A CENTURY BETWEEN COLLECTING AND ART DEALING IN FLORENCE

19 OCTOBER 2016

A CENTURY BETWEEN COLLECTING AND ART DEALING IN FLORENCE

Auction, 0190
FLORENCE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
5.30pm
Viewing

FLORENCE
14 -18 October 2016  10am – 1pm / 2pm – 7pm 
19 Octobre 2016  10am/1pm
Palazzo Ramirez-Montalvo Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Estimate   800 € - 180000 €

All categories

61 - 90  of 120
65

Bernardo Cavallino

(Napoli 1616-1656)

LE NOZZE DI TOBIOLO E SARA

olio su tela, cm 92x120

al retro, sulla cornice e sul telaio, etichette della Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli 1938

 

 

Esposizioni

Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli, Castelnuovo, 1938.

Bibliografia

Piccola guida della Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli 1938, p. 71, n. 3; La Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700- 800, Napoli 1938, p. 319, n. 3.

 

Esposto come opera di Bernardo Cavallino alla mostra della pittura napoletana del 1938 ma non riprodotto nello stringatissimo catalogo che accompagnava quella straordinaria rassegna, il dipinto qui offerto è rimasto sostanzialmente inedito e anzi del tutto sconosciuto alla critica cavalliniana e più in generale agli studi napoletani.

Ben noti ne sono invece il soggetto, tratto dal Libro di Tobia dell’Antico Testamento, e la composizione: si tratta infatti di un tema altre volte replicato da Bernardo Cavallino ed evidentemente di così grande successo da essere ripetuto anche da altri, estranei alla sua bottega.

Si può anzi affermare che, fra tutte le invenzioni ascrivibili alla giovinezza e alla prima maturità dell’artista, intorno ai primi anni Quaranta, queste Nozze di Tobiolo siano state quella di maggiore successo, tanto numerose ne sono le repliche e copie antiche che ne documentano la diffusione, da sola o accompagnata da un altro episodio dello stesso ciclo veterotestamentario, la Guarigione di Tobia: ne ha dato notizia per prima Ann T. Lurie nel catalogo dell’esposizione monografica sull’artista del 1984-85 (Bernardo Cavallino of Naples (1616-1656) pp. 98-99 e 231) e più recentemente Nicola Spinosa nel suo catalogo generale (Grazia e tenerezza “in posa”. Bernardo Cavallino e il suo tempo. 1616 – 1656, Roma 2013, pp. 283-84; 408-9). Spinosa ha proposto anzi di riconoscere i più antichi esemplari autografi di questa serie in una coppia di tele, per la verità scarsamente leggibili nel loro modesto stato conservativo, poi passate sul mercato antiquario. Una proposta che la ricomparsa del nostro dipinto, senza dubbio migliore per qualità, spinge senz’altro a riconsiderare.

Coerentemente con le scelte compositive del giovane Cavallino e con la sua personale interpretazione del caravaggismo “a figure terzine”, le nozze di Tobiolo e Sara sono messe in scena in uno spazio oscuro e disadorno, memore di soluzioni caravaggesche ma forse più della realtà quotidiana esperita dall’artista stesso. Ne diverge però lo straordinario e in qualche modo incongruo brano di natura in posa, degno delle invenzioni di un Giovan Battista Recco nei bagliori dorati del vasellame e nel tappeto prezioso, protetto da una tovaglia candida, su cui poggiano i cibi dell’austero festino nuziale.

Vi compare, forse per la prima volta, un tipo di figura femminile che ritroveremo appena variata nelle vesti di altri personaggi, oltre che in nuove personificazioni di Sara, come è evidente nel confronto con l’Ester e Assuero a Napoli presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa (N. Spinosa 2013, cit., p. 305, n. 39), o ancora nella Madonna annunciata a Melbourne, The National Gallery of Victoria (ibidem, p. 331, n. 68).

 

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
Price realized  Registration
67

Cerchia di Simone De Magistris, fine sec. XVI

SAN BENEDETTO E IL MIRACOLO DEL GIOVANE SALVATO DALLE ACQUE

olio su tavola, cm 61x89

 

 

 

Bibliografia di riferimento

A. Marabottini, Due schede umbre e due marchigiane, in “Commentari d’Arte”, Roma, IV, 1998, pp. 124-127 

Collezione Alessandro Marabottini, Roma, 2015, pp. 53-54, scheda 6

 

L’interessante tavola qui offerta mette teatralmente in scena uno dei miracoli attribuiti a San Benedetto da Norcia.

Si narra l’episodio del giovane Placido che, andando a prendere l’acqua del lago, venne trascinato via dalla corrente. Placido però fu salvato grazie all’intervento miracoloso di Benedetto che, avendo assistito alla scena dalla sua cella, mandò San Mauro a soccorrere il fanciullo. Nel dipinto infatti vediamo San Benedetto sulla destra, seduto in preghiera dinanzi al Crocifisso, mentre dà disposizioni a Mauro di andare ad aiutare il giovinetto.

Sul lato sinistro del quadro si apre invece un paesaggio a indicare il mondo esterno, che è separato dalla cella del santo per tramite di una colonna di pietra serena. In questo mondo entra San Mauro che, camminando sulle acque, trae in salvo il piccolo Placido, tenendolo curiosamente per i capelli. Il bambino è raffigurato con una brocca in una mano mentre con l’altra si aggrappa alla salvifica mantellina del monaco.

Nel paesaggio sono visibili anche episodi di vita quotidiana, due giovani che si accingono a fare il bagno nel fiume e un cacciatore, preceduto dal suo cane, che è intento a sparare ad un gruppo di volatili sullo sfondo. La tavola sembra essere così un vero e proprio palcoscenico in cui si muove un’umanità variegata di cui fanno parte santi benedettini, popolani e animali ed è riconducibile, per dimensioni e affinità stilistiche, ad una tavola di analogo soggetto (San Benedetto e il miracolo del ferro caduto nell’acqua) forse parte di uno stesso insieme, nella collezione di Alessandro Marabottini (op. cit. scheda 6).

Quest’ultimo aveva proposto per il dipinto un’attribuzione al pittore marchigiano Simone De Magistris (notizie tra il 1555 e il 1613) motivandola per via del confronto tra la “scheletrica” testa del San Benedetto con quella, simile, di uno dei personaggi nella tela con l’Esaltazione del nome di Gesù, già per l’altare della chiesa di Santa Maria della Rocca di Offida.

Più probabile pensare che la nostra tavola con il Miracolo di San Benedetto, come anche quella in collezione Marabottini, sia opera di un pittore marchigiano nell’ambito di Simone de Magistris dal quale tuttavia eredita molte delle caratteristiche tipiche come l’esasperazione dei colori (si veda il paesaggio fiammeggiante) e gli atteggiamenti anticlassici delle figure, con chiari riferimenti alle stampe nordiche. Tutti elementi che rendono il dipinto offerto un esemplare di grande interesse e originalità. 

Estimate   € 7.000 / 10.000
Price realized  Registration
68

Scultore fiorentino del sec. XV/XVI, già attribuita a Dello Delli

(Firenze 1403 ca. - Spagna  1460/70 ca.)

PIETÀ

gruppo plastico in terra cruda dipinta, con parti in legno e tela, cm 73x80x55

 

Bibliografia

A. Parronchi, La probabile fonte quattrocentesca della prima Pietà di Michelangelo, in “Michelangelo”, III, 1974, 9, pp. 14-21;

G. Damiani, Delli, Daniele detto Dello, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, 38, Roma 1990, pp. 62-64;

G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia, Firenze 1991, p. 15 nota 26;

G. Gardelli, L’eredità di Michelangelo e la “Pietà” ritrovata di Andrea Bregno, Roma 2007, pp. 42-53

 

L’intensa scultura, assai rara e intrigante, può vantare una certa notorietà in quanto attribuita da Alessandro Parronchi (op. cit. 1974) al rinomato scultore e pittore fiorentino Dello Delli, avanzandone l’identificazione con “un Cristo morto in grembo alla Vergine” ricordato dal Vasari nella Vita dedicata all’artista (1568), che sin verso il 1640 si trovava nella chiesa della SS. Annunziata di Firenze, in una cappella (la quarta a destra) realizzata intorno al 1425 su commissione dell’orafo Marco di Bartolomeo Rustici, dove oggi rimane lo sfondo con i Dolenti ai piedi della Croce affrescato da Bicci di Lorenzo (E. Casalini, Un “Calvario” a fresco per la pietà di Dello Delli, in La SS. Annunziata di Firenze, Firenze 1971, pp. 11-24): gruppo al quale, sempre secondo il Parronchi, Michelangelo si sarebbe ispirato per scolpire nel 1498-99 la celebre Pietà marmorea della Basilica Vaticana.

La suggestiva proposta attributiva del Parronchi è stata in seguito accolta da Giovanna Damiani (op. cit. 1990), ricordata come plausibile da Giancarlo Gentilini (op. cit. 1991), e più di recente rilanciata da Giuliana Gardelli (op. cit.2007), che ribadisce l’importanza di quest’opera nella genesi del capolavoro del Buonarroti, ma sembra sfuggita - o rigettata - dagli ultimi contributi sull’artista (cfr. le schede di B. Teodori e P. Motture in La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Strozzi, a cura di B. Paolozzi Strozzi e M. Bormand, Firenze 2013, pp. 458-460, nn. IX.2-3, e di M. Santanicchia, in Bagliori dorati. Il Gotico Internazionale a Firenze 1375-1440, catalogo della mostra, Firenze, Galleria degli Uffizi, a cura di A. Natali, Firenze 2012, pp. 222-223, n. 62).

Dello (Daniello di Niccolò Delli), attestato anche a Siena (1425), Venezia (1427), Napoli (1446) e soprattutto in Spagna (1433 - 1446 ca., e post 1446) dove conseguì notorietà e onori lavorando come pittore e architetto per il re di Castiglia Giovanni II, fu, accanto a Donatello col quale secondo il Vasari ebbe modo di collaborare nella modellazione di alcuni cassoni per Giovanni dei Medici in “stucco, gesso, colla e matton pesto”, tra i protagonisti della ‘rinascita’ della scultura in terracotta, avendo realizzato nei primi anni Venti un cospicuo nucleo di immagini fittili per l’Ospedale di Santa Maria Nuova, di cui si conservano un’esuberante lunetta con l’Incoronazione di Maria già sul portale della chiesa e ora all’interno del complesso, un’inquietante immagine di Cristo che mostra la piaga del costato oggi al Victoria and Albert Museum di Londra, una piccola ma drammatica Crocifissione confluita nel monastero delle Oblate a Careggi, e unaMadonna col Bambino all’interno di un elaborato tabernacolo architettonico ora nel Museo Nazionale del Bargello (cfr. G. Gentilini, Nella rinascita delle antichità, in La civiltà del cotto. Arte della terracotta nell’area fiorentina dal XV al XX secolo, catalogo della mostra, Impruneta, Loggiato e Chiostri della Basilica, Firenze 1980, pp. 67-99, speciatim pp. 74, 89-90, n. 2.1; Teodori, Motture, Santanicchia, opp. cit.).

“Da queste opere emerge una personalità artistica decisa e originale, oltreché di notevole qualità”, che “dopo un iniziale linguaggio sostanzialmente gotico e linearistico” d’impronta ghibertiana matura “un rapido aggiornamento ai maggiori fatti fiorentini contemporanei”, con una singolare “declinazione in senso espressionistico” e “una crudezza realistica” quale si coglie anche nel gruppo in esame (Damiani, op. cit. 1990, p. 63), dove la torsione accentuata della mano destra di Cristo che ricade a terra col palmo rovesciato manifesta un’esplicita sintonia con peculiari invenzioni donatelliane (Gardelli, op. cit. 2007, p. 50), mentre “nella caratterizzazione cruda e drammatica di fisionomie e gesti si accosta al gusto ‘espressionistico’ portato in quel tempo in Italia dalla scultura tedesca di devozione popolare”, cui  è da ricondurre anche la composizione in forma di Vesperbild (Gentilini, op. cit. 1980, pp. 74, 90).

Tali aspetti stilistici e le spiccate competenze di Dello nella modellazione dell’argilla e di altri materiali ‘poveri’ devono dunque indurci a riconsiderare e approfondire attentamente, nelle opportune sedi scientifiche, questa ipotesi attributiva, che trova utili riscontri nella rigogliosa esuberanza dei panneggi, in special modo nell’ampio velo minutamente plissettato di gusto tardo gotico, e nei tratti aguzzi del volto addolorato di Maria, simile alla Madonna incoronata e a quella Dolente di Santa Maria Nuova, ma anche nella sapiente definizione del corpo esangue di Cristo, che può ricordarci le precoci competenze anatomiche di Dello, secondo il Vasari “fra i primi che cominciassero a scoprire con qualche giudizio i muscoli ne’corpi ignudi”.

Di fatto, per quanto problematica - giacché reinterpreta la tradizionale iconografia del Vesperbild con esiti davvero affini alla Pietà del Buonarroti, tali da dover valutare anche l’eventualità di una datazione successiva, forse in rapporto all’attività di scultori fiorentini legati all’Annunziata, come il Montorsoli (1507 - 1563) e il ‘servita’ Giovanni Angelo Lottini (1549 - 1629) -, l’opera ci appare una testimonianza di grande interesse anche in ragione dell’inconsueta tecnica ‘polimaterica’ (terra cruda modellata su un supporto ligneo con parti in tela gessata), ben attestata dalle fonti, quali l’Introduzione alle tre Arti del Disegno premessa dal Vasari alle Vite, in rapporto alla realizzazione di modelli grandi e di apparati effimeri, della quale per la sua deperibilità sopravvivono oggi ben pochi esempi. Una tecnica, negli ultimi anni ampiamente indagata e riscattata dalla critica (cfr. C. Galassi, Sculture “da vestire”. Nero Alberti da Sansepolcro e la produzione di manichini lignei in una bottega del Cinquecento, catalogo della mostra, Umbertide, Museo di Santa Croce, Città di Castello 2005), che dunque può indurci a ricondurre la genesi della nostra Pietàall’esigenza di un apparato festivo.

 

G.G.

 

 

Estimate   € 20.000 / 30.000
69

Carlo Lodi (Bologna 1701-1765) 
e Antonio Rossi (Bologna 1700-1753)
PAESAGGIO IDEALE CON SCENA DI SACRIFICIO (Salomone dinanzi ad un idolo pagano)
olio su tela, cm 261x314

Insieme al dipinto al lotto successivo, senza dubbio parte di uno stesso contesto decorativo, la grande tela qui offerta propone un esempio di altissima qualità di quella scuola pittorica fiorita a Bologna nella prima metà del Settecento per decorare, in toni di svagato disimpegno, le “stanze dei paesi” dei palazzi cittadini e delle ville del contado bolognese.Profondamente distinta, nei suoi accenti fantastici, dal paesismo dichiaratamente arcadico fiorito a Venezia e in terraferma come dalle prove erudite della scuola romana, nostalgica dell’Antico e di Claudio di Lorena, la pittura di paesaggio fu coltivata a Bologna con altissima maestria da un piccolo gruppo di specialisti, variamente legati agli ambienti del teatro e della scenografia, e con l’intervento di importanti pittori di figura che, a differenza dei loro colleghi romani, non disdegnarono di collaborare con i loro personaggi a estese decorazioni paesistiche.Quasi sempre di importanti dimensioni e condotti per lo più a tempera, su tela quando non direttamente su muro, i paesaggi bolognesi propongono dunque, anche sotto il profilo collezionistico, una situazione di grande originalità se paragonati alle altre scuole italiane.Tra i suoi protagonisti spicca senza dubbio Carlo Lodi, forse il paesista di maggior successo della sua generazione, attivo ben oltre i confini dell’Emilia e anzi richiesto dalle corti di Spagna e di Sassonia. Costante la sua collaborazione con il coetaneo Antonio Rossi, a cui successe dopo la metà del secolo l’estroso Nicola Bertuzzi.Ed è proprio ad alcune tele eseguite per il convento di San Giacomo Maggiore a Bologna nel 1753, anno estremo del sodalizio con Rossi, che i nostri paesaggi, sebbene a olio invece che a tempera su tela, possono paragonarsi per identità di soluzioni compositive (si veda il Ritorno del Figliol Prodigo, accolto dal padre in una esedra in tutto simile alla nostra scena di sacrificio) e stile delle figure.Nella loro garbata compostezza, in qualche modo reminiscente del raffinato classicismo di un Donato Creti, le figurine nelle tele qui offerte presentano altresì molteplici confronti con le prove autonome di Antonio Rossi: citiamo in particolare le figure di contorno nell’Elemosina di S. Tommaso di Villanova nella Pinacoteca di Cento, del 1744, o l’Ispirazione del Poeta di raccolta privata (entrambi riprodotti da Adriano Cera, La pittura bolognese del 700, Milano 1994, ad vocem, figure 6 e 4, rispettivamente).                                                  

Estimate   € 40.000 / 60.000
71

Giovanni Bonazza

(Venezia 1654 – Padova 1736)

ANGELO ANNUNZIANTE

marmo, cm 73x33x21

 

Bibliografia di riferimento

P. Goi, Giunte al catalogo dei Bonazza, in “Per sovrana risoluzione”. Studi in ricordo di Amelio Tagliaferri, a cura di G.M. Pilo, B. Polese, Arte Documento, Quaderni 4, 1998, p. 556;

S. Guerriero, Una Venere e Amore di Giovanni Bonazza ad Amburgo, in “Arte Veneta”, LXX, 2013, pp. 204-205, fig. 5

 

Questo bellissimo angelo còlto in volo nell’atto di annunciare alla Madonna il mistero dell’incarnazione tradisce immediatamente la mano di Giovanni Bonazza, uno dei massimi protagonisti della plastica veneta barocca a cavallo tra Sei e Settecento (Matej Klemenčič, in Andrea Bacchi, con la collaborazione di Susanna Zanuso, La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, Milano 2000, pp. 702-704). Uno scultore non solo in grado di concepire composizioni fortemente dinamiche ma anche di movimentare in modo assai vivace la superficie delle sculture e, come vediamo in questo angelo, traslare quindi nel marmo il gusto per l’abbozzo e la fattura compendiaria, tipico della terracotta. Un confronto importante è offerto, ad esempio, dall’Angelo, datato 1700, nella chiesa parrocchiale di San Bellino. Ancora più illuminante è poi l’accostamento all’Angelo annunziante del gruppo dell’Annunciata che occupa due nicchie a lato dell’altare dell’oratorio omonimo di San Vito al Tagliamento: sebbene praticamente in controparte (ma la norma prevedeva che l’Angelo si trovasse a sinistra della Madonna, come doveva presentarsi quello qui in oggetto), l’opera di San Vito è quasi sovrapponibile alla presente statua, che presumibilmente doveva trovarsi su un altare, magari a coronamento di una macchina più complessa; perduta è, attualmente, la figura della Madonna.

 

A.B.

 

 

Estimate   € 6.000 / 8.000
Price realized  Registration
77

Giuseppe Porta detto il Salviati

(Castelnuovo di Garfagnana 1520-Venezia 1575)

GIUSEPPE ACCOGLIE I FRATELLI IN EGITTO

olio su tavola, cm 62x62

 

al retro della tavola e sulla cornice, etichette a stampa e a inchiostro e timbri in ceralacca si riferiscono alla collezione dei Principi di Hannover; alla Galleria Fidecommissaria della Casa di Braunschweig-Luneburg; alla medesima collezione nel castello di Blankenburg.

Provenienza

Hannover, collezione dei Principi di Hannover, inv. no. 167, prima del 1831 (come “Scarzellino di Ferrara”); Re Giorgio V (1865-1936); Galleria Fidecommissaria della casa di Braunschweig Lüneburg; loro vendita, Berlino, Paul Cassirer e Hugo Helbing, 27 -28 aprile 1926, lotto 143 (come Ippolito Scarsella, invenduto); Schlöss Blankenburg, circa 1929, inv. no. 0566 (come da sigillo in ceralacca al retro); Hannover, Schloss Marienburg, vendita Sotheby’s, 6 ottobre 2005, lotto 500, come “Scuola Veneziana, circa 1600”; New York, Sotheby’s, 26 gennaio 2012, lotto 122 (come Giuseppe Porta, il Salviati).

Bibliografia
Verzeichnifs der Hausmann’schen Gemählde-Sammlung in Hannover, Braunschweig 1831, p.83, cat. no. 167, (come Scarzellino di Ferrara).
J. Reimers, Katalog der zur Fideikommiss-Galerie des Gesamthauses Braunschweig und Lüneburg gehörigen Sammlung von Gemälden und Skulpturen im Provinzialmuseum Rudolf v. Bennigsenstr. 1 zu Hannover, Hannover 1905. Sammlung Bertheau, cat. no. 379.
M. Gregori, Fogli di taccuino: un dipinto di Giuseppe Porta detto il Salviati in G.M. Pilo, L. de Rossi, I. Reale (a cura di), Un’Identità: custodi dell’arte e della memoriaStudi in onore di Aldo Rizzi, Venezia 2007, p. 217-218, e p. 435, fig. 1. 

 

Tradizionalmente riferito allo Scarsellino, come risulta dalle etichette al retro e dai cataloghi dell’illustre raccolta di provenienza, e più genericamente alla scuola veneziana del tardo Cinquecento in occasione della storica vendita organizzata da Sotheby’s nel 2005, il dipinto qui offerto è stato restituito da Mina Gregori all’esiguo ma significativo catalogo di Giuseppe Porta, più noto col soprannome del suo maestro fiorentino Francesco Salviati.

Ineccepibili i confronti proposti dalla Gregori, che accosta il nostro dipinto a tre opere, curiosamente vicine alla nostra anche per il soggetto – episodi della storia di Giuseppe – sebbene assai più ampie per dimensioni: si tratta di tre tavole ora a Hampton Court (inv. 704, 709, 844) e presenti nelle collezioni reali inglesi fin dalla prima metà del XVIII secolo.

Un tempo genericamente catalogate come di scuola veneziana, le tre tavole (La partenza di Giuseppe; Giuseppe davanti al faraone; Giuseppe spiega i sogni) sono state attribuite al più giovane Salviati da John Shearman e successivamente a lui confermate in un catalogo curato dallo stesso studioso (Early Italian Pictures in the Collection of Her Majesty the Queen, Cambridge 1983, pp. 218-20; nn. 231-33; figg. 194-96). La proposta è stata condivisa oralmente da Alessandro Ballarin e accettata senza riserve da David Mc Tavish, principale specialista del pittore veneziano (Giuseppe Porta called Giuseppe Salviati. (Ph. D. Diss., Londra, Courtauld Insitute). New York-London 1981, pp. 269-72, figg. 131-33) che le riferisce al periodo giovanile dell’artista, intorno alla metà degli anni Quaranta.

Particolarmente convincente il confronto tra la nostra tavoletta e quella raffigurante Giuseppe spiega i sogni, fra le tre la più complessa ed articolata, ricca di personaggi confrontabili ai nostri nei profili angolosi e negli esotici copricapi definiti dal segno affilato della Maniera ma insieme saturi di colore veneziano. Ulteriori motivi di confronto si ritrovano poi negli sfondi architettonici e paesistici della tavola citata e di quella raffigurante la partenza di Giuseppe.

Modificate nel formato, comunque irregolare, le tavole di Hampton Court furono probabilmente eseguite per un insieme decorativo oggi difficilmente ricostruibile nella sua interezza, sia pure in via di ipotesi. Nonostante le diverse dimensioni dei pannelli non è impossibile che anche il dipinto qui proposto facesse parte di quell’insieme, affascinante quanto misterioso.

Estimate   € 25.000 / 35.000
80

Giuseppe Picano?

(documentato 1767-1791)

SAN GIUSEPPE COL BAMBINO

terracotta policroma, cm 33x25x19

 

Bibliografia di riferimento

T. Fittipaldi, Scultura napoletana del Settecento, Napoli 1980, pp. 195-196

 

 

Questa vivace scultura in terracotta si collega a un San Giuseppe col Bambino firmato e datato da Giuseppe Picano (a. 1771 Joseph Picano S.) che si trova nella chiesa di Sant’Agostino alla Zecca di Napoli. Giuseppe, figlio di un Francesco Picano che doveva averlo avviato alla tecnica del legno intagliato (Francesco è documentato in quella veste tanto nel 1737, cfr. Vincenzo Rizzo, Scultori napoletani tra Sei e Settecento. Documenti e personalità inedite, in “Antologia di Belle Arti”, nn. 25-26, 1985, p. 33, doc. 90, quanto nel 1740, cfr. Vincenzo Rizzo, Ulteriori scoperte sulla scultura napoletana dal Seicento al Settecento: da Giulio Mencaglia a Giuseppe Picano (Documenti ed opere inedite), Parte Seconda, in “Istituto del Banco di Napoli – Quaderni dell’Archivio Storico”, 2004, p. 206, doc. 63), per lungo tempo è attestato, grazie a documenti e ad opere firmate, esclusivamente come ‘Scultore di legno’, attivo a Napoli ma con richieste provenienti da tutto il Regno; nel dicembre 1782, ad esempio, egli riceveva la commissione per l’Immacolata Concezione sempre in legno destinata alla Chiesa Madre di San Giovanni Battista Decollato a Bivongi, in Calabria, dove l’opera tuttora si conserva (cfr. Gianfranco Solferino, Un capolavoro di Giuseppe Picano in Calabria. L’Immacolata Concezione di Bivongi, in “Calabria Sconosciuta”, XXXI/n. 118, 2008, pp. 19-20). Nel 1781, peraltro, Picano riceve pagamenti per “tutte le sculture di marmo e stucco coi loro modelli” dell’altare maggiore della chiesa dell’Annunziata a Napoli (Fittipaldi, op. cit., pp. 197-198).

La produzione in legno intagliato giunta fino a noi qualifica indubbiamente Giuseppe Picano come uno dei più dotati eredi, se non proprio un allievo diretto, del grande Giuseppe Sanmartino. L’invenzione del San Giuseppe col Bambino dovette godere di un certo successo: rispetto all’esemplare di Napoli, quello qui in oggetto presenta una fattura più corsiva, che sottolinea peraltro il carattere quasi capriccioso dei panneggi, ma anche delle carni del Bambino.

 

 

Estimate   € 18.000 / 25.000
84

Giuseppe Cades

(Roma 1750-1799)

CRISTOFORO COLOMBO DINANZI AI SOVRANI FERDINANDO E ISABELLA

olio su tela ovale, cm 176x243

iscritto al retro “Giuseppe Cades”

opera dichiarata di particolare interesse storico-artistico ai sensi del decreto legislativo 42/2004 

 

Bibliografia

A.M. Clark, An introduction to the drawings of Giuseppe Cades in Master Drawings, 1964, vol. II, pp. 23-24 e 26, illustrato fig. 2. p. 23;
M.T. Caracciolo, Giuseppe Cades 1750-1799 et la Rome de son temps, Parigi 1990, n. 77 A, pp. 271-272, illustrato p. 271.

 

Distinto per la sua forte carica teatrale, il grande ovale qui presentato è opera dell’interessante pittore Giuseppe Cades, nato a Roma nel 1750 ma di probabili origini francesi.

Artista precoce, nel 1762 e nel 1766 Cades ricevette il secondo e il primo premio per i concorsi di pittura dell’Accademia di San Luca grazie ai disegni Amore e Psiche (dal gruppo capitolino omonimo) e Tobia che cura il padre cieco. Questo secondo disegno fu considerato dal suo maestro, Domenico Corvi, talmente emancipato e ricco di spunti innovativi che egli cacciò il giovane dalla sua scuola dando il via così ad una rivalità con l’allievo che sfociò in vera e propria inimicizia.

Gli stessi caratteri innovativi sono quelli che troviamo nel dipinto qui offerto, che mostra una spiccata fantasia interpretativa senza tralasciare il tono aulico ed enfatico richiesto dalla scena rappresentata, sempre permeato però da una sottile vena di ironia, in linea con l’indole accesa di Giuseppe.

I modelli a cui si riferì Cades per elaborare questo personale linguaggio sono ripresi dal Veronese, di cui ammirava la resa del colore, da modelli fiamminghi e dalla coeva pittura francese. Senza farsi condizionare troppo dai pittori neoclassici più in voga dell’epoca, come Pompeo Batoni o Anton Raphael Mengs, Cades preferì avvicinarsi alla vena proto-romantica di Füssli e Barry le cui opere mostrano quel gusto per il racconto teatrale e in costume di cui anch’egli divenne una figura di rilievo.

L’ovale qui offerto illustra un tema raramente rappresentato. Siamo infatti dinanzi all’incontro tra Cristoforo Colombo e i sovrani cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, patroni del viaggio in cui il navigatore genovese, cercando la rotta per le Indie, avrebbe poi scoperto l’America.

La scena rappresentata non è quella, più nota e frequente, del ritorno di Colombo, bensì la fase prima della partenza quando l’esploratore cerca di perorare la sua causa convincendo i sovrani a finanziare il suo ardito progetto. Questa ipotesi è suggerita dall’assenza, nella nostra scena, dei doni che Colombo riportò indietro dalle Americhe per omaggiare Isabella e Ferdinando. Non è dunque da escludere che il dipinto facesse parte di una serie più ampia, in cui erano descritti momenti diversi dell’impresa.

L’ovale, già pubblicato nel 1964 da Anthony M. Clark e nel 1990 da Maria Teresa Caracciolo, è stato datato dagli studiosi agli anni Ottanta del Settecento. Si tratta dunque di una prova originale di pittura di storia, che anticipa il gusto per la pittura neo-medievale che si diffonderà di lì a poco proprio all’inizio del XIX secolo. Dell’opera si conoscono anche due disegni preparatori conservati al Musée des Arts Décoratifs di Lione e al Museum of Art di Filadelfia, il secondo dei quali presenta la scena all’interno di una elaborata cornice neo-rinascimentale che suggerisce, con ogni probabilità, la collocazione originaria del nostro dipinto al centro di un soffitto decorato a fresco o in stucco.

         

Estimate   € 35.000 / 50.000
Price realized  Registration
85

Pietro Orlando

(Trapani 1651 - 1699)

CALVARIO (CROCIFISSIONE DI CRISTO E ALTRE SCENE; SALITA AL CALVARIO)

gruppo scultoreo in alabastro, cm 60x51x25

 

Bibliografia di riferimento

I. Bruno, in I. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, III, Scultura, a cura di D. Patera, Palermo 1994, pp. 249-252

 

 

Opera di una squisita eleganza, certo destinata alla devozione domestica, forse nella cappellina o in una camera di una nobile dimora siciliana, l’elaborato, animatissimo gruppo raffigura la Crocifissione di Cristo tra i due ladroni - il “buono” in atto di rivolgersi verso il Redentore, mentre l’altro si torce all’opposto -, con la Maddalena e San Giovanni Evangelista dolenti ai piedi della Croce, includendo altri episodi collaterali che nei Vangeli e nell’iconografia tradizionale cadenzano la drammatica narrazione del Calvario sul monte Golgota: a sinistra lo svenimento della Madonna sostenuta dalle tre Pie Donne, a destra i soldati che si contendono la veste di Gesù giocando a dadi sopra un tamburo, mentre dietro di loro Longino, il centurione pentito, guarda stupito il Signore, e alcuni Farisei discutono, uno dei quali a cavallo fa da quinta alla scena in posizione simmetrica al cavaliere armato che si erge sull’altra ripa. La complessa rappresentazione è intagliata con sorprendente vivacità narrativa e un eccezionale virtuosismo tecnico, quale si coglie nella sapiente definizione anatomica e posturale dei corpi ignudi crocifissi, nella pregnanza espressiva e fisionomica dei volti, negli abiti pittoreschi che connotano i diversi personaggi con fantasiosi copricapi, armature cesellate, panneggi increspati dal vento, come anche nella sapida presenza in primo piano di un cane accovacciato e una ‘natura morta’ con la gerla di vimini contenente gli arnesi utilizzati per la crocifissione accanto alla scala riversa, oltreché, sui lati, di due ‘gruppi di genere’ uno dei quali ci presenta un’elegante signora accompagnata dal suo figlioletto. Ma la vena narrativa e il magistero del suo autore si rivelano in modo forse ancor più sbalorditivo nella miniaturistica predellina incavata nel basamento raffigurante un’affollata Salita al Calvario che si staglia su di un ampio, suggestivo sfondo di paesaggio con la veduta di Gerusalemme, includendo anche in questo caso altri momenti della Passione di Cristo: il Cireneo che condivide la fatica di Gesù, la Veronica inginocchiata per asciugarne il volto, la Vergine prostrata dal dolore, mentre sullo sfondo a sinistra s’intravedono alcune donne in attesa davanti al sepolcro la cui lastra viene sollevata da figure angeliche.

Come dichiara l’iscrizione incisa sul margine inferiore della base - “Petrus Orlando Inventor Del(ineavit et) Fecit Drepani” - sia l’intaglio che l’invenzione compositiva si devono al trapanese Pietro Orlando, che le fonti locali (G. Di Ferro, Biografia degli uomini illustri trapanesi, Trapani 1831, pp. 203-212) ricordano come “famoso” scultore in legno, riferendogli il monumentale armadio istoriato della chiesa del Collegio dei Gesuiti (da alcuni attribuito ora al milanese Giampaolo Taurino), numerosi Crocifissi (Santa Maria dell’Itra; Annunziata; Carmine), animati gruppi plastici al naturale (Cristo fra i ladroni, Ospedale di Sant’Antonio Abate), statue (Ecce Homo, Santa Margherita; Sant’Antonio da Padova, San Francesco), ed altre opere, alcune delle quali si trovano ad Erice (M. Vitella, Il tesoro della Chiesa Madre di Erice, Trapani 2004, p. 75, n. II.1), apprezzate per la perizia anatomica, la vivacità espressiva e l’animazione. Fratello di Alberto (nato nel 1653), che si dedicò invece alla scultura lapidea (statue nella chiesa della tonnara di San Giuliano) e in stucco (Dottori della Chiesa, chiesa dell’Immacolata), Pietro Orlando fu attivo anche nella lavorazione del corallo - un atto del 1685 attesta che gli Orlando erano iscritti alla Corporazione dei corallari (Bruno, op. cit. 1994) -, arte assai fiorente a Trapani (Materiali preziosi dalla terra e dal mare nell’arte trapanese e della Sicilia occidentale tra XVIII e XIX secolo, catalogo della mostra, Trapani, Museo Regionale, a cura di M.C. Di Natale, Trapani 2003, pp. 408-409), maturando pertanto una spiccata familarità con la ‘microscultura’ e con tecniche d’intaglio funzionali alla lavorazione dell’alabastro, un genere pure ben radicato nella tradizione siciliana per il quale, del resto, si usavano i medesimi utensili dell’intaglio ligneo.

In un tale contesto l’opera che qui si presenta si staglia come un assoluto vertice qualitativo, anche in ragione dei colti riferimenti formali agli episodi più alti della scultura siciliana (il respiro narrativo dei rilievi di Antonello Gagini nel Duomo di Palermo e le vivaci predelle della statuaria gaginesca), le memorie d’invenzioni michelangiolesche (i tormentati Ladroni noti attraverso varie redazioni in bronzo) e le suggestive affinità con la scultura lombarda del Cinquecento (gli estrosi intagli lignei dei Del Maino, come il Calvario oggi nel Victoria and Albert Museum di Londra, o i vibranti marmi di Gian Giacomo della Porta), reclamando per Pietro Orlando, ingiustamente trascurato dalla recente bibliografia (cfr. M. Guttilla, Mirabile artificio 2. Lungo le vie del legno, del marmo e dello stucco. Scultori e modellatori in Sicilia dal XV al XIX secolo, Palermo 2010), una più adeguata attenzione critica.

 

G.G.

 

Estimate   € 25.000 / 35.000
Price realized  Registration
86

Scuola genovese, sec. XVII

CRISTO E L’ADULTERA

olio su tela, cm 111x144

 

 

Bibliografia di riferimento

A. Acordon, in La pinacoteca dei Cappuccini di Voltaggio, Alessandria, 2001, p. 111
A. Orlando,
Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino, 2010, p. 133.

 

L’opera qui presentata, raffigurante Cristo e l’Adultera, è stata attribuita da Anna Orlando al Maestro di Monticelli d’Ongina il cui nome deriva dalle due tele, rese note da Arturo Carlo Quintavalle, presenti nella basilica di San Lorenzo in Monticelli d’Ongina nel piacentino, raffiguranti La vendita di Giuseppe e I gioielli ritrovati nella sacca di Beniamino
L’autore si identifica forse con Giovanni Solaro, pittore genovese citato dalle fonti come allievo di Gioacchino Asserto, del quale non si conoscono ancora opere certe.
Esistono altri dipinti della stessa mano, uguali per soggetto ma variati nella composizione e con misure quasi identiche al nostro, uno in collezione Koelliker a Milano, il secondo passato da Boetto nel 2006 e l’altro citato da Angela Acordon nella Pinacoteca dei Cappuccini di Voltaggio ad Alessandria per i quali Anna Orlando ipotizza una stretta derivazione dalla
Cena in Emmaus di Assereto in collezione privata genovese, documentata da una fotografia nella fototeca della Fondazione Giorgio Cini a Venezia.
Rispetto allo stile di Assereto, massimo esponente della pittura genovese del Seicento insieme a Bernardo Strozzi, quello dell’allievo mostra una pennellata meno vivace che struttura campiture di colore più semplificate.
Vi sono comunque affinità stilistiche, soprattutto per la caratterizzazione dei volti, con le opere di Assereto in particolare con il
Cristo che guarisce il cieco (Pittsburgh, Carnegie Museum of Art) e con il Servio Tullio con le chiome in fiamme (Genova, Museo di Palazzo Bianco). Altri punti di contatto si possono riscontrare nella drammaticità delle raffigurazioni, nei vibranti chiaroscuri, che creano illusionistiche prospettive d’ombra, e nelle campiture di luce che isolano i personaggi in primo piano. Oltre a quelle già citate Angela Acordon attribuisce al maestro di Monticelli d’Ongina altre tredici opere sottolineando la “tempra più rudamente popolaresca” che le accomuna.

 

                            

Estimate   € 10.000 / 15.000
87

Scultore marchigiano attivo intorno alla metà del sec. XV

Maestro Domenico dal Presepio? 
(documentato a Sarnano, Macerata, nel 1472)

MADONNA IN TRONO COL BAMBINO

statua in legno dipinto e dorato, cm 142x77x60

 

Bibliografia di riferimento

M. Giannatiempo López, in Rinascimento scolpito. Maestri del legno tra Marche e Umbria, catalogo della mostra, Camerino, convento di San Domenico, a cura di R. Casciaro, Cinisello Balsamo 2006, pp. 120-121, n. 7, pp. 122-123, n. 8.

 

 

Questa monumentale Maestà lignea grande al vero - raffigurante la Vergine assisa in trono (privo oggi dello schienale e dei fianchi) in atto di porgere un dono, ora perduto (probabilmente una melagrana, simbolo della Passione di Cristo e dell’unità della Chiesa), al Bambin Gesù che reca un globo dorato, tradizionale attributo del Salvator Mundi -, declina una concezione compositiva salda e solenne, riconducibile a modelli diffusi nella scultura lapidea veneta del secondo Trecento, con accenti espressivi più arguti e terragni, quali spiccano nei tratti vivacissimi del Bambino, e con una preziosa esuberanza decorativa di gusto tardo gotico: aspetti che inducono a ricercarne la paternità tra gli intagliatori attivi durante la prima metà del Quattrocento nelle regioni adriatiche dell’Italia centrale.

In un tale contesto la singolare conformazione del volto di Maria, dal collo e l’ovale assai allungati, la fronte alta, spaziosa e tondeggiante, le labbra e il mento prominenti, gli occhi con le palpebre profilate spalancati a manifestare gioia e uno stupore enfatizzato dalle sopracciglia inarcate e sollevate, insieme all’andamento geometrico, piramidale del panneggio, solcato da pieghe verticali che si frangono in ricadute spigolose, ci consentono di proporre un accostamento ad un gruppo di notevoli sculture in legno del territorio di Camerino, dove quest’arte fu particolarmente vivace fino a tutto il Quattrocento. Si tratta, in primo luogo, di una Madonna orante e un San Giuseppe conservati in Santa Maria di Piazza Alta a Sarnano, ritenuti parte di una complessa ancona prospettata in un lascito del 1462 (come suggerisce anche una derivazione ad affresco nell’abbazia di Piobbico anteriore al 1464) oppure, come la critica è oggi incline a supporre in base a recenti ricerche d’archivio, di un Presepio a figure mobili intagliato per la chiesa San Francesco poco dopo il 1470, presumibilmente da un maestro locale denominato nel 1472 “Domenico de presepio” del quale ben poco sappiamo (M. Giannatiempo López, op. cit. 2006, pp. 120-121, n. 7; E. Vissani, in Vittore Crivelli da Venezia alle Marche. Maestri del Rinascimento nell’Appennino, catalogo della mostra, Sarnano, Palazzo del Popolo, a cura di F. Coltrinari e A. Delpriori,

Venezia 2011, pp. 110-111, n. 4, pp. 178-179, n. 39). Al “medesimo intagliatore” delle due statue di Sarnano, ossia al probabile Maestro Domenico, Massimo Ferretti (in Da Biduino ad Algardi. Pittura e scultura a confronto, catalogo della mostra, Torino, galleria Antichi Maestri Pittori, a cura di G. Romano, Torino 1990, p. 73) aveva da tempo riferito anche la Madonna dell’Impollata di Cessapalombo e un’altra Madonna orante oggi a Parigi nel Museo Jacquemart-André già reputata abruzzese (stilisticamente più avanzata e forse riconducibile proprio al disperso Presepio del 1472): proposte in seguito confermate da Maria Giannatiempo López (op. cit. 2006, pp. 122-123, n. 8), che ha inoltre arricchito la personalità di questo scultore, “originale e isolato nel panorama della plastica lignea fiorita nella signoria dei Da Varano”, attribuendogli pertinentemente anche una Vergine annunziata presso privati, in precedenza creduta senese, e una Santa Lucia tuttora in San Francesco a Sarnano, databile in un momento anteriore (in Il Quattrocento a Camerino. Luce e prospettiva nel cuore della Marca, catalogo della mostra, Camerino, convento di San Domenico, a cura di A. De Marchi e M. Giannatiempo López, Milano 2002, pp. 185-187, n. 31), statua dove le spire affilate del manto offrono ulteriori riscontri alla nostra Madonna che ci appare la testimonianza più antica a noi nota del Maestro.

A confermare la pertinenza a questo nucleo dell’opera che qui si presenta - un tempo assai venerata, come suggerisce il velo scalpellato per applicare sulla testa una corona d’argento - concorre infine la raffinatissima policromia che, attraverso elaborate stesure di lacca e di azzurro intenso (ora virato in nero) sopra estese dorature punzonate e graffite, simula preziosi motivi tessili con esiti del tutto affini alle Madonne di Sarnano, di Cessapalombo, di collezione privata e del Jacquemart-André: una finitura verosimilmente affidata a un pittore di vaglia formatosi nel raggio del grande Gentile da Fabriano.

 

G.G.

 

Estimate   € 60.000 / 80.000
Price realized  Registration
88

Giovanni Battista Maini

(Cassano Magnago, presso Varese 1690 – Roma 1752)

VISIONE DI SAN FRANCESCO DI PAOLA

terracotta, 58x44x10

 

Opera dichiarata di particolare interesse culturale ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004

 

Bibliografia di riferimento

V. Golzio, Le terrecotte della R. Accademia di S. Luca, Roma 1933, p. 33;

J. Montagu, scheda in Art in Rome in the Eighteenth Century, cat. della mostra, Philadelphia, Museum of Art, Philadelphia 2000, pp. 261, cat. 133

 

Questa terracotta è un’altra versione, pressoché identica, del rilievo all’Accademia di San Luca di Roma, lì attestato fin dal 1830, quando è citato in un inventario con la corretta attribuzione a Giovanni Battista Maini. Possibile che il modello fosse lasciato all’istituzione romana dallo stesso Maini, poi principe dell’Accademia nel 1746 e ancora nel 1747, come morceau de réception subito dopo la sua ammissione nel 1728, quando erano stati accordati sei mesi allo scultore per fornire una prova delle sue capacità “non avendo alcun modello” in quel momento (Montagu, op. cit.; su tutta la carriera dello scultore cfr. ora Jennifer Montagu, Maini, Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 67, Roma 2006, pp. 199-201). La realizzazione della terracotta si legava ad un importante lavoro di Maini, la sua partecipazione ai lavori della cappella di san Francesco di Paolo che si apre nel transetto destro di Sant’Andrea delle Fratte, un cantiere diretto dall’architetto Filippo Barigioni tra il 1726 e il 1736: nel quadro di quell’impresa Maini eseguì, per lo sguincio a sinistra della finestra nella lunetta, un rilievo in stucco raffigurante appunto quel soggetto (Mario d’Onofrio, Sant’Andrea delle Fratte, Roma 1971, pp. 33-37; Alfredo Marchionne Gunter, Una segnalazione berniniana: i “Due Angioli di Marmo sbozzati” da casa Bernini a Sant’Andrea delle Fratte, in “Studi Romani”, XLV/1-2, 1997, pp. 100-101). Rispetto all’opera nella chiesa romana, la terracotta dell’Accademia di San Luca e quella qui in oggetto si distinguono per il diverso formato, perfettamente rettangolare: si trattava, quindi, non di studi preparatori, ma di repliche autografe da quell’invenzione messa in opera in Sant’Andrea delle Fratte, approntate in vista della consegna all’Accademia di San Luca di quel modello richiesto nel 1728. La terracotta qui in oggetto è in un eccellente stato conservativo (si confronti il particolare dell’Angelo che indica lo scudo con l’iscrizione CHA / RI / TAS con il medesimo passaggio nell’esemplare all’Accademia di San Luca), ma anche la qualità del modellato sembra superiore rispetto al pezzo donato nel 1728 alla raccolta dell’istituzione romana. Possibile, quindi, che Maini tenesse per sé il modello completamente autografo, indirizzandolo magari al collezionismo privato, in un momento in cui la sua posizione a Roma di “scultore primario” stava per essere sancita (1730) e onorata da una serie notevole di commissioni di grande rilevanza (dalla partecipazione ai lavori per le statue destinate al convento di Mafra in Portogallo, alla realizzazione del monumento funebre del cardinale Neri Corsini nella Cappella Corsini in San Giovanni in Laterano).

 

A.B.

 

Estimate   € 100.000 / 150.000
89

Giuseppe Recco

(Napoli 1634-Alicante 1695)

NATURA MORTA CON PESCI, RECIPIENTI DI RAME E UN GATTO

olio su tela, cm 76x102

siglato “GR” sul piano di pietra

 

 

 

Esposizioni

Nelle antiche Cucine. Cucine, dispense, cuochi, ma anche oggetti d’uso, manufatti e documenti, Poggio a Caiano, Villa Medicea, 2015

 

Bibliografia

Nelle antiche Cucine, catalogo della mostra a cura di M.M. Simari (Villa Medicea di Poggio a Caiano, 4 luglio - 25 ottobre 2015), Livorno, 2015, pp. 186-187

 

Opera tipica di Giuseppe Recco, di cui reca peraltro le iniziali, la tela qui offerta presenta numerosissimi confronti con la produzione certa dell’artista napoletano ragionevolmente ascrivibile al settimo decennio del secolo.

Numerose opere datate a partire dal 1659 e fino agli anni estremi della sua attività consentono in effetti di ricostruirla secondo un percorso cronologico scandito da date certe, cosa abbastanza eccezionale nel panorama di questo genere pittorico.

Gli elementi compositivi della “natura in posa” qui in esame e la loro disposizione sul piano di pietra angolato, come del resto le dimensioni – importanti ma ancora relativamente contenute – suggeriscono una serie di confronti con opere datate dalla critica nella seconda metà degli anni Sessanta: in primo luogo con la Natura morta con pesci, crostacei e recipienti di rame nella raccolta Molinari Pradelli, anch’essa siglata, ma anche, per quanto attiene gli aspetti compositivi, con l’Interno di cucina in collezione privata a Napoli che, come il nostro dipinto, raccoglie su un piano di pietra disposto ad angolo una serie di alimenti rustici e un rinfrescatoio, certo su parziale esempio delle affollatissime cucine dello zio, Giovan Battista Recco (per entrambe le opere citate e per ulteriori confronti si veda la voce monografica curata da Roberto Middione in La Natura Morta in Italia (a cura di Federico Zeri), Milano 1989, II, pp. 903-911, in particolare le figg. 1091 e 1093).

Sono senz’altro i pesci, in ogni caso, il più originale contributo di Giuseppe Recco alla natura morta napoletana, e certo il più durevole se riflettiamo alla continuazione del genere attraverso le prove dei figli, Elena e soprattutto Nicola Recco: saranno loro a traghettare il genere nel nuovo secolo, dedicandosi alla raffigurazione esclusiva dei doni del mare che per Giuseppe Recco avevano costituito l’aspetto principale, ma assolutamente non l’unico, di una lunga carriera sempre segnata dalla sperimentazione e dall’attenzione a temi e modelli diversi.

 

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
90

Pietro Lombardo

(Carona, lago di Lugano, 1435 ca. - Venezia 1515)

SAN SEBASTIANO

statua in pietra dipinta, cm 175x58x40

 

Bibliografia di riferimento

A. Markham Schulz, La tomba Rosselli nel Santo e l’opera giovanile di Pietro Lombardo a Padova e a Venezia, in “Il Santo”, 50, 2010, 2/3, pp. 557-573

 

 

Certamente tra le sculture più importanti delle pur ricchissime raccolte della famiglia Romano e una delle novità più sensazionali emerse in occasione dell’attuale vendita, questa toccante statua lapidea di San Sebastiano, immaginato come un giovane dal corpo ancora acerbo e fragile ma forte nell’immobile, ascetica accettazione del suo martirio, può essere riferita con calzanti riscontri stilistici agli esordi di Pietro Lombardo, il celebre scultore e architetto caronese cui si deve l’affermazione dei modi rinascimentali a Venezia, dove fu attivo dal 1470 circa con i figli Tullio e Antonio come responsabile di numerose fabbriche e grandiosi monumenti (M. Ceriana, voce Pietro Lombardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXV, Roma 2005, pp. 519-528).

La concezione asciutta della figura, le proporzioni assai snelle e allungate, la definizione anatomica essenziale ma delicata (ad esempio nelle labbra leggermente screpolate), l’andamento reticolare d’impronta mantegnesca del perizoma, sgualcito in pieghe sfaccettate, petrose e in creste taglienti dal caratteristico andamento “a x”, come pure la forma alta e ovata della base, sono peculiarità formali agevolmente riscontrabili nelle molte statue che albergano nelle prime tombe monumentali realizzate da Pietro Lombardo a Venezia, il Monumento al doge Nicolò Marcello (morto nel 1474) e il Monumento al doge Pietro Mocenigo (morto nel 1476) nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo (A. Markham Schulz, La scultura del secondo Quattrocento e del primo Cinquecento, in La Basilica dei Santi Giovanni e Paolo: Pantheon della Serenissima, a cura di G. Pavanello, Venezia 2012, pp. 123-201), in quest’ultimo, in particolare, nel panneggio e nella postura del guerriero in basso a sinistra e di quello sulla destra che porta il sarcofago.

Ma affinità ancor più calzanti si ravvisano nella bellissima, incisiva statua, pure in pietra dipinta, raffigurante Sant’Eufemia conservata nella cattedrale di Santa Maria Assunta a Irsina (Matera), l’antica Montepeloso, giunta in questa terra lontana da Padova per il munifico lascito di un notaio locale stabilitosi nella città veneta, Roberto degli Amabili, che comprendeva anche l’immagine della medesima Santa dipinta nel 1454 dal Mantegna oggi a Napoli nel Museo di Capodimonte: una statua scoperta e riferita al Mantegna stesso da Clara Gelao nel 1996 (poi in Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia alla cattedrale di Montepeloso, Matera 2003), ma giustamente ricondotta a Pietro Lombardo da Matteo Ceriana (Una nuova opera di Pietro Lombardo, in “Venezia Arti”, 11, 1997, pp. 139-143), in anni recenti oggetto di una vivace attenzione critica e mediatica. Oltre alla consueta concezione colonnare della figura e al tipico andamento frastagliato del panneggio, la Sant’Eufemia offre infatti al confronto col nostro San Sebastiano anche la conformazione della testa, caratterizzata dalla fronte tersa e tondeggiante, il sintetico intaglio dei capelli leggermente ondulati, e soprattutto una simile espressione di estatico stupore, enfatizzata dagli occhi spalancati che affiorano in orbite poco profonde, dalle tese sopracciglia inarcate e dalle morbide labbra dischiuse dietro le quali s’intravedono i denti superiori. L’inedita statua che qui si presenta, databile presumibilmente verso la fine degli anni Sessanta, sembra dunque costituire una preziosa testimonianza della giovanile attività patavina del maestro, prolungata ma più sfuggente, incentrata sull’innovativo Monumento al giurista Antonio Rosselli nella basilica di Sant’Antonio scolpito tra il 1464 e il 1467 (A. Markham Schulz, op. cit. 2010).

 

G.G.

 

Estimate   € 80.000 / 120.000
Price realized  Registration
91

Bottega di Giuseppe Briati, Murano, metà sec. XVIII

RARO LAMPADARIO “A CIOCCHE”

vetro trasparente e policromo, ventisei bracci su due ordini di palchi, alt. cm 230, diam. cm 120

 

Questa tipologia di lampadari Ca’ Rezzonico, detta “a ciocche”, si caratterizzata per l’andamento piramidale culminante in un ricco bouquet di fiori colorati tra motivi a guglie e vasi; tali lampadari sono solitamente ritenuti opera del più importante maestro vetraio di Venezia del secolo XVIII o della sua bottega, Giuseppe Briati. Padrone di Fornace a Murano, nato nel 1685 circa e morto il 18 gennaio 1772, all'inizio della sua attività produsse nella sua piccola fornace i cosiddetti soffiati. Fu Gastaldo dei vetrai nel 1724. Alcuni biografi asseriscono che egli abbia carpito i segreti del vetro potassico boemo durante un viaggio che avrebbe compiuto sotto mentite spoglie. Iseppo - così chiamato in laguna - ottenne dal Consiglio dei Dieci il permesso di lavorare in esclusiva il vetro alla "maniera dei boemi", oltre a privilegi e prerogative che suscitarono grande invidia tra i colleghi muranesi per la loro eccezionalità, al punto che il fortunato "paròn" si sentì più volte minacciato di morte da loro. Proprio per questo ottenne dalla Serenissima un ulteriore privilegio: lavorare il vetro a Venezia! La sua fornace "All'Angelo Raffael" aprì i fuochi in centro storico, nella fondamenta che porta ancora il suo nome, nel 1739. Produsse "deseri" e i famosi lampadari "ciocca", oggi chiamati “Ca' Rezzonico”, diventando il fornitore ufficiale del doge

 

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
61 - 90  of 120