MOBILI, DIPINTI E SCULTURE: RICERCA E PASSIONE IN UNA COLLEZIONE FIORENTINA

16 OTTOBRE 2019

MOBILI, DIPINTI E SCULTURE: RICERCA E PASSIONE IN UNA COLLEZIONE FIORENTINA

Asta, 0313
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
ore 16:00
Esposizione

FIRENZE
Sabato       12 ottobre  10-18
Domenica   13 ottobre  10-18
Lunedì        14 ottobre  10-18
Martedì       15 ottobre  10-18

Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   500 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 138
90

Pietro degli Ingannati

(documentato a Venezia tra il 1529 e il 1548)

SACRA CONVERSAZIONE IN UN PAESAGGIO

olio su tavola, cm 118x176

 

THE HOLY FAMILY WITH SAINTS IN A LANDSCAPE

oil on panel, cm 118x176

 

Al retro, iscritto “Palma Vecchio/De la Gallerie Soranzo/de Venise”

 

Provenienza

Venezia, galleria Soranzo; Londra, collezione privata; Londra, Christie’s, 18 dicembre 1931, lot 41; Firenze, collezione Luigi Grassi (1970).

 

Bibliografia

G. Gronau, L’ultimo belliniano, in “L’Arte” 1933, pp.421-22 e nota 3; ill. a p. 419, fig. 5; B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance. Venetian School, Londra 1957, I, p. 92, fig. 620; P. Caccialupi, Pietro degli Ingannati, in “Saggi e Memorie di Storia dell’Arte” 11, 1978, pp. 27-28 e note 28, 29; p. 35; fig. 15; F. Heinemann, Giovanni Bellini e i Belliniani. III. Supplemento e Ampliamenti, Hildesheim – Zürich – New York 1991, p. 41, S 150 bis; fig. 76.

 

Riaffiora qui dopo quasi novant’anni un capolavoro di Pietro degli Ingannati: venduto in asta a Londra nel 1931 e mai più comparso sul mercato dell’arte è stato tuttavia ripetutamente citato negli studi sul pittore a partire da quell’unica occasione.

In catalogo da Christie’s come opera di Palma il Vecchio, il dipinto fu infatti riconosciuto da Georg Gronau come opera di Pietro degli Ingannati e riprodotto nel saggio ampiamente illustrato che due anni dopo lo studioso tedesco dedicò alla restituzione dell’artista veneziano. L’attribuzione fu accolta da Berenson, cui si deve una prima proposta di catalogo, e confermata dagli studi successivi, in primo luogo dal lungo articolo di Paola Caccialupi comprendente una nuova disamina di fonti e documenti oltre che un catalogo completo, a partire dalle quattro tavole firmate per esteso da Pietro degli Ingannati, già note in precedenza grazie agli studi citati.

I documenti raccolti dalla studiosa accertano la presenza del pittore a Venezia e la sua attività professionale dal 1529 al 1548, data della sua ultima opera firmata. La probabile formazione nella bottega di Giovanni Bellini, morto nel 1516, e la datazione delle sue prove più antiche fra il 1505 e il 1510 lasciano supporre che Pietro degli Ingannati fosse nato nell’ultimo ventennio del Quattrocento, mentre l’assenza di notizie dopo il 1548 suggerisce di collocare la sua morte intorno alla metà del secolo. Il fatto poi che, sebbene attivo dal primo decennio del secolo egli non risulti iscritto alla Fraglia dei Pittori fino al 1530 induce a postulare una nascita in “terraferma” e una sua prima attività oltre i confini lagunari.

Definito da Gronau “l’ultimo pittore belliniano” Pietro degli Ingannati mantiene come riferimento costante le opere tarde del grande maestro veneziano, condividendone l’interpretazione proposta dal condiscepolo Francesco Bissolo con cui tra l’altro è stato confuso: una scelta poco attuale, alla metà del Cinquecento, ma opportunamente aggiornata nel corso degli anni Venti grazie a uno sguardo più attento alla produzione di Palma il Vecchio, a cui non a caso il nostro dipinto era attribuito. Da Palma derivano appunto le sue opulente figure femminili dai capelli biondi e ondulati, oltre alla scelta di colori brillanti e complementari che, richiamandosi a distanza, contribuiscono a definire l’impianto spaziale delle sue composizioni.

Gli splendidi brani paesistici che fanno da sfondo alle Sacre Conversazioni di Pietro degli Ingannati richiamano invece l’esempio folgorante di Giorgione nella sua breve parabola entro il primo decennio del Cinquecento: ed è appunto agli edifici rustici sullo sfondo del Concerto Campestre che si rifanno quelli a destra nel nostro dipinto.

Ritenuta all’unanimità uno dei vertici della produzione di Pietro degli Ingannati intorno al 1527, la tavola qui presentata – eccezionale anche per dimensioni oltre che per la smagliante conservazione – fu replicata dall’autore o più verosimilmente dalla sua bottega in una serie di composizioni che ne derivano, con minime varianti nella scelta dei santi e nella loro iconografia. Tra queste, la tavola di ignota ubicazione riprodotta dalla Caccialupi (1978, cit., fig. 15) e quella già in collezione Melli (ibidem, fig. 23). A queste si aggiunge una replica modesta in asta a Londra da Sotheby’s nel 2013, che ne ripete l’impianto con una figura in meno.

La provenienza dalla galleria Soranzo di Venezia, non altrimenti documentata, è riportata dall’iscrizione al retro della tavola e ripetuta nel catalogo di vendita Christie’s del 1931, cui si riferisce anche il codice alfanumerico al retro. Un dipinto attribuito a Palma il Vecchio corrispondente al nostro per descrizione fu venduto a Cheltenham nel 1859, dalla collezione di Lord Northwick.

 

 

 

Stima   € 100.000 / 150.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
34

Scultore ligure-piemontese attivo sulla metà del sec. XV

SAN GIOVANNI EVANGELISTA E LA VERGINE MARIA DOLENTI

due statue in legno dipinto, San Giovanni cm 195x48x35; Maria cm 197x46x38

 

Ligurian-Piedmontese sculptor active in the half of the 15th century

THE MOURNING VIRGIN MARY AND SAINT JOHN THE EVANGELIST

two polychromed wood statues, Saint John cm 195x48x35; Virgin Mary cm 197x46x38

 

Bibliografia

Mobili, dipinti, oggetti d’arte provenienti da una raccolta privata, catalogo della vendita (casa d’Aste Semenzato), Venezia, 25 - 27 aprile 1975, n. 495

 

La coppia di Dolenti, di dimensioni superiori al naturale e di elevato impatto emotivo, dovevano in origine affiancare l’immagine del Cristo crocifisso in un complesso scenografico raffigurante il Calvario destinato alla venerazione dei fedeli sul vertice del tramezzo di un importante edificio di culto. Le due sculture trovano delle stringenti concordanze iconografiche con il gruppo di medesimo soggetto della chiesa di Santa Maria di Castello ad Alessandria, assegnato da Raffale Casciaro alla mano di Urbanino da Surso, scultore lombardo con una fitta parentesi operativa anche nel basso Piemonte. I due Dolenti alessandrini presentano infatti posture e atteggiamenti degli arti del tutto analoghi alle nostre figure comparendo, per giunta, sopra ad un basamento intagliato a emulazione di uno sprone roccioso, in grado di evocare la scenografia della loro originaria destinazione (R. Casciaro, La scultura lignea lombarda del Rinascimento, Milano 2000, pp. 248-249, n. 9).

Il San Giovanni e la Vergine Maria, completamente svuotate nella zona tergale e fornite ancora in parte dell’antica cromia, rientrano nel novero di una vasta e variegata produzione di scenografici complessi plastici spesso correlati a immagini monumentali del Crocifisso, la cui genesi e proliferazione è stata individuata tra la Liguria di ponente e il Piemonte meridionale durante tutto il Quattrocento (F. Boggero, F. Cervini, Crocifissi lignei tardomedievali nella Liguria di Ponente, in Restauri in provincia di Imperia 1986-1993, a cura di F. Boggero, B. Ciliento, pp. 25-36; F. Cervini, Modelli e botteghe tra Liguria e basso Piemonte, in Scultori e intagliatori del legno in Lombardia nel Rinascimento, atti del convegno di Milano, a cura di D. Pescarmona, Milano 2002, pp. 65-83; S. Piretta, Premesse tardogotiche tra il maestro del Compianto di Castel Sant’Angelo e la famiglia da Surso, in La Sacra Selva. Scultura lignea in Liguria tra XII e XVI secolo, catalogo della mostra di Genova, a cura di F. Boggero e P. Donati, Ginevra-Milano 2004).

La loro esecuzione può inserirsi in questo gioco di maestranze e botteghe liguri, piemontesi e lombarde cui oggi si riconducono opere quali il Compianto oggi conservato presso il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma (1450 ca.; S. Piretta, in Alessandria scolpita 1450-1535. Sentimenti e passioni tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra di Alessandria, a cura di F. Cervini, pp. 208-209, Genova 2018, n. 7), quello del Museo d’Arte Sacra di Lucinasco (Imperia) (A. Sista, in La Sacra Selva. Scultura lignea in Liguria tra XII e XVI secolo, catalogo della mostra di Genova, a cura di F. Boggero e P. Donati, Ginevra-Milano 2004, pp. 200-201) e quello diviso tra la chiesa del Marzale e la parrocchiale di Ripalta Vecchia nei pressi di Cremona (1440-1450) attribuito a Urbanino da Surso (R. Casciaro, Op. cit., p. 251, n. 10).

Le analogie tra il nostro San Giovanni e quello del Compianto di Ripalta Vecchia pur molto marcate si risolvono essenzialmente in derivazioni di ordine compositivo ed espressivo, sintomo di come in quegli stessi anni l’interazione tra le botteghe di sculture attive in area lombarda e le maestranze piemontesi siano davvero molto intense. Con gli altri due gruppi invece salvo le peculiari varianti compositive e stilistiche registrabili in ciascun gruppo, le nostre due figure condividono una medesima cronologia sulla metà del secolo, la predilezione per anatomie molto allungate ed esili che si perdono sotto le schiacciate volute delle vesti dai panneggi ampi, ma di contenuto risalto volumetrico e dal pesante appiombo che si risolve cadendo in pieghe angolari e accartocciate. Analogamente le mani, possenti e squadrate, si articolano in gestualità schematiche, mentre i tratti dei volti risultano essenziali e segnati dalla patetica apertura delle bocche o dalla potente sagomatura delle tese arcate sopraccigliari.

Le affinità più stringenti si possono però registrare nello specifico con le figure del Compianto di Lucinasco che con i nostri Dolenti condividono il pronunciato ma elegante allungamento dei corpi, la compressione volumetrica conferita dall’affastellarsi reiterato delle volute e dalla cadenza magniloquente delle creste, e il morigerato tono patetico dei personaggi. Questi elementi ci spingono a considerare l’ipotesi che la loro esecuzione sia avvenuta in stretta contiguità cronologica all’interno di quella stessa bottega attiva sulla cerniera appenninica compresa tra Piemonte e Liguria tra la metà e la fine del XV secolo.

 

G.G – D.L 

 

Stima   € 60.000 / 100.000
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
112

Scultore attivo in Umbria o Abruzzo nella cerchia del Maestro della Santa Caterina Gualino, fine sec. XIII-inizi XIV

MADONNA IN MAESTÀ COL BAMBINO BENEDICENTE

statua in legno dipinto, cm 117x35x33

 

Sculptor active in Umbria or Abruzzo in the circle of the Maestro della Santa Caterina Gualino, late 13th-early 14th century

MADONNA AND CHILD ENTHRONED

polychromed wood statue, cm 117x35x33

 

Questa pregevole statua lignea, impreziosita da un’elaborata policromia e in origine racchiusa da un tabernacolo a sportelli (tuttora evocato dal fondale e dal suppedaneo), raffigura la Madonna assisa in trono “in Maestà”, col Bambino benedicente seduto in grembo alla sua sinistra, anch’egli in una postura ieratica rigidamente frontale, secondo una tipologia ben radicata soprattutto nella scultura lignea tra Umbria e Abruzzo, dalla metà del Duecento sino ai primi decenni del Trecento (G. Castelfranco, Madonne romaniche in legno, in “Dedalo”, X, 1929-30, pp. 768-778). L’immagine in esame si distingue dal più diffuso e canonico schema iconografico per la mano sinistra di Gesù chiusa a pugno e forata, presumibilmente in atto di stringere un oggetto metallico oggi perduto, forse un fiore o meglio uno scettro che ne avrebbe enfatizzato la solennità qualificandolo come “Cristo Re”, e per la destra di Maria protesa in avanti col palmo aperto verso l’alto recante una sfera dal significato simbolico - il globo o la mela -, che ne sottolinea il ruolo di interceditrice tra il fedele e Gesù Redentore, attenuando così l’algida concezione della Madonna in Maestà in favore di un’umanità più accostante, quale si coglie anche nel gesto affabile della Vergine intenta a carezzare con l’altra mano la pianta di un piede del Bambino, allusivo alla “preveggenza” del sacrificio sulla Croce: aspetti che ne suggeriscono una datazione già intorno al volgere del secolo.

L’opera sul piano formale è caratterizzata dalle proporzioni allungate delle figure e dall’asciutta concezione colonnare del gruppo, che, insieme alla tipologia dei volti – dall’ovale allungato quello di Maria, percorso dal naso sottile in forte aggetto, più tondeggiante quello del Bambino – e all’andamento inarcato del panneggio sulle gambe della Madonna, ci inducono ad avvicinarla alla produzione del cosiddetto Maestro della Santa Caterina Gualino: figura, coniata nel 1965 da Giovanni Previtali (Il “Maestro della Santa Caterina Gualino”, in “Paragone”, 181, 1965, pp. 16-25; e altri contributi raccolti in Studi sulla scultura gotica in Italia, Torino 1991, pp. 5-15, 40-44 e 73-76), la cui prolifica attività, qualificata da una sofisticata eleganza “francesizzante”, si dipana tra l’ Umbria “alla sinistra del Tevere”, l’Abruzzo teramano, i territori aquilani e reatini, e la Marche meridionali.

Il corpus di questo affascinante Maestro dall’identità tuttora ignota si è molto accresciuto negli ultimi decenni (cfr. ad esempio E. Carli, Arte in Abruzzo, 1998, pp. 65-68; L. Arbace, in Antiche Madonne d’Abruzzo. Dipinti e sculture lignee medioevali dal castello dell’Aquila, catalogo della mostra di Trento, Torino 2011, pp. 90-97), fino a divenire talora un ‘nome di comodo’ verso il quale convogliare opere di botteghe umbro-marchigiane e abruzzesi ancora da approfondire. Sembra questo il caso dell’inedita statua qui presentata, che, in un confronto con l’opera eponima, poi transitata nella raccolta dell’antiquario fiorentino Carlo De Carlo, e con quelle che costituiscono i cardini per la ricostruzione del maestro - come le Madonne della cattedrale di Teramo, di San Giovenale a Logna di Cascia, del Museo d’Arte Sacra della Marsica a Celano, e le due appartenute allo stesso De Carlo -, denota un modellato meno affilato e un senso plastico più tondeggiante, d’impronta ancora romanica, che l’accomuna ad altre sculture lignee anonime di quel medesimo ambito, come la Madonna col Bambino del Museo Nazionale d’Abruzzo proveniente da Villa di Mezzo presso Barisciano (Arbace, Op. cit., p. 83). 

G.G. – D.L.

Stima   € 60.000 / 90.000
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
91

Tommaso del Mazza (Maestro di Santa Verdiana)
(Firenze?, circa 1350 – 1400)

MADONNA COL BAMBINO

affresco staccato, cm 125x72

 

MADONNA WITH CHILD

detached fresco on panel, cm 125x72

 

Provenienza

Montespertoli, collezione privata

 

Bibliografia

M. Boskovits, Der Meister der Santa Verdiana: Beiträge zur Geschichte der florentinischen Malerei um die Wende des 14. und 15. Jahrhunderts, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 13, 1967/68, 1-2, pp. 49-50, fig. 15; R. Offner, in Boskovits 1967/68, p. 58; M. Boskovits, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento 1370 – 1400, Firenze 1975, p. 385; R. Offner, A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting. A Legacy of Attributions, Supplemento a cura di H.B.J. Maginnis, New York 1981, p. 47; B. Deimling, Tommaso del Mazza (Master of Santa Verdiana) in A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting. Continuato sotto la direzione di M. Boskovits e M. Gregori, IV, vol. VIII: Tradition and Innovation in Florentine Trecento Painting. Giovanni Bonsi. Tommaso del Mazza, Firenze 2000, pp. 133, 230-31, tav. XXXVII.

 

Referenze fotografiche

Fototeca Zeri, scheda 4661

 

Catalogata nelle “liste” inedite di Richard Offner nel gruppo intitolato al Maestro dell’Incoronazione del Louvre, l’opera qui presentata fu pubblicata per la prima volta da Miklos Boskovits nel saggio che ricostruiva il corpus dell’artista recuperando però il nome alternativo di Maestro di Santa Verdiana con cui il pittore fiorentino era stato indicato nella prima metà del Novecento da Roberto Longhi e Wilhelm Suida e poi da Federico Zeri. Il “name-piece” del gruppo è la tavola con la Madonna e santi nel Museum of Art di Atlanta (Georgia), dalla collezione S. Kress, in cui compare appunto Santa Verdiana (Fototeca Zeri, scheda 4628).

Più recentemente, il Maestro è stato identificato da Barbara Deimling con il fiorentino Tommaso del Mazza, documentato dal 1377 al 1392, a partire dall’identificazione della pala documentata come eseguita da Tommaso nel 1389 o nel 1391 per la cappella dell’ospedale di Bonifazio Lupi a Firenze con il trittico nel museo del Petit Palais di Avignone, da tempo riconosciuto al Maestro di Santa Verdiana (Fondazione Zeri, scheda 4664).

Ignota la provenienza originaria dell’affresco qui offerto, forse destinato a una chiesa della provincia fiorentina in sostituzione di un più costoso dipinto su tavola, come sembrerebbe suggerire la cornice architettonica ancora leggibile intorno all’immagine della Madonna col Bambino: probabilmente non dissimile nel suo contesto originario dalla tavola raffigurante la Madonna in trono col Bambino e due angeli già a Berlino, collezione privata (Boskovits 1975, fig. 344; Fondazione Zeri, scheda 3518).

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
72

Scultore lombardo, prima metà sec. XIV

SANTO VESCOVO O PONTEFICE BENEDICENTE (SAN PIETRO?)

statua in legno dorato e dipinto, cm 170x65x42

 

Lombard sculptor, first half 14th century

A BISHOP SAINT OR A BLESSING POPE (SAINT PETER?)

gilt and polychromed wood statue, cm 170x65x42

 

Bibliografia

Centro Studi Piero della Francesca, Sculture antiche dal III al XV secolo, catalogo della mostra (Venezia, Scuola Grande di S. Teodoro – Milano, Abbazia S. Maria di Chiaravalle 1967), Milano 1967, n. XVII

 

La solenne figura assisa in atto di benedire, che indossa un ampio piviale chiuso sul petto da un prezioso fermaglio esagonale foliato, era corredata in origine dalle insegne ecclesiastiche, presumibilmente realizzate in metallo, che avrebbero agevolato l’identificazione del soggetto, tradizionalmente indicato come un San Pietro in cattedra: sulla testa la mitra episcopale o la tiara papale e nella mano sinistra - che non sembra atteggiata in modo da sostenere le chiavi, attributo consueto di Pietro - il bastone pastorale spettante ai vescovi o la croce astile portata dal pontefice in ogni sua funzione.

L’opera, di grande impatto e concezione monumentale, è caratterizzata da una solida volumetria geometrizzante, essenziale e conchiusa, in cui sembra ancor viva la memoria del Romanico padano, ma il ridondante piviale si anima in un mosso sipario di pieghe complesse, che s’increspano ondulate davanti alle gambe della figura e si acciaccano morbidamente sui lati del seggio, rivelando così un’eleganza e un’aspirazione naturalistica d’impronta gotica.

La compresenza di questi aspetti, che induce a una datazione non anteriore alla prima metà del Trecento, porta a orientare questa scultura in un ambito lombardo campionese, dove, il robusto timbro compassato e ieratico della figura, il volto qualificato dalla rude potenza dello sguardo e dalla barba arricciata, e il panneggio franto e composito, trovano riscontro nelle statue della Loggia degli Osii a Milano (in particolare nel Sant’Agostino assiso e nel San Pietro stante), scolpite intorno al 1316 o poco oltre da maestri campionesi, e forse toscani, cui pure è già stata ricondotta una Madonna lignea di collezione privata utilmente confrontabile con l’inedita testimonianza in esame (G. Previtali, Una scultura lignea in Lombardia e la Loggia degli Osii, 1975, in Studi sulla scultura gotica in Italia, Torino 1991, pp. 85-92).

 

G.G. – D.L.

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
70

Battista Lorenzi, detto Battista del Cavaliere

(Settignano 1527? - Pisa 1594?)

ANGELI IN ADORAZIONE

coppia di sculture in marmo bianco, cm 64x49x30

 

ADORING ANGELS

white marble sculptures, cm 64x49x30, a pair

 

Bibliografia

Mobili, dipinti, oggetti d’arte provenienti da una raccolta privata, catalogo della vendita (casa d’Aste Semenzato), Venezia, 25 - 27 aprile 1975, n. 416

 

I due affabili angeli genuflessi in lieve incedere con le ali ancora spiegate e le mani protratte al petto in atteggiamento adorante, nacquero in origine per essere collocati in maniera speculare sulla mensa di un altare, presumibilmente ad affiancare un tabernacolo eucaristico marmoreo o una venerata immagine.

La solidità delle forme anatomiche, le vesti sapientemente intagliate che alternano profondi sottosquadri a sottili increspature delle stoffe lungo le gambe e nei ricchi risvolti sui fianchi, le teste paffute, tornite ed animate da vezzose capigliature, sono tutti elementi che permettono di collocare le due figure nel contesto della scultura fiorentina del Cinquecento e di trovarne un importate precedente nella produzione di influenti maestri, quali Niccolò Tribolo, per la resa anatomica e dinamica dei corpi, il Maestro dei Bambini Turbolenti ovvero Sandro di Lorenzo, per la caratterizzazione delle teste dalle espressioni compiaciute e di velata ironia, e in particolare Silvio Cosini, per il vibrante ingarbugliarsi degli abiti e il piumaggio sfrangiato delle ali che ricordano da vicino quelli degli angeli del Duomo di Pisa, del Santuario di Montenero o del Sepolcro Maffei in San Lino a Volterra.

I forti accenti manieristi che caratterizzarono l’attività di quei maestri tendono però ad esaurirsi in una sintassi più pacata e in un sintetismo volumetrico neo-michelangiolesco secondo un indirizzo comune ravvisabile nella produzione di Giovanni Bandini, Raffaello da Montelupo o Francesco Mosca. Questo porta a spostarne la loro esecuzione oltre la metà del secolo e, in particolare, verso la produzione dello scultore Battista Lorenzi, membro di un’importante dinastia di scultori settignanesi di cui facevano parte anche i cugini Stoldo e Antonio di Gino Lorenzi. Battista fu tra i maestri più significativi della seconda metà XVI secolo, allievo prima di Baccio Bandinelli, nella cui bottega entrò nel 1540 (da qui l’appellativo Battista del Cavaliere), fu in seguito nella cerchia dei più fidati collaboratori di Benvenuto Cellini, al fianco del quale è documentato sin dal 1560 nella realizzazione del modello del Nettuno per il concorso di piazza della Signoria, divenendo alla morte del maestro nel 1570 l’erede della bottega di via della Pergola (H. Utz, Skulpturen und andere Arbeiten des Battista Lorenzi, in “Metropolitan Museum Journal”, 7, 1973, pp. 37-70; E. Schmidt, Eine Muse von Battista Lorenzi, in “Pantheon”, 58, 2000, pp. 73-80; M. Cicconi, Lorenzi, Giovan Battista (Battista), in Dizionario Biografico degli Italiani, 66, 2007, pp. 16-18).

Le due sculture, trovano notevoli riscontri con la testa della statua del Perseo che Battista scolpì per il palazzo fiorentino dei Salviati in via del Corso (detto Palazzo Nonfinito) tra il 1574 e il 1578, e lo stesso vale per il Tritone della fontana che Battista realizzò entro il 1577 per Cosimo I de’ Medici che ne fece poi dono a Garcia de Toledo, Viceré di Sicilia dal 1565 al 1568 e suo cognato, almeno per quello che possiamo oggi notare dalla statua nel cortile del Museo Archeologico Regionale di Palermo, riconosciuta in una copia puntuale fatta eseguire nel 1644 da una bottega locale (F. Loffredo, La vasca del Sansone del Giambologna e il Tritone di Battista Lorenzi in un'inedita storia di duplicati (con una nota sul Miseno di Stoldo per la villa dei Corsi), in "Saggi e Memorie di storia dell'arte", 36, 2012, pp. 57-114). Entrambe le opere presentano infatti un analogo trattamento delle capigliature vaporose e sostenute, articolate in ciocche roteanti e svirgolate, cui associano un’analoga espressione trasognata e ghignante dei personaggi, conferitagli dalla particolare predisposizione della bocca e la conformazione degli occhi, dai contorni netti e i bulbi oculari omogenei percorsi dai solchi circolari delle iridi. Le medesime caratteristiche possiamo inoltre scorgerle nella figura del Sant’Efisio, una delle statue che Battista Lorenzi realizzò per l’Altare dell’Incoronata del Duomo di Pisa e nelle protomi angeliche poste a coronamento delle targhe epigrafiche di quel medesimo complesso avviato a partire dal 1583 (H. Utz, Op. cit.; C. Casini, Dalle Cappelle dell’Annunziata e dell’Incoronata all’altare di S. Ranieri nel Duomo di Pisa. 1545-1592, in La Scultura a Pisa tra Quattro e Seicento, a cura di R. P. Ciardi, C. Casini, L. Tongiorgi Tomasi, Pisa 1987, pp. 218-228). La presenza di vari collaboratori al fianco di Battista Lorenzi, attestata dai documenti, può giustificare il leggero scarto stilistico ravvisabile tra l’angelo di destra, conforme ai modi del maestro, e quello di sinistra, dai tratti più arguti e i capelli scarmigliati, secondo le consuetudini di una strutturata bottega chiamata ad eseguire un complesso plastico monumentale.

 

G.G – D.L.

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
71

Scultore toscano attivo nella cerchia di Nino Pisano, fine secolo XIV-inizi XV
MADONNA GIACENTE, DETTA “VERGINE DELLA NATIVITÀ”
scultura in legno dipinto e dorato, cm 25x150x40

Tuscan sculptor active in the circle of Nino Pisano, late 14th-early 15th century
RECLINING MADONNA, KNOWN AS “VERGINE DELLA NATIVITÀ” (VIRGIN OF THE NATIVITY)
gilt and polychromed wood sculpture, cm 25x150x40

L’immagine della Vergine Maria è qui presentata nella rara iconografia della ‘Puerpera’ diffusa in area Bizantina in cui Maria, presentata nella sua accezione ‘terrena’ votata ad esaltare l’aspetto umano del parto di Gesù, appare con il corpo disteso, avvolto fino alle gambe in una coperta o in un mantello e ritratta in atteggiamento contemplativo, con un braccio a sostenere il capo rivolto oltre il suo giaciglio, verso la figura del figlio in fasce, che in questa iconografia solitamente è riposto in una culla, al fianco o dietro alla Madre (T. Perez-Higuera, Puer nobis natus est. La Natività di Cristo nell'arte medievale, ed. italiana, Torino 1996; G. Drobot, La lettura delle icone: introduzione storico-teologica all'icona della Natività, [1975] ed. italiana, Bologna 2000).
Nella tradizione figurativa Occidentale tale iconografia, detta ‘Madonna della Natività’, si affermò a Nord delle Alpi intorno alla metà del Duecento, come dimostrano le immagini scolpite per il portale della cattedrale di Laon e nel jubé della Cattedrale di Chartres (G. Curzi, Statue da palcoscenico. La Madonna della Natività di Assergi, in L'Abruzzo in età angioina. Arte di frontiera tra Medioevo e Rinascimento, Chieti 2004, Cinisello Balsamo 2005, pp. 125-146; W. Sauerlaender, Gothic Sculpture in France. 1140-1270, London 1972). In ambito italiano, trovò particolare diffusione tra Duecento e Trecento soprattutto in campo pittorico, si vedano le versioni negli affreschi romani di Pietro Cavallini, di Giotto o di Pietro Lorenzetti, oppure negli avori e nei lavori di oreficeria, mentre molto rara fu la sua diffusione in scultura, nonostante l’importante precedente costituito dalla Madonna della Natività di Arnolfo di Cambio scolpita per la facciata di Santa Maria del Fiore nei primissimi anni del XIV secolo.
Nel campo della scultura lignea rimangono solo alcuni rari, importanti esemplari, come quello databile tra il 1325 e il 1335 proveniente dal complesso monastico di Santa Chiara a Napoli, oggi nelle Gallerie di Capodimonte (già Museo della Certosa di San Martino), realizzata da un ignoto maestro nel quale la critica ha colto riferimenti alle sculture orvietane del senese Lorenzo Maitani coniugate ad una finezza decorativa di matrice francese (G. Curzi, Op. cit.; F. Bologna, R. Causa, Sculture lignee della Campania, Napoli 1950, pp. 89-90, n. 31). Altre opere analoghe si conservano in provincia dell’Aquila nella chiesa di Santa Maria Assunta di Assergi (XIV secolo) e in quella di Tossicia (inizio XV secolo) (G. Curzi, Op. cit.), presso le collezioni di scultura di Palazzo Venezia (opera castigliana dei primi anni del XV secolo) mentre la versione più significativa, attribuibile all’anonimo Maestro di Fossa con una datazione al 1340, si trova a Tolentino nel Museo della Basilica di San Nicola (E. Neri Lusanna, Il gruppo ligneo della natività di San Nicola a Tolentino e la scultura marchigiana, in Arte e spiritualità negli ordini mendicanti. Gli Agostiniani e il Cappellone di San Nicola a Tolentino, atti del Convegno di Tolentino, 1990, Roma 1992, pp. 105-124, in part. p. 107). Quest’ultimo è particolarmente rilevante perché dimostra come anche la nostra scultura in origine avrebbe potuto comporre insieme ad altre figure, sicuramente il San Giuseppe e il Gesù avvolto in fasce ai piedi del giaciglio della Vergine, una suggestiva scenografia sacra destinata alla cappella di una congregazione religiosa o di un oratorio dove si celebravano cerimonie o festività dedicate alla Madonna del parto o a devozioni affini.
Da un punto di vista stilistico l’opera non trova legami con gli esemplari citati e con il contesto della scultura italiana centro-meridionale o di area adriatica. La nostra Vergine presenta delle forme anatomiche molto longilinee, finanche sinuose e bombate nel peculiare inarcamento della vita quasi a simulare l’aggetto tondeggiante del ventre, un’articolazione del corpo leggiadra, longilinea e sciolta, di un’eleganza quasi tardogotica come suggerirebbe il panneggio sottile delle vesti animate da solchi profondi e tesi ma anche da eleganti plissettature e risvolti. Tali elementi lasciano trapelare la mano di un artista attivo a cavallo tra XIV e XV secolo in area pisano-lucchese sulla scia della forte lezione lasciata dalla bottega di Nino Pisano ma ormai in qualche modo svincolato dalla solidità volumetrica delle composizione del maestro. Il modo di intagliare gli abiti della Vergine, dalle fini bordure risvoltate trova dei riscontri in alcune opere di Nino degli anni Sessanta, soprattutto nella Madonna col Bambino della chiesa di San Nicola di Pisa, nel ductus della veste aperta sul petto in pieghe morbide e sventolanti, o nell’Annunciata del Victoria and Albert Museum di Londra (dal Duomo di Pisa), per la morbida effusione degli abiti ormai quasi del tutto affrancato dalle rigide falcate gotiche e dalla salda impostazione delle opere strettamente autografe.
Confronti più stringenti possono estendersi ad alcune statue lignee del seguito di Nino Pisano, come la figura dell’Arcangelo nell’Annunciazione di Ghizzano Peccioli datato intorno agli anni settanta del Trecento e ricondotto alla mano di Tommaso Pisano (M. G. Burresi, in Andrea, Nino e Tommaso scultori pisani, catalogo della mostra di Pontedera e Pisa, a cura di M. G. Burresi, Pisa 1983, pp. 167, 191-192, n. 48; M. G. Burresi, Una folla pensosa e cortese. Sculture note e inedite di Francesco di Valdambrino, del Maestro di Montefoscoli e di altri, in Sacre passioni: scultura lignea a Pisa dal XII al XV secolo, pp. 196-227). Il panneggiare e l’anatomia di questa statua sembrano accostarsi fortemente alla Vergine in esame, presentando un medesimo, leggero inarcamento del busto di sapore ancora gotico e una modellazione delle vesti affine nell’articolazione degli ondulati e appiattiti risvolti, oltre che un’analoga concezione volumetrica ed assorta del volto. Caratteristica quest’ultima che trova elementi di confronto anche con l’Annunciata del Museo di San Matteo a Pisa opera di un anonimo scultore toscano a cavallo tra i due secoli, che nelle forme e nella definizione del volto dall’ovale fortemente allungato e dagli occhi ieratici dalla forma a mandorla caratterizzata da contorni molto netti, si imparenta con la nostra Vergine confermandone una cronologia ormai a ridosso del Quattrocento.

G.G. – D.L.

Stima   € 20.000 / 30.000
92

Scuola fiorentina, sec. XIV

ULTIMA CENA

SAN FRANCESCO RICEVE LE STIGMATE

tempera e oro su tavola, cm 33x15

 

Florentine school, 14th century

THE LAST SUPPER

SAINT FRANCIS RECEIVING THE STIGMATA

tempera and gold on panel, cm 33x15

 

Databile nella prima metà del Trecento, la tavoletta qui offerta – probabile ala di dittico eseguito per la devozione privata – si accosta per motivi iconografici e compositivi al corpus di Jacopo di Landino del Casentino (circa 1297 – 1349) a cui, non a caso, lo aveva accostato Miklòs Boskovits dandone un parere orale alla proprietà. In particolare, l’episodio delle Stimmate di ascendenza giottesca compare ripetutamente – compresso nello spazio esiguo di anconette domestiche – in opere da tempo riconosciute all’artista di Pratovecchio, a partire dalla sua unica opera firmata per esteso, il trittico Cagnola agli Uffizi. In uno dei laterali di questo probabile altarolo da viaggio recante al centro la Madonna in trono col Bambino tra angeli e santi compare infatti questo soggetto, con due figure di santi nel registro inferiore (cfr. Corpus of Florentine Painting continued under the direction of Miklòs Boskovits and Mina Gregori. The fourteenth century. Section III, vol. II. By Richard Offner. A new edition with additional material, Firenze 1987, pp. 392-95, tavv. CLXVIII a-b). Lo stesso soggetto ricorre in una tavoletta nel Museo Civico di Pavia (Corpus, pp. 500-501, tav. CCXXIII) laterale di una Madonna a Francoforte, Städelsches Institut, e nel registro inferiore di un laterale di polittico a New York (Corpus…. The Fourteenth Century. The Painters of the Miniaturist Tendency, part III, vol. IX, by M. Boskovits, Firenze 1984, p. 307 e tav. CXXXII), anch’essa riferita all’artista casentinese.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
121

Scuola lombarda, sec. XVII

MOSTRA DI FRUTTA SU UN PIANO CON TAPPETO, CON ORTAGGI E ANIMALI DA CORTILE

MOSTRA DI FRUTTA SU UN PIANO CON TAPPETO

coppia di dipinti, olio su tela, cm 89x117; 89x118

 

Lombard school, 17th century

PEARS IN A DISH, WITH APPLES AND GRAPES UPON A TABLE, WITH A CARPET, AND MUSHROOMS AND POULTRY IN THE FOREGROUND

APPLES IN A DISH, WITH FIGS AND GRAPES UPON A TABLE, WITH A CARPET

oil on canvas, cm 89x117; 89x118, a pair

 

Gli elementi compositivi delle tele qui offerte e la loro presentazione frontale e simmetrica riconducono i dipinti all’area lombarda e più precisamente all’ambito del cosiddetto Monogrammista F.G.B., a cui le ricerche di Gianluca e Ulisse Bocchi hanno riferito la produzione ampia ed articolata di una bottega attiva in Lombardia intorno alla metà del XVII secolo, con opere rintracciabili in un’area relativamente ampia tra Cremona e Bergamo.

A questi due poli rimandano appunto gli elementi costitutivi di queste “mostre” di frutta, in cui motivi rustici e quotidiani sono presentati con simmetria turbata solo in apparenza dalle pieghe scomposte dei ricchi tappeti che nascondono i piani, e racchiusi quasi in un proscenio dai tendaggi che incorniciano la scena. Motivi che si ritrovano in alcuni numeri del catalogo riunito dai Bocchi (Naturaliter. Nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, p. 49 figg. 32-33) e che anticipano d’altro canto il gusto più esplicitamente decorativo di cui si farà interprete Antonio Gianlisi.

Stima   € 20.000 / 30.000
38

COPPIA DI IMPORTANTI SPECCHIERE, VENETO, SECONDA METÀ SECOLO XVII

in legno scolpito laccato e dorato, battuta bombata intagliata a motivo di foglie di alloro sovrapposte e ricorrenti che dal centro inferiore, segnato da nodi, si portano verso il centro superiore; alla battuta si applica la fascia dal ricchissimo decoro scultoreo che, dipartendosi da due ampie volute contrapposte al centro inferiore, si porta verso l’alto arricchendosi di fronde fogliacee e mazzi di fiori, a creare un fitto intreccio vegetale animato da putti musicanti e giocosi e aquile colte in atto di arpionare un serpente o di ghermire un putto, cm 200x170

 

A PAIR OF VENETIAN IMPORTANT MIRRORS, SECOND HALF 17TH CENTURY

 

Bibliografia di confronto

C. Alberici, Il Mobile Veneto, Milano 1980, figg. 217 e 245;

C. Santini, Mille mobili veneti. Le province di Verona, Padova e Rovigo, Modena 2000, p. 231 n. 456

 

Nel Veneto della seconda metà del Seicento non è raro imbattersi in specchiere intagliate a motivi vegetali popolati di animali e personaggi; è il caso ad esempio di due cornici pubblicate da Clelia Alberici nel suo repertorio sul mobile veneto, una con volute di foglie tra le quali appaiono puttini e un’aquila ad ali spiegate, che con i nostri esempi ha in comune anche il decoro a lacca bianca alternato alla doratura, e l’altra attribuita a Brustolon, nella quale al centro di ogni lato sono posti putti immersi in viluppi di foglie e fiori. Ma è soprattutto con un esemplare oggi appartenente a una collezione privata di Verona e pubblicato da Carla Santini che si possono notare i confronti più stringenti: anche nella specchiera veronese infatti i puttini, scolpiti a tutto tondo, sembrano emergere dall’intrico di volute di foglie di acanto quasi vi si stessero mimetizzando, perfettamente inseriti come sono all’interno degli ampi girali con cui le volute di foglie di acanto si dipanano, in un andamento rutilante che arriva quasi a nascondere la battuta, realizzata come nel nostro caso a foglie sovrapposte ricorrenti.

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
53

Scultore tosco-romano attivo nella cerchia del ‘Maestro di Pio II’, seconda metà del sec. XV
ALLEGORIA DELLA CARITÀ
gruppo scultoreo in marmo bianco, cm 72x67x37

Tuscan-Roman sculptor active in the circle of the ‘Maestro di Pio II’, second half of the 15th century
ALLEGORY OF CHARITY
white marble group, cm 72x67x37

Bibliografia
Centro Studi Piero della Francesca, Sculture antiche dal II secolo a. C. al XV, catalogo della mostra (Milano, Abbazia di S. Maria di Chiaravalle, 15 giugno - 15 luglio 1969), Milano 1969, n. XIV

Questo affascinante gruppo scultoreo di spiccata intonazione archeologica ritrae una giovane donna, purtroppo oggi acefala, abbigliata in una lunga tunica all’antica, sottilmente intagliata e cinta appena sotto il petto da un esile cordino, accompagnata da un vezzoso e vivace Bambino - privato nel corso dei secoli del sesso vistosamente scalpellato - protratto con il braccio a stringerle il seno e coperto solo dalla cappa svolazzante di una mantella appuntata al collo. Sull’altro lato la donna poggia la sua mano sulla testa consunta di un grifo, mutilo delle zampe anteriori, originariamente distese fino a terra a protezione di un volatile ancora oggi visibile nell’incavo del marmo, allusione verosimile alla duplice natura terrena e celeste di questo animale mitologico che ben si adattava all’immaginario Cristiano, come ricordato anche da Isidoro di Siviglia, secondo cui  i grifi "custodiscono sempre le strade della salvazione" e "tutti gli accessi all'immortalità".
Il gruppo, nella sua veste iconografica che potremmo associare ad un'Allegoria della Carità, risulta del tutto pertinente con il suo originario concepimento quale elemento di una fontana pubblica, come d’altra parte dimostra l’inserto idraulico oggi sporgente, ma un tempo quasi integralmente celato, dalla testa del grifo. L’incasso rettangolare sulla coscia del Bambino, realizzato per ospitare un perno di aggancio, lascerebbe supporre una sua disposizione ad affiancare una vasca o un'altra raffigurazione allegorica sul fronte di una balaustra.
Da un punto di vista stilistico l’opera risalta per la vocazione archeologica che la mette in stretta relazione con il clima culturale promosso a Roma tra il sesto e l’ottavo decennio del Quattrocento sotto i pontificati di Niccolò V (1447-1455), Pio II (1458-1464) e Paolo II (1464-1471), contraddistinto in campo artistico da un appassionato studio delle antichità, dal frenetico collezionismo e da uno spirito di rinnovamento dell’iconografia papale inspirata ai fasti imperiali, che guidarono la decorazione dei principali edifici di culto e i palazzi papali dell’Urbe. Il maggiore interprete di questa tendenza fu lo scultore Paolo Taccone da Sezze detto Paolo Romano, in virtù anche del suo ruolo come restauratore e ‘falsificatore’ di antichità, ma al suo fianco si distinsero altre importanti personalità di varia provenienza, tra cui Giovanni Dalmata, Mino da Fiesole, Isaia da Pisa e l’anonimo scultore noto con il nome convenzionale di “Maestro di Pio II” per via della sua abbondante partecipazione negli anni sessanta insieme a Paolo Romano al monumento funebre del Pontefice oggi in Sant’Andre della Valle a Roma (C. La Bella, Isaia da Pisa, Mino da Fiesole e gli scultori toscani, in Il Quattrocento a Roma, catalogo della mostra di Roma, Roma 2008, pp. 197-201, con bibliografia precedente).
Nell’opera in esame la componente fermamente classicista e antiquariale di Paolo Romano e quella spiccatamente minesca, si stemperano in un linguaggio più fluido che trova dei riferimenti nelle opere riconducibili al ‘Maestro di Pio II’, come le statue delle nicchie del Monumento Piccolomini, come alcune tipologie di panneggio nelle figure angeliche dell’ Ancona dell’Abate Gregorio VI a Roma in San Gregorio al Celio o nel tabernacolo eucaristico in Santa Maria Assunta a Monteflavio (F. Caglioti, Paolo Romano, Mino da Fiesole e il tabernacolo di San Lorenzo in Damaso, in "Prospettiva", 53/56, Scritti in ricordo di Giovanni Previtali: Volume I (Aprile 1988 -Gennaio 1989), pp. 245-255: F. Caglioti, Su Isaia da Pisa. Due ‘angeli reggicandelabro’ in Santa Sabina all’Aventino e l’altare eucaristico del Cardinal d’Estouville per Santa Maria Maggiore, in “Prospettiva”, 89-90, 1998, pp. 125-160). Altre connessioni possono ritrovarsi nella Vergine col Bambino marmorea riconosciuta al maestro in occasione del recente passaggio sul mercato internazionale, in  cui la morbida e vaporosa modulazione dei capelli di Maria appare del tutto analoga a quella del nostro Bambino (Salvatore e Francesco Romano antiquari a Firenze. A Century as antique dealers at Palazzo Magnani Feroni, casa d’Aste Sotheby’s, Firenze,12-15 ottobre 2009, n. 54).
Si tratta di una variante del celebre modello mariano, detto ‘di casa Piccolomini’, che fu coniato nella bottega senese di Donatello (1457-1461) e in seguito replicato da suoi collaboratori e seguaci attivi tra Roma, Firenze e la stessa Siena, di cui un esemplare con stemma Chigi già in collezione Pannwitz (Bennebroek, Olanda) è stato riconosciuto in un’opera autografa del ‘Maestro di Pio II’ (F. Negri Arnoldi, Sul Maestro della Madonna Piccolomini, in "Commentari", XIV, 1963, pp. 8–16; G. Gentilini, Maestro della Madonna Piccolomini, in Collezione Chigi-Saracini. La Scultura. Bozzetti in terracotta, piccoli marmi e altre sculture dal XIV al XX secolo, a cura di G. Gentilini, C. Sisi, Firenze, 1989, pp. 80-97; F. Caglioti, in Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le Arti a Siena nel primo Rinascimento, catalogo della mostra di Siena, a cura di M. Seidel, Milano 2010, n. pp. 348-353, n. D.21).
Per tali affinità sentiamo di poter ricondurre la paternità del gruppo in esame alla mano di uno scultore che fu attivo nella bottega del ‘Maestro di Pio II’ e nello stretto giro della committenza senese-romana promossa dalla famiglia Piccolomini. L’indirizzo senesizzante registrabile nell’opera dell’anonimo maestro si può ritrovare anche nella nostra scultura che reca una citazione diretta dalla statua dell’Acca Larenzia scolpita da Jacopo della Quercia tra il 1414 e il 1419 per la Fonte Gaia di Siena, in cui uno dei due bambini risulta del tutto analogo al nostro nella concezione posturale, con la gambina sollevata, il corpo leggermene inarcato all’indietro, la testa reclinata con la medesima angolazione e una mano protesa verso l’alto.

G.G. – D.L.

Stima   € 20.000 / 30.000
32

Scultore abruzzese, prima metà del sec. XV

MADONNA IN TRONO (MADONNA DEL PARTO)

statua in legno, cm 124x45x34

 

Abruzzese sculptor, first half 15th century

MADONNA ENTHRONED (MADONNA OF PARTURITION)

wood statue, cm 124x45x34

 

 

Bibliografia

Centro Studi Piero della Francesca, Sculture antiche dal II secolo a. C. al XV, catalogo della mostra (Milano, Abbazia di S. Maria di Chiaravalle, 15 giugno - 15 luglio 1969), Milano 1969, n. XII

 

Questa nobile Madonna in Maestà in origine doveva accogliere tra le braccia protese la figura del Bambin Gesù assiso nel grembo materno, forse in posa benedicente, intagliata separatamente e rimuovibile, in modo da conferire all’immagine per un certo periodo del calendario liturgico il ruolo di Madonna del Parto, secondo una tipologia ben radicata nella scultura lignea e in terracotta dipinta abruzzese dell’Umbria meridionale nel Quattrocento (A. Vergari, Le Madonne col Bambino in grembo di tipo aquilano nella scultura rinascimentale in Umbria e in Valnerina, Perugia 2015).

Del resto, sul piano formale, trova riscontro, sia nelle fattezze tondeggianti ben proporzionate, sia nell’andamento elegante e ben disciplinato del panneggio, nella Madonna detta del Parto, essa pure oggi priva del Bambino, conservata nel Museo Nazionale d’Abruzzo a L’Aquila, datata nella prima metà del Quattrocento e riferita a un anonimo maestro locale sensibile al ritmo classicista della scultura ghibertiana (M. Moretti, Museo Nazionale d’Abruzzo nel castello cinquecentesco dell’Aquila, L’Aquila 1968, p. 121).

 

G.G. – D.L.

 

Stima   € 15.000 / 25.000
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
19

Intagliatore dell’Italia settentrionale (?), fine sec. XVI-inizi XVII

ANGELI REGGICERO SU BASI A VOLUTE

coppia di statue in noce, cm 148x42x35

 

North Italian carver (?), late 16th-early 17th century

CANDLEHOLDER ANGELS ON SCROLL BASIS

walnut statues, cm 148x42x35, a pair

 

I due elegantissimi Angeli cerifori, che si ergono su raffinate basi a volute composite, ornate da penduli festoni di frutta, poggiando con grazia la punta di un piede sul ricciolo terminale dei sottili candelabri in forma di cornucopia, denotano un intaglio di straordinario virtuosismo tecnico, tale da poter evocare il magistero e l’eccentrica fantasia di Giovan Angelo del Maino, protagonista della scultura lignea lombarda del primo Cinquecento, come suggeriscono in particolare i quattro Angeli reggicero eseguiti intorno al 1533 per la Cappella della beata Elena Duglioli nella chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna (R. Casciaro, La scultura lignea lombarda del Rinascimento, Milano 2000, pp. 196-199, 344-345, n. 140).

D’altra parte, l’esibita torsione e le movenze in spiccato ‘contrapposto’ delle figure, così come il loro estroso abbigliamento, connotato dalle attillate pettorine loricate e dalle banderuole formate da minute maglie a voluta, denotano una cultura figurativa ormai ben calata nel clima del manierismo internazionale, indirizzata dai pregiati modelli di Giambologna e dal gusto sofisticato delle grandi corti Europee, da Fontainebleau alla Praga rudolfina, e quindi una datazione a cavallo tra Cinque e Seicento. Non si esclude, comunque, l’ipotesi di un maestro attivo nell’Italia settentrionale, tra la Lombardia e il Veneto, dove i contatti con le esperienze transalpine erano da sempre ben radicati e l’arte dell’intaglio ligneo fu assai fiorente per tutto il Seicento con esiti di grande maestria tecnica e bizzarria inventiva, quali vediamo nelle figure allegoriche eseguite da Francesco Pianta tra il 1657 e il 1676 per i dossali della Sala Capitolare della Scuola Grande di San Rocco a Venezia: una proposta cui possono contribuire le assonanze, nelle posture lambiccate e nel lessico decorativo, con i bronzetti d’arredo dei maestri veneti, come Tiziano Aspetti, Girolamo Campagna e Niccolò Roccatagliata.

 

G.G. – D.L.

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
124

FINIMENTO DA SALOTTO, HENRY THOMAS PETERS, GENOVA, 1845-1850 CIRCA

in ebano composto da tavolo, divano, due poltrone e due sedie, stampigliatura PETERS GENOA sui cassetti; tavolo cm 75x135x74, divano cm 135x178x58, poltrone cm 135x66x58, sedie cm 114x50x50

 

A SET OF SEAT FURNITURE BY HENRY THOMAS PETERS, GENOA, CIRCA 1845-1850

 

Bibliografia

A. Rathschuler, Henry Thomas Peters e l’industria del mobile nell’Ottocento, Genova 2014, pp. 101-102

 

Bibliografia di confronto

M. G. Canale, Catalogo dell’Esposizione di Genova, Genova 1846;

G. Morazzoni, Il mobile genovese, Milano 1949;

S. Rebaudi, “E. T. Peters e il mobile genovese della Restaurazione”, in Genova, a. XXVIII, n. 7, luglio 1951;

M. G. Montaldo, “Mobili ottocenteschi genovesi inediti”, in La Casana, anno XVI, n. 3, luglio/settembre 1974;

E. Baccheschi, “Note sui mobili del Regno sardo dalla Restaurazione a Vittorio Emanuele II”, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna, vol. II, Torino 1980;

M. G. Montaldo Spigno, Michele Canzio, Genova 1987;

M. Agnellini (a cura di), Mobili italiani dell’Ottocento, con un saggio di F. Simonetti, Milano 1991;

E. Baccheschi, “I mobili di Peters”, in Antiques, n. 14, settembre 1991;

R. Collu, Villa Durazzo Faraggiana. Albissola Marina, Genova 1992;

E. Baccheschi, Mobile europeo dell’Ottocento, Milano 1995;

A. Gonzales-Palacios, Il mobile in Liguria, Genova 1996;

R. Antonetto, Gabriele Capello “Moncalvo”. Ebanista di due re, Torino 2004;

S. Pettenati, Mobilità degli arredi del Castello, in G. Carità (a cura di), Pollenzo. Una città romana per una “Real Villeggiatura romantica”, Savigliano 2004;

M. Macera (a cura di), Piccoli Principi. Memorie e sogni in real villeggiatura, catalogo della mostra, Marene 2007

 

L’imponente salotto, costituito da un tavolo, un divano, due poltrone e due sedie, è opera straordinaria dell’ebanista inglese Henry Thomas Peters.

Nato a Windsor nel 1793 egli giunse a Genova nel 1817 e nella città ligure, in cui la produzione mobiliare risultava ancora legata a modi artigianali, l’ebanista, con i suoi modi spigliati ed imprenditoriali, impianta una vera e propria fabbrica figlia della Rivoluzione industriale. Vive anni di gloria e fama entrando nelle grazie delle famiglie nobili genovesi. Probabilmente i primi committenti sono i Durazzo, quindi i Brignole Sale, i De Mari fino ad arrivare all’apogeo, i Savoia: del 1828 sono i primi pagamenti per lavori di ammobiliamento del Palazzo Reale di Genova, mentre nel 1833 iniziano quelli per il Reale Castello di Racconigi. La soddisfazione di Carlo Alberto, succeduto al primo committente Carlo Felice, sarà tale da portarlo nel 1835 a nominare Peters “Ebanista di Sua Maestà” e di servirsi della sua opera fino al 1847.

Il salotto presente in asta fu commissionato dalla famiglia Durazzo, come mostra lo stemma rappresentato alla sommità di ogni schienale, in cui le arme gentilizie vengono intagliate nel legno esattamente con i tratteggi araldici corrispondenti ai loro smalti: rosso a tre fasce d’argento, al capo d’azzurro caricato da tre gigli d’oro in fascia.

Non è da escludere che proprio la famiglia Durazzo, la più anglofila tra la nobiltà genovese, abbia favorito l’arrivo di Peters a Genova. Gli scambi assidui, i rapporti di commercio e di consumo culturale che, fin dagli anni Settanta del Settecento, Ippolito Durazzo padre di Marcello e il fratello Giacomo Filippo III hanno con Londra, sicuramente agevolano lo stabilirsi d’imprenditori inglesi in città, aprendo la via all’industrializzazione. Per i Durazzo l’ebanista esegue anche, all’inizio degli anni ’20, uno splendido salotto, il cosiddetto “Salotto azzurro” per la Villa dello Zerbino.

Il salotto qui presente è da datare ad un’epoca molto più tarda, intorno al 1845/50 in quanto i caratteri stilistici corrispondono ad un gusto eclettico, tipico dei neo-stili, diffusissimo a metà Ottocento.

L’eccezionalità di questi mobili sta proprio nel fatto che stilisticamente essi escano dal gusto più consueto dell’ebanista che, pur nelle sue varietà, corrisponde generalmente ad una equilibrata fusione tra il Regency della sua madre patria, gli stili prettamente francesi del Luigi XVIII e del Carlo X e lo stile italiano della Restaurazione, su cui sempre dominano tre aspetti fondamentali: raffinatezza decorativa, sobrietà e funzionalità.

Probabilmente il lanciarsi in un’operazione artistica di carattere fortemente ecclettico, come nel caso del “salotto Durazzo”, fu dettato dal bisogno di adattarsi, in un momento di forte crisi della Ditta Peters, ai modelli “imposti” dalla committenza.

A togliere, comunque, ogni dubbio sulla paternità è il marchio di Peters, ben evidente su entrambi i cassetti del tavolo.

Il salotto è eseguito totalmente in ebano massello ed è caratterizzato da una sontuosissima decorazione scultorea.

L’eclettismo è spettacolare e quasi spietato. La forma molto movimentata unisce parti strutturali del Barocchetto, come gli schienali sagomati, con parti neoclassiche, come i sedili a linea rigida con sostegni a colonna rastremata e bracciolo retto. La decorazione fonde elementi gotici, come pinnacoli e archi a sesto acuto, a motivi barocchi, come le traverse tornite, le carnose foglie accartocciate e “piumeggianti”, i mascheroni, ed esplode nella scultura a tutto tondo di corpi umani originati da dinamiche volute fitomorfe. Le figure che costituiscono i montanti dei braccioli, rappresentano delle erme, munite di ampie ali spiegate, scolpite in modo realistico fino alla cintola e caratterizzate da un individualismo accentuato. Una giovane donna col volto disteso e i capelli raccolti, i seni turgidi, il ventre ben tornito, s’accompagna a un satiro dal secco busto, dalle orecchie appuntite, dal sorriso ironico, e supportano i braccioli del divano. Una coppia di giovani negri, adolescenti, lui con torace non ancora pienamente sviluppato, lei di forme esili, entrambi con volti bambini segnati da labbra carnose, adornano una poltrona. Un’altra poltrona mostra la coppia più peculiare, due anziani dai lineamenti fini, lui fortemente stempiato, lei avvizzita nel corpo e nel viso scavato da profonde rughe, col capo avvolto in un semplice turbante.

La pesantezza decorativa del salotto si stempera nell’eccellente qualità tecnica che Peters manifesta in ogni particolare; una bravura scultorea già nota grazie ai suoi raffinatissimi intagli in mogano, ma che in questi suoi ultimi pezzi viene altamente evidenziata.

 

Antonella Rathschuler

Stima   € 10.000 / 15.000
22
Stima   € 10.000 / 15.000
119

Maestro del Compianto di Moncalieri

(scultore di cultura franco-fiamminga attivo in Piemonte nella prima metà del secolo XV)

SAN PIETRO

scultura in legno con tracce di policromia, cm 158x58x33

 

Maestro del Compianto di Moncalieri

(sculptor of Franco-Flemish culture active in Piedmont in the first half of the 15th century)

SAINT PETER

wood sculpture with traces of polychromy, cm 158x58x33

 

Bibliografia

Centro Studi Piero della Francesca, Sculture antiche dal II secolo a. C. al XV, catalogo della mostra (Milano, Abbazia di S. Maria di Chiaravalle, 15 giugno - 15 luglio 1969), Milano 1969, n. XV

 

Questa suggestiva, carismatica immagine di San Pietro si erge con solidità e con pacata eloquenza, mostrando in posizione prominente i due tipici attributi iconografici dell’anziano apostolo, la grande chiave, oggi in parte mutila, e il libro delle sacre scritture aperto sul petto. Il santo, di notevole forza espressiva nella testa, con l’intaglio pungente e allungato degli occhi e il virtuosismo della barba raccolta in un grappolo di vorticosi arricciamenti, è abbigliato in una voluminosa e granitica veste dall’appiombo colonnare ma con ampie falde che si accartocciano in corrispondenza del complicato e ricercato scollo abbottonato, che conferisce al soggetto un più acceso tono narrativo.

L’opera si inserisce tra le testimonianze superstiti di uno degli episodi più suggestivi e complessi della storia dell’arte piemontese ad apertura del Quattrocento affiancandosi al famoso Compianto in terracotta dipinta con dodici figure della collegiata di Moncalieri (Torino): un’opera databile tra la fine degli anni venti e i primissimi anni quaranta del secolo, eseguita da un anonimo maestro fortemente influenzato dal Compianto fittile della cattedrale di Friburgo (H. Reiners, Il Santo Sepolcro di Moncalieri, in “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, 1941, pp. 202-212; G. Repaci Curtois, Problemi di scultura quattrocentesca nel Piemonte occidentale, in “Critica d’Arte”, 74, 1965, pp. 40-49; Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra di Torino, a cura di E. Castelnuovo, G. Romano, Torino 1979, pp. 366-367; M. Martin, La Statuaire de la Mise au Tombeau du Christ des XV et XVI siècles en Europe occidentale, Paris 1997). Non sappiamo se si possa trattare di un artista forestiero o di un maestro locale formatosi nei cantieri transalpini oppure che ebbe modo di educarsi sui testi della scultura d’oltralpe giunti nei primi due decenni del secolo nei territori di confine tra Piemonte e Savoia. Basti ricordare ad esempio il grande Compianto, oggi perduto, che prima del 1405 Tommaso III di Savoia fece condurre da Parigi nella chiesa di San Domenico a Saluzzo, o i modi spiccatamente borgognoni dello scultore Jean de Prindall cui si riconducono oggi le statue della Vergine col Bambino del duomo di Chieri e della chiesa parrocchiale di Candia Canavese (G. Romano, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra di Torino, a cura di E. Pagella, Torino 2001, pp. 72-75, nn. 21-22; A. Galli, L. Cavazzini, Sculture in Piemonte tra Gotico e Rinascimento. Appunti in margine a una mostra e nuove proposte per il possibile Jean de Prindall, in “Prospettiva” 103-104, 2001, pp. 113-132).

È in questo solco che si inserisce il Compianto di Moncalieri e in stretta contiguità anche il nostro San Pietro, forse di poco successivo, riconducibile allo stesso maestro o ad una medesima bottega, come suggeriscono le sue stringenti affinità con la figura di Nicodemo di Moncalieri, che presenta la medesima verve espressiva del volto, nel taglio profondo e angolare degli occhi e nella caratterizzazione peculiare della barba dal rigido aggetto e dalla conformazione a grappolo, o la corposa monumentalità del panneggio di chiara matrice borgognona.

 

G.G. – D.L.

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
79

COPPIA DI CASSETTONI, BOTTEGA DI GAETANO RENOLDI, GENOVA, FINE SECOLO XVIII

lastronati in noce, palissandro, bois de rose e altre essenze pregiate e intarsiati in acero e legni chiari, piano in marmo verde delle Alpi sotteso da fascia intarsiata a ovoli; fronte a tre cassetti, di cui il primo decorato a motivo di profili maschili entro medaglioni intervallati a ceste di fiori che prosegue sui fianchi e separato da un sottile bordo a fiori e foglie dai due cassetti sottostanti, dei quali il secondo più sottile, ornati al centro da figure di Apollo e Cupido entro medaglione circolare contenuto in riserva esagonale inquadrata ai lati da riserve rettangolari con vedute di città e circondata da un ricco decoro a girali fogliacei e conchiglie; fianchi intarsiati con veduta di città inquadrata da quattro riserve trapezoidali con conchiglia al centro da cui si dipartono girali, lesene a candelabre agli angoli, su piedi troncopiramidali ornati a piccoli festoni di foglie, cm 91x122x62,5

 

A PAIR OF GENOESE COMMODES, WORKSHOP OF GAETANO RENOLDI, LATE 18TH CENTURY

 

Bibliografia di confronto

L. Caumont Caimi, L’ebanisteria Genovese del Settecento, Parma 1995, p. 302;

L. Caumont Caimi, Gaetano Renoldi “ebanista Milanese abitante in Genova Strada Novissima”, in G. Ruffini, F. Simonetti, G. Zanelli (a cura di), Paolo Francesco Spinola: un aristocratico tra Rivoluzione e Restaurazione, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova 2010, pp. 37-52;

L. Caumont Caimi nel catalogo 2011 Collection, Piva&C., Milano 2011, n. 34

 

Le caratteristiche stilistiche di questa coppia di cassettoni permettono di inserirli a pieno titolo nella produzione di Gaetano Renoldi, ebanista milanese di nascita e genovese di adozione che a Genova fonda la sua bottega. Negli anni ottanta del Settecento l'aristocrazia genovese inizia ad aprirsi alle novità introdotte da Giuseppe Maggiolini, complice anche l'importante commode da lui realizzata nel 1784 per Domenico Serra che, oggi dispersa, segna il punto di svolta del rinnovato interesse dei genovesi verso i mobili intarsiati. Ed è proprio questa esigenza di dar vita a Genova a una nuova tradizione nell’intarsio che Giuseppe Renoldi riesce perfettamente a cogliere, colmando un vuoto che si era ormai venuto a creare da molte decadi, aprendo poco prima del 1793 la sua bottega, dalla quale escono mobili e tarsie spesso iscritti "opere di Gaetano Renoldi ebanista Milanese abitante a Genova in Strada Novissima". Una produzione che, sebbene strettamente connessa a quella di Maggiolini, mostra proprie caratteristiche tanto nella struttura dei mobili quanto nella scelta degli impianti decorativi. I mobili realizzati da Renoldi seguono infatti la struttura tradizionale dei comò genovesi dell'ultimo quarto del secolo XVIII, con i montanti angolari lievemente aggettanti rispetto al corpo squadrato e i piedini a obelisco rovesciato; tipico inoltre è lo schema con il primo cassetto più sottile e separato tramite una sottile fascia intarsiata dai due inferiori, che formano un pannello unico. Queste caratteristiche consentono di avanzare l'ipotesi che Renoldi si avvalesse della collaborazione di altre botteghe per la costruzione dei mobili, sui quali poi realizzava i suoi interventi di intarsio. Relativamente infatti all'impianto decorativo, se lo schema del decoro è comune all'ebanisteria genovese, Renoldi aggiunge il suo personale tocco prediligendo la raffigurazione di paesaggi e vedute di città, spesso ispirati a incisioni di Vernet, così come di architetture romane e ruderi, e talvolta di paesaggi arcadici con figure.

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
111

Giulio Oggioni, attivo in Lombardia nella prima metà del sec. XVI

CRISTO FLAGELLATO

statua in legno con tracce di policromia, cm 76x42x28

 

Giulio Oggioni, active in Lombardy in the first half of the 16th century

SCOURGED CHRIST

wood statue with traces of polychromy, cm 76x42x28

 

La figura si presenta nella consueta iconografia del Cristo flagellato, che vede il Redentore presentato al giudizio del popolo dopo le umiliazioni del martirio, avvolto nella spessa cappa del mantello purpureo cinto sul petto con un vistoso maspillo, e coronato con il serto di spine, nel nostro caso perduto. La scultura, anticamente impreziosita da una naturalistica policromia oggi apprezzabile solo in rare zone, si imparenta strettamente con una statua di analogo soggetto conservata nel Museo della Collegiata di Castiglione Olona ricondotto alla mano Giulio Oggioni, uno scultore di origini varesine attivo sulla scia del celebre intagliatore del legno Andrea da Saronno, recentemente recuperato dagli studi. La sua attività è documentata entro la prima metà del Cinquecento nei centri di Varese, nel cantiere del duomo di Milano, a Saronno, dove rimangono di sua mano un gruppo di sei statue lignee a grandezza naturale raffiguranti il Cristo portacroce, la Vergine Maria, San Giovanni Evangelista e le Pie donne presso il Monastero delle Romite, e a Castiglione Olona (A. Bertoni e R. Ganna, Due maestri poco noti della scultura lignea lombarda del Cinquecento: Giulio Oggioni e Battista da Saronno, in “Arte Cristiana”, 88, 2000, pp. 364-374; A. Bertoni e R. Ganna, La presenza di Giovan Angelo del Maino a Varese e alcune puntualizzazioni su Andrea da Saronno e la sua cerchia, in Scultori e intagliatori del legno in Lombardia nel Rinascimento, atti del convegno di Milano, a cura di D. Pescarmona, Milano 2002, pp. 150-152, figg. 2-3). Il Cristo di Castiglione Olona si pone in un rapporto di stretta contiguità con l’opera in esame, presentando una figura in un’analoga postura eretta con le possenti braccia incrociate alla vita, vestito di un perizoma perfettamente analogo al nostro anche nelle occhiellature del nodo. Le uniche leggere varianti possono riscontrarsi nella chiusura della cappa con un fermaglio orizzontale, calata leggermente a lasciar scoperte le spalle, e nella capigliatura, che nella statua lombarda presenta una più vibrante articolazione delle ciocche.

 

G.G. - D.L.

Stima   € 7.000 / 10.000
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