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Alessandro Magnasco e Clemente Spera                        

(Genova 1667-1749)                                                        

(Novara 1661 ca.-Milano 1742)                                             

CRISTO TENTATO NEL DESERTO DAL DIAVOLO                                                

olio su tela ovale, cm 116,5x92,5    

 

Il dipinto è corredato da perizia scritta di Fausta Franchini Guelfi del 25 giugno 2013

 

Bibliografia di riferimento

Alessandro Magnasco (1667 -1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista, catalogo della mostra (Parigi 2015/Genova 2016) a cura di F. Franchini Guelfi, Parigi 2015.

F. Franchini Guelfi, Alessandro Magnasco, Genova 1077.


Le fluide e rapidissime pennellate che animano le figure di questo pendant sono senza dubbio quelle della peculiare scrittura pittorica del genovese Alessandro Magnasco.
Celebri e ricercati furono, sin da subito, i suoi frati, eremiti, viandanti e lavandaie inseriti all’interno di grandiosi paesaggi e imponenti rovine architettoniche.
In questo caso sono i protagonisti di due noti episodi evangeli ad abitare le architetture in rovina che si stagliano sul cielo luminoso dello sfondo.
Fausta Franchini Guelfi, analizzando le due tele, nota come il Magnasco abbia qui raggiunto un altissimo livello qualitativo e suggerisce una loro collocazione nella fase ormai matura della sua attività artistica, fra il 1725 e il 1730, poco prima del celebre Furto sacrilego, oggi al Museo Diocesano di Milano. La studiosa riconosce inoltre la mano del pittore oltre che nelle animate figure anche nei raggi luminosi che illuminano Gesù Cristo e nelle testine angeliche presenti in entrambi. Le scenografiche arcate in pietra dalle quali spunta una rigogliosa vegetazione sono invece opera di Clemente Spera, famoso proprio per la realizzazione di suggestive architetture in rovina. La sua collaborazione con Magnasco durò per più di quarant’anni e anche per quanto riguarda la sua produzione siamo di fronte a una delle sue realizzazioni più felici.

Trattativa Privata 

Alessandro Magnasco e Clemente Spera                        

(Genova 1667-1749)                                                        

(Novara 1661 ca.-Milano 1742)                                             

NOLI ME TANGERE                                                           

olio su tela ovale, cm 116,5x92,5


Il dipinto è corredato da perizia scritta di Fausta Franchini Guelfi del 25 giugno 2013


Bibliografia di riferimento
Alessandro Magnasco (1667 -1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista, catalogo della mostra (Parigi 2015/Genova 2016) a cura di F. Franchini Guelfi, Parigi 2015.
F. Franchini Guelfi, Alessandro Magnasco, Genova 1077.


Le fluide e rapidissime pennellate che animano le figure di questo pendant sono senza dubbio quelle della peculiare scrittura pittorica del genovese Alessandro Magnasco.
Celebri e ricercati furono, sin da subito, i suoi frati, eremiti, viandanti e lavandaie inseriti all’interno di grandiosi paesaggi e imponenti rovine architettoniche.
In questo caso sono i protagonisti di due noti episodi evangeli ad abitare le architetture in rovina che si stagliano sul cielo luminoso dello sfondo.
Fausta Franchini Guelfi, analizzando le due tele, nota come il Magnasco abbia qui raggiunto un altissimo livello qualitativo e suggerisce una loro collocazione nella fase ormai matura della sua attività artistica, fra il 1725 e il 1730, poco prima del celebre Furto sacrilego, oggi al Museo Diocesano di Milano. La studiosa riconosce inoltre la mano del pittore oltre che nelle animate figure anche nei raggi luminosi che illuminano Gesù Cristo e nelle testine angeliche presenti in entrambi.
Le scenografiche arcate in pietra dalle quali spunta una rigogliosa vegetazione sono invece opera di Clemente Spera, famoso proprio per la realizzazione di suggestive architetture in rovina. La sua collaborazione con Magnasco durò per più di quarant’anni e anche per quanto riguarda la sua produzione siamo di fronte a una delle sue realizzazioni più felici.

Trattativa Privata 

Sebastiano Ricci
(Belluno, 1659 – Venezia, 1734)
ADORAZIONE DEI PASTORI
olio su tela, cm 117x90

Bibliografia
E. Martini, Note sul Settecento veneziano: Sebastiano Ricci, Pellegrini, Crosato, in “Arte Documento” 12, 1998, p. 111, fig. 3; A. Scarpa, Sebastiano Ricci, Milano 2006, p. 240, n. 276; p. 561, fig. 442.

Referenze fotografiche
Fototeca Federico Zeri, scheda 65785

Pubblicato per la prima volta da Egidio Martini, lo splendido dipinto qui offerto è stato analizzato più compiutamente da Annalisa Scarpa nel catalogo generale di Sebastiano Ricci, con una proposta di datazione al secondo decennio del Settecento.

Entrambi gli studiosi hanno sottolineato il riferimento al modello veronesiano sotteso a questa invenzione: più precisamente, il recupero da parte di Sebastiano Ricci – in anticipo su Giovan Battista Tiepolo, che appunto sull’esempio di Paolo rifonderà nel Settecento la grande pittura veneziana – dell’insegnamento del Caliari, da lui compiutamente interiorizzato piuttosto che citato testualmente, e reinterpretato in chiave contemporanea.

Non è dubbio infatti che le figure monumentali della Famiglia e dei testimoni della Natività che affollano il proscenio della nostra Adorazione tornino a proporre modelli di Paolo Veronese nelle loro proporzioni grandiose: si veda in particolare la bella figura femminile panneggiata all’antica, quasi una statua classica di quinta alla scena principale, e in realtà vera protagonista della composizione.

Anche l’ambientazione della scena, ridotta a pochi elementi, rimanda a modelli del Caliari: in particolare alla Adorazione dei pastori, di ignota provenienza ma forse documentata nel Seicento a Roma in collezione Ludovisi, che dopo vari passaggi in illustri raccolte è stata venduta da Sotheby’s a New York nel 1997 (asta del 30 gennaio, lotto 44).

Non sappiamo se Sebastiano Ricci avesse potuto vederla a Venezia, o comunque nel corso dei suoi viaggi di formazione. L’invenzione circolava comunque, tradotta in controparte, nell’incisione che ne aveva tratto Matteo Piccioni, con dedica a Fabrizio Piermattei, qui riprodotta nell’esemplare al British Museum.

La composizione veronesiana non è citata letteralmente nella nostra tela, da cui peraltro differisce anche per le esigue dimensioni: pur non potendo escludere l’esistenza di un modello specifico di Paolo Veronese non ancora rintracciato, quanti si sono occupati del nostro dipinto e più in generale dei recuperi veronesiani nella pittura del Settecento veneziano hanno preferito sottolinearne il valore di modello ideale, pienamente interiorizzato da Sebastiano Ricci e da lui liberamente ricreato.

Occasione di contatto prolungato con Paolo Veronese, i lavori compiuti da Sebastiano Ricci per la chiesa veneziana di San Sebastiano, dove fra il 1696 e il 1698 era stato chiamato a sostituire il perduto soffitto veronesiano: fu certo in quell’occasione che ebbe modo di studiare le ante d’organo dipinte dal Caliari dove, nel pannello centrale, ritroviamo il modello per la grandiosa figura femminile nel nostro dipinto.

Trattativa Privata 
Maestro di Popiglio
(attivo a Pistoia e a Pisa nel secondo e terzo quarto del sec. XIV)
MADONNA COL BAMBINO E QUATTRO ANGELI, 1360 circa
tempera su tavola sagomata, fondo oro, cm 132x70

Corredato da parere scritto di Andrea De Marchi e Linda Pisani di cui pubblichaimo un estratto.
La tavola qui in esame è inedita e, secondo quanto comunica l’attuale proprietario, fu acquistata, circa quarant’anni addietro, da un collezionista di Toledo in Spagna.  Il dipinto, che, per le dimensioni, è immaginabile come il centro di un trittico o polittico, appare ben leggibile e giudicabile, nonostante i segni lasciati da vecchi interventi di restauro su alcune porzioni della superficie pittorica.Le sigle e la cultura figurativa dell’opera sono ben riconoscibili e permettono di identificare l’autore col cosiddetto Maestro di Popiglio, attivo fra il territorio pistoiese e quello pisano dagli anni trenta agli anni sessanta del Trecento. La tavola oggetto di questa scheda, inoltre, anche per parametri esterni come i dati della moda (si pensi agli scolli delle vesti, caratterizzati da una linea netta, come negli affreschi della Cappella Guidalotti Rinuccini di Giovanni da Milano), sembra appartenere alla fase tarda del maestro, sul 1360 circa.Il Maestro di Popiglio (noto anche, ma impropriamente, come Maestro del 1336 e sovrapponibile in parte al cosiddetto Francesco pisano o Francesco dell’Orcagna) deriva il proprio nome critico da un pentittico raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Lorenzo, Pietro, Giacomo Maggiore e Giovanni Battista conservato nel Museo d’arte sacra di Popiglio, ma un tempo presso la chiesa parrocchiale del paese di Popiglio, sulla montagna pistoiese.Alcune delle opere più antiche di questo maestro rivelano i suoi debiti nei confronti di un altro anonimo, il cosiddetto Maestro del 1310, protagonista della scuola pistoiese del primo Trecento e caratterizzato da una tempra espressiva ancor più forte. Non è un caso che, commentando il pentittico del Maestro di Popiglio raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Francesco, Giovanni Battista, Andrea ed Antonio abate, un tempo presso la cappella di Santa Lucia nella collegiata di Empoli ed oggi al museo della Collegiata, si sia parlato, di volta in volta, e con lessico colorito,  di “figure aggrondanti“e di una “ferinità insieme raffinata e popolare”.  Alle opere principali del Maestro di Popiglio (il namepiece, il pentittico empolese e la Madonna col Bambino della collezione Acton nella Villa La Pietra di Firenze) rinviano anche alcuni dettagli della Madonna con il Bambino ed angeli qui in esame: simili sono, sebbene meno incisivi ed appuntiti, i lineamenti del volto del Bambino, i suoi densi boccoli biondi e persino la collanina su cui spiccano un vistoso ciondolo apotropaico in corallo ed una crocellina dorata, che, per la sua sistemazione sbilenca, sembra esser rimasta impigliata fra i ricami che impreziosiscono la veste del piccolo Gesù.Tuttavia, come si accennava, la datazione della tavola sembra collocarsi nel decennio successivo alla metà del secolo, a notevole distanza dalle opere citate. Il prosieguo del percorso del maestro, che ha anche immediati riverberi nel territorio pistoiese, come mostrano una tavola ed un affresco a Montecatini Alto, sembra puntare in direzione di Pisa e del suo circondario. Si tratta però di opere molto discusse, la cui piena definizione critica attende ancora un assestamento definitivo. Come nel caso del polittico, molto impegnato, giunto alla Collezione Cini di Venezia dalla raccolta Toscanelli di Pontedera e raffigurante San Paolo in trono fra i santi Giovanni Battista, Pietro, Filippo e Giovanni Evangelista (cfr. F. Zeri, Dipinti toscani e oggetti d’arte della collezione Vittorio Cini, Vicenza 1984, pp. 13-16 e ora la scheda di F. Siddi, nel nuovo catalogo in corso di preparazione a cura di A. Bacchi e A. De Marchi), di cui ancora aperta è l'indagine che potrebbe portarlo a leggerlo quale esito della fase finale del percorso del Maestro di PopiglioI punti di maggior contatto fra la tavola qui schedata e il polittico Cini chiamano in causa soprattutto la raffigurazione dell’Annunciazione: basti pensare al profilo dell’Arcangelo da affiancare idealmente ad uno degli angeli in profilo che fanno corona alla Madonna col Bambino. Oltre alla somiglianza dei tratti (fatta eccezione per una certa sommarietà nella definizione delle mani), colpisce soprattutto il chiaroscuro intenso usato con funzione modellante.
In sintesi, sembra da proporre una datazione all’inizio degli anni sessanta del Trecento ed un inquadramento nella tarda attività del Maestro di Popiglio.
Trattativa Privata 
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