Works of exceptional historical and artistic interest

31 OCTOBER 2018

Works of exceptional historical and artistic interest

Auction, 0285
FLORENCE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
6.30 p.m.
Viewing
FLORENCE
26th-30th October 2018
10 a.m. – 7 p.m.
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Estimate   10000 € - 150000 €

All categories

1 - 6  of 6
1

Francesco Raibolini, detto il Francia

(Bologna, 1450 – 1517)

MADONNA COL BAMBINO IN PIEDI SU UN PARAPETTO

olio su tavola, cm 64x48

 

Provenienza

Lucca, collezione Mansi;

 

Bibliografia

J. A. Crowe – G. B. Cavalcaselle, A History of Painting in North Italy, Londra 1871 (1912), p. 279, n. 1; G. Milanesi, note a G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti…, Firenze 1878, III, p. 555; J. Cartwright, Mantegna and Francia, Londra 1881, p. 116; G. C. Williamson, Francesco Raibolini called Francia, Londra 1901, p. 151; G. Lipparini, Francesco Francia, Bergamo 1913, pp. 110, ssg; A. Venturi, Storia dell’Arte Italiana, Milano 1914, VII/3, pp. 952 ssg., fig. 720; G. Piazzi, Le opere di Francesco Raibolini detto il Francia orefice e pittore, Bologna 1925, p. 56; S. Stagni, Francesco Francia in Pittura bolognese del ‘500, a cura di V. Fortunati Pierantonio, Bologna 1986, p. 8; E. Negro, N. Roio, Francesco Francia e la sua scuola, Modena 1998, p. 177, cat. N. 51 a.

 

Opera dichiarata di interesse culturale particolarmente importante dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Bologna il 10 febbraio 1988, rinnovando la notifica espressa nel 1914 con D. M. 30.9.1914.

 

Nota alla letteratura artistica già a partire dalla prima edizione della Storia della Pittura in Italia di J. A. Crowe e G. B. Cavalcaselle (1871), questa fortunata composizione ideata ed eseguita da Francesco Raibolini detto il Francia può contare su una nutrita e illustre bibliografia.

Le più antiche e organiche notizie riguardo tale importante maestro bolognese del Rinascimento provengono da Giorgio Vasari che nella prima edizione delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori (1550) gli dedica una biografia ricchissima di dettagli sulla sua attività prima di orafo e medaglista e poi di pittore. Tutti i dipinti eseguiti dal Francia per le chiese di Bologna vengono attentamente elencati già dallo storiografo aretino con l’esatta indicazione delle firme e delle date iscritte. Si tratta dei capisaldi della produzione franciana grazie ai quali la storiografia successiva è riuscita a sistematizzare l’intero suo catalogo pittorico che conta anche raffinati ritratti e dipinti di soggetto religioso di più piccolo formato, tra i quali una cospicua produzione di dolcissime Madonne col Bambino, replicate con numerose varianti.

Le radici della sua formazione artistica, oltra che nelle relazioni con la produzione dei ferraresi e in echi della pittura veneziana, sono state individuate in ambito toscano, a partire da Roberto Longhi che notava soprattutto una certa vicinanza ai modelli di Lorenzo di Credi e Luca della Robbia.

La pittura del Francia mostra sin da subito forme racchiuse entro contorni regolari, poi esposte a una nitidezza luministica fiamminga.

L’esattezza del segno, frutto anche della sua professione di orefice, viene però a essere stemperata da un sentimentalismo molto umano che sancì il successo delle sue composizioni.

La Madonna col Bambino in piedi su un parapetto qui offerta presenta infatti un riuscito schema più volte utilizzato dall’artista anche con l’inserzione di altri personaggi come nella Sacra Famiglia oggi conservata al Szépmuvészeti di Budapest (inv. n. 4244) già a Londra nella collezione Lord Ward, poi Conte di Dudley; del tutto analoga è invece la tavola donata nel 1982 al Metropolitan Museum di New York (inv. 1982.448).

Le forme ampie e solide delle figure della Madonna Mansi, caratterizzati da volti che rivelano più attuali canoni di espressione, perugineschi, e incarnati con passaggi ammorbiditi, permettono di collocare l’opera nella prima maturità del Francia, vicina per esempio alla cosiddetta Pala Scappi della Pinacoteca Nazionale di Bologna (inv. 571), proveniente dalla cappella della famiglia Scappi nella chiesa dell’Annunziata, probabilmente una delle ultime pale d’altare eseguite per le più ricche famiglie bolognesi entro la fine del XV secolo. Di un’assai simile ispirazione veneto e fiamminga è anche l’ampio e nitido paesaggio che nel nostro caso si apre dietro alla finestra, i cui bordi fungono da finta incorniciatura.

 

 

 

Estimate   € 100.000 / 150.000
Price realized  Registration
2

Giovanni Camillo Sagrestani                                               

(Firenze 1660  1731)                                                      

SAN LUIGI DI FRANCIA                                                      

olio su tela, cm 156x120                                                  

                                                                          

                                                                         

Provenienza                                                               

Poggio alla Scaglia (Firenze), villa Tempi, cappella; Roma, Finarte, asta  del 20 novembre 1984; Roma, Galleria Gasparrini                           

                                                                          

Esposizioni                                                               

70 Pitture e sculture del 600 e 700 Fiorentino, Firenze, Palazzo Strozzi, ottobre 1965, n. 38; Visioni e estasi. Capolavori dellarte europea tra Seicento e Settecento, Città del Vaticano, 2003.                          

                                                                          

Bibliografia                                                              

70 Pitture e Sculture del 600 e 700 Fiorentino, catalogo della mostra, a cura di Mina Gregori, Firenze 1965, p- 59, n. 38, fig. 38; Visioni e Estasi. Capolavori dellarte europea tra Seicento e Settecento, catalogo della mostra, a cura di G. Morello, Milano 2003, pp. 101 e 196, n. 9; S.  

Bellesi, Catalogo dei Pittori Fiorentini del 600 e 700. Biografie e Opere, Firenze 2009, III, p. 247; M. C. Fabbri, Sagrestani Giovanni Camillo in Dizionario Biografico degli Italiani, 89, Roma 2017.                      

                                                                          

Restituita al Sagrestani da Mina Gregori in occasione della mostra che nel 1965 inaugurava gli studi sul Sei e Settecento fiorentino, la piccola pala qui offerta proviene dalla cappella privata di villa Tempi decorata dall’artista fiorentino e dalla sua équipe, tra cui Ranieri del Pace e Giovanni Moriani, nel primo decennio del Settecento, con pagamenti al Sagrestani nel 1712.

La scelta di effigiare San Luigi di Francia, ovvero il re capetingio Luigi IX (1214 – 1270), il cui nome è latinizzato in Ludovicus, ne lega la committenza al marchese Ludovico Tempi.

Sagrestani lavorò ripetutamente per la famiglia Tempi: oltre alla villa citata, i suoi affreschi decorarono il palazzo urbano di Santa Maria Soprarno (poi Bargagli Petrucci) e la villa detta “del Barone”.

Capofila della corrente antiaccademica che segna a Firenze il passaggio dal tardo barocco al rococò, Giovanni Camillo Sagrestani non può contare ancora su uno studio sistematico della sua produzione artistica.

Nonostante le testimonianze settecentesche di cui disponiamo non forniscano elementi sostanziali per ricostruirne cronologia e catalogo pittorico, gli studi dedicatigli, a partire dalla mostra del 1965 già citata, sono riusciti a metterne a fuoco l’iter professionale: preziosi si sono rivelati i molteplici riferimenti a sé stesso che il pittore inserì nelle Vite di artisti da lui redatte in forma manoscritta a partire dal 1716.

Veniamo pertanto a conoscenza delle precoci frequentazioni a Firenze con Simone Pignoni e più tardi con Sebastiano Ricci a Parma, incontro quest’ultimo che porterebbe a presupporre anche una tappa del giovane Sagrestani a Venezia – oltre che a Roma e a Bologna - per studiare, fra le altre, anche le pitture lasciate nella città lagunare da Luca Giordano.

Le ulteriori riflessioni a Firenze sulle opere del Giordano, come quelle eseguite per i Corsini, i Riccardi e nella chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi in San Frediano, hanno quindi guidato l’artista verso una pittura caratterizzata da una maggiore velocità e brio portandolo a mettere a punto uno stile rocaille, scintillante e festoso, più tardi avversato dal filone classicista di Antonio Gaburri.

Il San Luigi di Francia presentato rivela proprio la sua acquisita maturità artistica, in grado di coniugare i modi corretti e definiti di Carlo Cignani e l’equilibrata eleganza fiorentina del tardo Pignoni, a nuove e più moderne suggestioni concretizzatesi in vibranti stesure “a macchia” e suggestive soluzioni luministiche.

 

 

Opera dichiarata di interesse culturale particolarmente importante dal Ministero per i Beni Culturali, Soprintendenza di Firenze, decreto del 21 giugno 1979 - Modulario 12175 - 313269 Prot. 2904.                                 

 

 

Estimate   € 20.000 / 30.000
3

Marcantonio Bassetti

(Verona, 1586 – 1630)

RITRATTO DI VECCHIO

olio su carta, cm 48x32

Opera dichiarata di interesse culturale particolarmente importante dal Ministero per i Beni Culturali, Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio e il patrimonio stotico, artistico e demoetnoantropologico di Roma il 6 gennaio 2004.

Il profilo di vecchio qui presentato dalla straordinaria forza realistica è opera del pittore veronese Marcantonio Bassetti, figura di spicco nel panorama della cultura figurativa veneta della prima metà del Seicento.

Allievo a Verona di Felice Brusasorci, Bassetti si reca molto presto a Venezia dove, forse nella bottega di Palma il Giovane, si dedica allo studio dei grandi interpreti della pittura cinquecentesca della Serenissima, Tintoretto, Veronese e Bassano.

Spostatosi a Roma nel 1616, si avvicina al caravaggismo di Saraceni e Borgianni, operando a sua volta un’interessante mediazione tra colore veneto e naturalismo caravaggesco.

La stringente somiglianza del vecchio ritrattato con il personaggio inginocchiato al centro della cosiddetta Pala dei cinque vescovi, una delle più importanti commissioni pubbliche del Bassetti, permette di ipotizzare che il nostro olio su carta abbia svolto la funzione di modello preparatorio.

Secondo quanto riportato da Carlo Ridolfi ne Le Maraviglie dell’arte overo le vite degli illustri pittori veneti e dello Stato (Venezia 1648), l’opera fu portata a termine a Roma nel 1619 e di qui immediatamente inviata a Verona, dove Monsignor Veraldo la collocò nella Cappella da lui eretta nella chiesa di Santo Stefano. Accanto a essa furono appesi altri due dipinti dei concittadini Alessandro Turchi e Pasquale Ottino, a quel tempo entrambi impegnati con Bassetti nella decorazione della Sala Regia al Quirinale.

L’identificazione dei cinque vescovi è resa possibile da un’iscrizione in marmo collocata all’interno della cappella stessa: si tratta di San Petronio (450 d.C.), San Senatore (450 d.C.), San Probo (VI sec.), San Andronicus (VI sec. d.C.) e San Gaudenzio (V sec. d.C.).

La pala riscosse parole di ammirazione da Roberto Longhi che la definì “capolavoro schiettamente caravaggesco e di potenza, senza vanterie, velasqueziana” e successivamente da Rodolfo Pallucchini che ne sottolineava la sintesi tra luce e colore: “sono figure individuate una per una con una forza di caratterizzazione quanto mai violenta, intesa in senso naturalistico; realizzata per forza di lume, di quel lume che piove dall’alto, imbevendo il colore oggi purtroppo riarso (...)” (R. Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, Milano 1981, p. 124).

L’efficacia espressiva rimarcata dalle parole dei due studiosi fu senz’altro raggiunta dal Bassetti grazie a un attento studio preliminare di cui il ritratto su carta offerto ne costituisce concreta testimonianza.

Realizzato stendendo pennellate pastose sopra macchie di colore intrise di luce, mostra, oltre che una tempestiva aderenza ai modi di Domenico Fetti, figura fondamentale per l’opera matura del Bassetti, la spiccata vocazione anche di ritrattista del pittore che contribuì a renderlo uno dei massimi artisti veronesi del 600.

 

 

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
Price realized  Registration
4

STRAORDINARIA CULLA DI IMPIANTO BERNINIANO, ROMA, 1700 CIRCA

in legno intagliato, dorato e parzialmente laccato

cm 137x146x70

 

Su di una pedana sagomata in legno laccato con profili e piedi dorati, è sorretta da quattro putti scolpiti a tutto tondo seduti su grandi volute decorate con larghe foglie. La culla, a forma di grande conchiglia, è interamente intagliata con nervature mosse ed abbellita da festoni fioriti e foglie d’acanto; due putti sono raffigurati nell’atto di scavalcare il bordo della culla, uno sulla pediera e l’altro sulla testiera, quest’ultima caratterizzata da un fregio scolpito e da una grande ghirlanda di fiori trattenuta nelle mani del putto e sorretta verso l’alto.

 

Si conoscono poche culle di questa qualità giunte sino a noi, mentre dagli archivi traspare l’attenzione che le grandi famiglie romane prestavano per questo tipo di manufatto, che serviva alla presentazione dei neonati presso la nobiltà di tutta Europa, mostrando allo stesso tempo la grandezza della casata.

Nota è l’incisione di Pietro Santi Bartoli, su invenzione firmata da Giovanni Paolo Schor raffigurante “il letto fatto per la nascita del primogenito del Contestabile Colonna, il 7 aprile del 1663”, un grandioso lavoro utilizzato, come scrive la principessa Colonna, per ricevere il Sacro Collegio e la nobiltà. Il mobile, che purtroppo non esiste più, viene così descritto nell’inventario di Casa Colonna del 1714: “un letto, cioè lettiera fatta tutta à cocchiglia intagliata con un’altra Cocchiglia grande in facciata da capo con due puttj e nelle Cantonate quattro Cavalli Marini con sirene sopra, e sotto à dd Cavalli in due un delfino per ciascuno, nell’altro una tartaruga, nell’altro una Lucertola, e sotto tutto legno fatto à onde color di noce, ed il resto tutto intagliato dorato… con sopra à detto letto sei putti attaccati in aria doratj”.

Sull’esecuzione di questa culla sono emersi dagli archivi i nomi degli scultori ed intagliatori, grazie ai pagamenti fatti in loro favore: si tratta di Francesco Bergamo, Gabrielle Rapinech, Pietro Messalino e Gasparo Melocci. Nei primi progetti berniniani per la Galleria Colonna un letto da parata, forse proprio questo, doveva essere collocato come un trono in corrispondenza dell’attuale Sala della Colonna Bellica. Quello che è certo è che nel 1714, quindi cinquant’anni dopo la sua realizzazione, il letto si trovasse in un’alcova, come emerge dall’inventario di quell’anno.

 

Due fogli con progetti di culle sono conservati a Windsor, uno attribuito allo stesso Schor ed ugualmente destinato alla famiglia Colonna, così descritto nel già citato inventario del 1714: “una Culla Nobile consistente in un Cocchiglione grande con tre Amorinj altj palmi due in Circa l’uno con festoni dj fiori in mano che forma la parte di dietro ed una sirena che forma la parte d’avantj in figura grande che posa s.a l’onde del mare il tutto dj legno intagliato e dorato Ereditaria dj Don Filippo”.

 

Un’ulteriore testimonianza di questa produzione durante il periodo del Barocco romano è offerta da un arredo in legno intagliato e dorato, oggi al Paul Getty Museum che, stando a un documento ritrovato fra i conti Barberini dell’Archivio Segreto Vaticano, sarebbe opera dell’intagliatore Giovanni Sebastiano Giorgetti, che nel 1698 realizza per la famiglia Barberini un “piede della Culla tutto di legname di tiglio” precisando che, per realizzarlo “si è preso il parafango del Calesse che donò al Sig.r Pnpe il S.r Card.e Ottoboni”, di cui viene utilizzata la figura di un’aquila intagliata, aggiungendovi poi cartelle, fogliami, festoni “e il sole con suoi raggi e rami di lauro et ape e un putto in forma di Cupido con arco e circasso”

 

Bibliografia di confronto

E.A. Safarik, Collezione dei dipinti Colonna. Inventari 1611-1795, Monaco 1996, pp. 338-339 e 398-399;

E. Tamburini, Due teatri per il principe, Roma 1997, pp. 90-91;

A. González-Palacios, Arredi e ornamenti alla corte di Roma. 1560-1795, Milano 2004, pp. 84-85 e 88-89

 

Opera dichiarata di interesse culturale con decreto del Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia in data 12 aprile 2010.

 

The italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy

Estimate   € 90.000 / 130.000
Price realized  Registration
5

GRANDE TAVOLO DA CENTRO, TOSCANA, FINE SECOLO XVI

in legno di noce scolpito e intagliato, cm 82x438x123

 

Il piano, rettangolare, ha un ciglio a becco di civetta poggiante su una modanatura a unghiature. Lo sostengono tre trapezofori, scolpiti ed intagliati in alto da un motivo simmetrico di voluta ospitante una testina femminile e un festone sottostante, che continua sinuoso verso il basso terminando in un piede ferino rifinito da una foglia d’acanto. Ogni trapezoforo è incentrato da un grande stemma, contornato da volute, festoni e maschere grottesche ed è raccordato agli altri mediante una traversa sagomata a volute e conchiglie e incentrata da quattro stemmi nobiliari.

Per individuare correttamente l’area di esecuzione di questo splendido tavolo da parata, bisogna in primo luogo identificare gli stemmi che lo decorano e soprattutto il blasone ricorrente in tutti gli stemmi, che è con ogni evidenza quello della famiglia committente. Esso è stato riconosciuto come quello della famiglia Pannilini di Siena. Per quanto riguarda gli altri blasoni, partiti alla sinistra di quello dei Pannolini, si notano lo stemma dei Fulvii, dei Petrucci, dei Marchesi del Monte S. Maria detti Bourbon del Monte. Il capo degli stemmi, caricato in tre casi di una croce biforcata ad otto punte, indica che il possessore dello stemma è dignitario dell’Ordine Militare di S. Stefano di Toscana.

Tutte queste famiglie sono senesi, o di località non lontane da Siena. I Pannolini (1), committenti del tavolo, erano originari del castello di Cima in Maremma, ma i loro possedimenti si estendevano fino alla Val di Chiana. Dalla fine del Medioevo si erano stabiliti a Siena commerciando in panni di lino, da cui il nome, finché nel Quattrocento divennero una delle famiglie più potenti e famose della città. Furono Capitani del Popolo e Gonfalonieri del Comune, alcuni di loro percorsero con fortuna la carriera ecclesiastica. Emilio di Marcantonio Pannilini (m. 1601) nel 1590 divenne Priore ereditario dell’Ordine Militare di S. Stefano a Siena. Questo Ordine era stato creato nel 1562 da Cosimo I, Granduca di Toscana, e il suo archivio si trova ancora nell’Archivio di Stato di Pisa. È probabile che il tavolo in questione sia stato realizzato proprio per celebrare l’onore reso a Emilio Pannilini e le quattro altre famiglie ricordate negli stemmi potrebbero riferirsi a personaggi che affiancarono Emilio nell’incarico.

Lo stemma dei Fulvii è stato reperito in una miniatura di Bernardo Rantwick del Libro VIII dei Leoni (2), illustrata fra il 1582 e il 1595 e quindi negli stessi anni in cui nasceva il nostro tavolo. Esso si riferisce a Enea Savino Fulvii e reca in capo la stessa croce dell’Ordine di S. Stefano; è pertanto ipotizzabile che sia stato proprio questo personaggio il proprietario del blasone con tre monti e la stella del nostro tavolo.

Per quanto riguarda la famiglia Petrucci (3), dette i natali a uno dei cittadini più illustri di Siena, quel Pandolfo Petrucci detto Il Magnifico, Signore di Siena nel 1499 e morto nel 1512. Alla c. 2 dello stesso Libro VIII dei Leoni è illustrato lo stemma di un altro Pandolfo Petrucci, probabilmente nipote del Magnifico. È curioso che, mentre lo stemma sulla miniatura riporta in capo la croce dell’Ordine di S. Stefano, lo stemma sul nostro tavolo ne è privo.

I Marchesi del Monte di S. Maria, detti Bourbon del Monte (4), appartengono alla nobiltà umbra e toscana. Un loro ramo si stabilì a Firenze.

 

Alvar Gonzàles-Palacios pubblicava il mobile nel 1984 (5), rilevando come manufatti di questo tipo siano “abbastanza rari, addirittura rarissimi quelli, come il nostro, poggianti su tre elementi”.

L’evidente riferimento a prototipi marmorei dell’antica Roma trova la sua espressione più nota nel monumentale tavolo proveniente da Palazzo Farnese, oggi al Metropolitan Museum di New York (vedi fig. 1). Quest’ultimo, realizzato in marmo e riferito credibilmente alla progettazione di Jacopo Vignola, non presenta tra i sostegni le traverse di collegamento che caratterizzano il nostro mobile, senza dubbio eccezionale anche nelle dimensioni, addirittura superiori a quelle del Tavolo Farnese.

Anche il tavolo di collezione Cini conservato nel castello di Monselice (Padova) - osserva Gonzàles-Palacios - è “sostenuto da tre trapezofori, ma senza traverse, e con un ornato scultoreo meno grandioso”.

La concezione decorativa dei sostegni (armi araldiche affiancate da robuste volute, rette da zampe leonine e terminanti in testine muliebri) è la medesima adottata nel cinquecentesco tavolo Farnese; e tornerà in un manufatto più recente, in legno intagliato e dorato, databile agli inizi dei Seicento, della Wallace Collection di Londra.

Per il nostro manufatto Gonzàles-Palacios ipotizzava un’origine romana, sottolineandone in particolare la dipendenza stilistica dei camini pubblicati da Jacopo Vignola nella sua “Regola della Cinque Ordini”. Un’origine che, scriveva, “potrà essere ulteriormente accertata quando saranno decifrati gli stemmi che lo decorano”: e tale accertamento è oggi possibile.

Nel 1601 Emilio II Pannilini, ultimo maschio del suo ramo, sposava Gentilina Bourbon del Monte di Santa Maria. Emilio II era figlio di Enrico I, priore dell’Ordine di S. Stefano a Siena nel 1591.

Per il nostro tavolo una datazione al 1601 è assolutamente credibile, anche sotto il profilo stilistico, mentre risulta evidente la sua originaria destinazione ad una dimora Pannilini, forse lo stesso palazzo senese (Pannilini Zuccantini) situato nel Casato di Sopra, una delle vie che si aprono su Piazza del Campo: costruito nel 1550 su disegno di Bartolomeo Neroni detto il Riccio ed oggi adibito ad abitazioni private.

A questo dato di fatto non si oppongono similarità stilistiche riscontrate con altri tavoli toscani: si vedano ad esempio un tavolo del Victoria and Albert Museum di Londra (6) e due altri di Palazzo Davanzati a Firenze (7).

Altri tavoli nello stile di quello esaminato sono pubblicati dal Tinti (8) (vedi fig. 2). Assai comune nella mobilia fiorentina fra la metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento risulta il piede a zampa ferina, naturalisticamente modellato. Frequente è pure l’apposizione dello stemma di famiglia al centro del sostegno, sagomato a volute e orecchioni e profilato da foglie d’acanto ascendenti. Ciò che pone il presente tavolo a un livello qualitativo notevole, anche in riferimento ai mobili citati, sono l’importanza e la bellezza dell’intaglio.

Soprattutto appare comune in questi esempi un gusto tutto manierista e toscano per una ripresa dell’elemento archeologizzante (il festone, la zampa di leone, lo stesso concetto di trapezoforo) rielaborato in chiave di una sorta di ipertrofico naturalistico al limite del grottesco, che è affatto sconosciuto a Roma - anche il Tavolo Farnese ne è privo - dove l’antico è sempre considerato con una qualche reverenza e riletto in una luce di accorta filologia antiquaria.

L’arte dell’intaglio ligneo a Siena aveva conosciuto un periodo assai fortunato nel sedicesimo secolo. Fra le opere più importanti si ricordano le due cantorie del Duomo, quella di destra di Antonio Barili (1511), quella a sinistra disegnata nel 1550 da Bartolomeo Neroni detto il Riccio (1500-1571/3). Al Riccio si deve anche il disegno del seggio vescovile (1567, eseguito però ai primi del ‘900), del leggio dietro l’altare e della residenza (9), opere queste ultime eseguite sotto la sua direzione. Proprio dall’opera di Riccio l’artefice del nostro tavolo parte, ricercando un medesimo effetto di grandiosa severità, raggiungendolo non più con una accentuazione degli elementi architettonici, bensì sottolineando e dilatando quanto di decorazione scultorea era presente nell’opera dei Neroni: festoni rigonfi, testine, cartigli.

 

Bibliografia

A. Gonzàlez-Palacios, Il Tempio del Gusto, I, Milano 1984, 1 pp. 85-87; 2 figg. 173-174

 

Bibliografia di confronto

M. Tinti, Il mobilio fiorentino, Milano s.d. ma 1928, tavv. CXXI, CXXVI, CXXXI, CXL, CXLI, CXLVIII;

M. Trionfi Honorati, in Catalogo della mostra Palazzo Vecchio: Committenza e collezionismo medicei, Firenze 1980, n. 395;

C. Colombo, L'arte del legno e del mobile in Italia, Busto Arsizio 1981, n. 245;

A. Gonzàlez-Palacios, Il Tempio del Gusto, I, Milano 1984, 2 fig. 175;

H. Hayward, Storia del mobile, ed. cons. Reggio Emilia 1992, n. 97

 

1) G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasolico, I, Pisa 1886, p. 272; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana…, V, Milano 1932, pp. 107 e sgg.; Elenco storico della nobiltà italiana…, Sovrano Militare ordine Gerosilimitano di Malta 1960, p. 381.

2) c. 3, Siena, Archivio di Stato; illustrato in Catalogo della mostra L’arte a Siena sotto i Medici, Siena 1980, p. 200.

3) Spreti, cit., s.v. Petrucci.

4) P. Litta, Famiglie celebri italiane - Bourbon del Monte, VIII, 1842-1843.

5) A. Gonzàlez-Palacios, Il Tempio del Gusto, I, Milano 1984, 1 pp. 85-86; 2 figg. 173-174.

6) Illustrato in C. Colombo, L'arte del legno e del mobile in Italia, Busto Arsizio 1981, n. 245.

7) M. Trionfi Honorati, in Catalogo della mostra Palazzo Vecchio: Committenza e collezionismo medicei, Firenze 1980, n. 395; H. Hayward, Storia del mobile, ed. cons. Reggio Emilia 1992, n. 97.

8) M. Tinti, Il mobilio fiorentino, Milano s.d. ma 1928, tavv. CXXI, CXXVI, CXXXI, CXL, CXLI, CXLVIII.

9) Illustrata in Colombo, cit., n. 240.

 

Opera dichiarata di interesse culturale dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo in data 7 luglio 2016.

 

The italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy

 

 

 

Estimate   € 150.000 / 250.000
6

Manifattura Veneta, primi anni del secolo XVII

CONA D'ALTARE

in legno intagliato e dorato, alt. cm 555x420; luce interna cm 354x205

 

L’arredo in legno intagliato e dorato è composto da un architrave, da una cimasa semicircolare a timpano, da due angolari, due semicolonne scanalate di ordine corinzio e, infine, da tre cornici. L’architrave a tre ordini è costituito da un fregio centrale con tralci di quercia intagliati interrotti al centro da un finto cartiglio, sormontato da una cornice aggettante con mensole e rosette chiusa, in basso, da modanature rispettivamente a dentelli ed ovoli e dardi, e, in alto, da una barra liscia rifinita da un cordoncino. Poggia su due mensole con teste di cherubino ad altorilievo sorrette dalle due semicolonne, scolpite in un unico pezzo di legno. Su di esso s’innesta una lunetta centrata da un finto cartiglio fiancheggiato da due putti alati dalle forme slanciate sormontata da un cherubino che si affaccia da una mensola rettangolare. L’interno della cornice della lunetta presenta rosette alternate a mensole a foglia d'acanto racchiuse da modanature rispettivamente lisce a dardi ed ovoli e a dentelli. All’interno della cona è una cornice in tre pezzi intagliata a motivi mistilinei stilizzati centrati da rosette alternati a gigli, destinata a racchiudere con probabilità un dipinto.

Si tratta verosimilmente infatti di una cona d’altare, purtroppo priva di base, proveniente da una cappella gentilizia di difficile individuazione.

In tempi recenti l’arredo era conservato nella villa medicea di Lappeggi, messa all’asta dai Lorena nel 1814.

La monumentale cona, oggi indubbiamente snaturata perché fuori dal suo contesto originario e considerata addirittura un “portale”, nonostante alcuni elementi accuratamente rifatti, perfettamente distinguibili dal resto, è un’opera di rilevante interesse storico-artistico. La qualità e la raffinatezza dell’intaglio, uniti ad uno stile riconducibile alla produzione veneta degli inizi del XVII secolo, fa supporre che l’oggetto sia stato prelevato in epoca imprecisabile da una cappella gentilizia del territorio di produzione. Influssi della scultura veneta, vicina ai modi di Jacopo Sansovino, infatti, si colgono nei due putti alati, seppur con le dovute cautele.

Conosciamo ancora molto poco sull’attività degli intagliatori veneti dei primi decenni del XVII secolo per poter meglio identificare la bottega o addirittura la mano del raffinato artista che ha eseguito questo elegante manufatto. Secondo il parere espresso dalla Sovrintendenza Napoli e Provincia si tratta, in ogni caso, di un’opera di straordinaria monumentalità, espressione altissima della cultura non solo veneta, ma italiana in genere, che presenta caratteri di unicità e di eccezionalità.

 

Opera dichiarata di interesse storico-artistico particolarmente importante dalla Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di Napoli in data 17 ottobre 2005.

 

The italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy

 

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