OPERE DI ECCEZIONALE INTERESSE STORICO ARTISTICO

28 SETTEMBRE 2022

OPERE DI ECCEZIONALE INTERESSE STORICO ARTISTICO

Asta, 1116
FIRENZE
Palazzo Ramirez - Montalvo
ore 18:00
Esposizione
FIRENZE

Giovedì 22 settembre 2022 10-19
Venerdì 23 settembre 2022 10-13
Sabato 24 settembre 2022 10-19
Domenica 25 settembre 2022 10-19
Lunedì      26 settembre 2022 10-19
Martedì     27 settembre 2022 10-19







 
 
 
Stima   8000 € - 180000 €

Tutte le categorie

1 - 18  di 18
1

PENDENTE PETTORALE CON EFFIGIE DEL PROFILO DI PAPA PIO IX, XIX SECOLO

in oro inciso e in filigrana, con al centro un cammeo in corniola raffigurante Sua Santità Papa Pio IX, circondato da una fila di pietre incolore e ghirlande stilizzate a rilievo, reca sul retro inciso lo stemma della famiglia Mastai Ferretti a cui apparteneva sua Santità, mm 90X68, gr 105. Corredato di cartiglio in cui viene riportato come segue: "regalato da S. Santità Pio IX alla Contessa Giulia Guicciardini Pucci, nell'occasione della sosta che fece Santità Sua il 18 Agosto 1857 nella Villa Guicciardini a Montughi."

 

PECTORAL GOLD PENDANT SHOWING POPE PIO IX'S  EFFIGY, 19TH CENTURY

 

“l’angelico Pio IX è finalmente in mezzo a noi, fra le mura della bella Firenze, e nella capitale della gentile Toscana. Chi non sente il cuore inondato di gioia, l’animo ripieno di ineffabile contentezza al faustissimo avvenimento? O giorno felice in cui è dato di potere ammirare ed ossequiare il venerando Pontefice”.”

Così le cronache del tempo annunciavano la visita di Papa Pio IX a Firenze durante l’estate del 1857.

   Testimonianze storiche confermano che Il 18 Agosto di quell’anno verso mezzogiorno e un quarto il corteo papale giunse a Villa Guicciardini, presso “La Pietra”, a Montughi, alle porte di Firenze. Dopo un breve riposo Pio IX pranzò con il Granduca di toscana e gli Arciduchi, col suo seguito di nobili signori.

   Nelle memorie della Contessa Giulia Pucci nei Guicciardini, conservate nell’archivio storico Guicciardini di Poppiano (Montespertoli, Firenze), risulta che durante la sua visita presso il Castello di Poppiano, Sua Santità Papa Pio IX abbia lasciato un medaglione con pietre dure e preziose, insieme alla brocca e al bacile utilizzati per la messa (purtroppo trafugati dal palazzo di famiglia del Lungarno nel 1944, dove si conservava anche la poltrona in velluto rosso usata dal pontefice).

 

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
2

Pittore Altichieresco

(attivo a Padova tra il XIV e l’inizio del XV secolo)

I SANTI DANIELE E PROSDOCIMO; SANTO STEFANO; SAN LORENZO E UN ANGELO

tre dipinti a tempera su tavola, cm 88,5x53; 90x49,5; 90x49,5

 

Bibliografia

Prima Mostra d’Arte Antica delle Raccolte Private Veneziane, catalogo della mostra a cura di A. Riccoboni, Venezia 1947, p. 17, cat. 2.

 

Esposizioni

Prima Mostra d’Arte Antica delle Raccolte Private Veneziane, 1947.

 

Esposta alla Prima Mostra d’Arte Antica delle Raccolte Private Veneziane con un’attribuzione a Nicoletto Semitecolo (vedi bibliografia), che emendava un riferimento tradizionale a Nicolò di Pietro, la tavola raffigurante i santi Daniele e Prosdocimo mostra una vicinanza tanto stretta al linguaggio di Altichiero, da rammentare subito le opere di maestri di solida formazione altichieresca, come Antonio di Pietro e Jacopo di Silvestro da Verona, attivi a Padova tra Tre e Quattrocento (su Nicolò di Pietro, cfr. A. De Marchi, Per un riesame della pittura tardogotica a Venezia: Nicolò del Paradiso e il suo contesto adriatico, in “Bollettino d’Arte”, LXXII, 1987, 44-45, pp. 25-66; su Jacopo di Silvestro e su Antonio di Pietro si vedano: M.L. Massini, Jacopo da Verona, ad vocem, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 62, Roma 2004; F. Piccoli, Jacopo di Silvestro (Jacopo da Verona), ad vocem, in Altichiero e la pittura a Verona nella tarda età scaligera, a cura di F. Piccoli, Verona 2010, p. 170; A. De Marchi, Il nipote di Altichiero, in De lapidibus sententiae. Scritti di Storia dell’arte per Giovanni Lorenzoni, a cura di T. Franco e G. Valenzano, Padova 2002, pp. 99-110).

In particolare i panneggi che scendono in pieghe nette e parallele, addensandosi sul terreno in ricaschi rigidi, richiamano simili increspature inamidate che fasciano le vesti delle figure messe in opera da Jacopo nelle Storie della Vergine della chiesa di San Michele a Padova, affini anche nei capelli vaporosi e in certi profili netti e pronunciati, prossimi al santo in secondo piano nella nostra tavola.

In favore di una provenienza patavina di quest’opera parla senza equivoci l’iconografia del dipinto. Vi sono raffigurati, infatti, due dei quattro santi protettori di Padova: in primo piano Daniele è presentato con il consueto abito da diacono, qui verde scuro e dal risvolto rosso, mentre con la mano destra tiene il vessillo e con la sinistra il modellino della città di Padova, in cui si distinguono la torre degli anziani e la basilica del Santo; alle sue spalle, Prosdocimo, primo vescovo della città, è raffigurato con la barba folta, la mitria, il baculo pastorale e l’anfora con la quale, secondo la tradizione, battezzò santa Giustina, anch’essa patrona di Padova.

La posizione in netto profilo di Prosdocimo, che guarda verso destra, assicura sul fatto che la tavola costituiva il laterale sinistro di una pala d’altare smembrata di dimensioni contenute. A questo dipinto infatti ho avuto modo di collegare in passato altri due scomparti, che più tardi sono felicemente confluiti nella stessa collezione, consentendo così di recuperare l’unità del complesso originario. Le due tavole raffigurano rispettivamente Santo Stefano in sgargiante dalmatica rossa, con turibolo, libro, palma e sulla testa la pietra, strumento del martirio, e San Lorenzo in elegante veste diaconale bianca, che regge una piccola graticola, suo consueto attributo iconografico, e un Angelo, forse Michele, dalle lunghe ali bianche.

La comune provenienza di queste tre tavole da un unico complesso è garantita dallo stesso punto di stile, dalle dimensioni identiche (San Daniele e Prosdocimo 88 x 53 cm; Santo Stefano 89 x 50 cm; San Lorenzo e un Angelo 89 x 50 cm), come pure dalle profilature del tutto simili degli archi che scandiscono ciascun scomparto e inquadrano i personaggi - dai volti gemelli, floridi e larghi - che si stagliano dinanzi a un analogo fondo azzurro e poggiano su di una striscia di terreno, similmente scorciato, che corre in continuità in tutte le tavole.

È indubbio che al centro di questo trittico doveva esserci lo scomparto con il diacono Stefano, l’unico santo raffigurato isolato, in posizione pienamente frontale, affiancato in origine a sinistra da san Daniele e san Prosdocimo e a destra da San Lorenzo e l’Angelo. La centralità accordata al martire Stefano in quest’opera rende lecito, mi pare, proporne una provenienza da un altare o da una chiesa a lui dedicata in territorio padovano, come si deduce dalla presenza dei patroni della città. È proprio la chiesa di Santo Stefano a Padova la candidata migliore per la possibile provenienza del trittico. L’edificio, un tempo insediamento femminile benedettino, fu demolito nel Novecento per far spazio al nuovo palazzo della Prefettura padovana, detto Palazzo Santo Stefano, costruito su progetto di Vincenzo Bertelli e inaugurato l’11 novembre 1937. La probabile provenienza da Santo Stefano darebbe inoltre ragione anche della presenza di San Lorenzo in primo piano nello scomparto destro del trittico: proprio a quest’ultimo, infatti, era dedicata la chiesa, una delle più antiche della città, anch’essa distrutta nel Novecento, che si ergeva dirimpetto alla chiesa di Santo Stefano – che nel 1808 ne assorbì la parrocchia – con cui condivideva l’area antistante l’edificio, detta “corte di Santo Stefano”, probabile spazio cimiteriale utilizzato da entrambe le chiese. Non si conoscono le vicende conservative delle tre tavole, che non sono ricordate nella chiesa di Santo Stefano nella Descrizione delle pitture, sculture ed architetture di Padova: con alcune osservazioni intorno ad esse, ed altre curiose notizie di Giovambattista Rossetti, edita a Padova nel 1780 (p. 271; si veda inoltre G. Toffanin, Cento chiese padovane scomparse, Padova 1988, pp. 106-107, 174-175), data in cui il trittico poteva comunque essere stato ricoverato nella clausura del monastero o già smantellato.

 

Emanuele Zappasodi

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero della Cultura, Segretariato Regionale per la Liguria, con decreto N. 65 del 10/6/2022 (I Santi Daniele e Prosdocimo).

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

Stima   € 40.000 / 60.000
3

“Pseudo – Avanzi”

(attivo in Veneto nella seconda metà del XIV secolo)

LA CATTURA DI CRISTO

tempera e oro su tavola, cm 28x20

 

Provenienza

Bologna, collezione privata

 

Bibliografia

D. Benati, Jacopo Avanzi nel rinnovamento della pittura padana del secondo ‘300, Bologna 1992, p. 114, fig. 119

 

La splendida tavola qui offerta è stata pubblicata da Daniele Benati che nel 1992 ha reso noto, illustrandolo, un gruppo di opere riunito solo oralmente da Carlo Volpe e di cui aveva dato notizia Andrea De Marchi (Per un riesame della pittura tardogotica a Venezia: Nicolò di Pietro e il suo contesto adriatico, in “Bollettino d’arte” 1987, 44-45, pp. 25-66, alle pp. 30-31 e passim).

Come è ormai noto, il gruppo ha il suo elemento principale nell’importante Crocefissione un tempo a Milano presso la galleria Salamon-Agustoni-Algranti, pubblicata una prima volta da Arslan nel 1960 come opera di Altichiero.

Ad essa Volpe collegava, seguito da Boskovits e De Marchi, due tavolette nella Pinacoteca Vaticana raffiguranti l’Orazione nell’orto e la Deposizione (Benati 1992, cit., figg. 117-18), una Salita al Calvario nelle raccolte reali a Hampton Court e, per l’appunto, la Cattura qui in esame: De Marchi e Benati hanno anzi ipotizzato che tutte facessero parte di un dossale dedicato alla Passione di cui la citata Crocefissione costituiva l’elemento principale.

Se la definizione del corpus dell’anonimo maestro, cui si aggiungono altri numeri di cui il più cospicuo un trittico all’Accademia di Venezia, trova concordi tutti gli specialisti, non altrettanto risolta è la localizzazione della sua attività, che alcuni hanno visto a Venezia, quale preludio al primo Jacobello del Fiore (De Marchi; lo studioso preferisce chiamare l’artista “Maestro della Madonna Giovanelli”) mentre altri, tra cui appunto Benati, sottolineano la componente padana della sua cultura.

In ogni caso, l’opera dello Pseudo-Avanzi - come oggi è generalmente chiamato – costituisce un esempio significativo di neo-giottismo in area padana, dove la spazialità austera di Altichiero e di Jacopo Avanzi si arricchisce di notazioni naturalistiche e di una forte caratterizzazione dei personaggi.

 

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza Regionale per la Lombardia, con decreto del 20/6/2002.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

Stima   € 150.000 / 250.000
4

Michelangelo di Pietro Membrini (Maestro del Tondo Lathrop)

(Pistoia? c. 1460 – Lucca 1525)

MADONNA COL BAMBINO

olio su tavola, cm 31x23

 

Bibliografia

A. Nesi, Michelangelo Membrini, Bernardino Detti, Zacchia il Vecchio e Benedetto Pagni, in “Arte Cristiana” XCVII, 2009, 855, pp. 417-18, ill.

 

Sul mercato antiquario nel 1983 con un’attribuzione alla cerchia di Bartolomeo Montagna, il dipinto qui offerto è stato restituito da Alessandro Nesi all’artista lucchese noto, fino alle ricerche di archivio di Maurizia Tazartes nel 1985 (Anagrafe Lucchese III. Michele Angelo (del fu Pietro “Mencherini”): il Maestro del Tondo Lathrop? In “Ricerche di Storia dell’Arte, 1985, pp. 28-40) col nome attribuitogli dal Berenson nel 1906 e confermato da Everett Fahy (A Lucchese follower of Filippino Lippi, in “Paragone” XVI, 1965, 185, pp. 9-20) a partire dal noto dipinto ora nel Paul Getty Museum .

 Studi successivi hanno in gran parte confermato il nutrito catalogo proposto da Fahy e approfondito i dati culturali del maestro, formatosi tra gli esempi di Domenico Ghirlandaio e Filippino Lippi, ma anche nella bottega romana del Pinturicchio, e ipotizzato la sua presenza nel cantiere di palazzo della Rovere in Borgo nei primi anni Novanta del Quattrocento (R. Messagli, Michele Angelo da Lucca nella Roma di Pintoricchio, in Pintoriccchio. Catalogo della mostra, Cinisello Balsamo 2008, pp. 75-91).

Fondamentale, a questo proposito, la scoperta della sua firma “Michele Angelo da Luca” sulle volte della Domus Aurea e la proposta di Nicole Dacos di riconoscervi appunto le tracce del nostro artista (De Pinturicchio à Michelangelo di Pietro da Lucca: les premières grotesques romaines, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento, Roma 2004, pp. 325-340).

Da qui, soprattutto, la precisazione della sua appartenenza diretta e precocissima alla “cultura delle grottesche” esperita a Roma e di prima mano su quei testi fondamentali, invece che mediata dalle opere lucchesi di Amico Aspertini, come proposto da Fahy, e dunque una rilettura delle opere lasciate in patria anche sotto questo profilo.

E’ comunque con le pale dipinte per le chiese di Lucca e del suo territorio e in larga parte documentate che il nostro dipinto mostra le più strette assonanze, pur nel diverso formato: rara opera di destinazione privata, la tavola replica infatti in piccole dimensioni modelli ricorrenti nelle opere pubbliche del maestro lucchese.

Il volume geometrizzante e purissimo della Vergine, esaltato dallo splendido azzurro, e i suoi tratti composti sono infatti sovrapponibili a quelli della Madonna attorniata da santi nella chiesa di San Cristoforo a Lammari, o ancora a quella accompagnata dai santi Agostino, Monica, Antonio da Padova e Gerolamo nella Pinacoteca di Villa Guinigi a Lucca, dalla chiesa di S. Agostino, commissionata nel 1492.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Segretariato Regionale del Ministero della Cultura per la Lombardia il 17 gennaio 2022.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
5

Liberale Bonfanti, detto Liberale da Verona

(Verona, c. 1455 – 1527?)

CRISTO IN PIETÀ TRA LA VERGINE E SAN GIOVANNI EVANGELISTA

tempera e olio su tavola, cm 59x43

iscrizione sul fronte del sarcofago: MORS MEA VITA TUA

 

Eseguita per la devozione privata, come indicano le ridotte dimensioni, la tavola qui presentata contribuisce ad arricchire il catalogo di Liberale da Verona e a precisare la sua attività dopo il ritorno in patria dalla Toscana, verso il 1480.

Insieme alle tavole ora a Cambridge, Fitzwilliam Museum (dalla collezione di Sir Philip Pouncey) e nell’Alte Pinakothek di Monaco, ma soprattutto a quella già in collezione Torrigiani a Firenze a cui più immediatamente si lega, il nostro dipinto costituisce una nuova riflessione sul tema dell’Imago Pietatis che aveva trovato la sua moderna formulazione nel rilievo bronzeo di Donatello per l’altare del Santo a Padova.

A questo testo fondamentale per le arti figurative del secondo Quattrocento si ispira tra i primi Giovanni Bellini a partire dagli anni Sessanta, ed è proprio il confronto tra le sue prove più antiche, all’Accademia Carrara di Bergamo e al Museo Correr di Venezia, a suggerire che fosse appunto un viaggio a Venezia (dove Liberale deve essersi certamente recato nel 1487) e un contatto con il maestro veneziano o almeno con le sue opere, ad ispirare questo aspetto della produzione del nostro artista.

La pena intensa ma trattenuta dei dolenti e la compostezza con cui sostengono il Vir Dolorum, oltre allo sfondo di paesaggio – per quanto appena suggerito – e al cielo della sera appena solcato da nubi leggere, rimandano infatti alle opere citate di Bellini, dimostrando la vitalità di quel modello a due decenni almeno dalla sua formulazione.

Dopo gli esordi come miniatore per l’Opera del Duomo di Siena nel 1467, e poi per l’ordine Olivetano che ancora nel 1489 si confermerà suo committente per una pala d’altare, Liberale da Verona fu a lungo attivo nelle più diverse specialità: pittore di cassoni e di soggetti profani nei modi di Francesco di Giorgio Martini, dipinse pale d’altare e addirittura affreschi nella città d’origine e generalmente in Veneto a partire dal nono decennio del secolo.

La tavola qui presentata è appunto databile alla metà degli anni Ottanta, in anticipo sulle redazioni più caricate e pervase di vibrante espressività a Monaco e a Cambridge, quest’ultima variante della Pietà con angeli ex Torrigiani, accostabile alla nostra.

Resta al momento un unicum l’iscrizione finta sulla targa in primo piano, epitome del mistero della Redenzione. Le sue origini specificamente locali risalgono a una croce trecentesca dipinta di Lorenzo Veneziano sulla controfacciata di Sant’Anastasia a Verona, dove la frase è riportata sui bracci della croce, e in altre opere veronesi del Quattrocento.

 

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali della Cultura, Segretariato Regionale per la Lombardia, con decreto del 18/10/2018.

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Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
6

Jacopo Zucchi

(Firenze, c. 1541 – Roma, 1590)

ANNUNCIAZIONE

olio su rame, cm 22,7x17,5

al retro, scritta di collezione “assunta (sic)/di Camillo Procaccino/stimato Doppie (…)/del Marchese Antonio Recalcati/Vic.o di Giust.a”

 

Suo mercato antiquario nel 2020 con una proposta di attribuzione a Jacopo Zucchi non documentata dalla letteratura, il rame qui offerto è stato confermato senza riserve al pittore fiorentino in occasione del procedimento di vincolo nel novembre dello stesso anno, accompagnato da una esauriente ed articolata relazione storico-artistica.

Tuttora inedita per quanto riguarda gli studi specialistici, l’opera è stata giustamente posta in relazione con la pala di uguale soggetto nella seconda cappella a destra del Duomo di Bagnoregio, identificata da Antonio Vannugli (Per Jacopo Zucchi: un’Annunciazione a Bagnoregio ed altre opere, in “Prospettiva” 75/76, 1994, pp. 161-73; specificamente pp. 161-63, e fig. 1).

Come precisato da Vannugli, la collocazione originaria e quindi la committenza della pala restano tuttora ignote: è possibile che la tela si trovasse su un altare addossato al muro della navata in corrispondenza della settecentesca cappella Margutti, dove ora si trova. In mediocre stato di conservazione, la tela è stata decurtata su ogni lato, con perdita più o meno significativa di dettagli ulteriori.

È probabile quindi che il nostro rametto, che palesemente ne deriva nelle figure dei protagonisti, sia utile a integrarne le parti mancanti verso i margini.

Destinato alla devozione privata, il piccolo dipinto qui offerto si caratterizza altresì per la citazione di un passo vetero-testamentario alludente alla nascita del Salvatore: sulla targa portata in volo dagli angeli e ostentatamente indicata dall’angelo annunciante si legge appunto “APERIATUR/TERRA/ET GERMINET/SALVATOREM” (da Isaia 45,8).

La sostituzione di questo passo in cui è prefigurata l’Incarnazione all’usuale saluto angelico richiama tra l’altro una seconda immagine dell’Annunciazione dipinta da Jacopo Zucchi, dove si legge un altro versetto di Isaia (7,14: “Ecce Virgo concipiet et pariet….” a conferma di una specifica devozione da parte dei suoi committenti.

Motivi stilistici hanno suggerito una datazione della paletta di Bagnoregio nella seconda metà del nono decennio del Cinquecento, tra il 1587 e il 1590 (Vannugli 1994, cit.; Sara Ragni, voce Zucchi, Jacopo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 100, 2020).

Si tratta dunque dell’ultimo periodo romano dell’artista fiorentino, che in quegli anni alterna le sofisticate meditazioni astrologiche nella galleria del palazzo romano di Orazio Rucellai (ora Ruspoli) e il raffinato erotismo dell’Amore e Psiche nella Galleria Borghese all’austera meditazione controriformata delle pale eseguite per la chiesa di San Giovanni Decollato, sede dell’omonima confraternita fiorentina a cui egli stesso apparteneva.

Precisi confronti per quanto riguarda la figura della Vergine e il coro di angiolini scherzosi vanno poi stabiliti con la paletta a Roma nella chiesa di San Clemente, appena più antica.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero della Cultura, Segretariato Generale per la Liguria, con decreto N. 183 del 20/12/2021.
The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

 

Stima   € 15.000 / 25.000
7

Annibale e Ludovico Carracci

MORTE DI DIDONE

ALESSANDRO E TAIDE INCENDIANO PERSEPOLI

coppia di affreschi riportati su tela

 

Annibale Carracci

(Bologna, 1560 – Roma, 1609)

MORTE DI DIDONE

affresco riportato su tela, cm 121x124

firmato ANN. CARRACCIUS PING.

 

Provenienza

Bologna, Palazzo Lucchini (poi Angelelli, poi Zambeccari); Bologna, collezione privata

 

Bibliografia

C.C. Malvasia, Felsina Pittrice. Vite dei Pittori Bolognesi, Bologna 1678, I, p. 499; edizione a cura di G.P. Zanotti, Bologna 1841, I, p. 357, nota 2; G.C. Cavalli, in Mostra dei Carracci, Bologna 1956, p. 83; D. Posner, Annibale Carracci: a study in the reform of Italian painting around 1590, Oxford 1971, II, p. 29, n. 68; fig. 68; G. Malafarina, L’opera completa di Annibale Carracci, Milano 1976, p. 101, n. 63; G.P. Cammarota, in Le antiche stanze. Palazzo Pepoli Campogrande e la quadreria Zambeccari, Bologna 2000, p. 20; N. Clerici Bagozzi, Bologna, piazza Calderini, palazzo Zambeccari (già Lucchini, poi Angelelli): le decorazioni tra il XVI e il XVII secolo, in “Strenna Storica Bolognese” LXI, 2011, pp. 112-13, fig. 3.

 

Da sempre noto agli studi carracceschi anche se raramente ammirato dal vero, l’affresco è citato per la prima volta dal Malvasia che ricorda “in casa Luchini, ora Angelelli, in un camino, la bella Didone di Annibale” oltre all’affresco di Ludovico qui di seguito presentato. L’edizione a cura di Zanotti lo dice firmato e datato 1592, dettaglio riportato da Gian Carlo Cavalli in occasione della mostra del 1956 ma non riscontrato da Posner; quest’ultimo descrive altresì una cornice en grisaille dipinta intorno alla scena figurata successivamente al distacco, ora rimossa in occasione di un recente restauro.

Verosimilmente staccato intorno al 1870-1873 quando il palazzo fu rinnovato, o dopo il 1907 quando fu acquistato da Filippo Comi, e spostato in una sala diversa da quella che lo ospitava in origine, il dipinto illustra il noto passo dell’Eneide (IV, 662-705) cui alludono anche i versi trascritti alla base dell’ara marmorea su cui è costruita la pira funebre.

Sebbene la data del 1592 non sia attualmente riscontrabile, Posner ritiene di poterla confermare per motivi stilistici grazie al confronto con analoghe composizioni a due figure di carattere monumentale, quali il soffitto con Venere e Cupido (Modena, Estense) già nel palazzo dei Diamanti a Ferrara, del 1592 circa, e con un’incisione siglata AC e datata 1592 raffigurante Venere e un satiro.

Il dipinto fu inciso nel XVIII secolo da Giovanni Maria Viani e da Carlo Antonio Pisarri come opera di Annibale Carracci in palazzo Zambeccari a Bologna.

Per la medesima committenza, nel 1593 Annibale dipinse anche la pala con la Resurrezione destinata alla cappella privata nel palazzo, e ora al Louvre.

 

Ludovico Carracci

(Bologna, 1555 – 1619)

ALESSANDRO E TAIDE INCENDIANO PERSEPOLI

affresco riportato su tela, cm 126x134,5

firma (probabilmente originale) “LUD CARRACIUS” sulla base del pilastro a destra, ripetuta sul bordo sottostante

 

Provenienza

Bologna, palazzo Lucchini (poi Angelelli, poi Zambeccari); Bologna, collezione privata

 

Esposizioni

Ludovico Carracci. Bologna, Pinacoteca Nazionale, 1993, n. 38

 

Bibliografia

C.C. Malvasia, Felsina Pittrice. Vite de’ Pittori bolognesi, Bologna 1678, I, p. 495; edizione a cura di G.P. Zanotti, Bologna 1841, I, pp. 353, 357, nota 2; A. Foratti, I Carracci nella teoria e nella pratica, Città di Castello 1913, p. 77; H. Bodmer, Lodovico Carracci, Burg b. M., 1939, p. 122; G.C. Cavalli, in Mostra dei Carracci, Bologna 1956, p. 83; D. Mahon, in Mostra dei Carracci. I Disegni, Bologna 1956, p. 24, n. 6; D. Posner, Annibale Carracci: a study in the reform of Italian painting around 1590, Oxford 1971, II, p. 29; G. Feigenbaum, in Ludovico Carracci. Catalogo della mostra, a cura di Andrea Emiliani, Bologna 1993, pp. 83-84, n. 38; G.P. Cammarota, in Le antiche stanze. Palazzo Pepoli Campogrande e la quadreria Zambeccari, Bologna 2000, p. 20; A. Brogi, Ludovico Carracci, Bologna 2001, I, pp. 161-62, n. 50; II, fig. 133; N. Clerici Bagozzi, Bologna, piazza Calderini, palazzo Zambeccari (già Lucchini, poi Angelelli): le decorazioni tra il XVI e il XVII secolo, in “Strenna Storica Bolognese” LXI, 2011, pp. 112-13, fig. 3.

 

Verosimilmente eseguito nel 1592 nelle medesime circostanze del camino di Annibale, il dipinto di Ludovico ne ha condiviso le vicende e la storia critica.

Ad esso si riferiscono due disegni preparatori, uno dei quali esposto a Bologna nel 1956. Si tratta di un foglio alla National Gallery di Washington (B 28 209) variato nella composizione, e di un altro all’Albertina di Vienna (inv. 2088) che corrisponde invece alla scena dipinta (cfr. A. Brogi, 2001, cit., fig. 364).

Estremamente raro in pittura, il soggetto dell’affresco fu correttamente interpretato da Carlo Maria Pissarri che lo riprodusse all’incisione (Raccolta de’ Cammini di Bologna… dipinti da Lodovico, d’Annibale e d’Agostino Carracci), come già Giovanni Maria Viani.

 

 

Opere dichiarate di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio centrale per i Beni Archeologici, Architettonici, Artistici e Storici, con decreto del 9/9/1996.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

 

 

 

Stima   € 120.000 / 180.000
Aggiudicazione  Registrazione
8

Sante Peranda

(Venezia, 1566 – 1638)

DECOLLAZIONE DEL BATTISTA

olio su tela, cm 219x190

 

Provenienza

Venezia, collezione Tron di San Stae; Trieste, collezione de Morpurgo; per eredità, Nina Weil Weiss; Roma, collezione Incisa di Camerana.

 

Bibliografia

Catalogo della collezione di quadri dei Baroni Elio e Mario de Morpurgo in Trieste, Trieste 1914 (riprodotto); S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane. L’opera completa, Venezia 1984, p. 115, cat. 315, fig. 696; p. 149, cat. 603-604; G. Fossaluzza, I dipinti antichi della collezione de Morpurgo di Trieste: a proposito di un dipinto “non firmato”, Perande non Palma, in “Arte in Friuli. Arte a Trieste” 16—17, 1997, pp. 203-240, passim, e fig. 5.

 

Vincolata nel 1942 come opera di Palma il Giovane, fin dal Settecento la tela qui presentata è stata associata al nome del pittore veneziano e in particolare a tre dipinti, simili per dimensioni, con cui è descritta nell’inventario di Chiara Grimani, vedova di Nicolò Tron di San Stae, redatto il 26 giugno del 1793.

Reso noto da Ivanoff e Zampetti (Jacopo Negretti detto Palma il Giovane, in I Pittori Bergamaschi. Il Cinquecento, III, Bergamo 1979, pp. 593-94, n. 411) il documento elenca infatti “quattro quadri grandi/la scala veduta in visione da Giacobbe/Giacobbe in riposo col gregge al pascolo/Rebecca al pozzo/Decollazione del Battista del Palma”, identificati dalla Mason Rinaldi con quattro tele già in collezione Morpurgo a Trieste, due delle quali ora presso la Popolare di Vicenza e una in collezione privata a Roma, in aggiunta alla nostra.

Il nostro dipinto, per cui la studiosa proponeva una datazione alla fase estrema del pittore veneziano, differisce dalla serie di storie di Giacobbe innanzi tutto per il soggetto neo-testamentario e poi per l’assenza della firma, presente in identica forma nelle altre tele citate (IACOBUS PALMA/FECIT).

A questo dato allude il titolo dello studio di Giorgio Fossaluzza, che oltre a riferire la formazione e le vicende della collezione de Morpurgo, riunita nella prima metà dell’Ottocento e prevalentemente dedicata ad artisti contemporanei, giustamente propone l’attribuzione del nostro dipinto a Sante Peranda, allievo di Palma Giovane e in qualche modo suo successore presso la committenza veneziana pubblica e privata.

Lo studioso ricorda come l’artista veneziano, attivo per oltre un ventennio per le corti degli Este e dei Pico, dipingesse – secondo le fonti – una decollazione del Battista per Giovanni Pico, forse identificabile con la nostra tela.

Agli anni tra secondo e terzo decennio del Seicento, a cavallo tra il suo periodo modenese e quello trevigiano, si situa comunque il dipinto qui offerto, articolato nella scansione spaziale, delicato nei trapassi chiaroscurali ed estremamente raffinato nella sommessa scala cromatica: tutti elementi che andranno accentuandosi nella fase tarda del maestro, tra terzo e quarto decennio del Seicento, fino a risultare nella rarefazione dei contorni e nell’adozione di una gamma madreperlacea, recentemente apprezzata anche nel San Sebastiano curato dalle pie donne venduto da Pandolfini nel novembre 2021, forse proveniente dall’importante raccolta veneziana del nobile Bartolomeo Vetturi.

La Decollazione del Battista qui offerta costituisce dunque una preziosa acquisizione al catalogo di un artista versatile e raffinato nei suoi esiti: sebbene meno noto al grande pubblico rispetto al suo maestro, può dirsi forse più interessante di Palma il Giovane, anche in virtù di un catalogo più contenuto e pienamente autografo.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero dell’Educazione Nazionale, Direzione generali delle Arti, con provvedimento del 28/9/1942.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
9

Andrea Donducci, detto il Mastelletta

(Bologna, 1575 – 1655)

ADORAZIONE DEI MAGI

olio su tela, cm 250x200

 

Ricondotta alle dimensioni originarie e alla smagliante e preziosa cromìa che appena si intuiva all’epoca della sua prima apparizione in asta come opera anonima di scuola bolognese, la splendida tela qui offerta si è confermata una preziosa acquisizione al pur nutrito catalogo del Mastelletta, cui l’aveva immediatamente restituita Vittorio Sgarbi nel suo acuto intervento sul Corriere della Sera (Le allucinazioni senza storia del Mastelletta. Riappare (senza essere ricordata dalle fonti) una sua Adorazione dei Magi e racconta i fantasmi anti-caravaggeschi del sontuoso coetaneo bolognese. In “Sette” 09-04-03 2016, p. 25).

Pare incredibile che un’opera di questa portata – imponente nelle dimensioni, appena inferiori a quelle di una pala d’altare; brulicante di personaggi ben oltre i protagonisti di rito, e quindi certamente costosa in un’epoca in cui i pittori erano pagati a figura; smagliante di lacche e di velature iridescenti – conservi ancor oggi il segreto della sua committenza.

Tutta da verificare, infatti, è la possibile identificazione con il Presepio censito nel 1689 in casa del nobile Giovanni Francesco Davia (The Getty Provenance Index), le cui dimensioni non sono indicate nell’inventario, né altri indizi sono emersi nella pur circostanziata “vita” del Malvasia o nelle carte di Marcello Oretti.

Se tuttavia consideriamo le provenienze documentate dei dipinti di Mastelletta confrontabili al nostro per impegno e ambizione, ci imbattiamo nei nomi dei più grandi collezionisti del suo tempo, e non solo bolognesi per quanto legati a Bologna in virtù della propria carriera: in primo luogo Maffeo Barberini, futuro Urbano VIII, committente nel 1614 di un Ratto di Europa e di Cleopatra si reca da Antonio, e i fratelli Vincenzo e Benedetto Giustiniani fautori, tra l’altro, dell’affidamento al pittore dei “teloni” nella cappella dell’Arca in San Domenico a Bologna, capolavoro della sua produzione pubblica.

Dalla collezione di Vincenzo Giustiniani venivano invece le due grandi scene vetero-testamentarie (David e Abigail e Sansone e Dalila) ora nella Pinacoteca di Bologna per lascito di Eugenio Busmanti (si veda l’analisi di Anna Coliva in Caravaggio e i Giustiniani. Catalogo della mostra, Milano 2001, pp. 268-271) e ancora la Aspasia e Artaserse ora in una diversa raccolta (A. Coliva, ibidem e in Il Mastelletta, Roma 1980, p. 117, n. 57, ill) databile, a differenza delle precedenti, nei primi anni del quarto decennio del secolo.

Anche la tela qui offerta, smagliante di colori ricondotti però nelle campiture ben definite di forme monumentali ci sembra riferibile agli anni Trenta, in prossimità dell’altrettanto imponente Ritorno del Figliol Prodigo recentemente ammirato a palazzo Fava, dalla raccolta di Michelangelo Poletti (n. 56) e commentato in più occasioni da Daniele Benati (Il Mastelletta “…. Un genio bizzarro”, Bologna, Fondantico, 10 maggio – 10 giugno 2007. Catalogo della mostra, pp. 48-49, n. 16; con bibliografia precedente), con un’ipotesi di provenienza da palazzo Bonfiglioli in Strada Maggiore.

Una analoga data per la nostra Adorazione sembra infine suggerita da una serie di citazioni reniane: il paggio biondo che al centro porge a Baldassarre il dono da offrire al Bambino richiama immediatamente l’angelo annunciante nella pala ora nella Pinacoteca di Ascoli Piceno, dalla chiesa di S. Maria della Carità, appunto dei primi anni Trenta.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero della cultura, Segretariato Regionale per la Liguria con decreto n. 100 del 23/7/2021.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

Stima   € 180.000 / 220.000
10

Jacopo da Empoli

(Firenze, 1551 – 1640)

PREGHIERA DI SARA E TOBIA

olio su tela, cm 118x150

 

Provenienza

Firenze, Lorenzo Antinori; Firenze, Sotheby’s, asta del 3-4 giugno 1977, n. 268; collezione privata

 

Bibliografia

V. Zaballi, in G. Battelli, Notizie inedite sull’Empoli (1554 – 1640) in “Arte e Storia” 1915, p. 208; F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua (1681-1728), Firenze 1845-47, III, p. 8; A. Marabottini, Jacopo Chimenti da Empoli, Roma 1988, p. 254, n. 101 e 101a; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 40; R. Spinelli, Soggetti biblici, letterari e poetici nell’opera di Jacopo da Empoli, in Jacopo da Empoli 1551-1640. Pittore d’eleganza e devozione. Catalogo della mostra (Empoli, 21 marzo – 20 giugno 2004), Milano 2004, p. 194-95, figg. 23-24; p. 197, note 55-56; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del 600 e 700, Firenze 2009, I, p. 173.

 

Celato alla vista dopo la sua fugace apparizione a Palazzo Capponi nel 1977 (peraltro col titolo inesatto di Santi Cecilia e Valeriano) e successivamente riprodotto con vecchie immagini in bianco e nero, lo splendido dipinto qui offerto fu riconosciuto da Alessandro Marabottini, ripreso da Riccardo Spinelli, come il quadro da camera dello sposalizio di Sara e Tobiolo dipinto per Lorenzo Antinori, gentiluomo fiorentino ricordato da Filippo Baldinuccci nella sua biografia dell’artista, e da Virginio Zaballi (1602-1685), allievo dell’Empoli per quindici anni prima dell’immatricolazione all’Arte del Disegno nel 1631, nei ricordi inediti pubblicati da Battelli nel 1915.

Come indicato da Marabottini, il soggetto dell’opera va invece rintracciato nel Libro di Tobia (6, 8; 14-19) dove si narra del matrimonio di Tobiolo e Sara:

Allora Tobia rispose a Raffaele: "Fratello Azaria, ho sentito dire che essa è gia stata data in moglie a sette uomini ed essi sono morti nella stanza nuziale la notte stessa in cui dovevano unirsi a lei. Ho sentito inoltre dire che un demonio le uccide i mariti. 15Per questo ho paura: il demonio è geloso di lei, a lei non fa del male, ma se qualcuno le si vuole accostare, egli lo uccide. Io sono l'unico figlio di mio padre. Ho paura di morire e di condurre così alla tomba la vita di mio padre e di mia madre per l'angoscia della mia perdita. Non hanno un altro figlio che li possa seppellire". Ma quello gli disse: "Hai forse dimenticato i moniti di tuo padre, che ti ha raccomandato di prendere in moglie una donna del tuo casato? Ascoltami, dunque, o fratello: non preoccuparti di questo demonio e sposala. Sono certo che questa sera ti verrà data in moglie.  Quando però entri nella camera nuziale, prendi il cuore e il fegato del pesce e mettine un poco sulla brace degli incensi. L'odore si spanderà, il demonio lo dovrà annusare e fuggirà e non comparirà più intorno a lei. 18Poi, prima di unirti con essa, alzatevi tutti e due a pregare. Supplicate il Signore del cielo perché venga su di voi la sua grazia e la sua salvezza”

E’ appunto questo il momento raffigurato nel nostro dipinto: inginocchiati ai piedi del letto, accanto al braciere che diffonde fumo, gli sposi innalzano fiduciosi la preghiera al Signore affinché le nozze siano santificate e il maleficio spezzato: oltre la finestra aperta sul paesaggio notturno, vediamo infatti il compagno angelico di Tobiolo in lotta col demonio.

Composti e misurati nei gesti che rivelano tuttavia l’intensità del momento, i giovani protagonisti si distinguono altresì per le raffinatissime vesti, peraltro tipiche della pittura fiorentina nella scelta di colori squillanti esaltati da ricami preziosi.

Una scelta in qualche modo insolita per Jacopo da Empoli, raffinatissimo ma generalmente austero, che tradisce l’aggiornamento sui modi dei maestri fiorentini di nuova generazione, da Matteo Rosselli a Giovanni Bilivert, senza dimenticare la Giuditta palatina, capolavoro di Cristofano Allori: tutti elementi che contribuiscono a datare il dipinto intorno al 1620, come suggerito da Marabottini.

Alla composizione si riferiscono per ora due disegni, entrambi relativi alla figura del giovane Tobia, studiato dal nudo e a figura intera in un foglio agli Uffizi (G.D.S.U. 91767) che presenta anche un dettaglio della manica; il busto del giovane, vestito, compare invece anche in versione speculare in un foglio della Fondation Custodia (4026) dalla collezione Frits Lugt.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Segretariato Regionale per la Liguria, con decreto N. 186 del 9/12/2020.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
11

François Colombe du Lys

(Domrémy? C. 1595 – Tolosa 1661)

LA BUONA VENTURA

olio su tela, cm 180x236

firmato “Francesco Colombo/di Lorena pingebat”

 

Bibliografia

F. Baldassari, Un nuovo dipinto per François Colombe, caravaggesco lorenese, in “Nuovi Studi” 24, 2018-19, pp. 111-13.

 

Riapparsa sui fogli spiegazzati che il giovane protagonista stringe fra le dita, la firma di François Colombe (italianizzato per l’occasione in Francesco Colombo) ha consentito una nuova, importante acquisizione all’esiguo catalogo dell’artista lorenese e, più precisamente, al suo periodo italiano anzi, verosimilmente, romano.

È questo, senza dubbio, il senso della precisazione “di Lorena” che appare in identica forma sul San Girolamo nello studio nella parrocchiale di Santa Maria Assunta a Riva del Garda. Di ignota provenienza, quest’ultimo è stato reso noto da Pierre Rosenberg che nel 1989 ha riunito tutti i dati noti sulla vita e l’attività dell’artista lorenese (François Colombe du Lys, un caravagesque romain, in “Prospettiva 57/60. Scritti in ricordo di Giovanni Previtali” 1989-90, II, pp. 241-43).

Da quanto si può dedurre dai documenti, Colombe nacque a Domrémy in Lorena intorno al 1595 e fu verosimilmente in Italia fra il secondo e il terzo decennio del Seicento, almeno a giudicare dai suoi riferimenti formali, rintracciabili nel caravaggismo di quegli anni. Se nelle opere italiane egli tiene a indicare la sua patria di origine, in un disegno non rintracciato ma descritto da una fonte francese egli si firma invece “Romanus”, quasi a ribadire il luogo della propria formazione e in qualche modo una forma di superiorità nei confronti dei colleghi che non avevano compiuto quel viaggio.

Documentato a Tolosa a partire dal 1641 e fino alla morte che lo colse, pare sessantacinquenne, nel 1661, François Colombe du Lys (dal nome della nobile famiglia della madre, Marie de Vincent du Lys) è ricordato per una serie di opere non conservate, mentre quelle di soggetto religioso e di destinazione pubblica riunite da Pierre Rosenberg sono prive di riferimenti cronologici, sebbene citate da fonti locali.

L’importante dipinto qui offerto ne differisce per l’originalissima declinazione di un soggetto profano tipico della scuola caravaggesca, ma formalmente lontano dai modi della manfrediana methodus praticata dai caravaggeschi francesi.

È stato giustamente rilevato l’influsso di certa pittura fiorentina, e in particolare di Andrea Commodi nella precisa definizione delle figure e nel gusto per gli ornati e i colori squillanti evidenti nei loro costumi. Motivi che ritroviamo ad esempio, come indica giustamente Francesca Baldassari, nella Giuditta con la serva attribuita a Commodi nel Musée des Beaux Arts di Digione, e ancora nel Tobiolo rende la vista al padre, nella Certosa di Galluzzo ma di origine ignota, vicino al nostro dipinto anche per l’ambientazione prospettica.

Questi riferimenti contribuiscono a precisare il soggiorno romano di François Colombe prima del 1622, anno in cui Andrea Commodi risulta tornato a Firenze e nuovamente iscritto all’Accademia del Disegno, senza escludere naturalmente che il pittore lorenese si trattenesse più a lungo nella Città Eterna o si fermasse a Firenze sulla via del ritorno in patria.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio con decreto del 3 febbraio 2020.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

Stima   € 50.000 / 80.000
12

Francesco Cairo, detto il Cavalier Cairo

(S. Stefano in Brivio (Varese) 1607 - Milano 1665)

ALLEGORIA DELL’ARCHITETTURA

olio su tela, cm 77,7x62,8

 

Provenienza

Vienna, Dorotheum, 13-10-2010; collezione privata

 

Restituito a Francesco Cairo in occasione dell’asta viennese dove comparve per la prima volta, il dipinto qui offerto è stato più precisamente riferito alla maturità dell’artista milanese, nel sesto decennio del secolo, in occasione del decreto di vincolo del marzo 2021.

La bella figura allegorica, identificabile come personificazione dell’Architettura grazie al compasso, indicato tra i suoi attributi da Cesare Ripa, si iscrive in un gruppo relativamente esiguo di soggetti profani interpretati da opulente figure femminili dipinti da Francesco Cairo e destinati alla committenza lombarda. Tra queste, una personificazione della Giustizia coronata da un genio alato di raccolta privata sembra la più vicina stilisticamente al nostro dipinto.

Tra quelle non identificate citate in documenti inventariali è da segnalare una Allegoria della Aritmetica (anch’essa munita di compasso) citata in un inventario di Casa Savoia, e un’altra versione dello stesso soggetto elencata alla fine del Settecento fra i dipinti offerti in vendita al conte Giacomo Carrara.

Notevole, nella tela qui offerta, il riferimento a modelli neo-veneti e rubensiani, evidenti nelle forme esuberanti e nell’intenso cromatismo che definisce la figura. Non a caso, l’inventario stilato in morte del pittore censiva opere dei grandi maestri del Cinquecento veneziano e di artisti fiamminghi contemporanei, ammirati dal Cairo che negli anni della sua maturità artistica ne fece altresì il costante riferimento per la sua produzione originale.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero della Cultura, Commissione Regionale per il Patrimonio Regionale del Veneto, con decreto della del 01/03/2021.

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Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
13

Pier Leone Ghezzi

(Roma 1674 – 1755)

RITRATTO DEL CARDINALE ANNIBALE ALBANI

olio su rame, ovale, cm 18x14

firmato e dedicato sulla lettera

 

Inedito e per il momento non documentato, questo delizioso ritratto – prezioso anche nel supporto lucente e nel piccolo formato – costituisce un esempio assai raro di ritratto informale, quasi immagine “rubata” all’insaputa del soggetto, e insieme un magnifico esempio di quell’attitudine a coglierne l’essenza che Leone Pascoli attribuiva al Ghezzi riferendosi però alle sue caricature: “dilettasi ancora di far ritratti caricati, e veduto che ha una volta sola il soggetto ne forma sì forte e viva impressione, che nulla più gli bisogna per farli simili”.

Colto nell’attimo di volgere lo sguardo dalla lettera che ha in mano, quasi inseguendo un pensiero improvviso o rispondendo al saluto di un interlocutore sopraggiunto a sua insaputa, il nipote del papa regnante è qui davvero giovanissimo, appena dopo la nomina a cardinale, avvenuta il 23 dicembre 1711 e perfezionata il 2 marzo 1712 con l’attribuzione del titolo di S. Eustachio.

Nato a Urbino nel 1682 e dunque appena trentenne al momento di vestire la porpora, fin dal 1709 Annibale Albani aveva iniziato la carriera diplomatica come nunzio apostolico a Vienna e poi a Colonia. Tornato a Roma nel 1711, insieme alla nomina cardinalizia ricevette quella di segretario dei memoriali.

Si potrebbe supporre che il nostro dipinto nasca nelle stesse circostanze di quello, da tempo noto, che Ghezzi dipinse su tela ritraendo il giovane porporato frontalmente e in una posa appena più formale mentre, assorto in un pensiero, solleva lo sguardo dalla lettera che, come nel nostro caso, reca la dedica di Pier Leone Ghezzi (già collezione Castelbarco Albani; Firenze, Sotheby’s, 22-24 maggio 1973). Sebbene i tratti vi appaiano più marcati e soprattutto appesantiti dalla posa frontale, identica è la sprezzatura nei riflessi della mozzetta.

È quindi verosimile che il nostro rametto ne costituisca una variante più intima, omaggio personale di Pier Leone Ghezzi al nipote di Clemente XI che appunto nel 1712 inaugurava la sua committenza al pittore nel campo delle opere pubbliche, affidandogli l’esecuzione di una delle pale nella cappella di famiglia a S. Sebastiano fuori le mura, cui seguiranno nel 1715 gli affreschi nella basilica di S. Clemente e nel 1718 gli Apostoli a S. Giovanni in Laterano.

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero della cultura, Segretariato Regionale per la Liguria, con decreto N. 46 del 20/4/2021.

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Stima   € 15.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
14

Luca Carlevarijs

(Udine 1663 – Venezia 1730)

ACCAMPAMENTO

olio su tela, cm 145x116

Bibliografia
D. Succi, Luca Carlevarijs, Gorizia 2015, p. 230, fig. 91

Come esaurientemente dimostrato da Nicoletta Agazzi nella relazione che accompagna il vincolo del MIBACT (2014) il dipinto qui offerto costituisce un importante documento visivo – e anzi l’unico, allo stato degli studi – della ricognizione effettuata nel 1687 per stabilire i confini tra i territori di Borgotaro e Pontremoli, e dunque tra il Ducato di Parma e il Granducato di Toscana.

Affidata all’arbitrato della Repubblica di Venezia, che emise il suo parere nel 1689, la perizia fu effettuata da numerosi agrimensori oltre che da commissari e diplomatici, a garanzia di entrambe le parti.

Come risulta dai documenti raccolti da Giuseppe Micheli che ha ricostruito la vicenda (I confini tra Borgotaro e Pontremoli, Parma 1899) i periti e l’intera delegazione si trattennero vari giorni sui monti ove passava la linea di confine da precisare, alloggiati in una serie di padiglioni; a questi se ne aggiungevano altri dedicati ai servizi, dalla dispensa alle stalle, e perfino alla cappella.

Intitolato Padiglioni e capanne fatte alzare dal Ser.mo Duca di Parma ne’ Monti Appennini il cartiglio apposto alla base della nostra veduta – vera e propria legenda della scena raffigurata – ne designa la destinazione e l’uso contrassegnando con lettere maiuscole le singole tende e specificando i nomi degli occupanti.

Tra questi, risultano vari personaggi citati dai documenti come il conte Bertolo, consultore di Stato della Repubblica di Venezia, il commissario senatore Zeno, e il marchese Pier Luigi dalla Rosa, diplomatico al servizio di Ranuccio II.

Considerato il ruolo giocato nella vicenda dalla Repubblica di Venezia – che peraltro si lasciò forse influenzare a favore del Ducato farnesiano dalla promessa di aiuti militari nella guerra contro i Turchi – è naturale che un ricordo visivo dell’evento, episodio significativo per le relazioni diplomatiche tra il Ducato di Parma e il Granducato di Toscana, ma ancor di più per il ruolo arbitrale della Serenissima, sia stato commissionato a un pittore veneziano, presumibilmente da uno dei protagonisti di quella vicenda.

 

Sebbene ancora da precisare nel silenzio dei documenti, una committenza veneziana è certamente il motivo della scelta del giovane Carlevarijs, il cui padre era stato autore di una pianta di Udine e di sei vedute della città.

Confermata dallo stile delle figurine che ne affollano il primo piano, l’attribuzione al Carlevarijs e l’esecuzione della tela a ridosso dei fatti narrati colloca il dipinto in stretta prossimità con le grandi scene paesistiche dipinte a Venezia per il portego di Ca’ Zanobi tra il 1682 e il 1688, che costituiscono le primizie dell’artista friulano.

 

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana, con decreto N. 537/2014 del 26 novembre 2014.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
15

Giovanni Antonio Guardi

(Venezia, 1699 - 1760)

LA CONSEGNA DEI DONI AL SULTANO

LA PREGHIERA NELLA MOSCHEA

coppia di dipinti a olio su tela, cm 45,8x62,8

 

Provenienza

Maresciallo Johann Matthias von der Schulenburgh (1661-1747), Venezia; per discendenza, Christian Günther von der Schulenburgh, Berlino; Christie’s, Londra, 2 dicembre 1977, n. 11; Christie’s Londra, 7 luglio 1978, n. 139; Christie’s Londra, 8 dicembre 1995, n. 81.

 

Bibliografia

Inventario Generale della Galleria di S.E. Maresciallo Co. di Schulenburgh, Venezia 1741. Addendum: Tableaux achetés après le sudit Catalogue, in A. Binion, La Galleria scomparsa del Maresciallo von der Schulenburgh. Un mecenate nella Venezia del Settecento, Milano 1990, p.245, e p. 259; D. Succi, Tre vedute inedite di Francesco Guardi e due nuove “scene turche”, in Guardi. Metamorfosi dell’immagine, catalogo della mostra, Gorizia 1987, pp. 112-13, fig. 101; D. Succi, Vedute e capricci veneziani del Settecento nella galleria di Johann Matthias von Schulenburgh, in Capricci veneziani del Settecento, catalogo della mostra, Gorizia 1988, pp. 85 e 88, fig. 3; M. Beal, An Ambassador’s reception at the Sublime Porte. Rediscovered Paintings by Antonio Guardi and his Studio, in “Apollo” CXXVII, 313, marzo 1988, pp. 176 e 179, nota 15, fig. 5; F. Pedrocco – F. Montecuccoli degli Erri, Antonio Guardi, Milano 1992, pp. 131-32, n. 78 e p. 214, fig. 96; A. Bettagno, I Guardi. Quadri turcheschi, catalogo della mostra, Venezia 1993, pp. 100-103, nn. 36-37, ill.;

 

Riferimenti fotografici

Fototeca Federico Zeri, scheda 68744-45

 

Sebbene non documentate in maniera specifica, le tele qui offerte devono includersi nei “Quaranta tre quadri rappresentati costumi de’ Turchi” che l’inventario del Maresciallo Matthias von Schulenburgh censisce nel 1746 come opera di Guardi nel palazzo Loredan a San Trovaso, residenza veneziana del Maresciallo, e più precisamente “nella stanza del Ten.e Col. Arcoleo”, secondo i documenti d’archivio trascritti e analizzati da Alice Binion nella sua ricostruzione di questa importante collezione veneziana.

I registri analizzati dalla studiosa precisano altresì che queste “scene turchesche” furono dipinte da Antonio Guardi e dalla sua bottega (in cui era attivo il fratello Francesco) tra il febbraio del 1742 e il dicembre 1743; ad esse si riferiscono infatti dieci pagamenti di due zecchini ciascuna, in aggiunta allo stipendio mensile che l’artista, unico tra i molti colleghi attivi per il Maresciallo, percepiva quasi fosse un “pittore di casa”.

Riscoperte nella seconda metà del Novecento da Antonio Morassi e oggetto di una mostra organizzata alla Fondazione Cini da Alessandro Bettagno, le “scene turchesche” di Antonio Guardi (solo una trentina delle quarantatre sono oggi rintracciate) si ispirano, come precisato anche da Rodolfo Pallucchini (La pittura nel Veneto. Il Settecento, Milano 1996, II, pp. 21-23) alle illustrazioni del Recueil de cent estampes représentant différentes nations du Levant, pubblicato per la prima volta nel 1712, riproducenti invenzioni di Jean Baptiste van Mour, pittore di Valenciennes trasferitosi a Costantinopoli nel 1699 e nominato pittore di corte nel 1727.

Le nostre scene si inseriscono quindi in una moda più ampia che nel Settecento investe gran parte dell’Europa occidentale, da Venezia a Parigi: in anticipo sull’Orientalismo ottocentesco, il gusto per le “turcherie”, gustose scenette ambientate in un harem la cui decorazione si rivela a tratti più veneziana o parigina che orientale, esorcizza in qualche maniera la grande paura per il nemico secolare le cui armate erano giunte a minacciare il cuore della cristianità, con l’assedio di Vienna del 1683.

Non è forse un caso, allora, che le quarantatre scene turche di Antonio Guardi siano state commissionate da colui che nel corso di una brillante carriera militare al servizio del Duca di Sassonia, di Vittorio Amedeo II di Savoia, e per trent’anni della Serenissima, aveva combattuto i Turchi nella campagna ungherese del 1687-88, e poi a Corfù nel 1716. Responsabile della difesa dell’isola, il Maresciallo Schulenburgh respinse i Turchi meritando importanti riconoscimenti tra cui una statua celebrativa nella piazza della città e una pensione annuale di 5.000 ducati.

Stabilitosi nel palazzo Loredan sul Canal Grande, nel 1724 Schulenburgh diede inizio alla sua collezione acquistando ben ottantotto dipinti dalla raccolta di Ferdinando-Carlo Gonzaga Nevers, e commissionandone altri ai più importanti artisti veneziani del momento, tra cui Giovan Battista Pittoni e il Piazzetta, che agirono anche in qualità di esperti consulenti per i suoi acquisti.

Costantemente attivo per il Maresciallo a partire dal 1730 e coadiuvato dalla bottega, Antonio Guardi dipinse quadri di sua invenzione e copie dai grandi maestri veneziani del Cinquecento, come pure ritratti di personaggi celebri desunti da altri modelli (come nel caso del ritratto di Carlo Edoardo Stuart, copiato da un modello di Rosalba Carriera, eseguito da Francesco ma pagato ad Antonio in quanto titolare della “Bottega Guardi”).  Mentre gran parte della collezione fu spedita in Germania fin dalla metà degli anni Trenta, le “scene turchesche” rimasero nel palazzo veneziano fino alla morte del Maresciallo Schulenburgh nel 1747, quando sono appunto inventariate.

I dipinti rimasti in Italia a quella data, tra cui anche i nostri, furono spediti in Germania e dispersi sul mercato europeo a partire dal 1775, quando 150 quadri della collezione Schulenburgh furono venduti in asta da Christie’s.

 

Riprodotti (ma non esposti) nel catalogo della mostra curata da Alessandro Bettagno alla Fondazione Cini (Guardi. Quadri Turcheschi, Venezia 1993, nn. 36-37) i dipinti qui in oggetto hanno sollevato un vivace dibattito circa la loro precisa attribuzione nell’ambito della “bottega Guardi”. La critica specialistica si è infatti divisa tra i nomi del più anziano Giovanni Antonio, titolare della bottega (sotto il cui nome sono passati in asta da Christie’s), del fratello Francesco o, addirittura, di un aiuto non identificato più vicino a quest’ultimo, forse il documentato e mal noto Niccolò Guardi.

 

 

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Segretariato Regionale per la Liguria, con decreto N. 14 del 19/2/2021.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

Stima   € 100.000 / 150.000
Aggiudicazione  Registrazione
16

Pietro Baseghini, Mirandola, 1629

PIANO IN SCAGLIOLA

piano di ardesia con decorazioni in scagliola policroma. Un ampio ottagono centrale inquadra un gruppo di sei cavalli bianchi imbizzarriti, dai quali si diparte una ricca decorazione scandita da sottili profili geometrici di colore bianco che incorniciano soggetti di tipo vegetale, con varietà di piante e fiori, e di tipo animale, con diverse specie di uccelli, cani, cervi e selvaggina. Nella fascia più esterna, ai quattro angoli, sono raffigurati stemmi araldici ecclesiastici, mentre nell’ottagono, posto centralmente sia nei lati corti che nei lati lunghi, affiancate da trofei di armi, scudi ed elmi, sono presenti quattro vedute di antiche città, che recano l’iscrizione: “PETRUS BESEGHINUS MIRANDULANUS FECIT 1629”; cm 79x125

 

Bibliografia di confronto

G. Manni, I maestri della scagliola in Emilia Romagna e Marche, Modena 1997;

A. M. Massinelli, Scagliola. L’arte della pietra di luna, Roma, 1997

 

Opera dichiarata di interesse culturale dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, con decreto del 26/07/1999.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

 

Datata 1629 e firmata dall’artista, l’opera riveste una straordinaria importanza perché si tratterebbe del più antico esemplare documentato di scagliola italiana, ovvero della tecnica di commesso su impasto di gesso che da Monaco di Baviera – e nello specifico da uno dei più grandi maestri di quest’arte, Blasius Pfeiffer, attivo dal 1587 al 1622 – venne importato a Carpi, in provincia di Modena, dallo scagliolista Guido Fassi (1584-1649) sviluppandosi poi in Toscana e Lombardia.

A rendere ancora più unico e innovativo il manufatto, oltre alla preziosa qualità del commesso, all’impianto compositivo della decorazione - che costituirà un modello per tutto il Seicento - e al precoce impiego del colore, è il soggetto iconografico di natura laica, che quindi si allontana da quello tipico della produzione delle botteghe carpigiane, nonostante la committenza ecclesiastica.

L’opera toglierebbe il primato al primo esemplare di scagliola tradizionalmente riconosciuto, un frammento centrale di un paliotto in scagliola policroma raffigurante la Sacra Famiglia datato 1646, destinato all’Oratorio di Sant’Anna, ad opera di Carlo Francesco Gibertoni, intarsiatore che assolse diverse committenze chiesastiche e il primo in area carpigiana a praticare il commesso con figure.

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
17

Manifattura umbra, 1740/1780 circa

MONDO NUOVO O SCATOLA MAGICA

struttura architettonica in legno di noce e vetro simulante un elegante palazzo a tre piani coronato da un “lanternino” con orologio, completa di dieci stampe acquerellate e quattro cornici di bordura montate su telaio. Le stampe sono settecentesche e coeve alla lanterna, realizzate su cartoncini di buona grammatura, e presentano fori per il passaggio della luce. I soggetti rappresentati, in voga nelle proiezioni, raffigurano vedute, grandi piazze con architetture urbane, paesaggi con piccoli personaggi. Essenziali per la proiezione, erano custodite in un vano chiuso da due ante posto nel retro dell’elegante stipo ligneo; cm 225x84x70

 

Provenienza

Perugia, Palazzo Friggeri, Collezione Contessa Maria Rizzoli Friggeri;

Modena, Collezione privata

 

Bibliografia di confronto

C.A. Minici Zotti (a cura di), Il Mondo Nuovo. Le meraviglie della visione dal '700 alla nascita del Cinema, Milano 1988; 

C.A. Minici Zotti, Magiche visioni prima del Cinema. La Collezione Minici Zotti, Padova 2001;

S. Bernardi, L'avventura del cinematografo, Venezia 2007

 

Referenze Fotografiche

Catalogo generale dei Beni culturali cod. 1000219483

 

Opera dichiarata di interesse culturale dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, con decreto del 17/02/1978.

The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy. 

 

ELENCO DELLE STAMPE ACQUERELLATE

  1. Cristopher Wren, Una via di Londra con il memoriale del grande incendio del 1666
  2. Circa 1760, Prospectus Majoris deambulatorii hortii/ Vauxhall ab Introitu// 24e VUE D’OPTIQUE/ Representant// La Vue de la Grand Allée du Jardin de/ Vauxhall prose de l’Entrée
  3. Stampa tedesca, La Piazza di San Marco a Venezia, circa 1770, incisione di Johann Jakob Stelzer
  4. La piazza di Rennes
  5. Stampa francese del ‘700, La Biblioteca del Vaticano a Roma
  6. Stampa francese datata 1761-1780, Prospectus Pontis Rivoalti et Carcerum Venetiarum
  7. Circa 1770, Interieur de l’Abbaye de Westminster
  8. Parigi, circa 1770, VUE DE SEVILLE
  9. Circa 1770, Rara veduta ottica di Corso Po in Torino
  10. Circa 1760, Prospectus Caesarei Palatii in Suburbio/ vulgo Favorita

 

La grande opera lignea di manifattura perugina settecentesca costituisce un rarissimo esemplare di Mondo nuovo, camera prospettica-cinetica per la lettura successiva di stampe o disegni attraverso tre oculari con lenti sul fronte, e pertanto uno dei primi esempi di strumento ottico di tal genere.

Strutturata in forme architettoniche simulanti un palazzo di tre piani, l’opera è inoltre coronata da un lanternino con orologio e si struttura su di una base - architettonica anch’essa - con doppia scalinata a balaustra sulla quale poggia l’elegante stipo ligneo centrale, dove avveniva la proiezione.

Il corpo di quest‘ultimo si presenta articolato su tre ordini, il primo dalla veranda conduce al portone centrale affiancato da tre eleganti finestre sormontate da frontoni di linea spezzata; il piano nobile, in cui sopra le tre finestre, arricchite da eleganti fregi a volute, si trovano i tre oculari; infine un terzo livello con balaustra ed elementi sferici che corrono lungo l’intero perimetro coronato da orologio impreziosito da lanternino apicale.

All’interno del vano chiuso da due ante posteriori, un meccanismo di carrucole e spaghi permette di presentare alla lettura più disegni successivamente, servendosi della luce fornita da tre candelieri per parte.

Il manufatto è inoltre dotato di dieci stampe acquarellate coeve, alcune su telaio originale, conservate insieme a quattro cornici di bordura; si tratta di disegni di carattere architettonico, vedute e rappresentazioni di alcune importanti vie, piazze e città italiane ed europee: Ponte di Rialto e Piazza San marco a Venezia, una piazza della città francese di Rennes, via Siviglia a Parigi, una via londinese con il memoriale dell’incendio del 1666, le vedute d’interno dell’abbazia di Westminster e della Biblioteca Vaticana, via del Po a Torino e uno scorcio del Palais de César a Vienna.

Quest’opera, proprietà della Contessa Maria Rizzoli Friggeri di Perugia, è pertanto uno straordinario prodotto dell’arte perugina del sec. XVIII, ed è legato non solo alla storia di Palazzo Friggeri, opera del 1730 di B. Lorenzini di grande bellezza ed eleganza in Piazza del Duomo di Perugia, ma anche allo sviluppo delle arti e delle scienze tout court.

Rare sono le testimonianze storiche del Mondo Nuovo, ma possiamo ammirarne uno splendido esemplare appartenuto alla famiglia Dolfin al Museo del Precinema - Collezione Minici Zotti (Padova) ed anche vederlo rappresentato in un gruppo settecentesco in porcellana di manifattura Frankenthal.

Nato come strumento ottico di intrattenimento, il Mondo nuovo rappresentava l’apparecchio di più grande diffusione tra il XVIII e il XIX secolo che, insieme alla Lanterna magica, costituisce il diretto antenato della macchina cinematografica.

Entrambi i dispositivi ottici avevano infatti come scopo la proiezione di immagini. La Lanterna magica era dotata di un semplice meccanismo che consentiva di proiettare in una stanza buia immagini dipinte su lastre di vetro, attraverso la luce di una candela posta al suo interno e filtrata da una lente.  L’invenzione, attribuita ad opera di studiosi nel Seicento, come al gesuita tedesco Athanasius Kircher – che in Ars Magna Lucis et Umbrae ne descrive il funzionamento – venne poi realizzata dal fisico e astronomo olandese Christiaan Huygens nel 1659 e dall’italiano Matteo Campani nel 1678.

Simile al funzionamento della Lanterna magica, ma concepito all’inverso, il Mondo nuovo era uno strumento che prevedeva la visione delle immagini luminose al proprio interno. In origine rudimentale visore in legno, sorretto da un treppiede, si sviluppa successivamente in “scatole magiche” di maggiori dimensioni e, come dimostra il nostro esemplare, impreziosito da apparati architettonici.

Il dispositivo permetteva di osservare all’interno della cassa, mediante uno o più oculari dotati di lenti convesse, delle opere su carta, dipinte e colorate a mano, arricchite da trasparenze e particolari intagliati che, retro-illuminati, davano sfoggio a vedute ottiche di particolare impatto visivo. Il fascio di luce, colpendo l’immagine, le sue trasparenze e i dettagli di varie tonalità di colori, la proiettava ingrandita su uno schermo bianco posto all’interno della scatola; questo meccanismo, già di per sé originale poteva creare effetti ancora più suggestivi grazie all’uso di corde e quinte prospettiche, permettendo una visione realistica e dinamica delle immagini.

Rispetto alla Lanterna magica il mondo nuovo poteva essere utilizzato di giorno e all’aperto; proprio per questo motivo veniva impiegato durante le feste, nelle piazze, come attrazione a pagamento, destando grande attenzione e curiosità. Le immagini osservate raccontavano scene e episodi di puro intrattenimento, per accattivare l’attenzione di ogni genere di pubblico, grazie anche alla ricerca di effetti tridimensionali, ma potevano avere anche uno scopo didattico. È il caso in particolare del mondo nuovo, il quale veniva sempre più spesso utilizzato, attraverso la narrazione per immagini, a scopo divulgativo, per raccontare eventi di vita reale, come ad esempio gli avvenimenti della Rivoluzione francese oppure per illustrare immagini di alcune delle piazze e dei luoghi più famosi del mondo, fra cui il mondo nuovo, ovvero l’America, da cui probabilmente prende il nome.
Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
18

PARAVENTO, CINA, DINASTIA QING, SEC. XVIII-XIX

composto da cinque pannelli in carta dipinti a tempera, raffiguranti paesaggio con architetture e personaggi,

cm  69,5 x 200 x 2  ciascun pannello

 

清 十八至十九世纪 人物风景图 外销画屏 设色纸本

 

FIVE CHINESE EXPORT HAND-PAINTED WALLPAPER PANELS, CHINA, QING DYNASTY, 18TH-19TH CENTURIES

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio Roma, con DSR Lombardia del 18/10/2018.
The Italian Soprintendenza considers this lot to be a work of national importance and requires it to remain in Italy; it cannot therefore be exported from Italy.

I cinque pannelli cinesi in carta orientale dipinta con color a tempera, bordati in seta chiara e montati su strutture lignee che presentiamo in questa vendita, raffigurano edifici e figure in un paesaggio naturale fluviale o lacustre, che compongono un’unica scena chiusa all’estremità da edifici di maggiori dimensioni che fungono da quinte laterali alla scena. Questo soggetto è stato frequentemente usato per la carta da parati cinesi dipinta a mano, ma la particolarità dell’esemplare in questione consiste nel fatto che le costruzioni e le persone rappresentati sono “occidentali”. Gli edifici infatti sono “eclettici”, con colonnati, cupole, pinnacoli e finestre ad arco più somiglianti ai padiglioni in stile cinese dei giardini europei, come ad esempio il padiglione d’estate a Brignano Gera d’Adda (1770 circa), che a costruzioni orientali; i ponti invece hanno profili cinesi, come quello tra il primo e il secondo pannello da destra che è identico, a parte la balaustra, ad uno dei ponti del Palazzo d’Estate a Pechino; persino i personaggi raffigurati sono abbigliati all’occidentale. Anche la maniera di dipingere è ispirata alla pittura occidentale: dalla ricerca di naturalismo del paesaggio, all’acqua che ne riflette i colori cupi e che in un dipinto orientale sarebbe stata resa con piccoli tratti ondulati di inchiostro su1 fondo privo di colore; solo il cielo, lasciato acromo, si attiene ai canoni della tradizione pittorica cinese. Sempre di influenza occidentale è la visione prospettica, evidente nella fila di edifici del secondo pannello. Per le dimensioni, i colori utilizzati, il soggetto rappresentato e il fatto che compongono una scena unica, i cinque dipinti sono identificabili come pannelli di carta da parati di manifattura cinese, i risarcimenti, le ridipinture e il montaggio su telaio, sono stati effettuati da maestranze orientali.

Questo tipo di carta da parati veniva realizzata nella zona di Canton, il porto più frequentato per il commercio nella Cina meridionale, appositamente per l’esportazione in Occidente, soprattutto nei secoli XVIII e XIX, da botteghe artigiane che traevano ispirazione da stampe, modelli e cartoni, anche per produzioni su specifica commissione, come potrebbe essere il caso dei parati in questione. A Canton venivano lavorati molti dei manufatti destinati all’estero attraverso le Compagnie delle Indie Occidentali: porcellane soprattutto, ma anche lacche, avori e acquarelli. A quest’ultima produzione si avvicina quella della carta da parati, la cui richiesta in origine tendeva probabilmente a sostituire i costosi parati in tessuto con più economiche papier peint; molto di moda tra il Settecento e 1’Ottocento, al pari di tutto ciò che veniva dalla Cina. In ogni caso le carte da parati cinesi, con le loro figure di “mandarini”, i paesaggi esotici, i minuziosi “fiori e uccelli” hanno grandemente contribuito allo sviluppo del gusto per la “cineseria”, ovvero per l’imitazione dei motivi decorativi orientali diffuso in tutta l’Europa fino al XIX secolo e oltre.

Stima   € 9.000 / 12.000
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