FIRENZE
24 Settembre al 1 Ottobre2015
orario 10 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
TARGA
SAN QUIRICO D'ORCIA (SIENA), BARTOLOMEO TERCHI, 1717-1724
Maiolica dipinta in policromia con giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 1,6; lunghezza cm 52; larghezza cm 29.
Un’antica etichetta cartacea incollata sul retro reca scritto in corsivo con inchiostro nero “[…] de David in /magiolica di Rafael, o/ di Giulio Romano/ 84”.
Il corpo ceramico è composto dall’unione (a crudo) di tre piastre in terracotta chiara, rivestito da uno strato sottile di smalto stannifero sul fronte. Vi si notano sul retro due leggere colature. Due sottili linee nere profilano i margini nei lati minori del quadro pittorico. L’albero e le zolle di terra ondulate, che impostano la composizione in primo piano, sono dipinte in scuro bruno di manganese e in verde ramina. L’intera scena figurata è disegnata con una linea in bruno di manganese sottile e leggera, con la coloritura acquarellata in giallo-bruno degli incarnati e in azzurro-bruno di molte vesti. Arricchiscono un poco il cromatismo della scena effetti minori di cangiantismi in azzurro-giallo e qualche piccola zona tessile colorata in verde ramina. Al contrario, dominano il sistema visivo i campi gialli del carro e della cassa lignea. Le pennellate, che avrebbero dovuto lumeggiare diverse forme, hanno fatto difetto durante la cottura brunendosi probabilmente a causa della presenza di smalto stannifero: lo possiamo notare soprattutto nella veste della figura reale sul carro.
In questa lastra sono dipinti due episodi biblici, Il trionfo di Davide sugli Assiri e Il passaggio con l’arca dell’alleanza attraverso il fiume Giordano (1), composti in un unico corteo trionfale dell’ingresso di David a Gerusalemme, trionfante sui barbari, in un carro prezioso e, alle sue spalle, il trasporto dell’Arca dell’Eterna Alleanza in una cassa lignea dorata.
Ambedue sono derivati dagli affreschi di Raffaello Sanzio nelle Logge Vaticane, tramite le celebri incisioni di Nicolas Chaperon (1612-1656) del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649.
La scena dipinta sulla maiolica mostra una notevole cura nel ripetere la posizione delle figure e dei cavalli in modo fedele al modello grafico. La qualità disegnativa è alta nelle figure protagoniste, ma diventa ben più corsiva nei volti delle figure secondarie. Il forte tronco frondoso e il corpo dei cavalli sono modellati con un sapiente chiaroscurare steso a piccoli tratti sottili, paralleli e talvolta incrociati. Nel blu le pennellate sono più diluite e il colore ha un tono celeste chiaro.
Questa targa è stata esposta all’importante mostra di storia della ceramica tenuta a San Quirico d’Orcia nel 1996. Allora apparteneva a una collezione privata ferrarese. Gianni Mazzoni, che ne compilò la scheda di catalogo, lo attribuì alla produzione di Bartolomeo Terchi degli anni ’20 del XVIII secolo a San Quirico o Siena (2).
Bartolomeo Terchi era nato a Roma nel 1691 nel quartiere di Trastevere, forse da una famiglia di “vascellari” (3). Nel 1717, ventitreenne, era giunto nel senese, a San Quirico d’Orcia, per lavorare nella bottega ceramica dei marchesi Chigi, producendo pezzi istoriati di alta qualità. Il suo grande successo artistico lo fece rimanere a lungo attivo in ambito chigiano, sfornando anche molte ceramiche destinate ai Medici, e trasferendosi a Siena nel 1725 per ben dieci anni. Piatti, piastre e grandi vasi decorati con scene figurate derivate da incisioni rinascimentali e barocche appartenenti alla collezione Chigi sono oggi esposti a Palazzo Chigi Saracini a Siena (4). Nel 1735 Bartolomeo, raggiunto e superato dal Campani, lasciò la Toscana per tornare in Lazio: è documentata la sua attività ceramica a Bassano di Sutri fino al 1753, poi a Roma e, nel 1766, a Viterbo (5).
Su una piastra rettangolare in maiolica, firmata “Bar: Terchi Romano/in San Quirico” ed esposta al Louvre (6), è dipinta una scena con Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Questo pezzo, proveniente dalla collezione Campana, venne acquisito dai musei nazionali francesi nel 1861. Lo stile pittorico e, soprattutto, il disegno dei volti delle figure secondarie mostrano un’assoluta coerenza con quelli del nostro pezzo.
Questo ci permette di considerare la nostra lastra dipinta tra il 1717 e il 1725 a San Quirico d’Orcia, forse nel primo periodo. Ravanelli Guidotti ha pubblicato un’altra lastra stilisticamente affine conservata in un museo di Rouen che raffigura Mosè che mostra le tavole della legge (7).
La stessa scena raffaellesca col carro dorato di David è visibile su due grandi piatti senesi ma pittoricamente diversi perché opera di Ferdinando Maria Campani, il massimo concorrente di Bartolomeo Terchi. Uno, firmato e datato 1749 (8), porta lo stemma della Marchesa Rockingham del Wentworth Woodhouse, Yorkshire (9). L’altro, conservato in una collezione privata italiana, mostra la stessa scena dipinta con pari qualità artistica e con maggior carica cromatica (10).
Raffaella Ausenda
1 Giosuè, 3 e 5.
2 MAZZONI in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 4 n. 4. In quell’occasione la rivista “CeramicAntica” del Giugno 1996 le dedicò la quarta di copertina (Anno VI, n. 6 (61)).
3 Fondamentali gli studi di PELLIZZONI-ZANCHI 1982 e di ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.
4 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, pp. 28-34 e 196-197.
5 S. Angeli, Non avere altro impiego e professione che quella di fabricatori di maioliche: Bartolomeo e Antonio Terchi e la ceramica viterbese del Settecento, in “Vascellari: rivista di storia della tradizione ceramica”, Anno 1, n. 1 (gen.-giu. 2003), pp. 142-163).
6 Di dimensioni cm 44 x 61, inv. n. OA 1852; GIACOMOTTI 1974, p. 458 n. 1357.
7 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 30.
8 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 79 n. 66.
9 Vedi piatto con lo stesso stemma e la scena allegorica de La Verità svelata dal Tempo, conservato all’Ashmolean Museum di Oxford.
10 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 97, e in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 13 n. 20.
PIATTO
URBINO, BOTTEGA FONTANA (DURANTINO), 1540 CIRCA
Maiolica dipinta a policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. del piede cm 11.
Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto è delineata la scritta “Tutia porta/Al temple aqua col cribulo”.
Il piatto ha un ampio cavetto e una tesa larga e obliqua, terminante in un orlo che sul retro presenta due filettature concentriche, seguite da altre due linee gialle a sottolineare i contorni. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso e molto ricco, con vetrina brillante sia sul fronte sia sul retro. Il decoro è realizzato con abbondante uso dei pigmenti e sono presenti alcune ombreggiature verdi sul retro.
La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura il Sacrificio della Vestale Tuccia che, ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità (incestum), chiese di poter provare la propria innocenza sottoponendosi a una pena di prova, consistente nel tentare di raccogliere l'acqua del Tevere con un setaccio: la prova riuscì dopo l’invocazione alla dea Vesta e Tuccia fu ritenuta innocente.
La donna è raffigurata con il setaccio ricolmo d’acqua tra le mani mentre si avvicina all’altare, su cui arde un fuoco, accolta da due sacerdoti barbati e con il capo velato. L’ara è collocata di fronte a un tempio porticato e con una copertura a cupola; sullo sfondo si scorge una città con edifici arrotondati, cupole e torri sormontate da curiosi e alti pennoni, e tra le due parti scorre un fiume.
Questo soggetto fu caro alla pittura su maiolica nel Rinascimento (1).
Un confronto, che ci aiuta a delimitare l’area di produzione, ci viene fornito da una splendida coppa, conservata al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (2), già attribuita a Nicola da Urbino, che raffigura una Scena di sacrificio al tempio di Apollo, come si deduce dall’iscrizione apposta sul retro nei modi grafici del maestro urbinate. Le due opere, stilisticamente molto differenti, condividono lo stesso humus culturale, più semplificato e corrivo nella nostra opera, più sofisticato e colto nell’opera del museo faentino.
Ma è il confronto con un piatto del Museo Fitzwilliam di Cambridge (3) che ci fornisce una collocazione più precisa: si tratta di un piatto istoriato con La regina di Saba che ascolta il giudizio di Salomone, firmato “nella Bottega di Maestro Guido Durantino” e databile agli anni ‘30 del Cinquecento (4). Lo stile, un poco corrivo, a larghe pennellate, e la forma delle architetture, in particolare quella della gradinata, ci inducono ad avvicinare con buona sicurezza l’opera in esame a quella del museo inglese.
1 Si pensi ad esempio alle varie redazioni che ne fece Xanto Avelli (MALLET 2008, p.154 n. 53).
2 Inv. 540, già pubblicato in BERNARDI 1980, pp. 47-48 n. 55.
3 POOLE 1997, p. 68 n. 29.
4 MALLET, “Burlington Magazine” 1987 pp. 284-298.