolta Mattei e Antiveduto Grammatica, in “Paragone”, 60, 2005, pp. 31-39; G. Papi, Un dipinto di Giovan Francesco Guerrieri e uno di Caroselli scambiato per Guerrieri, in Senza più attendere a studio e insegnamento. Scritti su Caravaggio e l’ambiente caravaggesco, Napoli 2018, pp. 118-134, in particolare pp. 118-120 e fig. 1.

 

La restituzione a Giovan Francesco Guerrieri del dipinto qui offerto, in asta a Vienna con la curiosa attribuzione a Girolamo Muziano, si deve a Massimo Pulini e, in maniera del tutto indipendente, a Gianni Papi che ne ha precisato altresì la provenienza e la storia attributiva, dovuta a una firma apocrifa in parte ancora leggibile sulla pietra in basso a sinistra.

Immagine di grande potenza, l’Evangelista a cui si attribuisce il testo apocalittico occupa interamente il primo piano del dipinto volgendosi in contrapposto verso l’origine della sua ispirazione. I tratti rudi e sommariamente scorciati lo accostano alle opere pubbliche marchigiane del pittore di Fossombrone, e in particolare alle note tele con i miracoli di San Nicola da Tolentino in Santa Maria del Ponte del Piano a Sassoferrato, da tempo uno dei caposaldi per la ricostruzione del catalogo del Guerrieri e, nel nostro caso, per un riferimento cronologico intorno al 1615.

 

Estimate   € 25.000 / 35.000
44

Giovanni Battista Spinelli

(Bergamo o Chieti; documentato dal 1640 al 1655)

AGAR E L'ANGELO

olio su tela, cm 145x114

 

AGAR AND THE ANGEL

oil on canvas, cm 145x114

 

Esposizioni

Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli, ottobre 1984 – aprile 1985.

Bibliografia

N. Spinosa, Aggiunte a Giovan Battista Spinelli, in "Paragone" XXXV, 1984, 411, p. 33 e fig. 13; D.M. Pagano, in Civiltà del Seicento a Napoli. Catalogo della mostra, Napoli 1984, p. 470. n. 2.249 (con ulteriore bibliografia); N. Spinosa e D.M. Pagano, Giovan Battista Spinelli, in I Pittori Bergamaschi. Il Seicento, IV, Bergamo 1987, n. 25, ill. 36.

 

Pubblicato per la prima volta nel 1984 da Nicola Spinosa, cui si devono gli studi più significativi sull’artista seguiti alla riscoperta da parte di Roberto Longhi nel 1969, il dipinto qui offerto, molto noto agli studi ma da decenni assente dal mercato, fu presentato nello stesso anno a un pubblico più ampio in occasione della storica rassegna sul Seicento napoletano fortemente voluta da Raffaello Causa e realizzata dopo la sua scomparsa dalla Soprintendenza napoletana.

Oltre che con un gruppo di fogli in parte provenienti dallo storico nucleo delle collezioni medicee conservato agli Uffizi, Spinelli era presente in quell’occasione con ben dieci tele in una sala a lui dedicata: una scelta che dava conto della sua personalità appena risarcita e della sua situazione anomala nell’ambito della scuola napoletana, più che del peso che in quella scuola l’artista di origini bergamasche aveva effettivamente rivestito.

Cruciale si era rivelata in effetti la scoperta della patria d’origine del pittore e della sua documentata presenza a Chieti tra quinto e sesto decennio del secolo, un dato che veniva a spiegare l’esistenza delle numerose opere di sua mano segnalate da Ferdinando Bologna in chiese e collezioni d’Abruzzo, e consentiva di disporle plausibilmente in un arco di tempo più lungo di quello suggerito dalla “vita” di Bernardo De Dominici che lo diceva scomparso in circostanze oscure nel 1647.

Ignoti restano comunque il luogo e la data di nascita del pittore, il cui padre, ricco mercante di granaglie documentato a Chieti dal 1628, vi si era trasferito da Bergamo in data non precisata. Non sappiamo quindi dove avvenisse la formazione di Giovan Battista Spinelli, condotta in primo luogo sulle stampe degli autori nordici del Cinquecento individuati da quanti, a partire da Walter Vitzthum, si sono occupati della produzione grafica del pittore. Incisioni nordiche circolavano senza dubbio a Napoli nel tempo dell’educazione dell’artista, fra terzo e quarto decennio del secolo; ma la scelta costante dei tipi bizzarri e a volte stravolti che in misura diversa rendono inconfondibili le opere di Spinelli potrebbe indurci a ricercare in area bergamasca, come sostiene Lanfranco Ravelli, le ragioni del suo programmatico rifiuto del classicismo

In assenza di opere datate o documentate, la sua fitta produzione tra Napoli e l’Abruzzo è stata circoscritta fra i primi anni Trenta e la metà degli anni Cinquanta in relazione agli scambi con protagonisti diversi della scuola napoletana: il tardo Battistello Caracciolo, il Maestro degli Annunci e Massimo Stanzione, quest’ultimo ricordato da Bernardo De Dominici come suo maestro e indubbio riferimento di Giovan Battista Spinelli nelle opere più mature e felici, tra cui le importanti storie di David agli Uffizi.

E sono proprio le raffinate scelte cromatiche di Stanzione, che ritroviamo nel contrasto tra toni azzurri e dorati nel nostro dipinto, a suggerirne una datazione nella fase relativamente classicheggiante che Giovan Battista Spinelli attraversa nella seconda metà degli anni Quaranta, periodo a cui l’opera è generalmente riferita.

 

 

 

 

 

 

Estimate   € 30.000 / 50.000
Price realized  Registration
43

Giovanni Paolo Panini

(Piacenza, 1691 – Roma,1765)

ROVINE CON PREDICA DI UNA SIBILLA

olio su tela, cm 49,5x64,5

 

A SIBYL PREACHING AMONG ANCIENT RUINS

oil on canvas, cm 49.5x64,5

 

Bibliografia

F. Arisi, Gian Paolo Panini e i fasti della Roma del 700, Roma 1986, p. 378, n. 293

 

Da tempo noto agli studi sul Panini, e invece del tutto nuovo al mercato dell’arte, il raffinato “capriccio” qui offerto propone un tema assai frequente nel catalogo del pittore piacentino, se pure declinato con sottili varianti nel numero dei personaggi e nella loro disposizione e, soprattutto, negli elementi architettonici e scultorei che ne costituiscono la cornice e insieme il vero soggetto.

Numerosi sono infatti i confronti con altre opere catalogate da Ferdinando Arisi databili, secondo lo studioso, lungo l’intero arco della produzione romana dell’artista a partire dal 1730 circa, data suggerita per la tela già nella galleria Artems a Graz (Arisi 1986, n. 190). Gli stessi motivi ritornano anche in uno dei pendants firmati per esteso presso la Cassa di Risparmio di Piacenza (Arisi, cit., nn. 264-65), dove compare tra l’altro la stessa figura di leone presente nella nostra tela, con un portico a tre colonne che a destra conclude la scena. Come per la coppia citata, Arisi propone per il nostro dipinto una datazione nell’ambito del quinto decennio del Settecento, in virtù della gamma cromatica chiara e luminosa che distingue la scena. Simile riferimento cronologico conviene anche alla più ampia redazione (Arisi, cit., n. 318) dove importanti motivi architettonici costituiscono un vero e proprio repertorio da Grand Tour.

Più vicino al nostro, sebbene più tardo, il dipinto nel museo del Prado, dalle collezioni di Carlo IV insieme a un pendant (Arisi, cit., 331-32) presenta ancora una volta gli stessi motivi cari all’artista.

 

Estimate   € 25.000 / 35.000
Price realized  Registration
42

Antonio Gionima

(Venezia 1697 – Bologna 1732)

IL BANCHETTO DI ANTONIO E CLEOPATRA

olio su tela, cm 86x111

 

THE BANQUET OF ANTHONY AND CLEOPATRA

oil on canvas, cm 86x111

 

Esposizioni

Il Tesoro d’Italia. A cura di Vittorio Sgarbi, Milano, Expo 2015, Padiglione Eataly, 22 maggio – 31 ottobre 2015.

 

Bibliografia

John T. Spike, Recensione alla mostra Eighteenth Century Master Drawings from the Ashmolean, Baltimora Museum of Art in “The Burlington Magazine” CXXI, 1979, 921, p. 828, fig. 78; Pietro Di Natale, in Il Tesoro d’Italia. Catalogo della mostra, Milano 2015, pp. 186-87.

 

Nato a Venezia nel 1697 in una famiglia di pittori, Antonio Gionima si trasferì presto a Bologna, città di origine della madre. Formatosi nella bottega di Aureliano Milani, ne ereditò probabilmente la sua prima commissione pubblica, le storie di San Domenico per la chiesa di S. Maria Mascarella, consegnate nel 1719. Alla partenza del maestro per Roma, appunto in quell’anno, passò nella bottega di Giuseppe Crespi, che gli procurò un’importante commissione per la famiglia Gozzadini.

Negli anni successivi, Gionima fu attivo per chiese e confraternite di Bologna, e per le maggiori famiglie della città, che si disputarono le invenzioni sacre e profane con cui, aggiornata la cifra stilistica dei suoi primi maestri, l’artista si cimentò in scene a più figure e di gusto intensamente teatrale, del tutto in linea con il “barocchetto” proposto negli stessi anni da Giuseppe Marchesi e da Francesco Monti, con cui è stato talora confuso.

Splendida aggiunta al suo catalogo, esiguo nei numeri in virtù della breve vita dell’artista ma non per questo irrilevante nel panorama del Settecento bolognese, e non a caso selezionato per rappresentare quella scuola in occasione dell’Expo milanese, il dipinto qui offerto non trova riscontro nei rari documenti che si riferiscono, come è naturale, all’attività pubblica del pittore né nell’elenco, davvero sommario, delle opere di destinazione privata redatto dal suo primo biografo, il canonico Luigi Crespi (Felsina pittrice. Vite de’ Pittori bolognesi, III, Bologna 1769, pp. 234-236). Una traccia precisa per il nostro dipinto si ritrova però nel corpus grafico dell’artista, e specificamente nel disegno preparatorio venduto a Londra da Sotheby’s nel 1975, ora nelle raccolte dell’Ashmolean Museum a Oxford, con la corretta attribuzione ad Antonio Gionima, la cui produzione veniva riscoperta e illustrata proprio in quegli anni ad opera di Renato Roli e di altri studiosi bolognesi. Con quel nome il foglio fu esposto a Baltimora nel 1979 (Eighteenth Century Master Drawings…, cit., p. 4, n. 7) la cui recensione offrì a John Spike l’opportunità di pubblicare il nostro dipinto, allora in collezione privata a New York sotto il nome di Ercole Graziani il Giovane.

Lo stesso Crespi ricorda lo straordinario talento del Gionima quale disegnatore:

“… disegnava col toccalapis e con l’acquarello a meraviglia, lumeggiando i suoi disegni con uno spirito e una disinvoltura che non poteva bramarsi di più… (1769, cit., p. 235) e ne concludeva la “vita” ricordando, in appendice all’elenco di opere su tela “i disegni, poi, che egli ha fatto, sono moltissimi e per lo più acquerellati e lumeggiati, e chi ne ha se li tiene, e a tutta ragione, molto cari”. Il corpus grafico dell’artista sarà l’oggetto di una monografia di Marco Riccomini di prossima pubblicazione.

 I fogli ad oggi rintracciati in raccolte pubbliche italiane e straniere confermano il giudizio del biografo e lasciano intuire i dipinti non ancora identificati di cui anticipano la composizione e i contrasti luministici. Tra questi, il foglio conservato a Brera (Gabinetto dei Disegni, n. 225) propone il nostro stesso soggetto, il banchetto di Antonio e Cleopatra, in una composizione a molte figure, non dissimile dall’Ester e Assuero nelle raccolte reali inglesi a Windsor che anticipa, a sua volta, un dipinto citato dalle fonti ma non ancora riemerso.

Ad essi si aggiunge il foglio di Oxford (matita rossa, lumeggiato in bianco, mm 184x238), in tutto corrispondente al nostro dipinto di cui costituisce un primo pensiero, certo successivamente elaborato in studi ulteriori non ancora rintracciati. La composizione a sole tre figure, una delle quali appena individuabile nello sfondo, è probabilmente la più essenziale tra quelle ideate da Antonio Gionima: si può tuttavia confrontare, soprattutto nella soluzione compositiva di una figura “di quinta” che, nell’ombra, introduce il protagonista della storia, al dipinto conservato a Minneapolis, Minneapolis Institute of Arts, raffigurante Giuditta presentata a Oloferne, dove la nostra composizione è ripetuta a specchio e a figure intere, simile anche nei partiti di luce, o ancora al disegno con la cena in Emmaus (Bologna, Pinacoteca) dove due figure ombreggiate all’acquarello inquadrano il protagonista, luminoso e appena tratteggiato, come la nostra Cleopatra.

Il dipinto qui offerto si caratterizza infine per l’estrema raffinatezza degli accordi luminosi e cromatici, esaltati dall’ottima conservazione.

Ringraziamo Marco Riccomini per l'aiuto nella catalogazione di questo lotto.

 

 

 

Estimate   € 150.000 / 200.000
Price realized  Registration
41

Giacomo Francesco Cipper, detto il Todeschini

(Feldkirch, 1664 – Milano, 1736)

PESCIVENDOLO

POPOLANA CON SELVAGGINA

coppia di dipinti a olio su tela, cm 86x105

(2)

 

A FISH SELLER

A PEASANT WOMAN WITH GAME

oil on canvas, a pair, cm 86x105

(2)

 

Bibliografia di riferimento

M. S. Proni, Giuseppe Francesco Cipper detto 'Il Todeschini', Cremona, 1994.

 

La bella coppia di dipinti che proponiamo può essere messa in relazione, dal punto di vista stilistico e compositivo, con altre opere del Todeschini come i due dipinti raffiguranti Contadino con selvaggina, uno già segnalato nel 1992 presso il mercato antiquario bergamasco e l'altro passato in asta a Londra da Christie's nel 1997 e nel 1998. Un' altra tela confrontabile, analogamente catalogata nella Fototeca Zeri, raffigura una Pescivendola, localizzata nel 1971 in una collezione privata milanese.

Nelle opere del Cipper è ben presente la volontà di raffigurare scene di vita quotidiana di personaggi umili con una libertà espressiva rude e popolaresca. I suoi 'ritratti' sono spesso caratterizzati da figure in primo piano che catturano l'attenzione dello spettatore con un'apparente semplicità compositiva, arricchita da un studio attento dei particolari e scandita dalla gestualità dei personaggi che spesso restituisce sottili connotazioni allegoriche e simboliche.

Non si conoscono al momento notizie biografiche certe sull'artista; il suo principale punto di riferimento fu probabilmente Eberhard Keilhau detto Monsù Bernardo (Helsingør 1624 – Roma 1687), importante pittore di genere del XVII secolo conosciuto per i suoi personaggi visionari e popolareschi nonché per le sue allegorie.

 

 

Estimate   € 25.000 / 35.000
40

Scipione Compagno  

(Napoli, 1624 circa- post 1680) 

IL PARADISO

olio su tela, cm 114x154

 

THE PARADISE

oil on canvas, cm 114x154                                                              

 

La tela si inserisce nella tipica produzione di Scipione Compagno, ricostruita grazie a una serie di opere firmate e datate tra gli anni quaranta e i sessanta del Seicento, caratterizzata da composizioni affollate di piccole figure, un po' prese dal vero e un po' inventate, che risentono della tradizione manierista del Cavalier d’Arpino, di Belisario Corenzio, di Filippo Angeli e di François Nomé.

A differenza di quanto affermava Bernardo De Dominici, nelle sue biografie dedicate ai pittori napoletani, che lo indicava quale allievo di Salvator Rosa, le opere note di Scipione Compagno risultano estranee alla tradizione di Castiglione, Falcone e Lanfranco e quindi anche di Domenico Gargiulo, suo coetaneo, ma piuttosto vicine a quella precedente: il suo corpus pittorico ha infatti iniziato a prendere consistenza a partire da un gruppo di dipinti che il Longhi nel 1957 aveva riconosciuto della stessa mano ma attribuendoli ipoteticamente a Filippo Napoletano. Si deve a Luigi Salerno (Il vero Filippo e il vero Tassi, in Storia dell'arte”, 1970, 6, p. 148), sulla base di un dipinto firmato "Compagno" e datato 1658, la loro annessione all’opera di Scipione. 

Le stesse folle che popolano le sue note scene di martirio, quali la Strage degli Innocenti della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, firmato “Scipione Compagno F. 1642” o il Martirio di Sant’Orsola conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, si ritrovano anche nel Paradiso qui offerto, realizzato con le stesse tinte chiare e quel suggestivo controluce che investe le figure in primo piano, volto ad accentuare il senso della profondità. Un altro esemplare con analogo soggetto, ma su rame e di più piccole dimensioni, è stato pubblicato sempre da Salerno e messo in relazione a quell’”elemento elsheimeriano” notato da Longhi nel contributo prima citato (cfr. L. Salerno, Inediti di Filippo Angeli e di Scipione Compagno, in Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri, Milano 1984, tomo II, pp. 553-560). Nelle ampie aperture paesistiche con l’orizzonte basso delle sue opere sono state infatti individuate anche suggestioni dai pittori nordici attivi a Napoli a inizio Seicento.

 

 

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