Importanti Maioliche Rinascimentali

1 OTTOBRE 2015

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0046
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
Ore 17.00
Esposizione

FIRENZE
24 Settembre al 1 Ottobre2015
orario 10 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1500 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 65
65

TARGA

SAN QUIRICO D'ORCIA (SIENA), BARTOLOMEO TERCHI, 1717-1724

Maiolica dipinta in policromia con giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 1,6; lunghezza cm 52; larghezza cm 29.  

Un’antica etichetta cartacea incollata sul retro reca scritto in corsivo con inchiostro nero  “[…] de David in /magiolica di Rafael, o/ di Giulio Romano/ 84”.

 

Il corpo ceramico è composto dall’unione (a crudo) di tre piastre in terracotta chiara, rivestito da uno strato sottile di smalto stannifero sul fronte. Vi si notano sul retro due leggere colature. Due sottili linee nere profilano i margini nei lati minori del quadro pittorico. L’albero e le zolle di terra ondulate, che impostano la composizione in primo piano, sono dipinte in scuro bruno di manganese e in verde ramina. L’intera scena figurata è disegnata con una linea in bruno di manganese sottile e leggera, con la coloritura acquarellata in giallo-bruno degli incarnati e in azzurro-bruno di molte vesti. Arricchiscono un poco il cromatismo della scena effetti minori di cangiantismi in azzurro-giallo e qualche piccola zona tessile colorata in verde ramina. Al contrario, dominano il sistema visivo i campi gialli del carro e della cassa lignea. Le pennellate, che avrebbero dovuto lumeggiare diverse forme, hanno fatto difetto durante la cottura brunendosi probabilmente a causa della presenza di smalto stannifero: lo possiamo notare soprattutto nella veste della figura reale sul carro.

In questa lastra sono dipinti due episodi biblici, Il trionfo di Davide sugli Assiri e Il passaggio con l’arca dell’alleanza attraverso il fiume Giordano (1), composti in un unico corteo trionfale dell’ingresso di David a Gerusalemme, trionfante sui barbari, in un carro prezioso e, alle sue spalle, il trasporto dell’Arca dell’Eterna Alleanza in una cassa lignea dorata.

Ambedue sono derivati dagli affreschi di Raffaello Sanzio nelle Logge Vaticane, tramite le celebri incisioni di Nicolas Chaperon (1612-1656) del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649.

La scena dipinta sulla maiolica mostra una notevole cura nel ripetere la posizione delle figure e dei cavalli in modo fedele al modello grafico. La qualità disegnativa è alta nelle figure protagoniste, ma diventa ben più corsiva nei volti delle figure secondarie. Il forte tronco frondoso e il corpo dei cavalli sono modellati con un sapiente chiaroscurare steso a piccoli tratti sottili, paralleli e talvolta incrociati. Nel blu le pennellate sono più diluite e il colore ha un tono celeste chiaro.

Questa targa è stata esposta all’importante mostra di storia della ceramica tenuta a San Quirico d’Orcia nel 1996. Allora apparteneva a una collezione privata ferrarese. Gianni Mazzoni, che ne compilò la scheda di catalogo, lo attribuì alla produzione di Bartolomeo Terchi degli anni ’20 del XVIII secolo a San Quirico o Siena (2). 

Bartolomeo Terchi era nato a Roma nel 1691 nel quartiere di Trastevere, forse da una famiglia di “vascellari” (3).  Nel 1717, ventitreenne, era giunto nel senese, a San Quirico d’Orcia, per lavorare nella bottega ceramica dei marchesi Chigi, producendo pezzi istoriati di alta qualità. Il suo grande successo artistico lo fece rimanere a lungo attivo in ambito chigiano, sfornando anche molte ceramiche destinate ai Medici, e trasferendosi a Siena nel 1725 per ben dieci anni. Piatti, piastre e grandi vasi decorati con scene figurate derivate da incisioni rinascimentali e barocche appartenenti alla collezione Chigi sono oggi esposti a Palazzo Chigi Saracini a Siena (4). Nel 1735 Bartolomeo, raggiunto e superato dal Campani, lasciò la Toscana per tornare in Lazio: è documentata la sua attività ceramica a Bassano di Sutri fino al 1753, poi a Roma e, nel 1766, a Viterbo (5).

Su una piastra rettangolare in maiolica, firmata “Bar: Terchi Romano/in San Quirico” ed esposta al Louvre (6), è dipinta una scena con Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Questo pezzo, proveniente dalla collezione Campana, venne acquisito dai musei nazionali francesi nel 1861. Lo stile pittorico e, soprattutto, il disegno dei volti delle figure secondarie mostrano un’assoluta coerenza con quelli del nostro pezzo.

Questo ci permette di considerare la nostra lastra dipinta tra il 1717 e il 1725 a San Quirico d’Orcia, forse nel primo periodo. Ravanelli Guidotti ha pubblicato un’altra lastra  stilisticamente affine conservata in un museo di Rouen che raffigura Mosè che mostra le tavole della legge (7).

La stessa scena raffaellesca col carro dorato di David è visibile su due grandi piatti senesi ma pittoricamente diversi perché opera di Ferdinando Maria Campani, il massimo concorrente di Bartolomeo Terchi. Uno, firmato e datato 1749 (8), porta lo stemma della Marchesa Rockingham del Wentworth Woodhouse, Yorkshire (9). L’altro, conservato in una collezione privata italiana, mostra la stessa scena dipinta con pari qualità artistica e con maggior carica cromatica (10).

Raffaella Ausenda  

 

 

1 Giosuè, 3 e 5.

2 MAZZONI in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 4 n. 4. In quell’occasione la rivista “CeramicAntica” del Giugno 1996 le dedicò la quarta di copertina (Anno VI, n. 6 (61)).

3 Fondamentali gli studi di PELLIZZONI-ZANCHI 1982 e di ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.

4 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, pp. 28-34 e 196-197.

5 S. Angeli, Non avere altro impiego e professione che quella di fabricatori di maioliche: Bartolomeo e Antonio Terchi e la ceramica viterbese del Settecento, in “Vascellari: rivista di storia della tradizione ceramica”, Anno 1, n. 1 (gen.-giu. 2003), pp. 142-163).

6  Di dimensioni cm 44 x 61, inv. n. OA 1852; GIACOMOTTI 1974, p. 458 n. 1357.

7 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 30.

8 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 79 n. 66.

9 Vedi piatto con lo stesso stemma e la scena allegorica de La Verità svelata dal Tempo, conservato all’Ashmolean Museum di Oxford.

10 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 97, e in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 13 n. 20.

 

 

 

Stima   € 12.000 / 16.000
Aggiudicazione  Registrazione
64

PIATTO TONDO

SIENA, FERDINANDO MARIA CAMPANI, 1733-1745

Maiolica dipinta in policromia con bruno di manganese, verde ramina, giallo antimonio e blu di cobalto.

Alt. cm 2,6; diam. cm 25,8; diam. base cm 18.

Iscrizione in corsivo nero che corre sul retro lungo l’orlo interno della tesa Iacob ad puteum vidit rachel; et adaquato grege, indicavit et, quod frater esset patris sui; tre piccole etichette con cornice blu, su una è leggibile il numero ‘63’.

 

 

Piatto tondo con orlo liscio, ampia tesa orizzontale, corta balza e ampio cavetto. Il retro è interamente rivestito da un leggero strato di smalto stannifero che mostra sulla tesa pulci e i segni lasciati dai distanziatori di cottura. Attorno alla balza corre la scritta Iacob ad puteum vidit rachel; et adaquato grege, indicavit et, quod frater esset patris sui in corsivo nero di accurata calligrafia. L’orlo è color nocciola con un filetto bruno di manganese. Il dipinto è stato eseguito con i colori a gran fuoco sapientemente accostati. La scena è dominata dal blu dai toni molto forti nelle vesti delle figure e molto sfumati nel paesaggio, nelle lontane cime montuose, nel cielo; il modellato degli incarnati e del pellame animale è realizzato in giallo e bruno; tocchi di verde olivastro e smeraldo creano il prato, le fronde arboree e i ciuffi fogliati. Ed infine un sottile ripasso in bruno accentua i contorni delle figure e tocchi lumeggiati in giallo su prato e paesaggio ne vivacizzano il chiaroscuro.

In primo piano a destra, protagonista della scena istoriata, un giovane forte uomo barbuto con veste blu e manto giallo esprime fisicamente sorpresa nel vedere due giovani donne che si tengono per mano, circondate da pecore e capre che si abbeverano al pozzo. Come ci indica la scritta sul retro, è illustrata la scena della Bibbia (1) in cui si narra del primo incontro di Giacobbe con la bella cugina Rachele che, con la sorella Lia, aveva portato il gregge alla fonte. Giacobbe accettò di servire lo zio Làbano per sette anni per poterla sposare.

La scena figurata deriva fedelmente da un riquadro dell’affresco di Raffaello Sanzio su una volta della Loggia Vaticana (1517-1519). L’incisione ad acquaforte di Nicolas Chaperon, che la riprende, fa parte del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649 con 52 incisioni numerate. La nostra scena è la n. 22 e reca sotto il riquadro figurato la scritta: “Jacob ad puteum, vidit Rachel, et adaguato grege, indicavit ei/quod frater estet patris fui.Gen XXIX”: la scritta ripresa sul retro del piatto.

Vi sono alcuni piatti di maiolica dipinti nello stesso codice formale con scene derivate dalla medesima serie di incisioni raffaellesche e che recano l’iscrizione di identico tipo. Tre portano anche la firma dell’artista senese Ferdinando Maria Campani e la data “1733”. Un piatto che mostra raffigurata la colonna di nubi nell’accampamento ebraico è conservato al Kunstgewerbe Museum di Berlino (2). Due sono al British Museum di Londra: uno rappresenta la Creazione del Sole e della Luna, l’altro la Creazione di Eva (3). Un altro bellissimo pezzo con dipinto il Giudizio di Salomone raffaellesco porta la scritta sul retro ma non la data e firma dell’artista, come il nostro (4).

Ferdinando Maria Campani, nato a Siena nel 1702, era un pittore ad olio, considerato un buon ritrattista e copista di capolavori: sappiamo che aveva eseguito opere per incarico di Violante di Baviera, Principessa di Toscana (5).

Non ha ancora trovato una spiegazione documentaria il suo passaggio alla maiolica e l’assoluta coerenza stilistica con la formula decorativa di Bartolomeo Terchi, il celebre ceramista romano documentato attivo a Siena dal 1725. Gli studiosi ipotizzano che Campani sia stato tecnicamente educato alla decorazione su maiolica dal Terchi, già al servizio della famiglia Chigi da diversi anni a San Quirico d’Orcia (6). La passione per il revival della maiolica istoriata voluta dai Chigi e da Violante di Baviera porta il suo talento di copista alla ceramica.

Per un’altra serie di piatti “per S.A.R.”, forse la stessa Violante, i documenti senesi provano la volontà del “Campani Pittore da piatti” di far acquistare zaffera di alta qualità per fare “un buon turchino” che a Siena non si trovava, e di lamentarsi di “nol può copiare giusto stante la mancanza del color rosso che fa un gran pregiudizio all’originali” (7). E ancora nel 1748 sono registrati pagamenti dei Chigi diretti al Campani per “varie pitture di piatti di coccio situati appesi nelle sale della villa di Centinale opere assai graziosamente colorite e ragionevolmente disegnate” (8).

Il nostro piatto finemente istoriato, come i suoi simili, dal brillante blu apparteneva certamente ad una serie nobile.

Ancora oggi, molti considerano Ferdinando Maria Campani “the finest maiolica artist of the eighteenth century” (9).

 

Raffaella Ausenda

 

1 Genesi, 29, 9-20.

2 Inv. K2164, firmato “1733 Ferdinando Maria Campani Senese dipinxe” (PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 81 n. 68; HAUSMANN 1972, n. 307).

3 ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, p. 197.

4 Già collezione privata milanese: PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 77.

5 Vedi ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996; ANSELMI ZONDANARI, in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.

6 A. Cornice, voce, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 17 (1974).

7 2 agosto 1736, vedi G. Mazzoni, Regesto, doc. Archivio Monte dei Paschi, Archivio Sansedoni, in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 89.

8 G. Mazzoni, Cenni su B. Terchi e F. M. Campani, in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 1996, p. LVI doc. 1748; RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 196.

9 WILSON 1989, p. 76.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
63

GRANDE PIATTO

MANISES (VALENCIA) O SIVIGLIA, METÀ SECOLO XVI

Maiolica decorata in lustro dorato e blu di cobalto.

Alt. cm 16; diam. cm 38,6.
 

Il grande bacile mostra una forma tonda concava profonda, con tesa obliqua molto accentuata. Il cavetto è fondo e centrato da un umbone rilevato, a sua volta rimarcato da un motivo ad anello sottolineato in blu.

Il piatto è interamente rivestito anche sul retro da uno smalto stannifero color avorio decorato a lustro. L’ornato in blu si ripete sulla tesa, decorata da una sottile doppia linea sinuosa. Il blu è stato utilizzato per suddividere la decorazione, che è comparsa solo a seguito della seconda cottura.

Il decoro a foglie bipartite, intervallate simmetricamente da un rametto anch’esso fogliato, si ripete lungo la tesa e nel cavetto. Al retro un caratteristico motivo decorativo a “foglie di felce”, tipico dei decori di questo periodo storico, nell’incavo che si forma in corrispondenza del cavetto e si fa più accentuato con un fiore stellato o ruota, anch’esso tipico di questa fase di produzione. In base alla decorazione, che sul fronte riprende il motivo cosiddetto “ad arbusto” e sul retro un motivo tipico della serie popolare, possiamo ipotizzare una probabile datazione riconducibile alla fine del XVI secolo. Il piatto è comunque poco comune tra quelli pubblicati e presenti nelle collezioni italiane. Sebbene non mostri stemmi al centro dell’umbone, ha mantenuto ancora il gusto più arcaico per la bicromia grazie all’utilizzo dell’azzurro.

Il decoro del retro, di derivazione più antica, è spesso presente anche su pezzi chiusi, come gli albarelli, quale motivo secondario in associazione a decori più consistenti come la foglia (1).

Gli esemplari di confronto mostrano molteplici varianti del fronte, mentre si ha una maggiore uniformità per il decoro del retro, che come già detto ci aiuta nella datazione, da collocarsi intorno alla metà del secolo XVI. La forma della tesa, liscia e priva di baccellature, che richiama i bacili metallici, non è molto comune e la ritroviamo in alcuni piatti (2) delle Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano. Il primo piatto, con decoro semplificato a grossi “nastri annodati” su un motivo a piccole spirali, mostra una grande sobrietà compositiva che gioca sul contrasto con alcuni tocchi di blu. Il secondo è più coerente con il progetto compositivo del nostro, con un ripetersi simmetrico di motivi ad alberelli alternati a metope dal decoro geometrico. Entrambi i confronti si possono datare alla fine del secolo XVI.

 

1 CAVIRÒ 1991, p. 184 e p. 195 per il decoro sul retro del piatto.

2 CAVIRÒ in AUSENDA 2002, pp. 260-261 nn. 362 e 364.

 

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
62

VASO

MANISES (VALENCIA), METÀ CIRCA DEL SECOLO XVI

Maiolica decorata in lustro dorato e blu di cobalto.

Alt. cm 13; diam. bocca cm 21; largh. massima cm 25; diam. base cm 17,2.

Sotto la base etichetta quadrata stampata con la scritta “EXPOSITION NATIONALE/ DE CÉRAMIQUE/ 1897/ SECTION RETROSPECTIVE” e a mano “356”. Altra etichetta rotonda stampata della COLLECTION IMBERT ROME, al centro numero scritto a mano poco leggibile.

 

Il vaso è prodotto al tornio e presenta un corpo cilindrico appena rastremato verso la base, che si presenta a fondo piano. La bocca si apre larga e aggettante con una tesa obliqua e un orlo arrotondato. Dall’orlo partono tre anse a S dal profilo cilindrico, che scendono fino al corpo.

Il rivestimento, in smalto stannifero color avorio, è ricoperto da una decorazione a lustro di colore rosso ramato che interessa l’intera superficie del vaso, anche nella parte interna. Il decoro è meno curato all’interno del contenitore, con un motivo a larghe foglie e spirali, e con puntinature a riempire i campi vuoti. Sulla tesa corre un motivo a piccoli fioretti quadripetali con lunghi pistilli e gambo fogliato dall’andamento mosso. Sul corpo, sui due lati principali, si scorge il tipico decoro a pardalot, circondato da fioretti sinuosi e puntinature. La base è anch’essa decorata con un motivo naturalistico dipinto con maggior rapidità. Il decoro deriva dal prototipo dei pardalot, da rintracciare quasi certamente nel tipo dell'aquila raffigurata sul rovescio di piatti valenciani della prima metà del IX-X secolo. Una stilizzazione di questo genere, evolvendosi nel tempo, diviene di uso comune sui prodotti valenciani fra il XII e il XVIII secolo.

Le decorazioni della parte interna del vaso e della base sono campite a lustro secondo modalità già tarde della produzione ispano-moresca. Invece, i due tipici uccelli dipinti sul fondo puntinato del corpo presentano tratti stilistici ancora antichi e non la tipica stilizzazione a fasci di linee secondo l’evoluzione del decoro. Per queste caratteristiche, ci pare di poter ascrivere l’opera ancora a una fase precoce o comunque di transizione.

La produzione valenciana di ceramiche a lustro metallico fu grandemente apprezzata nel Rinascimento italiano e le importazioni di maioliche iberiche estremamente ricercate, tanto che i pezzi decorati a lustro costituirono uno status symbol ambito dalle corti europee e ispirarono produzioni emulative in Italia. Con il Romanticismo e il sorgere del gusto per l’Oriente si scatena in Europa un collezionismo animatissimo di questo tipo di oggetti. La Spagna diventa di moda e la ceramica medievale a riflesso metallico diviene paradigma del collezionismo orientaleggiante (1). Non ci stupisce dunque l’esistenza di un’opera a lustro nella collezione Imbert ma, soprattutto, la presenza della stessa opera all’Exposition nationale de la céramique et de tous les arts du feu (Palais des Beaux-Arts du 15 mai au 31 juillet 1897).

Un esempio più recente di questo tipo di collezionismo è costituito dalla vasta raccolta di maioliche ispano-moresche donata al museo di Palazzo Venezia a Roma dall’antiquario romano Gustavo Corvisieri (2).

 

1 CASANOVAS 1996, pp. 42-60.

2 SCONCI-TORRE 2008.

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
61

PIATTO

VENEZIA, ULTIMO QUARTO DEL XVI SECOLO

Maiolica dipinta in monocromia blu su fondo smaltato berettino molto scuro; tocchi di bianco di stagno.

Alt. cm 3; diam. cm 22,2; diam. piede 9,1.

 

Il piatto, con cavetto poco profondo e non particolarmente marcato, ha una tesa ricurva ad orlo estroflesso e poggia su un piede ad anello largo e poco rilevato. È interamente coperto da uno spesso strato di smalto berettino di colore azzurro cupo, dalla superficie brillante, che mostra qualche piccola bollitura.

La decorazione, che si sviluppa sull’intera superficie, mostra la raffigurazione di un paesaggio caratterizzato dalla presenza di architetture con edifici dal tetto a cuspide, finestre alte rettangolari e finestre ad occhi di pernice. I gruppi di edifici sono valorizzati dalla presenza di alte torri dalla copertura cuspidata sulla destra, e con una cupola a cipolla dal carattere orientaleggiante al centro e sullo sfondo, con un’allusione forse a dei minareti. Gli elementi naturalistici del paesaggio sono un vasto prato con ciuffi d’erba e ciottoli all’esergo e uno scoglio dal profilo arrotondato che svetta al centro di una baia abitata da piccoli velieri. Nel cielo, ombreggiato da piccole nuvole, volano alcuni uccelli.

Il verso del piatto mostra una decorazione a pennellate radiali attorno al piede, invece del più comune motivo cosiddetto “a cestello”.

Il decoro “a Paesi” è molto diffuso nel tardo Cinquecento a Venezia e in tutto il Veneto (1) e i  confronti sono pertanto numerosi, al punto che si può applicare una distinzione stilistica: gli esemplari più antichi mostrano un tratto più sottile, più accorto e calligrafico, che via via si sgrana negli esemplari più recenti. La lumeggiatura attenta e la precisione nel delineare le architetture è per Saccardo un elemento che sparisce negli esemplari più tardi.

I pezzi dei servizi mostrano decori simili a quello esposto sul piatto in studio, ma con modalità morfologiche, pittoriche e stilistiche differenti: lo studio di Saccardo, Camuffo e Goffo ci suggerisce alcuni esemplari di confronto (2); una scodella con decoro simile, ma con caratteristiche pittoriche meno calligrafiche, è conservata nella Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano (3). Il nostro piatto si distingue però dalla maggior parte degli esemplari in studio per la presenza di un paesaggio lagunare, raro e solitamente sostituito da dettagli di gusto rovinistico (4). Senza voler paragonare il livello eccezionale raggiunto dalle architetture raffigurate sul grande piatto del Museo dell’Ermitage (5), riteniamo che la presenza di architetture all’orientale e lo stile molto curato nell’esecuzione giustifichino l’inserimento del nostro piatto in una fase produttiva abbastanza precoce e pertanto nell’ultimo quarto del secolo.

Anche questo piatto è stato pubblicato da Alverà Bortolotto nel suo studio monografico sulla maiolica veneta e compare tra i piatti presenti alla mostra tenutasi a Milano negli anni ‘80 dello scorso secolo, dedicata alle immagini architettoniche nella maiolica del Cinquecento (7), e nel catalogo della mostra sulle maioliche veneziane del Cinquecento che si svolse, sempre a Milano, negli anni novanta dello scorso secolo (8).

 

 

1 Si pensi all’attività di Maestro Alvise a Treviso, in ERICANI-MARINI 1990, pp. 230-232.

2 SACCARDO-CAMUFFO-GROSSO 1992.

3 SACCARDO in AUSENDA 2000, pp. 289-290 n. 317.

4 SACCARDO in AUSENDA 2000.

5 IVANOVA 2003, p. 134 n. 123.

6 ALVERA' BORTOLOTTO 1981, tav. CXI.

7 BERNARDI 1980, p. 37 nn. 38.

8 CANELLI 1990, n. 24.

 

 

Stima   € 16.000 / 20.000
60

PIATTO
VENEZIA, BOTTEGA DI MASTRO DOMENICO 1570 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 6,5; diam. cm 34,5; diam. piede cm 10,9.

Sul retro del piatto compare l’iscrizione in blu di cobalto La grecia romana.Ce/fu viollata da tran/. quino.

 

Il piatto ha un cavetto profondo, un’ampia tesa e poggia su una base ad anello. La decorazione riveste completamente lo smalto stannifero sul fronte del pezzo, occupando tutto lo spazio senza soluzione di continuità, a dimostrare la grande perizia tecnica del pittore, capace di disporre la scena anche nel cavetto senza creare alcuna perdita di prospettiva. Le figure sono disegnate con tocchi in bruno di manganese, ad eccezione di quella di Lucrezia, che ha forme meno rigide ed è pittoricamente più debole rispetto ai personaggi maschili: si noti come sembri perdere consistenza all’altezza dei piedi.

La scena, drammatica, si svolge in un porticato dalla fitta pavimentazione a mattonelle: alle spalle delle figure un tavolo apparecchiato è collocato davanti all’ingresso di un palazzo con un fornice a volta e alcuni archi in rovina sullo sfondo. In lontananza si nota una città turrita ed un monte dalla forma irregolare, con un foro al centro attraverso il quale s’intravede il tramonto. Le figure sono raccolte attorno alla protagonista ormai morta: un soldato le sorregge le spalle, un giovane la guarda con fare disperato, mentre una fanciulla si porta un fazzoletto agli occhi asciugandosi le lacrime e un personaggio barbato accorre ai richiami. Il verso reca un sottile strato di smalto, che assume un tono beige, con alcuni difetti di cottura; lo smalto spesso con vaste colature è decorato con cinque filetti gialli che profilano e ornano la tesa incorniciando l’anello d’appoggio sottile e cilindrico. Il fondo del piede smaltato presenta l’iscrizione in blu: La grecia romana.Ce/fu viollata da tran/. quino.

La vicenda narrata è quella della morte di Lucrezia, descritta da Valerio Massimo nell’opera Atti e detti memorabili degli antichi romani, che diviene simbolo della resistenza alla tirannia o alla sottomissione a costo della vita pur di mantenere il proprio onore. L’episodio è narrato anche da Tito Livio (1): la virtù di Lucrezia nota a tutti i romani e vanto del Marito Collatino, fu violata dal malvagio Sesto Tarquinio, figlio del tiranno Tarquinio Prisco; la donna, presa da vergogna, si uccise davanti al marito e agli amici Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio, non prima di aver chiesto vendetta. Il marito Collatino, per vendicarsi, guidò quindi una sommossa popolare che cacciò via i Tarquini da Roma.

La scena è tratta dall’incisione di Georg Pencz (2) (fig. 1), realizzata tra il 1546 e il 1547, e spesso utilizzata in maiolica da più botteghe rinascimentali. Si veda per esempio come la stessa immagine sia stata riprodotta in una riserva nel centro di uno splendido vassoio urbinate della bottega di Orazio Fontana databile agli anni ‘70 del Cinquecento (3).

Il piatto è conosciuto e trova pienamente riscontro nella produzione della bottega di Domenico de Betti, Mastro Domenico, nel periodo attorno agli anni ‘70 del Cinquecento. Un confronto comunque ci viene dal bel piatto con la Morte di Pelia, del museo di Monaco (4), nel quale la distribuzione dello spazio tra le figure e le architetture, lo scorcio paesaggistico e lo stile, seppure meno calligrafico, molto si avvicinano a quelli del nostro esemplare.

Il piatto è stato pubblicato da Alverà Bortolotto (5) nel suo studio monografico sulla maiolica veneta, e compare anche pubblicato tra i piatti presenti alla mostra tenutasi a Milano negli anni ‘80 dello scorso secolo e dedicata alle immagini architettoniche nella maiolica del Cinquecento (6).

 

1 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, I, 58, 6-12.

2 BARTSCH 1803-1821, VIII, p. 342 n. 79.

3 MARINI 2012, p. 250-253 n. 34.

4 HAUSMANN 2002, p. 214 n. 86.

5 ALVERA' BORTOLOTTO 1981, tav. XCV c.

6 BERNARDI 1980, p. 33 nn. 31 l’incisione e 32 il piatto.

 

 

Stima   € 30.000 / 40.000
59

TONDINO, VENEZIA, MASTRO JACOPO DA PESARO, 1540 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero-marrone con tocchi di bianco di stagno su fondo azzurrato.

Alt. cm 2,9; diam. cm 19,8; diam. piede cm 8.

Sigla sulla tesa MJ  o mL (?)

 

Il piatto, con piede ad anello poco rilevato, presenta un profondo cavetto e una larga tesa leggermente inclinata. Sul recto, si osserva una decorazione nei toni del grigio-azzurro su fondo blu: al centro del cavetto una testa femminile spicca sullo sfondo di scudi e flauti, contornata nello stacco tra cavetto e tesa da una fascia bianca a risparmio. La tesa ripropone il disegno a grisaille a trofei con panoplie e strumenti musicali, nella parte inferiore un cartiglio con note musicali, mentre sul lato destro si legge una sigla con due lettere incrociate, forse MJ, per alcuni leggibili come mL (1).

Il retro del piatto mostra un motivo decorativo “alla porcellana” realizzato a punta di pennello in blu, che corre tra la tesa e il cavetto attorno al basso anello di appoggio, su fondo di smalto appena azzurrato.

Il volto al centro, con la bocca chiusa, labbra piene e naso sottile, è dipinto con grazia in un atteggiamento malinconico: gli occhi appena abbassati rivolti a destra. Le guance, la fronte e il mento sono lumeggiati con sottili tratti di stagno che ne arrotondano i contorni. La stessa tecnica, a tratti sottili, si estende per tutta la decorazione, esaltando la luminosità dei trofei e dando al piatto un colore metallico che spicca sul fondo blu, a sua volta realizzato con perizia tecnica pittorica che crea un fondo cupo con pennellate sicure e mano ferma, al punto da lasciare a risparmio le aree interessate dal decoro principale e dai sottili nastri svolazzanti che riempiono le campiture attorno alla raffigurazione principale.

Questo ornato appartiene alla decorazione “all’antica”, detta “a trofei”: fortunato motivo delle maioliche rinascimentali a Venezia e in tutta Italia (2), diffuso attraverso le incisioni (3).

Un riscontro calzante si trova in un piatto con trofei con armi, strumenti musicali e geografici pubblicato da Timothy Wilson nel 1996 (4). Il piatto, allora attribuito alla bottega di Maestro Ludovico, è datato 1537 e mostra caratteristiche stilistiche e tecniche sovrapponibili all’opera in esame: il volto al centro del piatto e lo stesso stile del decoro coincidono in modo particolare con il nostro esemplare.

Molto simili anche due piatti pubblicati dalla compianta Alverà Bortolotto (5), che presentano caratteri disegnativi quasi sovrapponibili ai nostri, tra i quali il grande piatto con trofei d’armi del Victoria and Albert Museum (7) nel quale il largo cavetto mostra un trofeo d’armi pieno di elementi, tra i quali riconosciamo i tamburi, gli schinieri, la lorica disegnata dall’alto verso il basso e soprattutto, nella tesa, elementi con lettere e sigle non meglio riconoscibili. Di stile più calligrafico il tondino comparso recentemente sul mercato, datato 1544, sempre attribuito e pubblicato come opera della bottega di Mastro Ludovico a Venezia. E ancora il tondino transitato sul mercato newyorchese  (8) qualche anno fa con l’iscrizione R.E.V. E. N mostra caratteristiche stilistiche molto vicine a quelle dell’esemplare in analisi.

I piatti citati hanno tutti sul retro un decoro a ghirlanda “ alla porcellana” di chiara ispirazione cinese. Questo motivo decorativo, presente anche su un’opera celeberrima del Victoria and Albert Museum con decoro “a cerquate“ in monocromia azzurra, marcato nella bottega veneziana di Mastro Ludovico e datato “1540” al centro di una corona fiorita “alla porcellana” (9), è stato spesso associato ad opere di questo genere decorativo.

Già nello studio della Alverà Bortolotto era peraltro stata messa in luce la difficoltà attributiva tra le botteghe veneziane presenti nella città nella prima metà del Cinquecento, data la grande uniformità tecnica e materica delle opere prodotte. Ma il recente studio di Elisa Sani fa chiarezza aiutandoci in un’attribuzione più certa alla bottega di Mastro Jacomo da Pesaro operativa a Venezia dal 1506-1507 fino alla morte dello stesso, avvenuta nel 1546 (10). Oltre ai documenti di archivio che ci testimoniano l’attività della bottega e la presenza a Venezia in Contrada San Barnaba del Maestro, un discreto numero di esemplari firmati stilisticamente coerenti suffragano l’ipotesi che i piatti fino ad ora attribuiti alla Bottega di Mastro Ludovico siano in realtà prodotti nella bottega di Mastro Jacomo. La studiosa ipotizza che l’opera di Ludovico sia, di fatto, un evento episodico, cosa che spiega l’assenza di documenti di archivio sulla manifattura, o forse l’opera di un “ fuoriuscito” dalla bottega madre del maestro pesarese.

L’osservazione delle opere ci porta poi a definire degli assortimenti differenti, tutti di alto rigore tecnico-stilistico con scelte di sintassi decorative differenti, ma accomunati dalla scelta cromatica, dalla cura di soluzioni tecniche come il bianco sopra bianco, e soprattutto dalla scelta decorativa sul retro del motivo “alla porcellana” di chiara ispirazione cinese, che fece di questa produzione un cavallo di battaglia delle botteghe lagunari fino alla metà circa del Cinquecento.

Il piatto è stato esposto e pubblicato sul catalogo della mostra tenutasi alla Galleria Canelli di Milano nel 1990 (11), dove risulta ancora attribuito al Maestro Ludovico.

 

 

1 ALVERÀ BORTOLOTTO 1990, n. 1.

2 LESSMANN 1979, pp. 783-784 n. 600; RAVANELLI GUIDOTTI 2006, pp. 118-123.

3 Come già ricordato per il piatto simile in ANVERSA in PANDOLFINI 2014, pp. 246-249 lotto 56 e bibliografia relativa.

4 WILSON 1996, pp. 422-424 n. 163.

5 Alverà Bortolotto 1981, tav. LXVII a-b.

6 RACKHAM 1977, p. 327 n. 969 (inv. 1572-1855).

7 PANDOLFINI, Firenze 27 novembre 2014, p. 30 lotto 36 e bibliografia relativa.

8 SOTHEBY’S, New York, 27 gennaio 2011.

9 RACKHAM 1940, p. 324 n. 960. Inv. 4438-1858.

10 SANI 2014, pp. 74-87.

11 CANELLI 1990, n. 1.

 

 

Stima   € 28.000 / 35.000
58

ALBARELLO

NAPOLI, MAESTRO DELLA CAPPELLA BRANCACCIO (ATTR.), 1470-1480

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, bruno di manganese nei toni del marrone, violaceo e del nero.

Alt. cm 34; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 10.

 

L’albarello ha forma cilindrica appena rastremata al centro, con spalla e calice angolati, collo breve con orlo estroflesso tagliato a stecca e piede appena concavo tanto da poggiare solo sui bordi esterni, aggettante all’esterno. Lo smalto che ricopre l’intera superficie è povero, di colore bianco-crema con inclusioni, ruvido al tatto, e presenta bolliture prevalentemente sul collo e crettature; l’interno non è smaltato.

Il collo del vaso è interamente decorato con un bel motivo a palmette a ventaglio, motivi puntinati e semi-palmette a ventaglio, racchiuse in un archetto e alternate a piccole foglie trilobate, mentre la spalla è rimarcata da righe blu e gialle. Il corpo è interessato, nella parte anteriore, dalla raffigurazione di un uccello fantastico dal viso di giovinetto (1), ritratto di profilo e conchiuso in una cornice che ne segue i contorni. Intorno si estende un motivo a foglie accartocciate con spirali e punti dipinti a riempimento degli spazi vuoti.

Il volto è abilmente ombreggiato con sottili pennellate, il lungo collo abbellito da una fascia gialla, il piumaggio realizzato con una stesura del pigmento diluita con diversa densità sia sulle ali, sia sul corpo.

Il sistema di incorniciare le figure in una riserva che ne circonda i contorni è tipico del primo Rinascimento e sembra interessare trasversalmente tutte le manifatture italiane del periodo.

Guido Donatone, che ha pubblicato l’opera (2), nel confronto con una piastrella del Pavimento Gaetani di Capua, sottolinea la rarità della tecnica lavorativa, e segnala come anche le foglie che decorano il verso trovino riscontro in ambito napoletano nel retro dell’albarello con probabile profilo del Sannazaro (3) e con altri pavimenti poi attribuiti allo stesso pittore: proprio su queste basi ha avanzato l’ipotesi di una produzione napoletana. Lo stesso studioso affianca l’opera a un albarello del Museo del Bargello (4) con il profilo di un airone, con caratteri peculiari simili a quelli che si riscontrano nelle opere del Maestro della Cappella Brancaccio, escludendo di conseguenza l’attribuzione dello stesso a botteghe pesaresi.

Un albarello della medesima tipologia, e con attribuzione analoga, è recentemente transitato sul mercato (5): la morfologia, le dimensioni importanti e il decoro secondario a foglie accartocciate avvicinano i due esemplari e ci sostengono nell’attribuzione. Le precedenti assegnazioni ad ambito faentino, romano (6) o siciliano (7) sono ormai superate.

Anche per questo esemplare ci pare corretta la datazione suggerita dal confronto con i vasi con stemmi aragonesi recanti le armi di Alfonso II d’Aragona e della moglie Ippolita Sforza, che ci danno un’indicazione cronologica compresa tra il 1465 e il 1484 (8).

Il nostro albarello, ancora con attribuzione ad ambito toscano o faentino, è transitato sul mercato in un’asta Sotheby’s a Milano nel 1997 (9).

 

1 Un animale fantastico ancora legato alle rappresentazioni simboliche di gusto medievale o di derivazione orientale, variante dell’arpia o della sirena classiche con il corpo d’uccello e il volto di donna e della simbologia a esse correlata. O forse una rilettura occidentale di un mito orientale come per esempio quello dell’uccello Garuda: un uccello dal volto umano usato da Vishnu come cavalcatura.

2 DONATONE 2013, p. 44, tavv. 31a, 37d.

3 DONATONE 1993, tav. 117b.

4 CONTI 1971, n. 584.

5 ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p. 264 n. 60.

6 DE RICCI 1927, n. 42 per il nostro esemplare e nn. 39-47 per il gruppo.

7 GIACOMOTTI 1974, nn. 96-98; BORENIUS 1931, tavv. VII.A, VII.B e p. 5.

8 DE VASSELLOT 1903, pp. 338-343 n. 97.

9 SOTHEBY’S, Milano 11 giugno 1997.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
57

PIATTO

CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-89

Maiolica ricoperta di smalto blu di cobalto, con decoro in oro e bianco di stagno.

Alt. cm 4; diam. cm 28,4; diam. piede cm 10.

Sotto il piede, tracce di etichetta con scritte a mano poco leggibili in inchiostro nero.

 

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo con tesa obliqua,  poggia su un piede ad anello appena accennato ed è interamente ricoperto da smalto blu intenso che lascia scoperto solo il cercine del piede. Al centro del cavetto compare lo stemma del Cardinale Farnese con i sei gigli blu in campo d’oro, sormontato dal cappello cardinalizio con sei nappe e racchiuso in una cornice dipinta in bianco di stagno; intorno, il caratteristico motivo a fiori quadrangolari accompagnati da un decoro a groppi. Sulla tesa il motivo si ripete in una ghirlanda continua.

La storia di questa fornitura è ormai nota grazie all’esposizione dedicata alle collezioni e al servizio con stemma Farnese (1): il servizio fu eseguito in più riprese tra il 1574 e il 1589, anno della scomparsa del Cardinale Alessandro Farnese. L’attribuzione alle officine di Castelli (2), unanimemente accettata, si basa sul confronto con frammenti emersi dagli scavi condotti nella città abruzzese e trova riscontro in due opere del Museo di Capodimonte in cui compare una sigla interpretabile come Castellorum (3). Le varianti morfologiche e stilistiche tra le opere in “turchina” lasciano però aperti alcuni interrogativi riguardo alla definizione delle botteghe castellane autrici della fornitura e alla cronologia delle varianti esistenti.

La raffinata tecnica di produzione di questi prodotti “compendiari” sembra, attraverso l’analisi dei frammenti, caratterizzata da una pesante invetriatura monocroma, più che dall’applicazione di un vero e proprio smalto come nelle opere faentine (4). Ma la tecnica più sorprendente è quella dell’uso del terzo fuoco per la stesura dell’oro: questa procedura doveva essere causa di un gran numero di rotture dei manufatti durante e dopo la cottura, e comunque riservata dalla bottega incaricata ad una committenza particolare e non abituale, come dimostra l’esistenza di una produzione di turchina senza però applicazione di oro a terzo fuoco.

Come ricorda Luciana Arbace nelle schede relative a queste opere (5), il servizio è elencato tra gli arredi del Palazzo Farnese a Caprarola nel 1626, e si parla di un servizio da credenza di maiolica turchina miniata d’oro con l’arme del Cardinale Farnese ancora presente nella Loggia del Palazzo Farnese di Roma nel 1644, nel 1653 e qualche anno più tardi (6). Di queste opere tra il 1728 e il 1734 se ne conservavano 72, poi trasferite presso il Museo di Capodimonte nel 1760, mentre altre furono disperse.

Le caratteristiche decorative e formali eterogenee hanno fatto pensare non solo all’opera di più botteghe coinvolte nella commissione, ma anche all’esistenza di più di un servizio o committenza, forse anche per il cardinale Odoardo Farnese.

Il piatto in analisi appartiene al gruppo di opere conservate al Museo Duca di Martina a Napoli databile al 1580-1589. L’opera mostra al centro lo stemma del cardinale realizzato probabilmente per sottrazione o utilizzando una mascherina al momento dell’applicazione dell’oro, in modo da ottenere i gigli di colore blu su campo oro come richiesto dall’araldica.

Gli esemplari di confronto già citati sono quelli conservati al Museo di Capodimonte, cui si aggiunge un altro confronto, molto vicino: il piatto di dimensioni appena inferiori con verso privo di decorazione, conservato nel Württemberg Landes Museum di Stoccarda (7).

 

1 ARBACE 1995, pp. 372-374.

2 PESCARA 1989, pp. 126-140.

3 ARBACE 1995, p. 369.

4 RAVANELLI GUIDOTTI in PESCARA 1989, p. 127.

5 Redatte e pubblicate in occasione della celebre mostra di Colorno del 1995, ARBACE 1995

6 ARBACE 1995p. 368 e bibliografia relativa.

7 PESCARA 1989, n. 538.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
56

ALBARELLO

CASTELLI D’ABRUZZO, BOTTEGA DI ORAZIO POMPEI, 1550-1560 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, verde rame, giallo, giallo arancio, bruno di manganese e bianco di stagno.

Alt. cm 24,4; diam. bocca cm 10; diam. piede 11,8. 

 

Il vaso apotecario ha una bocca larga con orlo estroflesso, un collo corto che scende in una spalla obliqua, breve e dal profilo appena arrotondato. Il corpo è cilindrico con base alta e carenata che termina in un piede basso dal profilo svasato.

Il decoro, realizzato in piena policromia, mostra nella parte anteriore, racchiuso in una metopa delimitata da due fasce con motivo a corona fogliata, il busto di una giovane donna raffigurata di tre quarti con i capelli raccolti, vestita di una camiciola bianca e un abito verde con le maniche arancio. Subito sotto si legge il cartiglio farmaceutico che recita: “atanasia” in lettere gotiche (1). Sulla spalla corre un motivo a girali arancio su fondo giallo, mentre la base ha sul fronte un riquadro con lo stesso motivo, più sottile, in blu su fondo azzurro.

Il volto è tracciato in blu di cobalto a creare una riserva sul fondo smaltato. I campi riservati sono poi riempiti di colore: giallo variamente diluito nei capelli, verde intenso nel corpetto e così via. Il fondo blu cupo è reso con ampie pennellate appena dietro alla figura, quasi a creare una nicchia; lo sfondo è poi riempito da una campitura più aperta, diluita con piccoli tratti, quasi a nuvolette. I tratti sottili, appena rimarcati, sottolineano il naso, la bocca e la capigliatura. Il blu ombreggia tutto l’ornato in sapiente e rapido contrasto con le campiture di altro colore.

Il vaso appartiene a una serie di contenitori prodotti a Castelli d’Abruzzo per il cosiddetto corredo Orsini Colonna, di cui abbiamo parlato nella scheda che precede (lotto 55). Dal catalogo della celebre mostra tenutasi a Castelli nel 1989, si nota come fossero già state individuate più mani nella realizzazione del celebre corredo. La produzione è da situarsi prevalentemente nel secondo terzo del XVI secolo. Dai dati di scavo è emerso soprattutto come questo tipo di produzione sia ben attestato nei butti. La complessità dei decori e la qualità dei materiali impiegati ne fecero fin dal secolo XVI un materiale di lusso. La bottega o le botteghe interessate nella produzione di queste opere mostrano una perizia tecnica esemplare per l’epoca: i decori e il repertorio morfologico, spesso assai complesso, non sono di uso comune, ma in linea con un mercato che richiedeva sempre di più opere di qualità medio-alta. A tale richiesta il cosiddetto corredo Orsini Colonna sembra rispondere pienamente.

I decori presenti sull’opera in analisi ci aiutano a inserirla cronologicamente all’interno di una produzione specifica: in particolare il ritratto femminile associato al motivo a girali della spalla e del piede, ma soprattutto il motivo di fondo, ci fanno ritenere l’opera ascrivibile alla seconda fase del secondo Gruppo, secondo la classificazione proposta nell’ultimo studio monografico sulle produzioni castellane del Cinquecento (2), cui rimandiamo per i confronti. Si tratta pertanto della produzione assegnabile per morfologia e per decoro al primo terzo del XVI secolo.

 

1 Indica la destinazione farmaceutica del vaso atto a contenere, probabilmente sotto forma di unguento, l’erba che identifichiamo, secondo la classificazione di Linneo, come Tanaceto (Tanacetum vulgare): pianta erbacea perenne a fiori gialli, appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Il nome deriva dal greco ”athanasia” (immortale, di lunga durata). Alcuni testi fanno riferimento alla credenza che le bevande fatte con le foglie di questa pianta conferissero vita eterna. In particolare le sono associate le seguenti proprietà: amare, toniche (rafforza l'organismo in generale), digestive, vermifughe (elimina i vermi intestinali), astringenti (limita la secrezione dei liquidi), febbrifughe (abbassa la temperatura corporea) e vulnerarie (guarisce le ferite).

2 DE POMPEIS 1985, pp. 83-85.

 

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
55

FIASCA

CASTELLI, ORAZIO POMPEI, 1550 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, verde rame, giallo, giallo arancio, bruno di manganese, bianco di stagno.

Alt. cm 34, diam. bocca cm 6,7, diam. piede cm 16,5.

Sotto la base etichetta relativa all’importazione dell’opera nel 1959, etichetta con numero stampato 1523 e timbro galleria BELLINI; altra etichetta con scritta a inchiostro: “Faenza 1500”. Sul collo etichetta circolare stampata “ART THREASURES EXHIBITION MUSEUM”.

Sul corpo in un cartiglio il proverbio latino ”.OdIE.MICHI ../ “ HOC ..OPUS.. HARATII / CRAS. TIBI..” e in basso il nome del preparato in caratteri gotici “Aqua.de.planta”.

 

Opera notificata dallo Stato ai sensi del D.Lgs 42/2004.

  

 

La fiasca ha un corpo piriforme e poggia su base piana con piede a disco, appena visibile. Il collo slanciato doveva terminare in una bocca a colletto largo con profilo appena svasato. Sul corpo si conserva il segno dell’attacco delle anse, che probabilmente avevano un profilo a doppio o triplo cordolo e forma introflessa a ricciolo, all’altezza della bocca, ed estroflessa sul corpo. Sul fronte, entro una riserva semiovale, delimitata da una cornice a fascia decorata a girali fitomorfe con foglie bicrome e piccoli melograni, è dipinto un fanciullo nudo addormentato in posizione prona e appoggiato a un teschio. Sopra la figura si scorge un nastro svolazzante che riproduce un proverbio latino unitamente alla firma del maestro: ”.OdIE.MICHI../ HOC..OPUS..HORATII / CRAS.TIBI..” (oggi a me, domani a te. Questa è opera di Orazio). Il collo mostra poi, nella parte superstite, un bel motivo fitomorfo su fondo aranciato, mentre il retro è interamente decorato con una composizione di girali delineate a pennello in blu di cobalto. Sotto la raffigurazione principale corre il cartiglio relativo al composto farmaceutico, scritto in caratteri gotici: “Aqua.de.planta”.

Il decoro con il putto disteso sul teschio si ritrova su un pilloliere di questo stesso corredo farmaceutico, databile alla metà del secolo XVI e oggi conservato al Museo Duca di Martina a Napoli. Si concorda pienamente con l’interpretazione che ne dà Luciana Arbace, proprio in relazione con la nostra fiasca, di un motivo di Memento mori, come d’altronde conferma il cartiglio descritto sopra.

La fiasca appartiene al vasellame farmaceutico noto agli studi con la denominazione di “Orsini Colonna”, prodotto nel centro di Castelli d’Abruzzo attorno alla metà circa del secolo XVI. Dopo una serie di studi e confronti tra gli studiosi si è ormai accettato il fatto che non si tratti di un corredo farmaceutico vero e proprio, bensì di una tipologia ceramica caratteristica e caratterizzante la produzione del piccolo centro abruzzese.

Nel convegno sulla ceramica di Castelli del 26 agosto 1984 (1), accantonando una lunga serie di attribuzioni a numerose officine dell’Italia centro-meridionale, si giunse ad ascrivere questa fortunata serie apotecaria a Castelli mantenendo la nomenclatura “Orsini Colonna”. Questo diede una definitiva collocazione a una serie di vasi farmaceutici che, fino ad allora, non sembrava univocamente attribuibile a un centro di produzione certo (2). Tutto ciò, come ricorda Carmen Ravanelli Guidotti (3), fece nuova luce su un capitolo fondamentale della storia della ceramica e risultò basilare per le successive attribuzioni.

Infatti, gli studi che fecero seguito ai ritrovamenti nei butti della cittadina abruzzese, effettuati dai Gruppi archeologici (4), portarono ulteriore chiarezza sulla formazione di questa tipologia ceramica e sul contributo alla produzione delle officine castellane, sia quella Pompei sia quella delle altre botteghe a lei prossime, e infine sul rapporto e/o provenienza delle maestranze da altri centri dell’Italia centro-meridionale, oltreché sulle loro fonti di ispirazione (5).

Il corredo è stato in seguito ampiamente studiato e documentato da De Pompeis, e ormai si può affermare che si tratti di uno dei capitoli più completi nella storia della ceramica antica, grazie ai riferimenti stilistici e iconografici, convalidati dalla presenza dell’antico stemma di Castelli (6) su un vaso e del nome di Orazio Pompei su almeno altri due, dei quali uno è quello oggetto di analisi.

Bisogna infine rammentare la questione relativa alla datazione, tradizionalmente ancorata al 1511, anno della “pax romana” fra gli Orsini e i Colonna, oggi discussa. Tale cronologia era stata proposta da Gaetano Ballardini (7) e si basava sull’interpretazione dell’immagine di un orso che regge una colonna raffigurata su una fiasca oggi al British Museum (8), intesa come celebrazione dell’evento: l’effigie fu utilizzata da allora per dare il nome alla intera serie di vasi.

In realtà la congiunzione degli emblemi delle due famiglie, presente in pochi esemplari, e l’attribuzione a Castelli e a Orazio Pompei nello specifico, oltre alla presenza di elementi stilistici particolari (9), muta di fatto la datazione ben oltre la presenza degli Orsini a Castelli (10). Proprio l’attribuzione alla mano di Orazio Pompei, suffragata dalla conoscenza delle rarissime opere firmate, sosterrebbe una datazione compresa nel periodo di attività del maestro castellano (11). Del resto, proprio intorno alla metà del secolo XVI esistono altre testimonianze di avvicinamento tra le famiglie Orsini e Colonna, tradizionalmente rivali, più prossime cronologicamente al periodo di attività di Orazio Pompei (12) e delle botteghe che ruotano attorno alla committenza di questo vasto corredo. La recente ripubblicazione della fiasca Orsini Colonna propende per una datazione da comprendere nel primo periodo di produzione dell’officina Pompei, e quindi prossima alla targa datata 1551: gli autori della scheda pensano che sia possibile una produzione già attiva negli anni ’40 del Cinquecento, culminata nel 1552 con la celebrazione del matrimonio tra Marcantonio Colonna e Felice Orsini (13).

L’etichetta presente sul collo della nostra fiasca ci conferma la sua esposizione alla grande mostra internazionale di antiquariato tenutasi a Manchester nel 1887 (14). L’ulteriore passaggio sul mercato nel 1975 (15) la rese definitivamente nota agli studiosi, che ne fecero un cardine nella storia degli studi della ceramica castellana (16) utilizzando proprio le immagini di quel catalogo d’asta.

 

1 FIOCCO-GHERARDI 1984.

2 Tra le varie attribuzioni non mancava quella a Faenza, come indica anche l’etichetta scritta a penna sotto la base del vaso.

3 RAVANELLI GUIDOTTI 1990, p. 200, dove compare pubblicata la fiasca.

4 C. DE POMPEIS, 1989

5 DONATONE 1986, p. 40.

6 Lo stemma antico di Castelli si trova in un vaso dell‘Ermitage di Leningrado, inv. F2030.

7 BALLARDINI 1936, p. 5 nn. 1-2.

8 THORNTON-WILSON 2009, pp.540-544

9 FIOCCO-GHERARDI 1986.

10 Un ramo della famiglia fu presente a Castelli dal 1340 fino al 1525-1526 quando Camillo Pardo Orsini lasciò la cittadina per tornare a Roma rinunciando al feudo dopo la sconfitta subita dai Francesi da lui appoggiati contro Carlo V.

11 Il maestro nasce a Castelli nel 1516 e vi muore nel 1590-1595 circa. La sua firma ricorre su uno dei mattoni di S. Donato, ed è autore di due targhe, datate rispettivamente 1551 e 1557.

12 Questa fiasca ne è indubbia testimonianza e cardine per il confronto stilistico  e cronologico della sua opera

13 Per la questione della datazione si veda quanto in FIOCCO-GHERARDI 1986; FIOCCO-GHERARDI 2000, pp. 49-50; WILSON 1990, pp. 118-120.

14 “Art Treasures Exhibition”, Manchester 1887.

15 SOTHEBY’S, Firenze 1975, 17-19 dicembre, lotto 354.

16 RAVANELLI GUIDOTTI 1990, p. 200;  De POMPEIS 1989.

 

Stima   € 30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
54

CALAMAIO

URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, INIZIO SECOLO XVII

Maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, verde, blu e bruno di manganese nei toni del marrone e bianco di stagno.

cm 26 x 19 x 14.

 

 

Il calamaio raffigura una dama intenta a verificare una lavorazione, forse un rotolo di pizzo: la donna è rappresentata seduta in abiti rinascimentali con una camiciola dall’ampio collo, aperta sul davanti, un soprabito smanicato, trattenuto in vita da una cinta sottile, che ricopre un abito azzurro dalle maniche lunghe (1). La donna ha i capelli raccolti sul capo e guarda di fronte, mentre con la mano destra scorre il pizzo che trattiene con la sinistra. Il rotolo è contenuto in un cestino che la donna, seduta su una seggiolina da camino, tiene sulle ginocchia. Ai piedi della sedia un vasetto verde per contenere l’inchiostro.

Queste plastiche, destinate a un uso privato, frutto di commissione o di dono, sono state attribuite da Carmen Ravanelli Guidotti alla bottega Patanazzi con una datazione coerente a quella già proposta dal Ballardini (2), in base ad un esemplare con stemma Aldobrandini, alla fine del Cinquecento e ai primi anni del Seicento.

La studiosa ha superato la tradizionale attribuzione a Faenza di questa tipologia in virtù di particolari caratteristiche: le figure in genere modellate con alcuni dettagli realizzati in serie e aggiunti in corso d’opera; la plastica non raffinatissima; lo spessore alto dello smalto, e soprattutto l’associazione delle plastiche al decoro a raffaellesche. Tutti questi elementi avvalorano una paternità urbinate.

Il confronto con esemplari simili, anch’essi plasmati con personaggi di genere, ci conforta nell’attribuzione. Si vedano ad esempio “il suonatore di organo”, con tratti fisiognomici del volto molto vicini al nostro esemplare, raffigurato sul calamaio del Victoria and Albert Museum recante un cartiglio con la scritta “Urbino” (3); il “Bacco ubriaco” dello stesso museo che, in forma di fontana, riproduce lo stile e il gusto dei calamai urbinati (4); il calamaio con figura di “San Girolamo” del Museo di Leningrado con analoga datazione (5) e le belle plastiche presentate in una mostra sulle maioliche rinascimentali nello stato di Urbino di qualche anno fa (6), in particolare il “San Matteo” (7) della Cassa di Risparmio di Rimini, il “Mosè con le tavole della legge” e la “coppia di figurine” in cui compare un personaggio femminile.

La figura femminile appare comunque poco rappresentata, e sarebbe quindi interessante verificarne la quantità nell’elenco delle plastiche nell’Inventario Ducale del 1609 (8).

 

1 L’abito di foggia tardo-cinquecentesca, già influenzato dalla moda francese e inglese, conferma la produzione nella seconda metà del secolo.

2 BALLARDINI 1950, pp. 99-103.

3 RACKHAM 1977, p. 283 n. 852 (inv. 8400-1863).

4 RACKHAM 1977, pp. 283-284 N. 853 (inv . C.665-1920).

5 IVANOVA 2003, p.111 n. 97.

6 GARDELLI 1987, p. 159.

7 GARDELLI 1987, p. 152 n. 65.

8 SANGIORGI 1976.

 

 

Stima   € 7.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
53

SALIERA

URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, 1580-1590 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, giallo arancio, verde, blu e bruno di manganese nei toni del marrone.

cm 20 x 22 x 12, piede cm 14x11,5.

 

 

La saliera poggia su una base ottagonale che sorregge l’invaso grazie a quattro sostegni a ricciolo e a zampa ferina alternati, ed è decorata con un motivo a baccellature e finto bugnato. Il corpo dell’invaso, modellato plasticamente, riproduce la classica forma a navicella con due mascheroni ai vertici che sostengono due putti reggi-conchiglia, e altri due mascheroni, posti sui lati lunghi, a coronamento del decoro. Al centro della vasca spicca la figurina di Cupido su uno sfondo verde, mentre la parete esterna è decorata da un motivo a mascheroni in una variante coloristica assai ricca.

Carmen Ravanelli Guidotti in uno studio concernente le credenze nuziali di Alfonso d’Este (1) esamina le saliere dei servizi da pompa dell’epoca, facendo riferimento alle caratteristiche di quelle cosiddette “a caprone”, e individua anche questa variante con putti reggi-conchiglia in diversi esemplari (2) . La studiosa ricorda che “il corpo a navicella su base poligonale stenta ad accogliere la grottesca, tanto la forma plastica è articolata in una strabiliante concatenazione di elementi plastici complementari (volute, mascheroni, zampe leonine, ecc.)…”.

Simile per concezione d’uso, ma con le modifiche alla forma che abbiamo già indicato, ovvero con l’aggiunta di valve di conchiglia porta sale sul lato lungo e con decoro con motivo a mostri marini, è la bella saliera conservata al Walters Art Museum di Baltimora (3), datata tra il 1575 e il 1600 e attribuita alla bottega Patanazzi.

Molto vicina, per la presenza dello stesso modello plastico con minime varianti, è invece la saliera del Museo di Arti Decorative di Lione (4), che si distingue rispetto alla nostra per una scelta cromatica più sobria. Altri esempi sono presenti al Victoria and Albert Museum di Londra (5) e al Louvre (6): tutti appartengono a una produzione urbinate della fine del Cinquecento e sono attribuiti alla celebre bottega dei Patanazzi.

 

 

1 RAVANELLI GUIDOTTI 2000, pp. 30-53.

2 RAVANELLI GUIDOTTI 2000, p. 47; tav. IX a, b, c.

3 Inv. n. 48.1361. PRENTICE VON ERDBERG-ROSS 1952, n. 73.

4 FIOCCO-GHERARDI 2001, p. 107 n. 180.

5 RACKHAM 1977, n. 887.

6 GIACOMOTTI 1974, n. 1116.

 

 

Stima   € 5.000 / 7.000
Aggiudicazione  Registrazione
52

PIATTO

URBINO, BOTTEGA FONTANA, 1550-1560 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo, arancio, verde, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero e bianco di stagno.

Alt. cm 5,1; diam. cm 23,5; diam. piede cm 6,8.

Sul retro, al centro del cavetto, in blu di cobalto l'iscrizione Adamo et eva.

 

 

L’episodio raffigurato è quello della Tentazione narrato nella Genesi (1). Al centro del cavetto sta Satana, raffigurato come dracontopode (2), avviluppato a un albero dalla chioma allargata e con numerosi frutti, mentre sullo sfondo s’intravede un paesaggio lacustre con montagne dal profilo squadrato e piccoli paesi. A sinistra della scena, Eva è seduta su una roccia con la mano sinistra allungata verso il centro; di fronte a lei, sul lato destro, Adamo, parzialmente coperto da un manto sinuoso, allunga a sua volta la mano destra verso l’albero.

La scena è dipinta con maestria e con grande dominio della materia. Il decoro è ricco e ben distribuito, con una composizione che rispetta appieno la prospettiva, sfruttando completamente la forma del piatto. La fonte incisoria d’ispirazione del nostro esemplare, al momento, non è stata riconosciuta e ipotizziamo che si tratti forse di più incisioni o di una reinterpretazione.

L’episodio biblico fu spesso raffigurato in maiolica e ne sono testimonianza molti esemplari con modalità stilistiche diverse, come si può vedere, ad esempio, nel bel piatto urbinate esposto al Museo Fitzwilliam di Cambridge (3), che trova affinità con un vaso della farmacia della Sacra Casa di Loreto (4); entrambi sono ispirati a una medesima fonte incisoria, probabilmente presente nella bottega Fontana attorno al 1560. In questi confronti, Satana non assume le forme del mostro medievale, ma solo quelle del serpente.

Un confronto a nostro avviso prossimo ci deriva da un piatto del British Museum (5) attribuito alla bottega Fontana-Durantino e al periodo ascrivibile agli anni 1540-1560. Il piatto, affollato da figure, presenta affinità con il nostro, soprattutto nella disposizione del paesaggio: particolarmente vicini la forma delle montagne in lontananza che circondano la città con torri e l’insenatura del porto, che rispecchia quella presente nel nostro esemplare.

Un altro confronto ci è fornito dal piatto con Satiro che insegue una Ninfa del Victoria and Albert Museum, attribuito alla stessa bottega urbinate e datato tra il 1540 e il 1550: in esso ci pare di poter ravvisare le stesse modalità pittoriche del nostro esemplare sia nel delineare le figure, sia nel realizzare lo sfondo paesaggistico e i singoli elementi che lo compongono, quali la presenza di una montagna leggermente squadrata e di un villaggio non troppo esteso, adagiato su una costa dal profilo arrotondato e dalla consistenza erbosa.

Lo stile pittorico, la disposizione della scena tra due quinte, la forma delle montagne sullo sfondo e il modo di articolare il paesaggio su piani prospettici ben definiti sono tutte caratteristiche che ci inducono a collocare la bottega di produzione di quest’opera in ambito marchigiano e probabilmente urbinate. Alle particolarità sopra elencate, si aggiungono anche la resa delicata degli incarnati, la capacità di delineare le figure con grande perizia, le lumeggiature sottili delle forme, rese con colpi di luce sulla muscolatura, e i forti contrasti dovuti alle ombreggiature nei tratti del volto.

Il piatto compare nel catalogo di vendita Sotheby’s di Palazzo Capponi a Firenze del 1976 (6).

 

1 Genesi, 3,1-6.

2 Antica raffigurazione medievale che si riferiva a un essere leggendario, utilizzata nel Rinascimento per rappresentare Satana: questa modalità iconografica si riscontra ad esempio nella Cappella Sistina.

3 Inv. C1-1914, POOLE 1995, pp. 386-387 n. 420.

4 GIACOMOTTI 1974, p. 322 (il vaso). Il piatto del museo inglese e il vaso di Loreto sembrano entrambi ispirati alle stampe incise su legno da Hans Sebald Beham (1500-1550) per le otto edizioni di Biblisch Historien edite da Christian Egenolph a Francoforte sul Meno tra il 1533 e il 1557.

5 THORNTON-WILSON 2009, p. 31 n. 195.

6 SOTHEBY’S, Firenze, 22 ottobre 1976, lotto 41.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
51

GRANDE PIATTO

URBINO, BOTTEGA FONTANA, 1570 CIRCA

Maiolica dipinta con azzurro, verde, giallo, giallo arancio e bruno di manganese.

Alt. cm 4,4; diam. cm 44,4; diam. piede cm 28,7.

Sul retro, sotto il piede, delineata in blu di cobalto la scritta “Venere sene va aspasso p(er) il mare con/le Nereide apuleio nel primo dela/faula di psiche” seguita da due segni. Etichetta recante il numero dattiloscritto C. 13747.
 

Il piatto ha un ampio e profondo cavetto, tesa larga e appena obliqua con orlo arrotondato. Poggia su un piede ad anello piuttosto alto e largo. Il fronte è interamente ricoperto da una fitta decorazione istoriata che interessa il cavetto e la tesa senza soluzione di continuità. Il retro è decorato da linee gialle concentriche che ne sottolineano i profili e reca sotto il piede la scritta “Venere sene va aspasso p(er) il mare con/le Nereide apuleio nel primo dela/faula di psiche” accompagnata da due segni grafici.

La decorazione mostra un corteo marino con Venere al centro assisa sul suo carro marino trainato da due tritoni e affiancata da due nereidi a cavallo di mostri marini: una le sostiene un braccio, mentre l’altra sorregge un drappo del panneggio che ricopre appena la dea. Alle sue spalle, sempre a cavallo di un mostro marino, un tritone e coppie di tritoni e nereidi intenti in effusioni amorose. Al fianco di Venere, Eros cavalca un delfino. Il paesaggio è di ampio respiro ed è chiuso all’orizzonte da una catena di monti e da una città costiera.

La legenda sul retro ci illumina sull’interpretazione: si tratta del corteo di Venere per la sua presentazione, che fa da prodromo della narrazione della favola di Amore e Psiche narrata da Apuleio nella sua opera Metamorfosi (1) Qui però la protagonista della narrazione è ancora una Venere classica, dalla personalità complessa al punto da generare una diversificazione di culto (2).

La favola narra la storia della giovane Psiche, la cui bellezza scatena la terribile gelosia di Venere, che inconsapevolmente provoca l’innamoramento tra la stessa Psiche e Cupido: la giovinetta sarà sottoposta dalla dea a terribili prove, fino a raggiungere l’Olimpo per convolare a nozze con Amore.

La favola è ricca di significati simbolici che non dovettero essere estranei all’autore o alla committenza dell’opera. Da un punto di vista tecnico la decorazione è complessa e distribuita sul supporto con grande perizia. Non è stato possibile ritrovare, per ora, alcuna fonte incisoria, anche se è probabile che ne sia stata utilizzata una, dato il successo iconografico suscitato dall’episodio narrato da Apuleio (3). I personaggi femminili, forse già di gusto manieristico, ci porterebbero a indirizzare la ricerca delle fonti incisorie proprio in questa direzione (4).

Le figure sono dipinte con maestria, proporzionate, perfettamente inserite nella scena, e i colori sono dosati con indubbia perizia tecnica, sebbene si riscontrino difetti di cottura e bolliture dello smalto, che è comunque abbondante e ricco.

La forma del piatto è attestata come in uso nelle manifatture urbinati e in particolare nella bottega Fontana (5) per tutto il XVI secolo e agli inizi del XVII. Tra l’altro, anche il decoro con le deità marine fu caro alla bottega Fontana, particolarmente nel periodo di produzione di Orazio Fontana (6).

Pur essendo numerosi gli esemplari che mostrano una decorazione ispirata a questa tematica, tuttavia non abbiamo potuto trovare nessuna affinità stilistica precisa che si possa accostare all’esemplare in analisi. Il ductus pittorico è qui molto tenue e raffinato, il progetto decorativo segue un’impostazione importante e lo stile delle figure è assai curato, molto proporzionato, di gusto già manierista e non più classico come negli apparati decorativi della bottega Fontana (7).

Il confronto con la coppia di anfore della Collezione Estense, pubblicate qualche anno fa da Lidia Righi Guerzoni, ci orienta comunque nella nostra ricerca verso una produzione urbinate. I due vasi d’apparato (8) mostrano caratteristiche stilistiche invero differenti: nel vaso il cui piede mostra un decoro “alla porcellana”, ritroviamo una figura di Nettuno con volto stilisticamente molto prossimo a quello dei tritoni che trainano il carro di Venere nel nostro piatto; inoltre, le figure sono “immerse in un’atmosfera ricca di sfumati che trascolora verso l’orizzonte”, dove sottili righe in giallo arancio descrivono la luce serale: caratteristica che ritroviamo in forma più leggera nel nostro piatto, insieme alle onde del mare, che presentano la stessa delicata realizzazione. Nel secondo vaso invece ritroviamo, ma in forma meno invadente, alcune figure di delfini dagli occhi grandi e arrotondati simili ai nostri. I due vasi estensi sono attribuiti dal Liverani alla bottega di Orazio Fontana e agli anni attorno al 1570 (9).

In un altro piatto della Galleria Estense (10), oltre alla stessa forma del nostro riconosciamo anche uno stile più affine nella descrizione delle figure. Somiglianza stilistica che ritroviamo anche nel piatto morfologicamente affine del Walters Museum di Baltimora che raffigura Il bagno di Diana e delle Ninfe (11): somiglianze si riscontrano in particolare nella resa del corpo delle figure femminili, nel volto della figura in piedi a sinistra con gli occhi abbassati, vicino al volto di Venere nel nostro piatto, e in alcune figure di putti della tesa in rapporto alla figura di Eros nel nostro esemplare. Il piatto di Baltimora reca sul retro una decorazione che interessa l’intera superficie con una figura di Nettuno su delfini in una scenografia marina.

Entrambi i piatti, il primo databile al 1559 (12) e quindi sotto Orazio Fontana, il secondo agli anni 1560-1570, sono stati attribuiti alla bottega Fontana, che vantava la presenza di un repertorio iconografico assai vario a disposizione dei pittori. Proprio in quest’ambito riteniamo di inserire il nostro esemplare, con una probabile datazione che lo colloca attorno al 1570.

 

1 Apuleio (125-170 d.C. circa) inserisce la favola di Amore e Psiche nel suo romanzo Metamorfosi o L'asino d'oro (libri IV, 28-VI, 24), argomento colto che si è prestato nel corso delle varie epoche a diverse interpretazioni. Nel Rinascimento, quando le virtù morali sono poste alla base del vivere civile, la favola che celebra il trionfo dell’amore coniugale e della purificazione dell’anima umana diviene oggetto di narrazione e di conseguenza di rappresentazione artistica, con la realizzazione di opere che la richiamano come i grandi cicli di affreschi della Loggia di Psiche della Farnesina, il ciclo di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova e il delicato fregio di Perin del Vaga a Castel Sant’Angelo, ciascuno con un intento simbolico e programmatico differente. Si rimanda in merito al catalogo della mostra (BERNARDINI 2012).

2 Afrodite Urania come amore; Afrodite Areia armata e associata al culto di Ares; Afrodite Anzeia dea della fecondità; Afrodite Pandemia simbolo dell'amore sensuale; Afrodite Euploia e Afrodite Pontia protettrice dei naviganti.

3 Si pensi alle incisioni del Maestro del Dado (m. 1533) e di Agostino Veneziano (1490-1540), che dedicano al tema ben 32 incisioni su disegno di Michiel Coxcie (1532-1535). Di Agostino Veneziano una Venere sul Delfino realizzata intorno al 1530-1540 da disegno di Raffaello Sanzio potrebbe aver ispirato il nostro pittore.

4 Verso autori come Jean Cousin il Vecchio (1490-1560), o più facilmente verso lo stanco manierismo e il gusto michelangiolesco del figlio Jean Cousin il Giovane (1520-1594). Il primo autore di un dipinto con il Ratto di Europa nel quale riscontriamo una certa affinità nelle figure umane, ma soprattutto in certe pose dei putti che, a cavallo di delfini dalle zampe palmate, accompagnano la fanciulla sul toro. Anche i paesaggi dello sfondo ci ricordano quelli dipinti dai due autori francesi: si veda ad esempio lo sfondo della nota incisione con il Giudizio Universale di Jean Cousin il Giovane.

5 La stessa forma nel celebre piatto del Metropolitan Museum of Art di New York raffigurante La battaglia di Pavia e orgogliosamente firmato “nella bottega di Guido Durantino” (RASMUSSEN 1989, p. 167 n. 97).

6 Lo scorso anno abbiamo avuto modo di studiare il famoso vaso firmato da Orazio Fontana, considerato un caposaldo per l’attribuzione di opere simili (ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p. 238 n. 54 e bibliografia relativa).

7 RIGHI GUERZONI in TREVISANI 2000, pp. 138-139.

8 Giustamente Righi Guerzoni (in TREVISANI 2000, pp. 138-139) ci ricorda la predilezione degli Este verso rappresentazioni sceniche, tra le quali le naumachie.

9 LIVERANI 1979, n. 30.

10 RIGHI GUERZONI in TREVISANI 2000, p. 134, celebre per il supposto utilizzo di fonti iconografiche ben precise e in particolare per l’uso di un disegno di Battista Franco per la realizzazione della tesa dei piatti. Per chiarezza sull’uso dei disegni, si veda THORNTON-WILSON 2009, pp.392-393 n.233 e bibliografia relativa.

11 Inv. 48.1316.

12 MALLET 1976, n. 396.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
50

PIATTO

DUCATO DI URBINO, PROBABILMENTE PESARO, METÀ SECOLO XV

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno; lumeggiature con lustro color giallo oro.

Alt. cm 3,2; diam. cm 23; diam piede cm 8,3.

Sul retro, al centro del cavetto, in blu di cobalto l’iscrizione “Come Jovve portoganime/nie/dem Cielo”.
 

Il piatto ha un cavetto concavo, largo e con stacco marcato; la tesa larga e obliqua termina in un orlo arrotondato. Poggia su basso piede privo di anello.

La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e mostra al centro Ganimede trasportato in cielo da Giove tramutato in aquila. Sulla tesa si vede una corona di nuvole dalla forma a chiocciola, su cui sono sedute alcune divinità dell'Olimpo: Ercole, Venere e Amore, Poseidone, Crono e una divinità femminile priva di attributi, probabilmente Diana. Al verso sono dipinte alcune foglie stilizzate in lumeggiatura oro e due spirali tracciate in color rosso ferro. L’orlo è orlato in giallo e lustrato. Lo smalto si presenta grasso, molto ricco, con vetrina brillante, lucida e vetrosa sia sul fronte sia sul retro e abbondante è l’uso dei pigmenti.

Sul retro, al centro del cavetto, in blu di cobalto l’iscrizione “Come Jovve portoganime/nie/dem Cielo”.

La pittura è veloce e lo stile semplice, con caratteristiche che ci ricordano le opere della bottega Picchi.

Anche questo mito, derivante da Ovidio (1), è caro alle botteghe di istoriato e fu variamente interpretato dai vari pittori (2). La raffigurazione del rapimento trova la sua fonte in un’incisione di Giulio Bonasone (3), qui interpretata con grande libertà: nell’incisione il giovane è nudo e di età adolescenziale, qui invece indossa un abito corto ed è ancora bambino (4).

Non è possibile proporre al momento una sicura lettura attributiva, nonostante le numerose opere che trattano la tematica astronomica rinascimentale (5).

Il paesaggio con nuvole dalla forma a chiocciola è stato variamente utilizzato in opere con soggetto di divinità olimpiche e abbiamo notato una maggior incidenza di esemplari con questa caratteristica prodotte nella città di Pesaro, nel Ducato di Urbino: ad esempio nel piatto con Psiche presentata al concilio degli dèi, da un affresco di Raffaello, attribuito alla cerchia di Nicola da Urbino, nel quale un gruppo di divinità riunite attorno a una tavola è circondato da una cornice di nuvole e risalta su un fondo giallo-uovo molto luminoso (6). La corona di nuvole è presente anche nel piatto di Francesco Xanto Avelli con Marte e Venere in cielo, iscritto “Spere” nel verso (7).

Anche nel piatto del servizio Lanciarini del Museo di Padova ritroviamo le divinità olimpiche raccolte attorno a un cerchio di nuvole mentre ricevono la dea Pallade (8). Mancano però affinità stilistiche, che s’intravedono invece in un altro piatto dello stesso museo, sempre del servizio Lanciarini, nel quale la figura di Eros richiama molto le due figure infantili del nostro piatto (9): qui Ganimede è portato in cielo da Giove al cospetto delle altre divinità olimpiche e ne diviene il coppiere.

Non siamo riusciti al momento a rintracciare l’incisione di riferimento, ma riteniamo che il pittore abbia variamente interpretato la fonte o le fonti da cui estrapolare l’immagine delle divinità: forse l’assemblea degli dèi della villa Farnesina, poi trasposta in incisione (10).

L’importanza del piano decorativo è testimoniata dall’applicazione del lustro, operata a Gubbio o da maestranze eugubine operanti nel ducato o nella stessa bottega di produzione. Resta però un’incertezza attributiva, anche se è vero che Giove (11) è simbolo dei Montefeltro e che sono possibili riferimenti simbolici al Duca.

La somiglianza con opere urbinati ci conforterebbe in un’attribuzione in questo senso, tuttavia prevale ancora grande incertezza nella lettura stilistica che ci porta verso una produzione pesarese prossima alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce dopo gli anni ’40 del secolo XVI: questa bottega nel 1569 era in grado di produrre piatti decorati a lustro, come confermato da un editto del Duca Guidobaldo II, che ne autorizza la produzione garantendone l’immunità fiscale (12).

 

1 OVIDIO, Metamorfosi X, 155-166.

2 Sulla raffigurazione dell’episodio in maiolica si veda l’articolo di Maria Cristina Villa (VILLA 1995, pp. 47-56) su un piatto di Orazio Fontana con questo soggetto.

3 BARTSCH, XV, 29.

4 Una modalità interpretativa molto simile si ritrova in un piatto del Victoria and Albert Museum, sempre con Ganimede come soggetto e attribuito a Castel Durante, nel quale il pittore riveste il personaggio, raffigurato nudo nell’incisione originaria di Bernard Salomon (1508-1561) presente in Le Metamorphose d’Ovide figurée, Lione 1557.

5 La mitologia classica trova nella tradizione astrologica un fondamentale tramite di sopravvivenza durante l'età medievale fino al Rinascimento, quando in seguito a un lungo processo di mitologizzazione dei corpi celesti si compie l’identificazione di dèi e astri. A partire dal IV secolo a.C., con il trattato di Eudosso di Cnido, volgarizzato e diffuso da Arato di Soli e successivamente nei Catasterismi di Eratostene, pianeti, costellazioni e segni zodiacali cominciano a essere associati a divinità della mitologia classica o nel nome o in rapporto alle storie mitiche (PANOFSKY-SAXL 1933, pp. 228-280).

6 MALLET 2002, pp. 91-92 figg. 20-21.

7 CIOCI 2007, pp. 51-52 figg. 21-22, già in WILSON 2002a, pp. 36 e 39.

8 MUNARINI 1993, pp. 310-311 n. 300.

9 MUNARINI 1993, p. 311 n. 299.

10 Da Gian Giacomo Carraglio, da Agostino Veneziano o da un anonimo incisore, CIOCI 2007, p. 42, cita NORMAN 1976.

11 Anche in questo caso, come già suggerito per decorazioni simili (CIOCI 2007, p. 42), è Giove la figura principale della composizione.

12 BONALI-GRESTA 1987, p. 196 doc. 212.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
49

TONDINO

CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI,1550-1560 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 4,8; diam. cm 21; diam. piede cm 5,4.

 

Il piccolo piatto ha cavetto profondo, tesa larga e obliqua e poggia su un piede ad anello. La materia è ricca con uno smalto grasso, con vetrina brillante molto lucida sia sul fronte sia sul retro, ed abbondante è l’uso dei pigmenti. Le cavillature allo smalto conseguenti all’abbondanza di materia sono ben visibili sul retro privo di decoro. L’orlo arrotondato è listato di giallo.

La scena dipinta interessa l'intera superficie del piatto senza soluzione di continuità e raffigura il filosofo greco Diogene il Cinico (1). Dopo una vita travagliata visse prevalentemente a Corinto, dove si dedicò a predicare le virtù dell’autocontrollo e dell’autosufficienza abitando all’interno di una botte: fu qui che incontrò Alessandro Magno. Plutarco (2) racconta l’incontro con il re in senso positivo: Alessandro Magno rimase molto colpito dalla grandezza d’animo del filosofo che, per nulla intimorito dalla presenza del re in persona, lo apostrofò dicendogli “spostati un poco dal Sole”, frase che Alessandro ammirò al punto da affermare: "Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene". Ma le versioni sull’episodio sono discordanti: infatti Diogene Laerzio, a differenza di Plutarco, riferisce che Alessandro, irritato dalla mancanza di rispetto, per farsi gioco di lui che veniva chiamato "cane" gli mandò un vassoio pieno di ossi e lui lo accettò non senza avergli mandato a dire che il cibo era degno di un cane, ma il dono non era degno di un re (3).

L'aneddoto fu molto popolare tra gli studiosi medievali, grazie anche alla sua trasmissione attraverso i classici latini (4) e fu spesso raffigurato in maiolica.

La probabile fonte incisoria non è seguita con attenzione: se ne conoscono del resto diverse versioni (5), variamente influenzate dall’interpretazione che gli artisti diedero al personaggio (6).

Nel nostro piatto Diogene è seduto sulla destra, di fronte alla botte in cui vive, ed è assorto nella lettura di un libro appoggiato per terra; accompagna con la torsione del busto il gesto del braccio destro che indica un libro con un sottile bastone. Di fronte a lui appaiono tre personaggi in abito da soldato, che supponiamo essere Alessandro Magno e il suo seguito: in questo caso l’autore pare discostarsi dai modelli canonici che derivavano dalle incisioni e sembra interpretare liberamente l’episodio. Sullo sfondo compare il consueto paesaggio marino con una grande città marittima che segna l’orizzonte e dietro la quale s’innalzano alcune montagne.

Lo stile e le modalità pittoriche sono quelle tipiche della Bottega di Ludovico e Angelo Picchi, cui abbiamo già accennato nelle schede che precedono (lotti 46-48) (7): anche lo stesso personaggio, inserito in un contesto differente, compare dipinto in una crespina del Museo Cristiano di Brescia (8).

L’episodio è spesso raffigurato in maiolica ed ebbe grande successo anche nella bottega durantina, come per esempio nel caso del grande piatto delle Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano (9), nel quale il filosofo è dipinto in posa analoga, seppur in modo scenografico, data la dimensione del supporto che ha consentito al pittore di disporre la scena su una scala più vasta e con maggior numero di personaggi e dettagli.

Altri esempi su come la bottega impiegasse il soggetto ci derivano dai già citati piatti del Servizio Sapiens, di cui uno conservato al Victoria and Albert Museum mostra una differente disposizione al centro del piatto, ma decise affinità stilistiche nella resa dei personaggi, ed infine quello del Museo di Pesaro (10).

 

1 Nato a Sinope sul Ponto (404 c.-320 c. a.C.) e giunto ad Atene verso il 340, detto il Cinico.

2 PLUTARCO, Vite Parallele, XXXIII, 14.

3 DIOGENE LAERZIO, Le vite dei filosofi, VI, 20 e segg.

4 Nel Rinascimento l’identità di Diogene detto il Cinico non era del tutto definita, ed era spesso confuso con Diogene di Apollonia, un fisico della scuola ionica vissuto un secolo prima. Lo stesso Sant’Agostino nel De civitate Dei (VIII 2) afferma che ebbe una grande fortuna in ambiente umanistico.

5 Per esempio il Diogene derivante da una invenzione del Parmigianino incisa da Ugo Carpi, negli anni 1526-1527 (Collezione Malaspina Pavia, inv. 01001703 cartella II 57) di cui ne esiste anche una con varianti di Caraglio (BARTSCH XV, p. 94 n. 61).

6 Una fra tutte: il filosofo fu celebrato in arte nella stanza della Segnatura di Raffaello, coricato sui gradini, e divenne un’icona nell’arte rinascimentale.

7 La famiglia Picchi è documentata a Castel Durante (oggi Urbania) già nella seconda metà del XIV secolo. Nel Quattrocento le loro occupazioni variano dal commercio del guado alla lavorazione delle scarpe e alla ceramica. La presenza dei Picchi a Pesaro nella seconda metà del Quattrocento testimonia il contributo primario del centro adriatico per la maturazione e gli sviluppi della lavorazione della maiolica. Ludovico di Giorgio nel 1491 apre una vaseria a Castel Durante, nella quale operano vari pittori. Il figlio di Ludovico, Giorgio Picchi il vecchio, sarà l’erede di questa tradizione d’arte (LEONARDI-MORETTI 2002).

8 Inv. NC57, in BERNARDI 1980, n. 3.

9 GHERARDI-FIOCCO in AUSENDA 2000, pp. 259-261.

10 MANCINI DELLA CHIARA 1979, n. 207.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
48

CRESPINA

CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA

Maiolica, dipinta in policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero n, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,6; diam. cm 25.

 

 

Crespina formata a stampo con umbone centrale rilevato, orlo mosso e corpo sbalzato.

La decorazione è dipinta su uno smalto ricco con una vetrina brillante e lucida sia sul fronte sia sul retro, dove le baccellature della forma vengono sottolineate da un decoro a linee blu.

Al centro dell'umbone spicca l'episodio di Muzio Scevola, tramandato dalla tradizione romana come esempio di coraggio. Intorno, lungo la tesa, quattro figure di arcieri si alternano a rami di ulivo a loro volta intervallati lungo il bordo da quattro lune antropomorfe e alate.

L’episodio, narrato da Tito Livio (1), si svolge durante l’assedio di Roma ad opera dell’etrusco Porsenna. Mentre nella città cominciavano a scarseggiare i viveri, il giovane aristocratico Muzio Cordo si offrì per andare a uccidere il comandante etrusco; infiltratosi nelle linee nemiche, e armato di un pugnale, raggiunse l'accampamento, ma nell’azione sbagliò persona uccidendo un funzionario del re. Catturato dalle guardie e portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire che avrebbe punito la mano che aveva sbagliato, e la pose su un braciere fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso romano assunse il nome di "Muzio Scevola" (Muzio il mancino). Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberarlo.

Questo soggetto ebbe grande successo durante il Rinascimento e fu spesso raffigurato su supporto ceramico, come dimostrano i numerosi esempi che vanno dalla coppa di Francesco Xanto Avelli fino a esemplari che possiamo accostare per stile e paternità a quello in studio. Ci riferiamo alla coppa che ripropone lo stesso episodio, conservata al Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo (2): la diversità nella disposizione dei personaggi e della scena ci conferma la presenza di più fonti incisorie di riferimento, ma soprattutto l’ecletticità e la capacità di tradurre la stessa scena con modalità assai differenti tra loro. Nel nostro esemplare è riprodotto l’accampamento con una vasta tenda, al centro il focolare su cui il giovane pone la mano; nella coppa di Arezzo si ha la disposizione tradizionale degli episodi di storia antica con il re assiso in trono, possibilmente in posizione rilevata e su un lato del piatto, e di fronte l’antagonista (3). Tuttavia lo stile pittorico è il consueto che ben possiamo riconoscere nelle opere che precedono questa scheda (lotti 45-46): i volti piccoli e racchiusi in elmi scuri, arrotondati, le loriche a fasce parallele di colore blu o ocra, le capigliature arricciate, le bocche piccole un poco imbronciate, le gambe muscolose, un poco tozze, ombreggiate con sottili tratti arancio e lumeggiate con bianco di stagno.

Ma nella crespina in esame la disposizione dei personaggi intorno al fuoco è più accorta, rendendo la concitazione del momento, e il paesaggio notturno che s’intravede nel cielo scuro, con le consuete nuvolette a chiocciola, dà una profondità alla scena non sempre riuscita nelle opere della bottega marchigiana. La decorazione della tesa intorno all’umbone ci stupisce per eleganza e inventiva: i quattro arcieri seminudi, realizzati con grande minuzia, inseriti in quattro riserve con sfondi sfumati alternati in giallo e azzurro e incorniciati da arcuati rami di ulivo, spiccano sulla superficie irregolare delle baccellature della coppa. Infine le lune dal volto antropomorfo, sorrette da due alucce colorate, rendono l’opera di ancor maggiore interesse, ma coerente con quello stile grottesco e un poco scanzonato che caratterizza l’opera della bottega durantina.

Un riscontro di questa stessa disposizione decorativa lo troviamo nella crespina baccellata conservata nel Museo Nazionale delle Marche, raffigurante al centro l’episodio di Piramo e Tisbe (4), circondato dalla stessa partitura in riserve con personaggi, in questo caso con una torcia in mano, alternati a figure di leoni, ma sempre incorniciati da rami di ulivo e piccoli leoni. Lo stesso decoro con i leoni si ritrova in un’altra coppa con al centro la storia di Diana e Atteone mutato in cervo, però con foggia differente (5), e ancora in una coppa Contini Bonaccossi degli Uffizi (6).

Molto affine, per concludere, anche per la presenza di un volto caricaturale simile a quello delle nostre lune, quello presente nella crespina con arcieri e scena centrale di Nettuno che crea il cavallo, conservata al British Museum di Londra, alla schedatura della quale rimandiamo per un elenco delle poche opere analoghe presenti nel tempo nelle principali raccolte europee (7), cui possiamo ora aggiungere la nostra.

 

1 Tito Livio, Ab urbe condita, II, 12.

2 Inv. 14699.

3 Si tratta dell’impianto decorativo che compare spesso nelle opere ceramiche, e che pare prendere spunto dallo schema iconografico di un niello del British Museum databile alla fine del secolo XV e riprodotto, oltre che nelle maioliche, anche in numerose placchette di bronzo (MUSCOLINO in MARINI 2010, p. 262 n. 36).

4 DAL POGGETTO 2003, p. 347 n. 488.

5 Palazzo Madama, inv. C 2743.

6 MARINI 2003, n. 17.

7 THORNTON–WILSON 2009, pp. 390-391 n. 232.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
47

PIATTO

CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1565 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco, bruno di manganese.

Alt. cm 4,5; diam. cm 28,2; diam. piede cm 11,9.

Sul retro del piatto sotto il piede compare l’iscrizione dipinta in blu”” hateon 1551

 

Il grande piatto ha un cavetto largo, tesa ampia e piana che termina in un orlo arrotondato appena rilevato e orlato di giallo. Poggia su un piede ad anello. Il retro è decorato con linee gialle a rimarcare i profili: al centro la scritta corsiva “hateon 1551” in blu di cobalto (1).

Sul fronte la scena principale, che occupa tutto lo spazio senza soluzione di continuità, tra tesa e cavetto mostra a destra il giovane Atteone ormai trasformato in cervo mentre i suoi stessi cani si avvicinano per sbranarlo. Sulla tesa, a sinistra, si scorge l’origine della tragica metamorfosi: la fonte protetta da una grotta nella quale Diana e le sue Ninfe si stavano bagnando, ritratte nell’istante in cui le giovani cercano di coprire con il loro corpo la dea Diana alla vista di Atteone. Sullo sfondo un paesaggio lacustre e in alto un emblema tripartito parzialmente, associato alla famiglia ducale di Urbino: vi si distinguono la Quercia dei Della Rovere e l’Aquila dei Montefeltro. L’emblema è sormontato da un cimiero con una branca o una mano guantata (2) che sorregge una spada e da un cartiglio che recita “SAPIE(N)S DOMINABITYR ASTRIS”. Il motto è presente negli Emblemata, ove si legge per esteso “Astra regunt homines, sapiens dominabitur astris, et poterit notis cautior esse malis” (3).

La fonte incisoria, liberamente interpretata, non è stata individuata, anche se si tratta probabilmente delle incisioni più antiche, come le xilografie nel libro di Niccolò Zoppino (4) o quelle dell’edizione Raphael Regius (5), nelle quali l’ambientazione naturalistica e la suddivisione della scena nei due episodi può essere stata anch’essa di ispirazione al decoratore del nostro esemplare.

Il piatto fa parte di un noto servizio che convenzionalmente era stato associato al pittore Andrea da Negroponte (6), in base al nome scritto dietro una coppa baccellata del Museo Civico Medievale di Arezzo, su cui è rappresentata la gara tra Apollo e Marsia ma che non ricorre su altre opere o nei documenti di archivio. Oggi il pittore del servizio Sapiens, che annovera alcuni esemplari ben conosciuti, si riconosce in un artista attivo a Castel Durante nella bottega di Ludovico e Angelo Picchi fra il 1550 e il 1565.

Il pittore dipinge velocemente con uno stile ben preciso che, attraverso una scelta cromatica brillante e aranciata, si riconosce soprattutto in alcuni dettagli, come il muso degli animali allungato e con uno sguardo antropomorfo o le rocce, le cui rugosità sono realizzate con pennellate curvilinee che conferiscono  loro una forma quasi a guisa di nuvola.

Numerosi gli esemplari noti con stemma del servizio Sapiens (7): si ricorda tra questi, con forma e dimensioni analoghe al nostro, il magnifico piatto con il Sacrificio di Marco Curzio del Museo Civico Medievale di Bologna, anch’esso datato 1551. Il piatto trova confronto in un esemplare con una versione più semplificata del mito di Diana e Atteone, conservato alla National Gallery of Victoria a Melbourne (8), nella coppa con Venere e Marte, conservata nello stesso museo (9), ma anche in quattro esemplari con storie tratte dalle Metamorfosi e in uno con scena del Sacrificio di Isacco, quest’ultimo datato 1551, conservati al Museo Civico di Brescia (10), nonché in un piatto con Diogene del Museo Civico di Pesaro datato 1559 (11). Un piccolo piatto del servizio raffigurante Cupido e Venere è conservato nella raccolta Del Prete di Pesaro (12), mente uno istoriato con il Matrimonio fra Alessandro e Rossane è stato pubblicato alla fine degli anni ‘90 (13) e un altro con scena biblica di Dalila che taglia i capelli a Sansone è stato esposto nelle collezioni della raccolta del Museo Statale di San Pietroburgo (14).

Recentemente è passato sul mercato (15) un piatto del servizio con raffigurazione della scena di Diana e Atteone, con modifiche e una certa libertà interpretativa nella raffigurazione della stessa: evidentemente il tema è caro alla bottega e comunque molto presente nel servizio. Un altro piatto raffigurante Maria è stato battuto a Parigi (16). E infine citiamo il piatto del British Museum con Ercole e Deianira (17), nella cui schedatura troviamo elencati gli esemplari finora noti, tra i quali uno con Diana e Atteone datato 1551 in collocazione non conosciuta, che potrebbe corrispondere al nostro.

La credenza, dato il numero abbastanza elevato di opere recanti lo stemma Sapiens, doveva essere relativa a una committenza di una certa importanza: lo stemma, che contiene gli emblemi dei Della Rovere e dei Montefeltro unitamente ad altri, potrà svelarne l’antica committenza una volta che verrà adeguatamente storicizzato (18). Thornton e Wilson suggeriscono comunque che possa appartenere a Latino Brancaleoni di Mercatello sul Metauro, vicario generale del Cardinale Giulio Della Rovere (19).

 

1 La scena pare trarre ispirazione dalla Metamorfosi oviane nella versione in prosa di Giovanni De’ Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos vulgare, cap. V-VII Come Ateon fu morto dalli soi cani, essendo cervio. Capitulo VII.

2 RAVANELLI GUIDOTTI 1985, p. 118 n. 93.

3 Andrea Alciati, Emblemata, Venezia 1534 (vedi RAVANELLI GUIDOTTI 1985, p. 118 n. 93).

4 Nicolò degli Agostini, Tutti li libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar con le sue allegorie in prosa. Stampato in Venetia per Iacomo da Leco a in stantia de Nicolò Zoppino e Vincentio di Pollo, 1522, libro III.

5 Raphael Regius, Metamorphoseon Pub. Ovidii Nasonis libri XV, Venezia, libro III.

6 FUCHS 1993, nn. 217-231; LESSMANN 1979, nn. 102-121.

7 Per un elenco più puntuale si rimanda a quanto indicato in THORNTON-WILSON 2009, n. 230.

8 RAVANELLI GUIDOTTI 1985, pp. 118-120 n. 93, già pubblicato e variamente attribuito a Urbino o a Venezia, come ben ricorda la studiosa nella scheda.

9 NGV, Melbourne inv n. 4402-D3, Lascito Spensley.

10 RIZZINI 1916, nn. 1-5.

11 MANCINI DELLA CHIARA 1979, n. 207.

12 PAOLINELLI 2012, fig. 14.

13 GARDELLI 1999, pp. 320-322 n. 141.

14 IVANOVA 2003, p. 122 n. 111.

15 SOTHEBY’S New York, 26 gennaio 2012, lotto 312.

16 DRUOT Paris, 4 giugno 2010, lotto 39.

17 THORNTON-WILSON 2009, p. 388 n. 230.

18 Sulla problematica relativa ai corredi stemmati di questa città si veda quanto in WILSON 2002, pp. 125-165.

19 THORNTON-WILSON 2009, p. 388 n. 230.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
46

GRANDE PIATTO

CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, verde rame, giallo antimonio, giallo arancio, bruno di manganese nei toni del nero.

Alt. cm 6,4; diam. cm 42,3; diam. piede cm 22.

Sul retro, sotto il piede una etichetta con numeri “937/712000 sgell” delineati a inchiostro; a fianco, su un supporto verniciato, il numero a china 31305.

 

Il piatto circolare ha un ampio e largo cavetto, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello piuttosto alto. Il retro è decorato a cerchi gialli concentrici, mentre il fronte è interamente ricoperto da una fitta decorazione istoriata che mostra al centro del cavetto una scena di battaglia, mentre la tesa è decorata con figure di satiri, amorini e divinità disposte a riempire, attorno a quattro riserve simmetriche, tutte le campiture.

La tesa è centrata, in altro e in basso, da due figure di sirene affiancate da due putti e circondate da volute architettoniche. Al loro fianco quattro satiri sorreggono un tendaggio, dietro il quale si scorgono delle figure umane. Nella parte superiore il decoro prevede poi due mostri alati e due soldati romani che sorreggono due riserve polilobate, abitate da figurette ignude dipinte a grisaille ocra, mentre le restanti porzioni della tesa, in basso, sono riempite da putti e figure ignude.

Il cavetto è interamente interessato, in primo piano, da una scena nella quale si affrontano due schiere di cavalleria (1), mentre, sullo sfondo, svettano edifici circolari sormontati da cupole e una catena montuosa che si staglia su un cielo al tramonto, riempito da nuvolette dalla forma a chiocciola.

Anche quest’opera, come quelle che seguono (lotti 47-49)), appartiene alla vasta produzione della bottega già attribuita ad Andrea da Negroponte, per via di una coppa che reca questo nome conservata nel museo di Arezzo, e oggi raccolta sotto l’egida della più vasta bottega di Ludovico e Angelo Picchi, attiva a Castel Durante nella seconda metà del secolo XVI.

Elementi caratterizzanti sono lo stile pittorico rapido, corrivo, poco attento alla prospettiva, estremamente decorativo e caratterizzato da dettagli come il muso allungato dei cavalli, spesso con un collo sproporzionato, gli scudi decorati da mascheroni, gli elmi dipinti di scuro che incorniciano dei volti talvolta troppo piccoli, la scelta cromatica.

I confronti più vicini al nostro piatto, come sintassi decorativa, ci derivano dal bel bacile del Walters Art Museum di Baltimora (2), che mostra analoga scelta decorativa nella tesa, unita a un ornato a trofei tipico di Castel Durante, mente nel cavetto reca dipinta la scena della contesa di Apollo, e dal piatto del Museo Civico di Pesaro che raffigura l’episodio biblico di Davide e Golia con tesa stilisticamente vicina alla nostra  ma con l’inserimento di motivo a trofei (3).

Un altro collegamento stilistico con i decori della tradizione del centro di Castel Durante ci deriva dalla presenza dei due mostri alati, troneggianti nella parte alta della tesa, che ci ricordano gli ornati a “cerquate”.

Gli stessi mostri e un impianto decorativo simile li riscontriamo anche nel grande bacile del Museo di Cluny (4), dove all’interno del cavetto ritroviamo nelle vesti di Marco Curzio la medesima figura del cavaliere sul cavallo impennato, che qui compare sulla parte sinistra (5).

 

1 Ci è parso di riconoscere una fonte d’ispirazione per questa battaglia, o almeno dir parte della scena, nella xilografia con Pompeo che combatte gli Iberi in Asia tratta dal Dione Historico tradotta da M. Nicolo Leonniceno, Zoppino, Venezia 1533

2 Walters Art Museum di Baltimora, Inv. 48.1500.

3 Attribuito genericamente a Castel Durante nell’articolo sull’ esposizione di alcune ceramiche dei musei pesaresi (GIARDINI 1998, p. 14).

4 GIACOMOTTI 1974, pp. 342-343 n. 1042

5 Lo stile delle maioliche della vaseria Picchi tra gli anni ‘50 e ‘60 del Cinquecento definisce una seconda fase dell’istoriato durantino: si cominciano ormai a preferire i modelli e la “maniera” della pittura romana, conosciuta grazie ai cartoni di Battista Franco e Taddeo Zuccari per le credenze di maioliche donate da Guidobaldo II Della Rovere, cui queste bordure non sembrano indifferenti.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
45

COPPA SU BASSO PIEDE

URBINO O DUCATO DI URBINO, 1530 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con verde, giallo antimonio, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero, nero-marrone e viola, tocchi di bianco di stagno.

Alt. cm 4,5; diam. cm 24; diam. piede cm 13.

Sul retro in blu di cobalto è scritta la legenda “di Circia et glauco”.

 

La coppa poggia su un piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La decorazione istoriata interessa l’intera superficie del cavetto. Sul verso, decorato da linee concentriche gialle a sottolineare i profili, è delineata all’interno del piede la scritta “di Circia et glauco”.

La scena raffigurata mostra Circe seduta all’interno del suo palazzo con un ampio porticato sormontato da un terrazzo, arricchito da una vite che poggia su alcuni pilastri: di fronte a lei Glauco in abiti romani.

Il mito è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (1) e racconta del pescatore Glauco che, innamorato di Scilla ma incapace di sedurla, attraversa lo stretto per recarsi da Circe e ottenere una formula d’amore. Circe, figlia del Sole, s’innamora di Glauco e gli offre, giacendo con lei, di assecondare con un solo gesto chi lo ama e, contemporaneamente, di vendicarsi di chi lo disprezza, ma il giovane rifiuta e fugge lontano. Allora Circe infuriata muta la rivale in un mostro. Anche Glauco, in una seconda parte del mito, si muterà di sua volontà in divinità marina (2).

Il soggetto è dipinto con grande cura e i personaggi sono delineati con attenzione e notevole senso delle proporzioni: Glauco, in piedi, ha il busto un poco ritorto e avanza un passo verso la maga, seduta e coperta da un’ampia veste color arancio.

Il pittore è abile nell’utilizzare il colonnato come suddivisione spazio-temporale: al centro il colloquio sopradescritto, ai lati del piatto due scene erotiche, nelle quali però mutano i personaggi, che forse sono la rappresentazione dei due amori desiderati e mai realizzati. Tra due colonne a sinistra un personaggio, probabilmente Glauco stesso, fugge, mentre dall’altro lato un cigno avvolge il collo attorno a una colonna, forse una vittima della maga, forse un’interpretazione della metamorfosi di Scilla.

La narrazione è complessa e la scenografia di grande eleganza: i dettagli architettonici tipicamente rinascimentali e l’apertura di uno scorcio paesaggistico proprio al centro del piatto è di grande impatto.

Le caratteristiche stilistiche e la sintassi decorativa ci portano a orientare la nostra ricerca tra le maggiori botteghe operative nella città di Urbino nella prima metà del Cinquecento, anche se un’attribuzione di questa coppa a una bottega specifica del ducato di Urbino comporta qualche difficoltà.

L’analisi di confronto dell’architettura con esemplari che mostrano edifici con caratteristiche simili ci porterebbe a escludere l’intervento della mano di Francesco Durantino. Il pittore ci pare usare una modalità stilistica differente e soprattutto un modo di distribuire i suoi personaggi poco convenzionale rispetto alle architetture che li circondano: non le abitano, né ne usufruiscono, ma vi ruotano intorno. Si vedano ad esempio il piatto del Museo di Amburgo (3) con Procne e Filomena, nel quale l’architettura è protagonista e i personaggi appena la sfiorano o semplicemente la osservano nella concatenazione cronologica degli eventi raffigurati sopra, di fronte o di fianco all’edificio. Una simile distribuzione si ritrova in un altro piatto di questo autore con Dedalo e Icaro, ora alla Pinacoteca di Varallo Sesia (4), e anche qui i personaggi abitano l’architettura. Un elemento in comune con il piatto di Amburgo è invece l’uso della pavimentazione, che funge da base all’intera scena quasi accompagnando lo spettatore a salire la bassa gradinata all’esergo del piatto. Il medesimo espediente lo ritroviamo in un piatto con una danza dei puttini (5) conservato nella galleria estense di Modena (6) e attribuito alla bottega di Guido Durantino (7), databile tra il 1525 e il 1576.

Un’altra coppa, anch’essa assegnata a bottega urbinate degli anni 1535-1540, con una quinta architettonica che funge da scenografia per una complessa narrazione, è quella conservata al Museo del Louvre con La festa di Romolo per onorare Nettuno (8). Qui l’elemento architettonico è abitato da figure che mostrano alcune caratteristiche stilistiche simili a quelle raffigurate sul nostro piatto: si veda la figura di spalle che sorregge per mano un bambino, il modo di dipingere le gambe con il polpaccio tornito e i piedi sottili, lo sfondo con la montagna cuspidata che ritroveremo in seguito in opere della bottega Fontana (9).

Ci sembra di poter riconoscere un confronto morfologico e stilistico anche in una coppa a basso piede conservata al Museo d’Arti Decorative di Lione (10), dove nel disordine compositivo in cui si svolge il Rapimento di Proserpina ci pare di poter individuare lo stile veloce e nervoso con il quale il pittore ha delineato anche le figure del nostro esemplare: i volti di tre quarti, le figure di spalle, i corpi abbracciati ricordano i personaggi della nostra coppa. L’opera del museo francese è attribuita con qualche incertezza alla bottega di Guido Durantino e reca sul retro la data 1543.

Ci incoraggia a escludere, almeno per il momento, una paternità pesarese il confronto con una coppa o scudella transitata sul mercato lo scorso anno (11) e attribuita a Sforza di Marcantonio, nella quale compaiono elementi architettonici, un baldacchino con una figura coricata con caratteristiche morfologiche e impostazione decorativa che si ritrovano anche in piatti con quinte architettoniche più complesse.

 

1 OVIDIO, Metamorfosi, XIII-XIV. Per l’analisi del mito vedi anche ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p.159 n. 36.

2 Si nutre dell’erba magica che ha rianimato i pesci appoggiati su un prato dopo la pesca.

3 LESSMANN 1979, p. 182 n. 172.

4 ANVERSA 2004, p. 156 n. 70.

5 Documentato su diversi supporti materici, tra cui gli arazzi dei Gonzaga, lo schema deriva da uno schizzo realizzato da Raffaello per la Loggia di Psiche alla villa Farnesina, riprodotto da Marcantonio Raimondi tra il 1517 e il 1520 e da Cesare Remondino tra il 1531 e il 1546, con l’aggiunta appunto di archi e rovine all’antica.

6 Inv. 1996.

7 Per un inquadramento della bottega del maestro e una corretta storicizzazione si veda MALLET 1987, pp. 284-298.

8 GIACOMOTTI 1974, p. 281 n. 889.

9 Si veda ad esempio la montagna di sfondo nel piatto con Callisto e Diana conservato al Victoria and Albert Museum attribuito a Guido Durantino e al 1540 circa (inv. 708-1902).

10 FIOCCO-GHERARDI 2001, p. 246 n. 164.

11 ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p. 212 n. 47.

 

 

Stima   € 22.000 / 30.000
44

COPPA

PESARO, BOTTEGA DI GIROLAMO LANFRANCO DALLE GABICCE, 1540 CIRCA

Maiolica dipinta a policromia con colori arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, bistro e bianco di stagno.

Alt. cm 6,4; diam. cm 26,4; diam. piede cm 12,9.

 

La coppa presenta cavetto concavo con tesa alta terminante in orlo arrotondato e larga tesa appena inclinata. Poggia su alto piede rifinito a stecca.

La scena figurata occupa tutto il cavetto e raffigura la sfida tra Poseidone e Atena per la protezione della città di Atene. Il Fato aveva predetto che l’Attica sarebbe diventata la regione più forte, ricca e importante di tutta la Grecia e così gli dèi decisero di insediarsi nelle varie città, dove ognuno di loro avrebbe avuto il suo culto personale. Per Atene si svolse una gara il cui tema era quello di produrre la cosa che sarebbe stata più utile agli uomini. Le versioni sono qui discordanti: per alcune Poseidone per primo si recò in Attica, vibrò un colpo di tridente in mezzo all’Acropoli e fece apparire una fonte di acqua salata, mentre secondo un’altra versione del mito Poseidone avrebbe offerto in dono il primo cavallo, simbolo di guerra e potenza. Dopo di lui venne comunque Atena che piantò un ulivo simbolo di pace e fertilità. Ne nacque una contesa: per Apollodoro (1) lo stesso Zeus li fece smettere chiamando a giudici tutti gli altri dèi dell’Olimpo. Il loro giudizio, grazie alla testimonianza di Cecrope che asserì che la dea avesse per prima piantato l’ulivo, fu a favore di Atena, dalla quale la città ebbe il nome. Poseidone, con l'animo pieno d'ira, allagò per vendetta la pianura Triasia e fece sommergere dal mare tutta l'Attica.

Il pittore sviluppa la scena su più livelli prospettici. In primo piano le due divinità al centro: Poseidone che con la destra regge il tridente e con la sinistra il cavallo (2), che s’impenna esprimendo tutta la sua potenza, e un poco in disparte, sulla sinistra, Atena entra nella scena avanzando a larghi passi e indicando alle sue spalle l’albero di ulivo. Sullo sfondo il porto di Atene e la città turrita che s’innalza su un colle. Su un albero è appeso uno stemma bipartito forse a indicare un matrimonio. Allo stato attuale degli studi non ci pare di poter riconoscere le famiglie nobiliari, anche se è forse possibile ipotizzare, per la sola metà a destra dello stemma, che si tratti della famiglia fiorentina dei Bardi (3).

Lo smalto è grasso, spesso, i colori brillanti, la stesura è sicura; i tratti somatici dei volti sono delineati in bruno e la prospettiva è resa con sicurezza, mentre il paesaggio sullo sfondo è ricco di particolari, come ad esempio la torre bianca con il tetto acuminato che svetta sul cielo al tramonto.

La coppa trova preciso riscontro in un esemplare del tutto analogo per morfologia e sintassi decorativa, ma privo dello stemma, conservato al museo di Pesaro e attribuito alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce attorno al 1542 (4). La scena e la disposizione sono veramente molto simili, facendoci pensare ad un soggetto di successo presso la bottega di produzione, ma la mano è differente: più leggera ma anche più imprecisa nella coppa del museo pesarese, più incisiva, ma anche più irrigidita nella resa dei personaggi, nel nostro esemplare.

Riccardo Gresta nell’analisi della coppa del museo pesarese aveva già ipotizzato la possibile collaborazione di più mani nella stessa opera: lo studioso per la composizione geometrica degli abitati pensa a una paternità del Pittore di Cadmo (5), individuando una mano diversa per le figure (6).

Nello sfondo e nei dettagli delle case, nelle lumeggiature in bianco di stagno delineate con precisione e perizia, nella resa del cavallo in bianco su bianco con ombreggiature di bistro, e in quella dell’incarnato e della muscolatura della divinità marina, si ha la sensazione, nella nostra opera, di una maggiore uniformità pittorica e di trovarsi di fronte a un artista esperto.

L’opera di  Girolamo Lanfranco dalle Gabicce fu studiata e ben definita da Grazia Biscontini Ugolini (7) e da allora si sono potuti raccogliere e individuare molti esemplari ascrivibili a questa importante personalità, fra i quali la bella coppa con la creazione conservata al Victoria and Albert Museum datata 1540 e dichiarata come “fatta in Pesaro”, dove ci pare di ravvisare le stesse modalità decorative soprattutto nella resa di alcuni elementi del paesaggio.

 

1 PSEUDO APOLLODORO, Biblioteca, III, 14.1.

2 La figura del cavallo e della divinità, come suggerito da GRESTA 1998, dovrebbe essere ispirata da un bulino di Giulio Bonasone inciso per illustrare un emblema di Achille Bocchi (MASSARI 1983, p. 139), cui pensiamo sia stata associata la figura dl Poseidon dal Quos Ego di Raffaello (vedi lotto 38 di questo stesso catalogo).

3 Lo stemma dei Bardi consiste in alcune losanghe rosse (da cinque a sette) messe in banda in campo giallo. Nonostante l’avvenuto fallimento della famiglia di banchieri avvenuta nel 1345, la stessa mantenne un certo prestigio a Firenze annoverando una parentela con i Medici: Contessina de’ Bardi fu sposa infatti di Cosimo de’ Medici.

4 FONTEBUONI 1985-1986, scheda n. 32, inv. 4161.

5 GARDELLI 1987, pp. 96-97.

6 GRESTA 1998, pp. 43-44.

7 BISCONTINI UGOLINI 1979, pp. 27-32.

 

 

 

 

Stima   € 28.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
43

PIATTO

URBINO, BOTTEGA FONTANA (DURANTINO), 1540 CIRCA

Maiolica dipinta a policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. del piede cm 11.

Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto è delineata la scritta “Tutia porta/Al temple aqua col cribulo”.

 

 

Il piatto ha un ampio cavetto e una tesa larga e obliqua, terminante in un orlo che sul retro presenta due filettature concentriche, seguite da altre due linee gialle a sottolineare i contorni. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso e molto ricco, con vetrina brillante sia sul fronte sia sul retro. Il decoro è realizzato con abbondante uso dei pigmenti e sono presenti alcune ombreggiature verdi sul retro.

La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura il Sacrificio della Vestale Tuccia che, ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità (incestum), chiese di poter provare la propria innocenza sottoponendosi a una pena di prova, consistente nel tentare di raccogliere l'acqua del Tevere con un setaccio: la prova riuscì dopo l’invocazione alla dea Vesta e Tuccia fu ritenuta innocente.

La donna è raffigurata con il setaccio ricolmo d’acqua tra le mani mentre si avvicina all’altare, su cui arde un fuoco, accolta da due sacerdoti barbati e con il capo velato. L’ara è collocata di fronte a un tempio porticato e con una copertura a cupola; sullo sfondo si scorge una città con edifici arrotondati, cupole e torri sormontate da curiosi e alti pennoni, e tra le due parti scorre un fiume.

Questo soggetto fu caro alla pittura su maiolica nel Rinascimento (1).

Un confronto, che ci aiuta a delimitare l’area di produzione, ci viene fornito da una splendida coppa, conservata al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (2), già attribuita a Nicola da Urbino, che raffigura una Scena di sacrificio al tempio di Apollo, come si deduce dall’iscrizione apposta sul retro nei modi grafici del maestro urbinate. Le due opere, stilisticamente molto differenti, condividono lo stesso humus culturale, più semplificato e corrivo nella nostra opera, più sofisticato e colto nell’opera del museo faentino.

Ma è il confronto con un piatto del Museo Fitzwilliam di Cambridge (3) che ci fornisce una collocazione più precisa: si tratta di un piatto istoriato con La regina di Saba che ascolta il giudizio di Salomone, firmato “nella Bottega di Maestro Guido Durantino” e databile agli anni ‘30 del Cinquecento (4). Lo stile, un poco corrivo, a larghe pennellate, e la forma delle architetture, in particolare quella della gradinata, ci inducono ad avvicinare con buona sicurezza l’opera in esame a quella del museo inglese.

 

1 Si pensi ad esempio alle varie redazioni che ne fece Xanto Avelli (MALLET 2008, p.154 n. 53).

2 Inv. 540, già pubblicato in BERNARDI 1980, pp. 47-48 n. 55.

3 POOLE 1997, p. 68 n. 29.

4 MALLET, “Burlington Magazine” 1987 pp. 284-298.

 

 

Stima   € 22.000 / 30.000
42

PIATTO

URBINO O DUCATO DI URBINO, 1540 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 4; diam. cm 29,7; diam. piede cm 8,5.

Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto la scritta Europa.

 

 

Il piatto ha un cavetto largo e concavo a stacco marcato, la tesa è larga e obliqua e termina in un orlo arrotondato e orlato di giallo. Alcune linee gialle sul retro ne sottolineano i contorni. Il piatto poggia su un piede basso e privo di anello.

Sul verso, al centro del piede, in blu di cobalto si legge la scritta Europa. Il piatto è decorato su uno smalto grasso, molto ricco con vetrina brillante molto lucida e vetrosa sia sul fronte sia sul retro, e con abbondante uso di pigmenti.

La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e descrive il momento in cui Europa sale in groppa al toro sotto le cui spoglie si cela Giove, che intende rapirla.

L'episodio è ben distribuito sul piatto a raffigurare narrativamente momenti ben distinti: diviso in tre parti, a sinistra Europa e le sue ancelle sono dipinte vicino al toro, al centro della composizione la giovane donna è raffigurata ormai in groppa all'animale e nel momento immediatamente precedente al rapimento, a destra accorre il padre Antenore.

Alcuni esemplari di confronto sono conservati al Museo di Pesaro e ci fanno comprendere come questo episodio della mitologia antica (1) abbia avuto un grande successo nel Rinascimento, tanto da essere tra quelli più raffigurati in maiolica durante tutto il secolo XVI (2). Tra questi, un piatto ormai attribuito a Sforza di Marcantonio (3), databile al 1550 circa, si avvicina al nostro per scelta decorativa, ma non per stile pittorico; inoltre, diversamente dal nostro esemplare (4), aggiunge alla scena il momento del rapimento vero e proprio, con Europa in groppa al toro ormai perduta in mezzo al mare. Questa versione trae ispirazione dalle incisioni di Bonasone, e i personaggi sembrano più vicini a tale sensibilità.

La seconda parte del rapimento compare anche in un altro esemplare che, per sintassi decorativa e ambito culturale, ci pare più vicino al nostro, benché anch’esso stilisticamente differente.

La scena, tratta dall’incisione di Bernard Salomon, è stata poi riprodotta per intero anche in un altro piatto, sempre di ambito urbinate, dello stesso museo (5), anche se non avvicinabile concettualmente o stilisticamente a quello in esame.

Infine un piatto, comparso sul mercato lo scorso anno (6), espone l’episodio in maniera analoga: con le ancelle unite in gruppo e la protagonista rivolta di spalle mente sale sul toro.

Anche nel nostro caso, come per l’ultimo esemplare sopraccitato, ci pare che l’opera più vicina per l’interpretazione della scena sia la coppa conservata nel Museo di Pesaro e attribuita al “Pittore del Pianeta Venere“, vicino a Girolamo Lanfranco dalle Gabicce, che mostra anch’essa la protagonista seduta di spalle (7). È del resto assai probabile che questi esemplari traggano ispirazione da una fonte incisoria simile o da un capostipite per tale iconografia: comunque dalla miscellanea di più fonti incisorie da identificare.

Il piatto in esame s’inserisce dunque nel contesto culturale di pittori di scuola urbinate che operano attivamente in tutto il ducato, e che per confronto stilistico si possono avvicinare alla produzione della prima metà del secolo XVI.

Il piatto compare nel catalogo di vendita della collezione Scott-Taggart come opera di Urbino databile 1550-1560 (8).

 

1 OVIDIO, Metamorfosi, II, 858-875.

2 Anche grazie alla diffusione dei testi ovidiani in edizioni figurate, come quella lionese di Bernard Salomon (1557).

3 FONTEBUONI 1986, scheda catalografica 36; BISCONTINI UGOLINI, 1979, pp. 7-10 tavv. III-IV; LESSMANN 1979, nn. 465-466, 486-496 e XXXII, XIV; MALLET 1987, pp. 82-84 tavv. 27, 29, 30.

4 Inv. 4385 scheda 23 di P. Buda in CASAZZA 2005, p. 151 n. 23.

5 Inv. 4404 Museo di Pesaro.

6 ANVERSA in PANDOLFINI 2014, pp. 198-201, n. 44.

7 MANCINI DELLA CHIARA 1979, n. 31.

8 CHRISTIE’S, 14 aprile 1980, lotto 151.

 

 

Stima   € 30.000 / 40.000
41

PIATTO

PESARO, PITTORE DEL PIANETA VENERE (?), 1542-1548 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. piede cm 11.

Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto “presa de Iosefe/ Dalifratelli”.
 

Il piatto presenta ampio cavetto, tesa larga e obliqua terminante in orlo arrotondato. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso, molto ricco e materico con vetrina brillante lucida e vetrosa sia sul fronte, sia sul retro e abbondante uso dei pigmenti. Vi sono ombreggiature verdi sul retro, ornato da righe gialle concentriche che ne sottolineano gli stacchi di forma: al centro del cavetto la scritta in blu di cobalto “presa de Iosefe/ Dalifratelli”.

La scena delineata sul fronte interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura l’episodio biblico del rapimento di Giuseppe da parte dei fratelli (1). Giuseppe era nato da Rachele, seconda moglie di Giacobbe, dopo anni di sterilità: alla sua nascita il padre Giacobbe era già anziano e lui divenne il figlio prediletto. Questa preferenza del padre alimentò la gelosia dei suoi fratellastri, che complottarono contro di lui. Il primogenito si oppose all'uccisione di Giuseppe, preferendo che fosse gettato in fondo a un pozzo, ma infine si decise di venderlo per venti monete d'argento a una carovana di mercanti di passaggio: Giuseppe, schiavo, fu condotto in Egitto. I suoi fratelli quindi utilizzarono la tunica, donatagli dal padre come segno di predilezione, cosparsa di sangue di capra per far credere al padre Giacobbe che Giuseppe fosse stato ucciso da una bestia feroce.

Nel piatto il giovane è disegnato con le mani legate tra i fratelli che lo conducono verso il pozzo, dove li attende uno di loro, il maggiore, che ne indica il fondo. Un’alta roccia fa da quinta alla scena, mentre sullo sfondo si scorge un paesaggio con montagne alte dal profilo arrotondato e un villaggio con cupole e torri cuspidate si specchia in un lago.

Le figure sono dipinte con uno stile dal tratto deciso: i volti e i dettagli sono illuminati da tocchi di bianco di stagno, in contrasto con la scelta cupa dei colori molto materici.

Un confronto stilisticamente pertinente si ritrova nel piatto con la contesa di Pan e Apollo della Wallace Collection di Londra, attribuito al Ducato di Urbino negli anni 1540 circa (2). Si noti come il volto di Apollo si avvicini molto a quello di uno dei fratelli di Giuseppe, così come quello del personaggio barbato seduto nel piatto londinese è molto simile a quello dei fratelli più anziani dipinti nel nostro piatto. Si vedano inoltre lo stile delle mani, le braccia robuste, la forma delle chiome degli alberi a ciuffi larghi e appiattiti, le rocce allungate e scontornate, ma soprattutto la forma delle montagne e dei villaggi con cupole e torri dal tetto acuminato, molto rassomiglianti nelle due opere.

Gli stessi volti allungati con le orecchie dall’attaccatura bassa, i piedi dalle dita allungate, le architetture con le facciate chiare, i tetti spioventi rossi e le finestre piccole rimarcate da una linea chiara si ritrovano poi in un altro piatto della stessa collezione londinese, raffigurante Latona che punisce il popolo della Licia e che reca sul verso la data 1551: qui però la grafia della scritta ci pare differente.

Un articolo di Riccardo Gresta ci propone alcuni piatti in cui molte caratteristiche stilistiche si avvicinano a quelle fino ad ora individuate nel piatto oggetto di studio. Lo studioso analizza un certo numero di opere, mettendole in correlazione con il noto bacile del Museo d’Arti Applicate del Castello Sforzesco che ha dato il nome al Pittore del Pianeta Venere. Il confronto con le opere raccolte da Gresta ci fa pensare a una possibile attribuzione a questo pittore attivo a Pesaro tra il 1542 e il 1548 circa (3).

Il piatto è appartenuto alla nota raccolta Murray, che fu esitata in una celebre asta nel 1929: il piatto compare al n. 121 come opera urbinate della metà del secolo XVI (4).

 

1 Genesi, 30, 24

2 NORMAN 1976, pp. 246-247 n. c. 121: si fa riferimento alla vicinanza di questo piatto con le opere attribuite da Rackham al pittore dei miti in abiti moderni (Cat. p. 243 n. 735).

3 GRESTA 1992, p. 41.

4 MURRAY SALE 1929, p. 32 tav. XXI.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
40

COPPA

URBINO, SECONDO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con azzurro, verde ramina, bruno di manganese, giallo ocra, blu di cobaltoe bianco di stagno.

Alt. cm 5,2; diam. cm 26,5; diam. del piede cm 12,6.

 

 

La coppa, poggiante su piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La scena istoriata raffigura Il sacrificio di Marco Curzio (1), avvenuto quando, per un terremoto o per un'altra causa naturale, il suolo franò nel centro del foro romano, lasciando aperta un'ampia voragine. Nonostante tutti vi gettassero della terra non si riusciva a riempirla, fino a quando, su preciso monito degli dèi, gli indovini sostennero che si doveva consacrare quel luogo con “l'elemento principale della forza del popolo romano”, se si voleva che la Repubblica romana durasse in eterno. Allora Marco Curzio, un giovane distintosi in guerra, riconoscendo nel valore militare ciò che gli dèi richiedevano, si offrì in voto e, montato in groppa a un cavallo, si gettò armato nella voragine: la folla, colpita dal gesto, lanciò frutta e libagioni su di lui e la voragine ne fu colma (2).

Questa vicenda riscontrò un grande successo nell’iconografia rinascimentale e in particolar modo sulla maiolica istoriata. Si vedano ad esempio i piatti del Museo di Pesaro che, con modalità stilistiche differenti, in alcuni casi accomunati dalle medesime incisioni di riferimento, raffigurano questa stessa scena (3); ma l’elenco di come questo episodio sia stato trattato in maiolica sarebbe assai lungo.

Notiamo nell’analisi della coppa che l’autore ha associato più incisioni nella formazione del soggetto da raffigurare: si riconosce nei personaggi assembrati ad assistere al sacrificio del giovane valoroso, una parte del popolo che affolla l’agorà nell’incisione di Marcantonio Raimondi che raffigura La predica di San Paolo nell'Areopago di Atene (4) (vedi fig. 1). La figura del Marco Curzio da Marcantonio Raimondi invece non ci pare possa costituire il riferimento iconografico corretto per l’opera in esame, pur essendo probabilmente assai nota nelle botteghe urbinati.

Stilisticamente la coppa ci pare vicina alle produzioni urbinati, o comunque di una bottega attiva nel Ducato di Urbino: anche la forma della coppa è assai usata nel ducato stesso. E anche l’uso di più fonti incisorie, secondo l’abitudine delle botteghe marchigiane, e la capacità di unirle in una corretta proporzione ci conforta sull’area produttiva e ci fa pensare a un pittore esperto. Ciò che ci colpisce è l’abilità dell’artefice di disporre con grande maestria le figure all’esergo del piatto delineandole con libertà, nonostante il riferimento alle incisioni.

I pigmenti sono variamente diluiti per dare profondità alle pieghe delle vesti, i volti sono illuminati da tocchi di stagno che fanno spiccare i nasi, dritte le bocche chiuse, il cavallo è ben descritto grazie a un sapiente gioco di chiaroscuro e con ombreggiature con tocchi di bistro, così come il cavaliere: si noti per esempio la cura nella realizzazione dell’elmo. Ma sono le architetture dello sfondo, il muro arcuato (5), le cupole, i fornici ad arco, unitamente agli alberi dal tronco scuro e sinuoso, che ci portano a ragionare e a confrontarci con autori attivi della prima metà del secolo e con maestranze che conoscono l’operato di Nicola da Urbino.

La coppa è transitata sul mercato antiquario ed è pubblicata nel catalogo dell’asta del 1976 (6), dove veniva indicata come piatto di Urbino del 1540 circa.

 

1 Livio, Ab Urbe condita, VII, 6.

2 Secondo alcune versioni il lago Curzio prese il nome da questo eroe e non da Curzio Mezio, soldato di Tito Tazio in tempi più remoti.

3 Inv. 4314 FONTEBUONI 1985, n. 179, inv. 4199; infine inv. 4359, che il Mallet dava già opera come del ”Maestro S” FONTEBUONI 1985, n. 219.

4 La predica di San Paolo nell'Areopago, bulino, da un cartone di Raffaello oggi al Victia and Albert Museum preparatorio per un arazzo nella Pinacoteca Vaticana (BARTSCH XXVI/14, n. 44 e H. SHOEMAKER 1981, n. 47).

5 Il richiamo va ad alcune opere di Xanto Avelli o al piatto datato circa al 1533 attribuito a Nicola da Urbino in MALLET 2008, p. 132 n. 42, oppure p. 86 n. 20.

6 SOTHEBY’S, 22 ottobre 1976, lotto 40.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
39

PIATTO

URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DURANTINO, 1540-1545 CIRCA

Maiolica dipinta a policromia con azzurro, giallo, giallo arancioe bruno di manganese.

Alt. cm 2,5; diam. cm 27,2; diam. piede cm 9,4.

Sul retro, sotto il piede, delineata in blu di cobalto la scritta Nottuno.

 

Il piatto ha un cavetto ampio e poco profondo, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato; poggia su un piede ad anello. Il fronte è interamente ricoperto da una decorazione istoriata che interessa il cavetto e la tesa senza soluzione di continuità.

Nella parte inferiore del cavetto e della tesa è raffigurato il carro di Nettuno che sorge dal mare, trainato da cavalli marini e scortato da due tritoni: uno alle spalle del dio e uno sulla tesa a destra (1). La divinità brandisce il tridente rivolgendolo verso il basso, gesto ripetuto da un tritone raffigurato sulla tesa a destra. Sullo sfondo le navi troiane squassate dai venti, dipinti mentre soffiano da un nimbo illuminato dai fulmini e collocato nella parte superiore del piatto, sulle quali si intravede la figura di Enea con le braccia alzate in cerca di aiuto.

La scena riproduce in maiolica la celebre incisione di Marcantonio Raimondi (1480 circa - 1534), ritenuta uno dei suoi capolavori, tradizionalmente intitolata “Quos Ego” (2) (vedi fig. 1) dal noto verso di Virgilio dal libro I dell'Eneide (3).

Il piatto in esame è stato pubblicato dal Professore Gaetano Mario Columba nel marzo 1895. Lo studioso siciliano mette in relazione l’incisione con la scena raffigurata sul piatto (4) e la paragona a opere di maiolica con simile soggetto, probabilmente ispirate alla medesima incisione, ipotizzando che per alcune caratteristiche stilistiche, come la presenza dei fulmini, il pittore si sia potuto ispirare a disegni o modelli presenti alla corte di Urbino dai quali il Raimondi avrebbe in seguito tratto l’incisione.

Esistono comunque altre opere che s’ispirano alla celebre opera del Raimondi, che sappiamo posteriore al 1516, in cui si riconoscono varianti e interpretazioni da parte degli autori. Il confronto più prossimo, già indicato da Columba, è il bel tagliere di bottega urbinate conservato al Museo del Louvre, recante sul retro la scritta “1543/Nettuno dio del mare”, attribuito da Giacomotti alla bottega Fontana (5).

Un altro piatto, datato 1544, con il medesimo soggetto è conservato al Museo Nazionale Ungherese di Budapest: morfologicamente affine, mostra caratteristiche stilistiche e scelte decorative differenti pur ispirandosi al medesimo soggetto. La scelta cromatica è diversa e la stesura molto più rigida: il dio del mare è raffigurato su una conchiglia e i cavalli marini sono disposti e realizzati in modo libero, senza la consueta coda di delfino; i venti sono sostituiti da nubi tempestose e il mare è popolato da delfini che prendono il posto dei tritoni rappresentati da un’unica figura dipinta di spalle (6).

Una coppa, databile tra il 1560 e il 1570, con la stessa scena riprodotta con inversione verso destra, è conservata al Victoria and Albert Museum (7): anch’essa presenta la scritta “notuno” al verso, ma ha caratteristiche coloristiche e stilistiche più vicine a quelle che ritroviamo nell’ambito della bottega Fontana: si vedano in particolare i musi dei cavalli e la figura stessa della divinità.

Un altro esempio di come l’incisione sia stata utilizzata dalle botteghe urbinati ci viene dalla porzione di vaso recentemente esposto alla mostra fiorentina Fabulae Pictae (8): si tratta del frammento di un’anfora del Museo di Santa Giulia di Brescia, del terzo quarto del secolo XVI, che riproduce con grande qualità pittorica la scena in oggetto.

Ancora, ci conferma la diffusione della fonte nelle botteghe di maiolica il grande piatto conservato nella Wallace Collection di Londra (9), nel quale il dio del mare è raffigurato nella parte inferiore, mentre nella parte superiore sono riprodotti, entro lunette, i carri di Venere e Giunone, anch’essi tratti dalle medesime incisioni, così come i versi virgiliani trascritti in due nastri che vanno a riempire le campiture vuote. Nella scheda di quest’opera, tra i numerosi confronti citati si fa riferimento allo studio di Columba e quindi all’opera oggetto di studio.

Tra gli altri citiamo la splendida coppa della collezione William Beare studiata da Mallet (10) e siglata sul retro da Virgiliotto Calamelli, oggi conservata all’Ashmolean di Oxford (11): la divinità è dipinta con grande delicatezza di tratto e di gamma cromatica.

Di recente l’opera oggetto di studio è apparsa in alcuni saggi pubblicati in rete. Tra questi, particolarmente seducente quello proposto da Maria Pia Di Marco, che legge nell’incisione di Raffaello una voluta celebrazione dell’opera di pacificazione divulgata dalla propaganda di Papa Giulio II, considerata sovrapponibile alla figura virgiliana di Nettuno che placa il mare, alla quale a suo tempo già si era affidata la propaganda augustea (12). Nell’orazione funebre di Papa Giulio II il Fedra lo paragona a Nettuno che pacifica le acque, e l’ideale della pax augustea è effettivamente presente nella propaganda del papa della Rovere (13).

 

 

1 Ipotizziamo che il gesto possa essere inteso come un comando alle acque e ai venti affinché si plachino.

2 Bartsch 352 I/III. Per alcuni il disegno che Raffaello chiede espressamente al Raimondi di tradurre in incisione (VASARI 1998, p. 411), oggi perduto, sarebbe derivato dalle Tabulae Iliache per via delle scene raffigurate disposte alla maniera dei rilievi antichi. Secondo alcuni studiosi nel riquadro centrale potrebbe essere intervenuto anche Agostino Veneziano.http://www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede/F0130-00355/

3 Il famoso verso 135 del I libro dell'Eneide comincia con le due parole “Quos ego” pronunziate da Nettuno contro i venti scatenati da Eolo sul Mar di Sicilia. L’artificio retorico, l’aposiopesi, è utilizzato da Virgilio per creare un’idea di sospensione, di urgenza di agire anziché soffermarsi a gridare.

4 COLUMBA 1895. Columba elenca le differenze con grande attenzione sottolineando come per alcune scelte il pittore su maiolica paia inconsciamente interpretare meglio la scena virgiliana rispetto ad alcune licenze artistiche che il maestro urbinate si prende rispetto al testo virgiliano (v. 7), come la scelta di raffigurare Nettuno su una conchiglia e non su un carro.

5 GIACOMOTTI 1974, n. 998.

6 Inv. 4413, già pubblicato in PATAKY-BRESTYANSKY 1967, tav. XVI, reca sul retro la data 1544 in cartiglio e la scritta “Nettunno dio del mare”, attribuito alla bottega Fontana; anche in RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 81 tavv. 130 e 13q, studio che ne conferma appieno l’attribuzione a Orazio Fontana.

7 RACKHAM 1977, inv. C.2266-1919.

8 MARINI 2012, pp.226, n. 23

9 L’attribuzione di questo piatto è stata a lungo discussa tra gli studiosi: si veda NORMAN 1976, pp. 88-90 n. C36.

10 MALLET 1974 tav. XVII a;b

11 WA 2005, 205.

12 Il Papa nel piatto di Maria Pia Di Marco.

13 Nell'orazione funebre, il bibliotecario pontificioTommaso Inghirami lo paragonò al Nettuno virgiliano, e tuttavia la metafora gli sembrava riduttiva (sono parole sue): non bastava a celebrare la capacità del pontefice di ristabilire l'ordine con tanta celerità. Un ulteriore approfondimento sulla propaganda di Papa Giulio II ci viene fornito in ROSPOCHER 2008.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
38

PIATTO

URBINO, FRANCESCO XANTO AVELLI, 1528-1529

Maiolica dipinta in policromia, con arancio, giallo, verde, blu, bianco di stagno e bruno di manganese nei toni del nero, del marrone e del viola.

Alt. cm 2,7; diam. cm 26.5; diam. piede cm 9.

Sul retro l’iscrizione “Vedi Porzia ch'il ferro el/fuoco affina. historia Y/φ. Sul retro etichetta rotonda con scritta di collezione in inchiostro nero “Xanto Avelli Urbino 1530”.

 

Il piatto presenta basso cavetto e larga tesa appena inclinata. L’orlo sul retro mostra tre filettature a rilievo concentriche. Poggia su basso piede privo di anello.

La scena raffigurata è quella del suicidio di Porzia perpetrato in un modo tanto inusitato e così descritto da Marziale (1): “Dixit et ardentis avido bibit ore favillas. I nunc et ferrum, turba molesta, nega” . Come sempre Xanto Avelli ci descrive la scena aiutandoci nella comprensione, con una spiegazione sul retro “Vedi Porzia ch'il ferro el/fuoco affina. historia Y/φ”; utilizza inoltre nella legenda la frase tratta dai Trionfi del Petrarca (2) e appone la scritta historia e non fabula poiché si tratta di un episodio di storia romana e non di una vicenda mitologica (3).

Porzia, figlia di Catone Uticense e moglie di Marco Giunio Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare, alla notizia della morte del marito (42 a.C.) si uccide ingoiando dei carboni ardenti. Questa vicenda storica è narrata da Valerio Massimo (4), che così descrive il tragico atto: "Quando venisti a sapere che il tuo sposo Bruto era stato sconfitto e ucciso a Philippi, poiché non ti si dava un pugnale, non esitasti a inghiottire castissimi carboni ardenti, imitando con il tuo coraggio femminile la morte virile di tuo padre". I carboni ingoiati da Porzia sono "castissimi", perché la castità era stata la dote principale di questa donna coraggiosa: e la castità era una delle virtù fondamentali della matrona romana (5). A far passare Porzia per leggenda non fu dunque il suicidio in sé, ma il modo in cui Valerio Massimo lo descrive, cioè “tale da meritare l’ammirazione di tutti i secoli futuri” e da superare addirittura il coraggio dello stesso padre.

La giovane donna è dipinta sulla sinistra del piatto mentre, seduta su un gradino, inghiotte le braci; a destra un’ancella, sconvolta, cerca aiuto e in basso un cagnolino, con una piccola preda in bocca, guarda lo spettatore con fare smarrito; al centro il focolare, protagonista della composizione.

Il piatto è stato pubblicato in occasione degli atti del convegno su Francesco Xanto Avelli a cura di Carmen Ravanelli Guidotti (6): a questo studio faremo riferimento per l’analisi del piatto.

Anche in questo caso si riconosce l’uso di più incisioni: Porzia in una delle madri nell’opera  La strage degli innocenti (vedi fig. 1) (7), mentre l’ancella è tratta dall’incisione con “gli Ebrei che raccolgono la manna” (vedi fig. 2) (8). Il contesto è quello tipico dell’architettura rinascimentale (9). Un suggerimento sull’immagine del fuoco tratto da un’incisione di Marcantonio Raimondi (10) ci deriva da un articolo di Maria Cristina Villa nel quale viene pubblicato il piatto in relazione alla influenza della pittura di Raffaello nella maiolica del Rinascimento (11).

Concordiamo con la datazione proposta da Carmen Ravannelli Guidotti, che pubblica il piatto come opera degli anni 1528-1529, non solo per la presenza della lettera Y (12) o lettera feliciana, all’uso della quale il pittore resterà fedele fino al 1530 circa, quando comincerà a firmare per esteso. Tra le opere affini ricordiamo un piatto con Narciso della Wallace Collection e uno registrato nell’archivio postbellico del Metropolitan Museum of Art di New York con “Atteone”, che condivide con l’opera precedente la fedeltà alle stesse fonti incisorie. Nella stessa serie è stato poi inserito un piatto con “Egeo”, che abbiamo avuto occasione di approfondire lo scorso anno (13): anche questo piatto è databile al 1528-1529, ma mostra un disordine compositivo che non riscontriamo nella sintassi pacata e armonica dell’opera in corso di studio.

Le figure di scorcio, con i volti appena visibili, sono abilmente impiegate da Xanto Avelli nella composizione dell’opera, mentre la tenda le conferisce un tocco di colore richiamando il gusto per il verde scuro, così riconoscibile nelle opere del maestro rodigino. Lo scorcio del paesaggio è proporzionato e apre la composizione, che risuta ancora schematica e rigorosa, con un’attenzione alle proporzioni che in altre opere andrà perduta.

Altri piatti rivelano la stessa fonte d’ispirazione: la Porzia di un piatto dipinto con il pittore LU Ur, datato 1535, e uno con legenda simile e datato 1541 siglato con la X, ora al Victoria and Albert Museum.

Il piatto, appartenuto alla collezione di Micheal J.Taylor, è stato venduto in un’asta Sotheby’s nel 1981 (14) ed è in seguito transitato alla galleria Barberini di Terni.

 

1 MARZIALE, Epigrammi, I, 42: “Tacque,/e con frenetica bocca inghiottiva/Rovente bragia. Via via/Piccola gente fastidiosa: provati/Adesso a rifiutarle un ferro”.

2 PETRARCA, Triumphus cupidinis, III, 31.

3 MALLET 2008, p. 34 spiega come le prime legende utilizzate da Xanto siano in genere citazioni da Petrarca, come in questo caso, spiegando poi il probabile significato delle stesse cui le citazione erano associate. Sul petrarchismo di Xanto Avelli si veda anche HOLCROFT 1988, pp. 225-235.

4 VALERIO MASSIMO III, 2, 15 e IV, 6, 5.

5 Come ci rammenta Eva Cantarella nel suo studio sulle donne romane (CANTARELLA 1999, pp. 121-122), Porzia non era univira: aveva infatti sposato Bruto in seconde nozze, dopo il divorzio da Bibulo, e non era quindi “quel tipo di matrona di cui i romani continuavano ad esaltare le virtù”. Cantarella ci rammenta che molto forte era il concetto della castità e gli autori latini che ci narrano di Porzia in realtà non fanno alcun riferimento ai suoi due matrimoni, riservando l’attenzione al fatto che fosse moglie di Bruto, un campione dei repubblicani, e soprattutto figlia di Catone.

6 RAVANELLI GUIDOTTI 2007, pp. 70-89.

7 NICOLAS BEATRIZET, Il massacro degli innocenti BARTSCH VOL. 29/15, N.14

8 AGOSTINO VENEZIANO, Gli ebrei raccolgono la manna BARTSCH VOL. 26/14, N.8 su disegno di Raffaello, oggi perduto.

9 Si vedano in merito le maioliche della mostra di Milano in BERNARDI 1981.

10 La Fortezza, BARTCH 27-14

11 VILLA 2002, pp. 54-67.

12 Per il “segno Y/φ” si veda quanto detto in MALLET 1980, p. 68, e quindi in ID. 2007, p. 34; per la lettera feliciana quanto detto da Carmen Ravanelli Guidotti in ID. 2007 p. 72, che ci ricorda come gli studi paleografici registrino questo segno come incluso tra le abbreviazioni e diffuso alla fine del Quattrocento grazie a Felice Feliciano (1443-1479).

13 ANVERSA in PANDOLFINI 2014, pp. 168-173 n. 38.

14 SOTHEBY’S, Londra, 14 aprile 1981, n. 28.

 

 

Stima   € 100.000 / 150.000
Aggiudicazione  Registrazione
37

COPPA

URBINO E DUCATO DI URBINO, AMBITO DI NICOLA DA URBINO, 1525-1535 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,5; diam. cm 25,7.

 

 

La coppa ha cavetto concavo e tesa bassa, terminante in un orlo sottile e arrotondato. Si presenta priva di piede.

La scena si svolge all’interno di un porticato a pianta centrale, con volte a vela e un’esedra sullo sfondo, pavimentato a grandi lastre quadrate. Al centro della composizione è collocato un altare dalla forma “a candelabro” (1) con ricca decorazione a foglie d'acanto, sul quale è acceso un focolare. Ai piedi dell'altare, un sacerdote barbato sacrifica un animale con una spada dalla lama larga e ricurva. Alle sue spalle un uomo, anch'esso barbato e avvolto in un manto arancio (2), assiste alla scena, mentre sul lato opposto una donna velata accompagna un fanciullo che sorregge con la mano destra un animale da sacrificare. Sullo sfondo, dietro le architetture, un paesaggio accennato spicca in ombra sul cielo al tramonto.

La composizione richiama, con molte varianti, quella replicata in un’incisione di Marco Dente tratta da un disegno realizzato da Raffaello per le Logge Vaticane e già utilizzata in maiolica presso le botteghe urbinati (3).

Una scena di sacrificio, invero più affollata, attribuita alla bottega di Guido Durantino, è conservata al Museo di Berlino (4) e mostra una figura di vecchio che sacrifica un capro davanti ad un altare, in presenza di un sacerdote con il capo velato e davanti a numerosi personaggi: i modi stilistici sono vicini a quelli della cerchia di Nicola da Urbino.

La nostra coppa era stata attribuita a Nicola Pellipario da Rackham, che in una lettera al proprietario, datata 24 novembre 1962, scriveva: “Non ci sono dubbi che tu sia il proprietario di un altro lavoro di Nicola Pellipario (5). Daterei la coppa al 1520 o forse al 1525”(6). Tale attribuzione è accolta anche da Maria Cristina Villa, che pubblica la coppa come confronto in un articolo su un istoriato inedito di Nicola da Urbino (7). Nell’articolo vengono raffrontate alcune opere del maestro urbinate nelle quali si riscontrano effettivamente molti elementi comuni, vuoi nella resa delle figure vuoi in quella dei personaggi.

L’architettura con il porticato ha invece un riscontro in un altro piatto pubblicato nello stesso articolo e conservato al Castello di Wawel a Varsavia (8), nel quale la vicenda narrata si svolge in un porticato del tutto coerente con il nostro: Maria Cristina Villa fornisce tutti i dettagli relativi alle fonti d’ispirazione e all’utilizzo delle stesse da parte di Nicola e della sua cerchia.

Tra le opere di confronto, ci colpisce un piatto del Museo di Amburgo, nel quale le figure attorno all’altare comprendono un personaggio barbato avvolto in un mantello sulla sinistra del piatto e due figure erette sulla destra; il vecchio non mostra riscontri stilistici affini a quello raffigurato sul nostro piatto, ma ne potrebbe comunque costituire una fonte d’ispirazione. Nei personaggi femminili l’attenzione è focalizzata sulla forma del viso, che ritroviamo nelle figure rappresentate nel nostro piatto con varianti: nell’opera in analisi i personaggi sono uno maschile e uno femminile e le vesti sono differenti.

Il confronto più calzante ci pare comunque quello con la coppa dell’Ashmolean Museum di Oxford (9) raffigurante la Presentazione al tempio, nella quale le modalità stilistiche nella raffigurazione dei personaggi ci paiono prossime a quelle dell’opera in esame: in particolare ci colpiscono la raffigurazione della pavimentazione, il volto del sacerdote velato e quello della figura in abito giallo dietro al rabbino.

Le affinità che abbiamo riscontrato potrebbero però essere spiegate con quanto ormai conosciamo sull’utilizzo delle fonti incisorie nelle botteghe che produssero decori istoriati.

La vicinanza con Nicola ci deriva da alcuni elementi stilistici e da alcune scelte decorative ben caratterizzanti: ad esempio l’architettura con nicchia che accoglie un altare decorato che si ritrova nel piatto da collezione privata con la scena dell’Uccisione di Achille (10), presente anche in altre opere del maestro urbinate come la Conversione di Sergio Paolo delle Civiche Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano (11).

Anche la forma scelta nel descrivere il cerbiatto che viene sacrificato ci sembra ricordare le modalità stilistiche di Nicola: si veda ad esempio il cerbiatto che compare sullo sfondo di un piatto del Museo del Louvre con le Storie di Sant’Eustachio (12).

Inevitabile, comunque, il confronto con artisti che operano vicino al maestro urbinate. Tra questi il “Pittore di Marsia di Milano”, attivo a Urbino tra il 1525 e il 1535. Un nucleo coerente di sue opere, tra le quali il piatto eponimo conservato a Milano, è stato studiato da Timothy Wilson in occasione della classificazione e pubblicazione della raccolta delle ceramiche del museo milanese (13). L’autore ci ricorda come John V.G. Mallet avesse già citato il piatto del Pittore di Marsia in un convegno nel 1980, costituendo un primo nucleo di opere di un pittore che mostra grandi analogie formali con Xanto Avelli e con Nicola da Urbino, con una personalità artistica però inferiore. È andato in seguito ad aumentare il numero di opere attribuite al pittore attorno a questo primo nucleo: si tratta pertanto di un piatto tipo per le attribuzioni, il cui arco cronologico è compreso tra il 1525 e il 1535 (14). Per quanto riguarda la presenza di un’iscrizione sul retro del piatto milanese, Wilson ci fa notare che, fatta eccezione per cinque pezzi (15), la maggior parte degli esemplari attribuiti a questo pittore sono privi d’iscrizione.

Il confronto con il piatto con Apollo e Dafne attribuito al Pittore di Marsia mostra affinità stilistiche con la nostra coppa, anche se vi riconosciamo comunque un tratto e una resa cromatica differenti. Il modo di rendere gli zigomi della figura anziana nel piatto milanese e nei nostri personaggi barbati, basata sull’alternanza tra il chiaro e lo scuro, con la guancia incorniciata da una mezzaluna in tono più scuro, avvicina il piatto a quest’oggetto.

A riprova di quanto da noi pensato per l’attribuzione, va annoverata anche la marcata vicinanza con alcune opere attribuite da Wilson al Pittore di Marsia, non ultimo il piatto eponimo, come si osserva nel volto delle figure femminili sulla destra del piatto con L’uccisione dei figli di Niobe (16), delle figure a cavallo presenti sull’altro piatto con medesimo soggetto (17) o del vecchio sulla destra del piatto con Latona e Lici. In tutti si riscontrano affinità nei modi di descrivere il paesaggio sullo sfondo con colline squadrate ombreggiate di blu e file di alberelli tondeggianti, ma in queste opere la cura per i dettagli ci pare maggiore e lo stile, invece, meno disinvolto e spontaneo.

Anche il confronto con esemplari che si pensano prodotti da altri pittori della cerchia di Nicola da Urbino rivela somiglianze con l’opera in studio, come ad esempio il piatto con Muzio Scevola sempre del museo milanese (18).

Il nostro piatto, con il titolo Sacrificio sotto una loggia, proviene dalla Collezione Scott-Taggart (19) ed è transitato poi dalla Galleria Barberi.

 

1-Ispirato forse da oggetti come quelli raffigurati nelle incisioni di Enea Vico, come suggerisce ad esempio Maria Cristina Villa (VILLA 2001, p. 42), o come il Candelabro a Cariatidi (BARTSCH 30, 15).

2-Ci sembra che possa derivare dalla figura presente tra il pubblico della Predica di San Paolo ad Atene in una incisione di Marcantonio Raimondi da un cartone di Raffaello, eseguito per uno degli arazzi vaticani; l’incisione è pubblicata alla scheda n. 38 di questo catalogo.

3- Ne è un esempio una crespina con scena di sacrificio in RAVANELLI GUIDOTTI 2000, p. 131 n. 18.

4- HAUSMANN 1972, pp. 281-282 n. 205.

5- Dalla seconda metà dell’Ottocento si parla di Nicola Pellipario come del più grande maestro della pittura su ceramica, più tardi identificato come Nicola da Urbino e oggi finalmente riportato alla sua posizione di “pellicciaio”; il Pellipario è solo il padre del capo bottega Guido Durantino che da Castel Durante si sposta a Urbino fondando una propria bottega. Nicola di Gabriele Sbraghe detto Nicola da Urbino è una personalità a sé stante nata e attiva a Urbino, alla quale oggi si riferiscono le opere un tempo attribuite al Pellipario. Nel 1968 Wallen dimostrò che in realtà Nicola Pellipario e Nicola da Urbino erano due artisti distinti, ma soprattutto che Pellipario era molto probabilmente un conciatore di pelli. Per dettagli si veda: WILSON 1987, p. 44; l’elenco degli studi si trova in THORNTON-WILSON 2009, p. 230; importante la lista delle opere proposta da Mallet nel 2007 (MALLET 2007B).

6- Il testo della lettera è riportato tra la documentazione relativa alla provenienza dell’opera nella scheda d’asta della collezione Scott-Taggart; SOTHEBY’S, aprile 1980, lotto 17.

7- VILLA 2001, pp. 38-62.

8- PIATKIEWICZ-DERENIOVA 1991, n. 33.

9- Inv. LI206.16.

10- PAOLINELLI in MALLET 2002.

11- WILSON in AUSENDA 2000.

12- GIACOMOTTI 1974, p. 272 n. 867.

13 WILSON in AUSENDA 2000, pp. 190-192 n. 199.

14-Per approfondimenti e ipotesi in merito al “Pittore di Marsia di Milano”, si vedano RASMUSSEN 1984-1989; WATSON 1986; per la questione cronologica, WILSON 1996, pp. 188-191.

15- Ai quali lo studioso ne aggiunge altri due.

16-WILSON in AUSENDA 2000, p. 192 n. 201.

17-WILSON in AUSENDA 2000, p. 191 n. 200.

18- WILSON in AUSENDA 2000, pp. 194-195 n. 204: la scheda ricorda anche altri autori avvicinati dagli studiosi a Nicola da Urbino; si rimanda in merito alla bibliografia relativa.

19-CHRISTIE’S, Londra, 14 aprile 1980, lotto 17.

 

Stima   € 35.000 / 45.000
Aggiudicazione  Registrazione
36

TONDINO

DUCATO DI URBINO, 1525-1530

Maiolica dipinta in policromia nei toni del giallo, blu, verde, bianco.

Alt. cm 2,6; diam. cm 21,6; diam. piede cm 5,8.

Sul retro una piccola etichetta con la scritta in corsivo “2.3.36 This is property of Mrs Jean Douglas ER”, un’etichetta scritta in inchiostro “5892” e un’altra etichetta con n. 48 a stampa.

 

Il piatto, poggiante su piede ad anello appena accennato, mostra un cavetto profondo e separato dalla tesa da una sottile linea blu che ne delimita lo stacco. Esso è occupato da uno stemma con cinque monti sormontati da tre fiori di papavero sfioriti in campo giallo, che galleggia in un paesaggio di sfondo con una base verdeggiante all’esergo e alcuni monti appuntiti all’orizzonte, il cielo reso da sottili linee in azzurro diluito, mentre intorno allo stemma svolazza un nastro piatto con andamento sinuoso. Lo stemma non è stato identificato.

La tesa è interamente occupata da un motivo “alla porcellana”, centrato nei punti cardinali da quattro cartigli intervallati da un motivo tondeggiante che ricorda un melograno: la decorazione è qui realizzata in monocromia blu di cobalto, che spicca sullo smalto bianco latte, spesso e vetroso. L’orlo è delimitato da due linee concentriche anch’esse blu. Il retro invece non presenta decorazioni.

Il piatto proviene dalla collezione Murray (1), dove era classificato e collocato tra le opere di Faenza e datato all’incirca al 1525 (fig 1). Nella stessa collezione si nota la presenza di altri piatti stemmati, attribuiti a differenti manifatture, ma alcune di queste opere, per quanto si possa desumere dalla visione fotografica in bianco e nero, sembrano mostrare caratteristiche morfologiche e scelte decorative simili; tra esse, un piatto con decoro della tesa a trofei (2) mostra nel cavetto uno stemma di forma simile al nostro, che poggia su una base collinare e ha sullo sfondo un cielo sfumato. Il piatto è stato a suo tempo attribuito a bottega durantina del 1530 circa.

Il paesaggio di sfondo e la rigida forma dello scudo, decorata da un motivo trilobato sulla cuspide, accompagnato da nastri svolazzanti, piatti e spesso terminanti in due capi, sono tutte caratteristiche che ci permettono di avvicinare la nostra opera ad altre simili, le quali, però, mostrano tutte scelte decorative della tesa molto differenziate. Tra queste un tondino con tesa decorata “in bianco sopra bianco” “alla porcellana” del British Museum (3)mostra una tecnica decorativa per riempire il fondale dietro lo scudo molto vicina al nostro esemplare: si differenzia per una ulteriore colorazione del cielo con del giallo per rendere una luce serotina. Il piatto è attribuito al Ducato di Urbino attorno al 1530.

Il confronto con un esemplare che mostra una scelta decorativa differente può spiegare l’attribuzione generica ad area urbinate: si tratta di un piatto del Victoria and Albert Museum (4) con una tesa decorata “alla porcellana”, ma su fondo blu e con decoro in lustro rosso, che porta al centro uno stemma di fattura semplice e con sfondo paesaggistico coerente con il nostro; tale piatto è attribuito a Gubbio e datato 1531.

Gli esempi potrebbero essere numerosi, diversificati e di livello stilistico e importanza anche araldica differente, ma comunque ascrivibili tutti all’area del Ducato di Urbino attorno al 1530.

Oltre alla provenienza dalla Collezione Murray, già segnalata, aggiungiamo quella indicata sull’etichetta apposta sul retro del piatto, che fa riferimento a una certa collezione Douglas e forse al 1936.

 

1-SAMMLUNG MURRAY, Firenze, n. 111.

2-SAMMLUNG MURRAY, Firenze, n. 71.

3-THORNTON-WILSON 2009, p. 377 n. 223 ed esemplari di confronto relativi citati in scheda.

4- RACHKAM 1977, p. 23 n. 698 (inv. 1731-1855).

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
1 - 30  di 65