Mobili arredi ed oggetti d'Arte

11 OTTOBRE 2011

Mobili arredi ed oggetti d'Arte

Asta, 0104
Firenze, Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo Albizi, 26
 
 
 

Tutte le categorie

1 - 30  di 332
564

Giovanni Scajario (Asiago 1726 Venezia 1792) e Domenico Fossati (Venezia 1743 1784) INCONTRO DI ANTONIO E CLEOPATRA tempera e olio magro su tela, cm 290x705 Provenienza: già Palazzo Gidoni, Campo San Zan Degolà Venezia; Galleria Guido Minerbi, Palazzo Grimani di Santa Maria Formosa, Venezia; collezione privata, Cadegliano (Varese). Lopera è corredata da un importante parere scritto di Giuseppe Fiocco, Venezia, 20 luglio 1966, nella quale lo studioso attribuiva le prospettive al famoso quadraturista emiliano attivo a Venezia Girolamo Mingozzi Colonna, collaboratore di Giovan Battista Tiepolo, e le figure al tiepolesco Francesco Zugno. Alla luce dei recenti studi lopera è stata approfondita da Enrico Lucchese, cui si deve il seguente parere scritto, Trieste, 24 luglio 2011. Spetta al vero mago della pittura, Giambattista Tiepolo, la prima rappresentazione pittorica (Mariuz 2004, p. 29) dellIncontro tra Antonio e Cleopatra, in una tela - oggi al Museo di Stato di Arkangelskoje, presso Mosca - di dimensioni cospicue (338 x 600 cm) tanto quanto quelle dellopera in esame. Il dipinto russo, con ogni probabilità proveniente, come sicuramente questo che ne condivide pure il formato orizzontale, dalle pareti di qualche portego di un palazzo veneziano (cfr. Loire-de Los Llanos 1996; Mariuz 2004, p. 80), reca la data 1747, ed ha pendant la famosa scena della perla sciolta nellaceto del Banchetto di Antonio e Cleopatra. Sono gli stessi anni degli affreschi, anchessi con Storie di Antonio e Cleopatra, di Tiepolo e Girolamo Mengozzi Colonna a palazzo Labia, ammirati e copiati subito da Joshua Reynolds nel 1752 (cfr. Pignatti-Pedrocco-Martinelli Pedrocco 1982, p. 78) e Jean-Honoré Fragonard nel 1761 (cfr. Rosenberg-Bré de Lavargné 1986, cat. 212-213), divenuti poi meta di pellegrinaggio estetico per Edgar Degas, Guy de Maupassant, Marcel Proust. Laffascinante soggetto dellIncontro tra lultima regina dEgitto e il condottiero romano soggiogato dalla sua bellezza è ripreso dalle Vite di Plutarco e dal De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio: se Cleopatra è una delle maschere settecentesche del mito di Venezia, come ha scritto Haskell [in Mecenati e pittori, 1966, p. 394], vuol dire che Venezia ripone ormai la propria forza nel fascino della sua singolarità nel promuoversi a luogo di festa e di spettacolo. Cleopatra disarma propriamente Antonio, come Venere aveva disarmato Marte, domando il suo spirito guerresco (Mariuz 2004, p. 49). Rispetto alle fonti e ai dipinti tiepoleschi menzionati, lIncontro di Antonio e Cleopatra, qui analizzato, non si svolge allaperto, nei pressi di un vascello, così come i due personaggi principali non si sono ancora congiunti e manca la figura del re armeno Artavasde, prigioniero di Antonio. Sono invece presenti i servi con i ricchi doni, prede di guerra, per Cleopatra, mentre il resto della scena è dominato dalle imponenti architetture ricche di sculture, scenografie teatrali deffetto illusionistico dalle quali sbucano numerose altre figure. La sensazione è di trovarsi di fronte a una sorta di replica di uno spettacolo famoso, familiare a tal punto da far diventare pleonastici dettagli narrativi e da indurre a variare, perfino, lambientazione nota della storia, non più sulle rive di un fiume sia il Nilo o il Cidno descritti da Plutarco ma allinterno di un magnifico palazzo di vastità lo possiamo già dire, piranesiana. Il dipinto è accompagnato da unimportante perizia del prof. Giuseppe Fiocco, datata 20 luglio 1966: in detti documenti, cortesemente comunicatimi, lo studioso darte veneta dichiarava di conoscere questa e altre tre simili opere da anni vedute e considerate nel palazzo Grimani di Ruga Giuffa a Venezia, ossia quello legato al ramo patrizio di Santa Maria Formosa, ora sede museale statale, allora usato come prestigiosa galleria da Guido Minerbi (sul quale cfr. di recente Hochmann 2008, p. 220). Le quattro grandi tempere, secondo lo scritto dello stesso Fiocco, erano state acquistate da Minerbi il 18 febbraio dello stesso 66 e provenivano da palazzo Gidoni Campo San Zan Degolà Venezia, ovvero palazzo Gidoni-Bembo al ponte del campo di San Giovanni Decollato, prospiciente lomonimo rio. Chiestogli un parere stilistico, Fiocco reputava correttamente le opere realizzate da due differenti maestri, uno specialista in quadrature (la parte architettonica in prospettiva), laltro autore delle figure, delle storie. Il fastoso scenario lo indusse ad attribuire il dipinto in primis al più famoso dei quadraturisti attivi a Venezia nel Settecento, Girolamo Mengozzi Colonna, il responsabile delle architetture dipinte a palazzo Labia. Per quanto riguardava invece lesecuzione pittorica delle macchiette, Fiocco individuava con giustezza lindirizzo stilistico tiepolesco, proponendo unattribuzione a Francesco Zugno, artista di cui esisteva già allepoca (Pilo 1958-59) uno studio monografico in cui, tuttavia, si riproponevano i documentati legami con un altro capace quadraturista emiliano, Francesco Battaglioli da Modena (cfr. Ivanoff 1954). A distanza di quarantacinque anni, tale posizione critica deve essere rivista, non solo alla luce del recente catalogo ragionato dellattività di Mengozzi Colonna (Domenichini 2004), nel quale non compaiono disegni o pitture avvicinabili stilisticamente alla quadratura dellIncontro di Antonio e Cleopatra, ma anche in virtù di una testimonianza attendibile che restituisce con certezza le architetture dipinte a Domenico Fossati, nato

Giovanni Scajario (Asiago 1726 Venezia 1792) e Domenico Fossati (Venezia 1743 1784) INCONTRO DI ANTONIO E CLEOPATRA tempera e olio magro su tela, cm 290x705 Provenienza: già Palazzo Gidoni, Campo San Zan Degolà Venezia; Galleria Guido Minerbi, Palazzo Grimani di Santa Maria Formosa, Venezia; collezione privata, Cadegliano (Varese). Lopera è corredata da un importante parere scritto di Giuseppe Fiocco, Venezia, 20 luglio 1966, nella quale lo studioso attribuiva le prospettive al famoso quadraturista emiliano attivo a Venezia Girolamo Mingozzi Colonna, collaboratore di Giovan Battista Tiepolo, e le figure al tiepolesco Francesco Zugno. Alla luce dei recenti studi lopera è stata approfondita da Enrico Lucchese, cui si deve il seguente parere scritto, Trieste, 24 luglio 2011. Spetta al vero mago della pittura, Giambattista Tiepolo, la prima rappresentazione pittorica (Mariuz 2004, p. 29) dellIncontro tra Antonio e Cleopatra, in una tela - oggi al Museo di Stato di Arkangelskoje, presso Mosca - di dimensioni cospicue (338 x 600 cm) tanto quanto quelle dellopera in esame. Il dipinto russo, con ogni probabilità proveniente, come sicuramente questo che ne condivide pure il formato orizzontale, dalle pareti di qualche portego di un palazzo veneziano (cfr. Loire-de Los Llanos 1996; Mariuz 2004, p. 80), reca la data 1747, ed ha pendant la famosa scena della perla sciolta nellaceto del Banchetto di Antonio e Cleopatra. Sono gli stessi anni degli affreschi, anchessi con Storie di Antonio e Cleopatra, di Tiepolo e Girolamo Mengozzi Colonna a palazzo Labia, ammirati e copiati subito da Joshua Reynolds nel 1752 (cfr. Pignatti-Pedrocco-Martinelli Pedrocco 1982, p. 78) e Jean-Honoré Fragonard nel 1761 (cfr. Rosenberg-Bré de Lavargné 1986, cat. 212-213), divenuti poi meta di pellegrinaggio estetico per Edgar Degas, Guy de Maupassant, Marcel Proust. Laffascinante soggetto dellIncontro tra lultima regina dEgitto e il condottiero romano soggiogato dalla sua bellezza è ripreso dalle Vite di Plutarco e dal De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio: se Cleopatra è una delle maschere settecentesche del mito di Venezia, come ha scritto Haskell [in Mecenati e pittori, 1966, p. 394], vuol dire che Venezia ripone ormai la propria forza nel fascino della sua singolarità nel promuoversi a luogo di festa e di spettacolo. Cleopatra disarma propriamente Antonio, come Venere aveva disarmato Marte, domando il suo spirito guerresco (Mariuz 2004, p. 49). Rispetto alle fonti e ai dipinti tiepoleschi menzionati, lIncontro di Antonio e Cleopatra, qui analizzato, non si svolge allaperto, nei pressi di un vascello, così come i due personaggi principali non si sono ancora congiunti e manca la figura del re armeno Artavasde, prigioniero di Antonio. Sono invece presenti i servi con i ricchi doni, prede di guerra, per Cleopatra, mentre il resto della scena è dominato dalle imponenti architetture ricche di sculture, scenografie teatrali deffetto illusionistico dalle quali sbucano numerose altre figure. La sensazione è di trovarsi di fronte a una sorta di replica di uno spettacolo famoso, familiare a tal punto da far diventare pleonastici dettagli narrativi e da indurre a variare, perfino, lambientazione nota della storia, non più sulle rive di un fiume sia il Nilo o il Cidno descritti da Plutarco ma allinterno di un magnifico palazzo di vastità lo possiamo già dire, piranesiana. Il dipinto è accompagnato da unimportante perizia del prof. Giuseppe Fiocco, datata 20 luglio 1966: in detti documenti, cortesemente comunicatimi, lo studioso darte veneta dichiarava di conoscere questa e altre tre simili opere da anni vedute e considerate nel palazzo Grimani di Ruga Giuffa a Venezia, ossia quello legato al ramo patrizio di Santa Maria Formosa, ora sede museale statale, allora usato come prestigiosa galleria da Guido Minerbi (sul quale cfr. di recente Hochmann 2008, p. 220). Le quattro grandi tempere, secondo lo scritto dello stesso Fiocco, erano state acquistate da Minerbi il 18 febbraio dello stesso 66 e provenivano da palazzo Gidoni Campo San Zan Degolà Venezia, ovvero palazzo Gidoni-Bembo al ponte del campo di San Giovanni Decollato, prospiciente lomonimo rio. Chiestogli un parere stilistico, Fiocco reputava correttamente le opere realizzate da due differenti maestri, uno specialista in quadrature (la parte architettonica in prospettiva), laltro autore delle figure, delle storie. Il fastoso scenario lo indusse ad attribuire il dipinto in primis al più famoso dei quadraturisti attivi a Venezia nel Settecento, Girolamo Mengozzi Colonna, il responsabile delle architetture dipinte a palazzo Labia. Per quanto riguardava invece lesecuzione pittorica delle macchiette, Fiocco individuava con giustezza lindirizzo stilistico tiepolesco, proponendo unattribuzione a Francesco Zugno, artista di cui esisteva già allepoca (Pilo 1958-59) uno studio monografico in cui, tuttavia, si riproponevano i documentati legami con un altro capace quadraturista emiliano, Francesco Battaglioli da Modena (cfr. Ivanoff 1954). A distanza di quarantacinque anni, tale posizione critica deve essere rivista, non solo alla luce del recente catalogo ragionato dellattività di Mengozzi Colonna (Domenichini 2004), nel quale non compaiono disegni o pitture avvicinabili stilisticamente alla quadratura dellIncontro di Antonio e Cleopatra, ma anche in virtù di una testimonianza attendibile che restituisce con certezza le architetture dipinte a Domenico Fossati, nato
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Giuseppe Vanneschi (Firenze notizie dal 1715 al 1737) ALLEGORIA DELLA FORZA DEL SONNO CHE INCATENA GLI ESSERI UMANI scultura in terracotta patinata, su base rettangolare in legno tinto a finto ebano, cm 61x51x41 alcuni danni Lopera è corredata da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 25 luglio 2011 Lopera, che presenta alcuni danni dovuti a rotture più o meno recenti, mostra una scena allegorica caratterizzata da tre personaggi virili, effigiati in atto dialogante. Disposto in posa dominante rispetto alle altre figure appare Ercole, dal corpo muscoloso ma non eccessivamente possente, raffigurato con i suoi attributi iconografici più consueti, ovvero la pelle di leone e la clava, simboli di Forza. Poco distante da questi compare un giovane di bellaspetto, sostenente un bouquet di fiori e con la testa cinta da un serto di foglie e boccioli di papavero, identificabile,con probabilità con Morfeo, dio del Sonno. Inginocchiato ai piedi delle due figure, sedute comodamente su un dosso roccioso, appare infine un uomoimprigionato a una pietra con una catena al braccio sinistro, effigiato in posa ossequente di fronte al giovane dio. Seppur priva di riscontri iconografici pertinenti è probabile che la statua voglia alludere, attraverso le figure di Ercole e di Morfeo, alla Potenza del Sonno che imprigiona o aggioga a se ogni essere umano. Significative in tal senso appaiono le pose particolari delle figure, in particolare quelle di Ercole che poggia affettuosamente la mano destra sulla spalla di Morfeo, per sottolineare il suo sostegnoincondizionato, e delluomo con la catena al braccio, rivolto con umiltà e quasi prostrato davanti allefebico dio. Connotata da caratteri stilistici tipici della scultura tardobarocca toscana, la terracottamostra un linguaggio intriso di raffinato eclettismo, nel quale è possibile cogliere analogie lessicali stringenti con vari artisti fiorentini operanti tra la fine del Seicento e linizio del Settecento. Documentata ab antiquo in unimportante raccolta storica fiorentina, lopera, databile ai primi decenni del XVIII secolo,presenta requisiti stilistici e caratteri esecutivi strettamente affini a una terracotta con il Trionfo di Nettuno e Anfitrite, proveniente dalla stessa collezione, apparsa sul mercato antiquario nel 2000 sotto il nome di Giovacchino Fortini e poi assegnata, grazie alla presenza della sigla G.V.F. visibile sul retro della composizione, a Giuseppe Vanneschi (S. Bellesi in S. Bellesi M. Visonà Giovacchino Fortini. Scultura Architettura Decorazione e Committenza a Firenze al tempo degli ultimi Medici, 2 voll., Firenze, 2008, II, pp. 277-278 n. 14). In base a tali affinità lessicali risulta, pertanto, plausibile assegnare il gruppo statuario in esame al nome dello stesso scultore. Artista riemerso allattenzione degli studi storico-critici solo in tempi relativamente recenti, Giuseppe Vanneschi, del quale ignoriamo al momento gli estremi biografici, appare documentato nella Città del Giglio dal 1715, tempo dellesecuzione della terracotta sopra citata, fino al 1737, anno della realizzazione di alcune statue allegoriche destinate allapparato funebre allestito nella basilica di San Lorenzo a Firenze in occasione delle esequie di Gian Gastone de Medici, ultimo granduca della sua casata (B. Riederer-Ghros, Florentinische Feste desSpä EinBeitragzurKunst am Hofe der Letzen Medici 1670-1743, Frankfurt am Main, 1978, p. 308). Dati archivistici e informazioni tratte dalle fonti antiche ricordano, inoltre, che lartista prese parte nel 1724 agli allestimenti commemorativi connessi alla morte di Cosimo III de Medici (B. Riederer-Ghros, op. cit., pp. 225 e 236) e nel 1729 collaborò attivamente con il celebre bronzista Massimiliano Soldani Benzi alla realizzazione del maestoso Monumento funebre di Manoel de Vihlena, destinato alla chiesa maltese di San Giovanni a La Valletta (K. Lankheit, FlorentinischeBarockplastik. Die Kunst am Hofe der letzen Medici. 1670-1743, Mü 1962, p. 313 doc. n. 517).Artista perfettamente integrato agli orientamenti stilistici fiorentini del suo tempo, Vanneschi mostrò un elegante linguaggio operativo, nel quale convivevano, mirabilmente, accostamenti alle composizioni di ascendenza fogginiana e soldaniana e analogie tipologiche legate, soprattutto, a maestri come Fortini e Girolamo Ticciati, molto apprezzati nella Firenze di inizio Settecento. Come per la terracotta con il Trionfo di Nettuno e Anfitrite, loperaattesta contatti stilistici stringenti con il linguaggio di alcuni dei più interessanti scultori fiorentini primo-settecenteschi, tra i quali appare sufficiente citare, in questo contesto, Giovanni Baratta e il già menzionato Tacciati.

Giuseppe Vanneschi (Firenze notizie dal 1715 al 1737) ALLEGORIA DELLA FORZA DEL SONNO CHE INCATENA GLI ESSERI UMANI scultura in terracotta patinata, su base rettangolare in legno tinto a finto ebano, cm 61x51x41 alcuni danni Lopera è corredata da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 25 luglio 2011 Lopera, che presenta alcuni danni dovuti a rotture più o meno recenti, mostra una scena allegorica caratterizzata da tre personaggi virili, effigiati in atto dialogante. Disposto in posa dominante rispetto alle altre figure appare Ercole, dal corpo muscoloso ma non eccessivamente possente, raffigurato con i suoi attributi iconografici più consueti, ovvero la pelle di leone e la clava, simboli di Forza. Poco distante da questi compare un giovane di bellaspetto, sostenente un bouquet di fiori e con la testa cinta da un serto di foglie e boccioli di papavero, identificabile,con probabilità con Morfeo, dio del Sonno. Inginocchiato ai piedi delle due figure, sedute comodamente su un dosso roccioso, appare infine un uomoimprigionato a una pietra con una catena al braccio sinistro, effigiato in posa ossequente di fronte al giovane dio. Seppur priva di riscontri iconografici pertinenti è probabile che la statua voglia alludere, attraverso le figure di Ercole e di Morfeo, alla Potenza del Sonno che imprigiona o aggioga a se ogni essere umano. Significative in tal senso appaiono le pose particolari delle figure, in particolare quelle di Ercole che poggia affettuosamente la mano destra sulla spalla di Morfeo, per sottolineare il suo sostegnoincondizionato, e delluomo con la catena al braccio, rivolto con umiltà e quasi prostrato davanti allefebico dio. Connotata da caratteri stilistici tipici della scultura tardobarocca toscana, la terracottamostra un linguaggio intriso di raffinato eclettismo, nel quale è possibile cogliere analogie lessicali stringenti con vari artisti fiorentini operanti tra la fine del Seicento e linizio del Settecento. Documentata ab antiquo in unimportante raccolta storica fiorentina, lopera, databile ai primi decenni del XVIII secolo,presenta requisiti stilistici e caratteri esecutivi strettamente affini a una terracotta con il Trionfo di Nettuno e Anfitrite, proveniente dalla stessa collezione, apparsa sul mercato antiquario nel 2000 sotto il nome di Giovacchino Fortini e poi assegnata, grazie alla presenza della sigla G.V.F. visibile sul retro della composizione, a Giuseppe Vanneschi (S. Bellesi in S. Bellesi M. Visonà Giovacchino Fortini. Scultura Architettura Decorazione e Committenza a Firenze al tempo degli ultimi Medici, 2 voll., Firenze, 2008, II, pp. 277-278 n. 14). In base a tali affinità lessicali risulta, pertanto, plausibile assegnare il gruppo statuario in esame al nome dello stesso scultore. Artista riemerso allattenzione degli studi storico-critici solo in tempi relativamente recenti, Giuseppe Vanneschi, del quale ignoriamo al momento gli estremi biografici, appare documentato nella Città del Giglio dal 1715, tempo dellesecuzione della terracotta sopra citata, fino al 1737, anno della realizzazione di alcune statue allegoriche destinate allapparato funebre allestito nella basilica di San Lorenzo a Firenze in occasione delle esequie di Gian Gastone de Medici, ultimo granduca della sua casata (B. Riederer-Ghros, Florentinische Feste desSpä EinBeitragzurKunst am Hofe der Letzen Medici 1670-1743, Frankfurt am Main, 1978, p. 308). Dati archivistici e informazioni tratte dalle fonti antiche ricordano, inoltre, che lartista prese parte nel 1724 agli allestimenti commemorativi connessi alla morte di Cosimo III de Medici (B. Riederer-Ghros, op. cit., pp. 225 e 236) e nel 1729 collaborò attivamente con il celebre bronzista Massimiliano Soldani Benzi alla realizzazione del maestoso Monumento funebre di Manoel de Vihlena, destinato alla chiesa maltese di San Giovanni a La Valletta (K. Lankheit, FlorentinischeBarockplastik. Die Kunst am Hofe der letzen Medici. 1670-1743, Mü 1962, p. 313 doc. n. 517).Artista perfettamente integrato agli orientamenti stilistici fiorentini del suo tempo, Vanneschi mostrò un elegante linguaggio operativo, nel quale convivevano, mirabilmente, accostamenti alle composizioni di ascendenza fogginiana e soldaniana e analogie tipologiche legate, soprattutto, a maestri come Fortini e Girolamo Ticciati, molto apprezzati nella Firenze di inizio Settecento. Come per la terracotta con il Trionfo di Nettuno e Anfitrite, loperaattesta contatti stilistici stringenti con il linguaggio di alcuni dei più interessanti scultori fiorentini primo-settecenteschi, tra i quali appare sufficiente citare, in questo contesto, Giovanni Baratta e il già menzionato Tacciati.
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