Oggetti d'arte e sculture

30 GIUGNO 2020

Oggetti d'arte e sculture

Asta, 0340
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15.30
Esposizione
FIRENZE
Venerdì        26 giugno 2020   10-18
Sabato         27 giugno 2020   10-18
Domenica    28 giugno 2020   10-18
Lunedì         29 giugno 2020   10-18

Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   300 € - 40000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 164
50

Verona, secolo XVI

MADONNA COL BAMBINO

in legno dipinto, alt. cm 167

 

Veronese, 16th century, Madonna with child

 

Bibliografia di confronto

A. Bacchi in Imago lignea. Sculture lignee nel Trentino dal XIII al XVI secolo, a cura di E. Castelnuovo, Trento 1989, schede 14, 15, 17;

G. Ericani, "Giovanni Zebellana intaliador, Leonardo da Verona depintore": una traccia per la scultura lignea veronese tra Quattrocento e Cinquecento, in “Verona illustrata”, 4, 1991, pp. 23-39

 

La tipologia iconografica della Madonna in trono, con le mani giunte e la testa lievemente piegata in adorazione del Bambino, disteso sulle sue ginocchia, iniziò a diffondersi in area veneta a partire dal quarto decennio del Quattrocento, sia in pittura che in scultura.

La nostra Madonna costituisce un’ulteriore variante stilistica di questo fortunato modello e dal punto di vista formale si inserisce pienamente nella importante e documentata produzione di sculture lignee veronesi tra XV e XVI secolo che ebbe come suoi più celebri esponenti Bartolomeo Giolfino (1410ca - 1486) e Giovanni Zabellana (1457-1504).

La matrice culturale veronese è avvalorata dai caratteri fisionomici, quali la leggera prominenza del mento, le sopracciglia arcuate, il naso lungo e sottile e la bocca che accenna a un lieve sorriso, e dalla qualità dell’intaglio, apprezzabile nell’andamento del profilo e delle pieghe del manto della Vergine. L’opera conserva inoltre brani superstiti di policromia, oltre che sugli incarnati, anche sulla veste.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
105

Luca della Robbia “il giovane” (Firenze 1475 - Parigi 1548)

GHIRLANDA DI FRUTTA E FIORI (DA UNO STEMMA DELLA FAMIGLIA BARTOLINI SALIMBENI), 1521/1523

cornice circolare ad altorilievo in terracotta invetriata policroma; diam. cm 120, largh. del serto cm 23

 

Luca della Robbia the younger (Florence 1475 - Paris 1548), a fruit and flowers garland (from a coat of arms of the Bartolini family), 1521/1523

 

La rigogliosa cornice a ghirlanda di verzura, definita con spiccato naturalismo e vivificata da un’intensa, variegata policromia ceramica, si colloca, per la sua non comune ricchezza e la sorprendente perfezione del modellato, tra le testimonianze più rappresentative e pregevoli di una tipologia decorativa che, per quanto assai diffusa nell’ornato rinascimentale, si considera a buon diritto peculiare dell’arte robbiana.

Infatti, simili ghirlande, adottate per incorniciare medaglioni araldici, rilievi mariani o effigi clipeate ‘all’antica’, allusive alla prosperità familiare o civile oppure alla feconda profusione della grazia divina, insieme ai festoni, i tralci e i fregi vegetali che guarniscono pale d’altare, lunette e tabernacoli, ricorrono a partire dalla metà del Quattrocento e per oltre un secolo nella produzione dei Della Robbia, variamente interpretate da Luca, dal nipote Andrea e dai suoi cinque figli che ne ereditarono il magistero e la rinomata bottega. La straordinaria capacità di riprodurre i doni della natura eternando nella maiolica la fragranza effimera di frutta, ortaggi, verzura e la fragile bellezza dei fiori, con un virtuosismo illusionistico tale da emulare le leggendarie creazioni del coroplasta greco Posside celebrate da Varrone e da Plinio, fu certo tra gli esiti più distintivi e apprezzati - come già si legge nelle Vite del Vasari (1550, 1568) - della poliedrica attività di questa celebre famiglia, impresso ancor oggi nell’immaginario quale sigillo inconfondibile della plastica robbiana.

La turgida corona è qui composta da una straripante varietà di frutti (pigne, grappoli d’uva, mele cotogne, melagrane, susine gialle, mele gialle), agrumi (limoni, cedri), ortaggi (cetrioli), e ovari di papavero, intercalati da altri vegetali più radi e piccoli (piselli, spighe di grano, susine, bulbi d’aglio) e da alcuni fiori di campo bianchi, azzurri, gialli (roselline, campanule, parnassie, genzianelle e altri). Tale profusione è però regolata da una sapiente disposizione matematico-geometrica, secondo il principio albertiano della “varietas” disciplinata dalla “compositio”. Infatti, i frutti e gli ortaggi più grandi e riconoscibili che connotano la ghirlanda sono raggruppati in dieci mazzetti che si succedono con una cadenza regolare e un andamento orario, ciascuno dei quali composto da cinque frutti della medesima specie botanica - disposti in due coppie seguite da un singolo frutto al centro, con quelli di minori dimensioni all’interno della sequenza -, e sono abbinati anche i vegetali meno vistosi. Risaltano in particolare gli ovari (o capsule) di papavero che, oltre a formare un mazzetto autonomo, ricompaiono in coppie nel punto di giunzione di ogni mazzetto, assumendo dunque una particolare evidenza, estranea alle innumerevoli ghirlande robbiane, e pertanto un probabile valore simbolico, allusivo al ben noto emblema della famiglia Bartolini Salimbeni cui è da riferire - anche in ragione della provenienza e della paternità - la committenza della ghirlanda.

Per quanto la datazione e l’attribuzione di una scultura decorativa aniconica possa sovente risultare ardua, le ricerche sulla plastica robbiana, assai rinvigorite negli ultimi decenni, ci consentono oggi di cogliere anche nelle ghirlande, e specialmente in quelle di qualità più elevata, i caratteri distintivi dei diversi interpreti di una tale vasta produzione, solo in apparenza conformi a tipologie codificate e ad medesimo un lessico ornamentale.

In questo caso la forbita profusione e la verità della turgida verzura, modellata con particolare risalto plastico e nitore formale incavando con la stecca i profondi sottosquadri dell’intricato fogliame, insieme all’elegante, misurata disposizione dei vegetali che abbiamo descritto e a una tavolozza ceramica vivida ma delicata, quale risalta nelle screziate tonalità del verde, inducono un fondato riferimento attributivo a Luca della Robbia ‘il giovane’ (Firenze 1475 - Parigi 1548) con una plausibile datazione intorno al 1520. Questi, tra i cinque figli di Andrea della Robbia (Firenze 1435 - 1525) che dopo aver collaborato col padre per vari decenni ne ereditarono il magistero tecnico e la prolifica, rinomata bottega impiantata nel 1446 in via Guelfa a Firenze da Luca ‘il vecchio’ (Firenze 1399/1400 - 1482), fu certamente il più abile, raffinato e incline a una sofisticata vena decorativa, riconosciutagli già dal Vasari (1568, ed. 1878-1885, II, 1878, p. 182, IV, 1880, p. 363) ricordandolo “molto diligente negl’invetriati”, che ne lodò la “tanta perfezione” con la quale aveva eseguito “per ordine di Raffaello” i pavimenti delle Logge e di altre stanze in Vaticano con le imprese araldiche di papa Leone X. […]

Particolarmente sensibile ai valori dell’ornato e della scultura decorativa con esiti di grande raffinatezza plastica e pittorica, Luca ‘il giovane’ fu in grado di orientare una produzione tradizionalmente rivolta a una committenza ecclesiastica verso il gusto di una committenza signorile laica, erudita e raffinata, desiderosa di rispecchiarsi, per le frequentazioni umanistiche e la cultura antiquaria, in opere dallo spiccato richiamo al mondo classico, degne di arredare i più suntuosi palazzi privati. Lo attestano la fantasiosa serie di medaglioni con le imprese medicee provenienti dalla residenza romana di Alessandro de’ Medici, ora conservati nel Museo di Roma e in Castel Sant’Angelo, gli elaborati pavimenti ceramici, come quello nella Cappella di Santa Caterina in San Silvestro al Quirinale decorato con motivi araldici medicei, i preziosi vasi ‘all’antica’ e i canestri ornamentali colmi di frutta e fiori, gli stemmi, talora di foggia assai ricercata - tra i quali ricordiamo lo stemma Visdomini già nella raccolta Carlo De Carlo, lo stemma Caiani da Diacceto nella Collezione Contini Bonacossi agli Uffizi, e gli stemmi Bartolini Salimbeni, contornati da ghirlande – affini, come quella in esame, agli opulenti festoni della Natività in Santa Chiara a Monte San Savino del 1509 riferita concordemente a Luca ‘il giovane’ - che ben si distinguono sia da quelle più scandite e rarefatte di Andrea sia dagli analoghi lavori di Giovanni, più ridondanti nel repertorio decorativo, modellati con minore accuratezza e smaltati con tonalità più cariche.

Un confronto particolarmente efficace, anche per le notevoli dimensioni e la conformazione della folta ghirlanda, ci viene offerto dallo spettacolare medaglione araldico con l’impresa dei Bartolini Salimbeni conservato oggi nel Museo del Bargello a Firenze, dove una corona vegetale altrettanto rigogliosa racchiude il consueto emblema di questa famiglia (tre ovari di papavero) concatenato a quelli dei Medici (tre anelli con punte di diamante, ciascuno attraversato da tre piume di struzzo, bianche, rosse e verdi), emblemi a loro volta avviluppati da un cartiglio con i motti delle due casate (“P[ER] NON DORMIRE” e “SEMP[ER]”), la cui stretta alleanza fu suggellata da legami matrimoniali. Si tratta di una delle testimonianza più grandiose e raffinate nella pur vasta, secolare produzione araldica robbiana, e forse la più significativa tra le rare opere documentate di Luca ‘il giovane’, identificabile per ragioni tipologiche, araldiche, stilistiche e cronologiche con uno dei due medaglioni realizzati per l’elegantissimo, innovativo palazzo edificato da Baccio d’Agnolo per Giovanni Bartolini dirimpetto a Santa Trinita tra il febbraio 1520 e il maggio 1523... Ma è per noi di particolare interesse il fatto che lo stemma Bartolini Salimbeni del Bargello, acquisito nel marzo 1939 attraverso gli eredi dell’antiquario fiorentino Luigi Pisa (dono valutato 100.000 lire), in precedenza si trovava anch’esso nella collezione Torrigiani. Lo attestano i fondamentali repertori robbiani di Allan Marquand che nel 1919 (pp. 219-221, n. 279, fig. 202) e nel 1920 (pp. 110-111, n. 113, fig. 62) riproduceva la relativa ghirlanda, attribuendola a Giovanni della Robbia intorno al 1515, pervenuta in circostanze imprecisate al marchese Torrigiani e conservata nel suo palazzo di Firenze, seppure al tempo priva dell’impresa araldica e reimpiegata come cornice di un’epigrafe marmorea posta nel 1878 dai figli del marchese Luigi nel palazzo Torrigiani Del Nero (1804 - 1869) per celebrare la cospicua raccolta d’arte antica riunita dal padre [   ]. Inoltre, dobbiamo qui ricordare che, di fatto, Luigi Torrigiani aveva posseduto almeno due grandi stemmi robbiani con l’imprese Bartolini Salimbeni, presentati nel 1861 alla Esposizione di oggetti d’arte del Medio-Evo e dell’epoca del Risorgimento dell’Arte allestita a Firenze in casa Guastalla. E’ quindi probabile che questa famiglia fosse entrata in possesso di entrambi gli stemmi eseguiti da Luca ‘il giovane’ per palazzo Bartolini Salimbeni di piazza Santa Trinita, forse intorno al 1838-40 quando l’edificio fu adattato ad albergo di lusso, se non già nel 1559 quando i Torrigiani acquisirono l’attiguo palazzo Bartolini Salimbeni di via Porta Rossa, ristrutturato anch’esso nel primo Cinquecento, passato alla fine del Settecento a Pietro Guadagni. La ghirlanda proveniente dalle raccolte Torrigiani che qui si presenta, caratterizzata come abbiamo visto dall’evidenza degli ovari di papavero, emblema peculiare dei Bartolini Salimbeni, è dunque plausibilmente identificabile con quella di uno dei due medaglioni eseguiti da Luca ‘il giovane’ nel 1521 per il sofisticato palazzo di Giovanni Bartolini in Santa Trinita - forse proprio con il “tondo di fogliami per la volta della loggia” -, ed è certo una delle due ghirlande con l’impresa di questa famiglia appartenute al marchese Luigi Torrigiani e da lui esposte nel 1861, in seguito privata del disco araldico, in quanto non pertinente alla nuova collocazione nelle proprietà dei Torrigiani, proprio come avvenne nel 1878 per lo stemma oggi al Bargello, e reimpiegata per impreziosire la copia del busto di Giovane venduto nel 1893 a Bardini e da questi al Museo di Berlino. Ma, mentre il tondo araldico della ghirlanda utilizzata per l’epigrafe marmorea posta nel 1878 in palazzo Torrigiani Del Nero fu poi ricongiunto alla sua cornice robbiana, in questo caso la parte con gli emblemi Bartolini Salimbeni venne presumibilmente restituita o ceduta a questa stessa famiglia. Infatti la possiamo riconoscere nel rilievo pubblicato dal Marquand nel 1919 e poi nel 1920, al tempo in “Casa Bartolini Salimbeni Vivai” a Dicomano, incastonato in una parete e circondato da una ghirlanda dipinta: tondo, la cui attuale ubicazione non ci è nota, ch’egli rapportava alla corona di palazzo Torrigiani e dunque al medaglione ora al Bargello, ma erroneamente in quanto a ben vedere differisce in alcuni dettagli, quali la disposizione delle lettere nel cartiglio.

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
71

Roma, secolo XVII

PUTTO CON TESCHIO

in marmo bianco, cm 59x28x32

 

Roman, 17th century, putto resting on a skull

 

Bibliografia di confronto

Scultura del ‘600 a Roma, a cura di Andrea Bacchi, Milano 1996

 

Il contrasto tra la figura del putto e quella del teschio di questo elegante gruppo marmoreo sottolinea lo scorrere del tempo e la precarietà dell’esistenza, dando immagine a una delle iconografie più diffuse nel Seicento, secolo fortemente affascinato dal concetto di vanitas

L’opera mostra i tipici stilemi della statuaria del primo barocco romano e dei virtuosismi nella resa di effetti di tattile morbidezza delle carni dei suoi protagonisti.

Più che al dinamismo berniniano, l’artefice delle tenere fattezze del putto sembra ispirarsi alla classica compostezza di Alessandro Algardi (Bologna,1598 – Roma,1654), trovando un interessante raffronto nel gruppo marmoreo con San Nicola da Tolentino cui appare la Vergine col Bambino, Sant’Agostino e Santa Monica, posto in una nicchia della chiesa di San Nicola di Tolentino a Roma: le sculture furono eseguite da Domenico Guidi, Ercole Ferrata e Francesco Baratta il Vecchio su modelli dell’ Algardi che, secondo Bellori, poté rifinirle prima della morte.

Alessandro Algardi produsse inoltre, lungo l’arco di tutta la sua carriera, numerosi modelli per sculture da tradurre poi in altri materiali; tra questi, l’Ercole fanciullo con il serpente in bronzo, conservato a Burghley House (collezione Marchese Exeter), il gruppo con Eros e Anteros in marmo proveniente da Palazzo Sampieri a Bologna e oggi presso le collezioni del Liechtenstein, o la scultura in bronzo raffigurante il Sonno della Galleria Borghese di Roma, offrono caratteristiche tipologiche e morfologiche che richiamano il nostro Putto con teschio.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
104

Scultore fiorentino prossimo a Luca della Robbia (Firenze 1399/1400-1482), Antonio di Cristoforo? (doc. a Firenze 1435-1442 e Ferrara 1443-1451/59)

MADONNA COL BAMBINO, 1430/1440 circa

altorilievo scontornato in terracotta dipinta, cm 65x44x14, entro tabernacolo ligneo di gusto neogotico, cm 214x82x24

 

Florentine sculptor close to Luca della Robbia (Florence 1399/1400-1482), Antonio di Cristoforo? (working in Florence 1435-1442 and Ferrara 1443-1451/59), Madonna with child, circa 1430/1440

 

In questo gentile rilievo la Vergine, pensosa e malinconica, è raffigurata nell’atto di sostenere, cingendolo con un gesto protettivo di entrambe le mani, un gagliardo Bambin Gesù che si erge nudo con i piedini poggiati in modo instabile sul limitare del sottile gradino di base (inteso come un parapetto) e si protende ad abbracciare la madre intorno al collo, cercando conforto da un sentore che ne turba il volto imbronciato. L’inedita, originale composizione allude dunque al tema della “preveggenza” della Passione di Cristo ispirato dai Vangeli Apocrifi, secondo un’iconografia assai diffusa con varie interpretazioni nelle immagini mariane e nella plastica fiorentina del primo Quattrocento fiorentino destinata alla devozione domestica (Kecks 1988). Si tratta di una composizione della quale non conosciamo altre repliche, foggiata modellando direttamente l’argilla senza far uso di una forma ‘a calco’ (tecnica ricorrente nella gran parte dei rilievi affini realizzati nelle botteghe del tempo), come ben si evince osservando la terracotta da tergo, dove la superficie, priva delle cavità distintive dei calchi, rivela nelle venature e nelle impronte l’aggregazione della materia sulla tavola di modellazione.

L’opera è caratterizzata da un composto classicismo, dichiarato anche dai tratti matronali e dell’acconciatura ‘all’antica’ di Maria con la fronte cinta da una ‘tenia’, coniugato a vivaci attenzioni naturalistiche, quali si colgono nelle floride, teneri fattezze del Bambino e nella sua arguta espressività, e declinato in terse forme tondeggianti, che, insieme all’affabile intimità della composizione, ci induce ad accostarla all’attività giovanile di Luca della Robbia, scultore poliedrico riconosciuto già dai contemporanei tra i “padri” del Rinascimento (Marquand 1914; Pope-Hennessy 1980; Gentilini 1992, I, pp. 11-167). Celebre per aver scolpito, tra il 1432 e il 1438, la monumentale Cantoria per l’organo maggiore di Santa Maria del Fiore, oggi nel Museo dell’Opera del Duomo, e altri importanti lavori marmorei, ma soprattutto quale “inventore” della scultura in terracotta invetriata, un’ “arte nuova, utile e bellissima” come avrebbe detto Giorgio Vasari (1568), elaborata intorno al 1440, Luca aveva dato prova sin dai suoi esordi di “una maravigliosa pratica nella terra, la quale diligentissimamente lavorava” - lo afferma ancora il biografo aretino -, verosimilmente realizzando numerose Madonne in terracotta dipinta ad oggi identificate solo in piccola parte (Gentilini 1992, I, pp. 39-81).

Tra queste si presta a un efficace riscontro con l’opera in esame in special modo la Madonna col Bambino della chiesa di Santa Felicita, ormai confermata a Luca nei primi anni Trenta (A. Bellandi, in La Primavera del Rinascimento 2013, pp. 442-443, n. VIII.10), per la struttura piramidale del gruppo, la foggia e l’andamento del manto di Maria che ricade sotto le braccia formando due ampie, fluide anse, proprio come nelle Suonatrici di cetra della Cantoria, ed anche per la vacillante postura inclinata, la complessione anatomica e l’espressione corrucciata del Bambino, simile, pure nella definizione dei capelli a caschetto, a uno dei due spiritelli che sorreggono l’Arme del podestà Amico della Torre scolpito da Luca nel 1431/32 per il Palazzo del Bargello (B. Paolozzi Strozzi, Ivi, pp. 350-351, n. IV.6 ).

D’altra parte, se i confronti con la produzione autografa di Luca della Robbia potrebbero estendersi ad altre opere - quali, ad esempio, varie Madonne invetriate in cui ricorre l’accorato abbraccio del Bambino proteso intorno al collo della Madre (Madonna ‘di Genova’, Detroit Institute of Arts: A.P. Darr, Ivi, pp. 446-447, n. VIII.12; Madonna ‘Bliss’, New York, The Metropolitan Museum: V. Krahn, Ivi, pp. 450-451, n. VIII.14), o, per la singolare articolazione della mano destra della Madonna con le dita incurvate aperte a ventaglio, uno degli Angeli reggicandelabro eseguiti per il Duomo di Firenze nel 1448 -, è pur vero che si riscontrano qui alcune soluzioni formali più rigide e schematiche, come l’ovale allungato del volto della Vergine o le pieghe secche e semplificate del panneggio, tali da far pensare alla responsabilità di un qualche collaboratore o scultore autonomo assai prossimo al maestro: un’incertezza che l’accomuna ad una Madonna col Bambino in terracotta dipinta conservata nel Bode-Museum di Berlino, connotata da stilemi analoghi e pure databile intorno al 1430/40, la cui controversa attribuzione a Luca appare piuttosto problematica (Pope-Hennessy 1980, pp. 249-250, n. 24; Gentilini 1992, p. 45).

Può fornire un’adeguata soluzione a tali quesiti attributivi la maggiore conoscenza, affinata da contributi recenti (Galli 2010), di uno scultore ai sui tempi piuttosto rinomato, Antonio di Cristoforo, che dovette essere il principale collaboratore di Luca della Robbia tra la metà degli anni Trenta sino al 1442, come attestano alcuni pagamenti relativi alla Cantoria e al Tabernacolo del Sacramento di Santa Maria Nuova (ora in Santa Maria a Peretola), poi trasferitosi nel 1443 a Ferrara dove realizzo in bronzo il perduto Monumento equestre di Niccolò III d’Este, insieme al fiorentino Niccolò Baroncelli, e fu a lungo favorito dalla committenza della corte estense. La sua unica opera documentata che sopravvive è infatti una Madonna col Bambino a figura intera in terracotta dipinta eseguita per la Cattedrale di Ferrara (oggi nel Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Schifanoia), che ne testimonia il magistero nella plastica fittile - sottolineato nello stesso atto di allocazione - e una forte consonanza con i modi di Luca della Robbia, con esiti che ben si accordano col rilievo in esame sia nella definizione anatomica e fisionomica sia nel ductus ampio ma conciso del panneggio.

Dobbiamo infine osservare che la terracotta ci è giunta all’interno di un fastoso tabernacolo ligneo di gusto neogotico, finemente intagliato con protomi angeliche, tralci florali e altri decori, lumeggiato in oro e parte ebanizzato, assai elaborato anche nella fattura delle staffe in ferro battuto applicate sul retro, che fu realizzato, forse nell’ultimo quarto dell’Ottocento, proprio per accogliere quest’apprezzata immagine, come dichiara la forma convessa del basamento recante la salutatio angelica iscritta a rilievo: eloquente testimonianza del pregio attribuitogli e di un’interessante vicenda collezionistica.

 

Giancarlo Gentilini

Firenze, 7 giugno 2020

 

Bibliografia di riferimento

A. Marquand, Luca della Robbia, Princeton 1914;

J. Pope-Hennessy, Luca della Robbia, Oxford 1980;

R.G. Kecks, Madonna und Kind. Das häusliche Andachtsbild im Florenz des 15. Jahrhunderts, Berlin 1988;

G. Gentilini, I Della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, 2 voll., Firenze 1992;

A. Galli, Vocazione e prime esperienze di Antonio di Cristoforo e Niccolò Baroncelli, scultori fiorentini a Ferrara, in “Prospettiva”, 139-140, 2010 (2012), pp. 35-57;

La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400 - 1460, a cura di B. Paolozzi Strozzi e M. Bormand, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013), Firenze 2013

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
51

Scultore di area germanica attivo durante l’ultimo quarto del secolo XV
SAN SEBASTIANO
in legno dipinto, alt. cm 152,5

 

Sculptor of German origin active during the last quarter of the 15th century, Saint Sebastian

 

Bibliografia di confronto

S. Cavatorti, Giovanni Teutonico. Scultura lignea tedesca nell’Italia del secondo Quattrocento, Perugia 2016, pp. 67-71, p. 222 n. E.II.11;

E. Mancini, in Museo di Palazzo santi. Chiesa di Sant’Antonio Abate, a cura di G. Gentilini e M. Matteini Chiari, Firenze 2013, pp. 112-113, cat. 200, con bibliografia precedente;

L. Principi, Il Sant’Egidio di Orte: aperture per Saturnino Gatti scultore, in “Nuovi Studi”, XVII, 2012, 18, pp. 101-129.

 

La peculiare effige in legno dipinto di questo San Sebastiano rientra per evidenti affinità formali e tipologiche all’interno di un gruppo di sculture localizzate in Umbria, analizzate in diversi studi, recentemente orientati a individuarne gli artefici tra gli intagliatori tedeschi operosi in questo territorio. Tra questi si distinse Giovanni Teutonico (Giovanni di Enrico da Salisburgo), documentato a Perugia, Terni e Norcia tra il 1478 e il 1498 a cui è stato attribuito un San Sebastiano conservato presso il Museo Diocesano di Terni (S. Cavatorti, Giovanni Teutonico. Scultura lignea tedesca nell’Italia del secondo Quattrocento, Perugia 2016, pp. 67-71, p. 222 n. E.II.11).

Ancora più stringenti similitudini si possono individuare nel San Sebastiano oggi facente parte della collezione del Museo di palazzo Santi a Cascia, in Valnerina, oggetto di una nutrita bibliografia (E. Mancini, in Museo di Palazzo santi. Chiesa di Sant’Antonio Abate, a cura di G. Gentilini e M. Matteini Chiari, Firenze 2013, pp. 112-113, cat. 200, con bibliografia precedente) a cui è stato accostato da Giancarlo Gentilini e David Lucidi un’affascinante scultura raffigurante il medesimo santo martire transitata il 12 novembre 2019 da Pandolfini.

Medesima è l’intensa espressività del volto, la postura, inarcata e leggermente sbilanciata, e l’attenzione per la resa anatomica. La qualità dell’intaglio emerge poi chiaramente anche nell’esemplare qui offerto nelle increspature affilate del tessuto del perizoma e nella capigliatura ordinata in onde regolari.

Sorprendente è infine la realistica descrizione dei piedi, del tutto confrontabile a quella della scultura già in asta da Pandolfini, piedi dall’epidermide tesa, dove le vene gonfie sembrano pulsare di vita, e dalle dita con le estremità assai arrotondate, che risaltano sopra uno stuoino mimeticamente raffigurato.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
25
Stima   € 15.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
7

Bottega di Severo Calzetta da Ravenna, prima metà secolo XVI

MARCO AURELIO

in bronzo, su base esagonale cesellata a volute e terminante su tre zampe ferine, cm 21x16,5x16

 

Workshop of Severo Calzetta da Ravenna, first half 16th century, Marcus Aurelius

 

Bibliografia di confronto

C. Avery, La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia, Sculture, Bronzetti, Placchette, Medaglie, Cinisello Balsamo (Mi) 1998, pp. 108-109 n. 62;

P. Cannata, Museo Nazionale del Palazzo Venezia. Sculture in Bronzo, Roma 2011, pp. 54-55 n. 50

 

L’esemplare qui presentato mostra evidenti affinità con simili bronzetti conservati al Museo di Palazzo Venezia e al Museo Civico Amedeo Lia, il primo ricondotto da Cannata alla temperie padovana di inizio Cinquecento, il secondo circoscritto da Avery alla cerchia di Severo Calzetta da Ravenna (Ravenna 1465 circa - Ravenna 1543 circa). Il gran numero di esemplari simili accostati alla produzione dell’artista ben evidenzia il diffuso gusto per la scultura classica tradotta in scala ridotta tipico delle Wunderkammer. La statua equestre di Marco Aurelio, allora visibile a Roma presso la basilica di San Giovanni in Laterano, era già stata riprodotta da Antonio Averlino detto il Filarete come dono per Piero di Cosimo de’ Medici nel 1465, ma fu Severo Calzetta a riadattarla a una molteplicità di usi e composizioni: se con la sola aggiunta di una cornucopia nella mano sinistra dell’imperatore poteva prestarsi a essere impiegata come portacandela, con l’aggiunta di piccoli recipienti per l'inchiostro e il polverino poteva diventare un calamaio, con la cornucopia a fungere da alloggio per la penna.

Stima   € 12.000 / 18.000
142

Jean-Jacques Caffieri

(Parigi 1725 – Mora 1792)

BUSTO DI CLAUDE-ADRIEN HELVÉTIUS

in terracotta, firmato e datato sul retro Claude Adrien Helvetius ne’ en  javier 1715 mort le 26 december 1771 fait par J.J. Caffieri en 1772, alt. cm 60, su piedistallo in marmo fior di pesco, alt. cm 16

 

Jean-Jacques Caffieri (Paris 1725 - Mora 1792), bust of Claude-Adrien Helvétius

 

Bibliografia di confronto

C. Navarra-Le Bihan, Cécile, L’ inventaire après décès du sculpteur Jean-Jacques Caffieri, inGazette des beaux-arts”, 138.2001, 97-120.

J. Guiffrey, Les Caffiéri  : sculpteurs et fondeurs-ciseleurs ; étude sur la statuaire et sur l’art du bronze en France au XVIIe et au XVIIIe siècle, Nogent Le Roi: Laget,1993

 

Numerose personalità della seconda metà del Settecento si rivolsero a Jean Jacques Caffieri, l'ultimo e il più celebre membro di una nota famiglia di artisti, per la realizzazione di ritratti scultorei, ottenendo da Luigi XV, la prestigiosa carica di Sculpteur du Roi: al museo dell’Ermitage è conservato il busto di Madame du Barry, l’ultima favorita del sovrano francese, dove oltre alla sua avvenenza risaltano le sue doti seduttive. Apprezzata era infatti l’abilità di Caffieri, soprattutto nei busti realizzati in marmo o come nel nostro caso in terracotta, di saper coniugare al naturalismo nella resa della fisionomia l’emergere delle attitudini psicologiche dei committenti. Il ritratto del filosofo e scrittore Claude-Adrien Helvétius (Parigi, 1715 – Versailles, 1771), qui offerto, restituisce l’immagine di un intellettuale del suo tempo, attento indagatore delle “cose” del mondo.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
149

Francesco Righetti (Roma 1749-1819), 1800 circa

TORO FARNESE

in bronzo, cm 49x43x42,5

 

Francesco Righetti (Rome 1749-1819), circa 1800, The Farnese Bull

 

Scultore, orafo e bronzista, Righetti si forma presso Luigi Valadier e alla sua morte ne diventa il successore, portando anche avanti la sua proficua attività di esecuzione di repliche dall'antico di statue celebri, tra le quali si ricorda proprio il celebre Toro Farnese, il gruppo scultoreo ellenistico noto per essere la più grande scultura dell'antichità giunta fino ai nostri giorni.

Ritrovato nelle terme di Caracalla a Roma nel 1545, la scultura passò prima all'ultimo erede della famiglia Farnese Carlo di Borbone, insieme al resto della collezione di antichità messa insieme da papa Paolo III, e nel 1788 fu trasferita a Napoli con Ferdinando IV di Borbone, dove trovò probabilmente impiego come fontana della villa reale della città fino al suo spostamento presso il museo archeologico di Napoli, dove fu collocato nel 1826.

Il soggetto, raffigurante i figli di Antiope, Anfione e Zeto, che per vendicare le offese inflitte alla madre da Dirce la legano a un toro selvaggio, fu spesso replicato nei secoli successivi alla sua scoperta, con l'aggiunta anche di personaggi secondari quali un cane, una figura femminile, un bambino. Tra le repliche più note si possono menzionare le due realizzate da Antonio Susini, ora rispettivamente al Villa Borghese a Roma e all'Ermitage di San Pietroburgo; altre repliche del celebre gruppo di trovano al Bayerisches Nationalmuseum di Monaco e al Museo di Capodimonte di Napoli.

Stima   € 10.000 / 15.000
48

Scultore nordico attivo tra la fine del secolo XIV e la prima metà del secolo XV

VESPERBILD

in alabastro, cm 26x21x12

 

Northern sculptor working between the late 14th century and the first half of 15th century, Vesperbild

 

Bibliografia di confronto

P. Williamson, Northern Gothic sculpture 1200-1450, cat. Victoria and Albert Museum, London, 1988, pp. 187-191, cat. 54; K. Woods, The Master of Rimini and the tradition of alabaster carving in the early fifteenth-century Netherlands, in “Nederlands Kunsthistorisch Jaarboek” 62, 2012, pp. 56-83; Il potere, le arti, la guerra: Lo splendore dei Malatesta, catalog della mostra, Rimini, 2001, cat. 58, pp. 188-9; Vesperbild. Alle origini delle Pietà di Michelangelo, cat. della mostra, Milano 2018, pp. 60-61, cat. 3.

 

La composizione, con il Cristo orizzontale e il manto dai molteplici risvolti gotici, risente della tipologia dello Schönes Vesperbild, e rientra per tangenze stilistiche e tipologiche nel gruppo costruito intorno al Calvario in alabastro oggi alla Liebieghaus di Francoforte, già in Santa Maria delle Grazie a Rimini, gruppo ricondotto al cosiddetto Maestro di Rimini proprio per via di quest’opera. La figura di questo artista, per la quale è stata recentemente avanzata l’ipotesi di identificazione con un fiammingo documentato come intagliatore di figure in alabastro a Bruges alla corte di Filippo il Buono, è probabilmente riconducibile a quella del titolare di una vasta bottega attiva nella prima metà del XV secolo per commissioni sparse in tutta Europa, che annovera diversi esemplari di Vesperbilder in alabastro, alcune, per via della dimensione, destinate alla devozione pubblica, altre più raffinate e piccole, come nel nostro caso, eseguite presumibilmente per l’uso privato.

Di taglio e impostazione molto simile all’opera offerta è il gruppo oggi al Victoria and Albert Museum di Londra: entrambe sono caratterizzate da una sorprendente espressività, soprattutto nella resa del corpo di Cristo con le ossa del torace ben in evidenza, e nella ricchezza di drappeggi del manto della Vergine.

 

Stima   € 6.000 / 10.000
147

Alceo Dossena (Cremona 1878 - Roma 1937)

SANTA CATERINA D’ALESSADRIA

in marmo, cm 67x43,5, firmato in basso a destra “Alceo Dossena 35”

 

Alceo Dossena (Cremona 1878 - Roma 1937), Saint Catherine of Alessandria

 

Bibliografia di confronto

L. Azzolini, Alceo Dossena. L’arte di un grande “falsario”, Cremona 2004; M. Horak, Alceo Dossena. Fra mito erealtà: vita e opere di un genio, Piacenza 2016.

 

Il rilievo raffigurante Santa Caterina d’Alessandria, riconoscibile grazie alla ruota dentata alla sua sinistra, rientra nella produzione scultorea di Alceo Dossena, intrinsecamente legata a moduli espressivi rinascimentali ma contraddistinta da alcune personali caratteristiche ben individuabili.

Piuttosto che alla scultura quattrocentesca l’opera, di cui esiste un simile esemplare documentato nel recente catalogo dedicato al Dossena (M. Horak, Alceo Dossena. Fra mito erealtà: vita e opere di un genio, Piacenza 2016), si ispira allo stile di un Rinascimento maturo, quali le grandiose figure di Jacopo Sansovino (Firenze, 1486 – Venezia, 1570). Cela inoltre il ricordo della Santa Caterina di Raffaello, entrata nel 1839 a far parte della collezione della National Gallery di Londra, raffigurata infatti a mezza figura mentre accenna un moto circolare con una mano al petto e una che regge il manto all'altezza del grembo.  Nei lineamenti luminosi - occhi oblunghi, naso diritto e bocca leggermente tumida e appena schiusa in un sorriso che rimane solo abbozzato - si riconosce invece facilmente la firma del Dossena.

“Ho inventato alla maniera dei grandi maestri, ma ho sempre inventato”: con queste parole Alceo Dossena difendeva la sua stupefacente arte dopo che, nel 1928, alcune opere vendute negli Stati Uniti come antiche, furono riconosciute essere sculture moderne.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
80

Colin Nouailher, Limoges, seconda metà secolo XVI

CROCIFISSIONE CON DOLENTI

placca in rame e smalti policromi di forma rettangolare; siglata C.N. in oro in basso a destra, cm 30,2x25. Entro cornice in legno intagliato e dorato, cm 41x34

 

Colin Nouailher, Limoges, second half 16th century, Crucifixion with the Virgin and Saint John

 

Provenienza

Roma, Collezione Sangiorgi;

Firenze, Pandolfini (17 maggio 1993, lotto 261);

Firenze, Collezione privata

 

Bibliografia di confronto

S. Baratte, Les émaux peint de Limoges, Paris 2000, pp. 62-73

 

La tecnica dello smalto dipinto apparve durante la metà del XV secolo, forse prima nei Paesi Bassi, seguita presto da Limoges durante il regno di Luigi XI di Francia (1461-1483), dove fiorì in vari laboratori nel corso del XVI secolo, godendo dei privilegi del re che le garantì quasi un monopolio in Francia, e proprio al re spettava il diritto di concedere il titolo di maestro nella corporazione degli smaltatori, limitato ad alcune famiglie. Gli smalti venivano prodotti in laboratori che spesso persistevano nella stessa famiglia per diverse generazioni ed erano spesso firmati sull’oggetto, o identificabili, almeno per quanto riguarda la famiglia o il laboratorio, tramite segni di punzonatura sul retro dei pannelli, nonché dallo stile. Le botteghe di Limoges raggiunsero l'apice nel XVI secolo con una grande produzione di placche, piatti e stoviglie di smalto dipinte su rame, e tra esse le più note intorno alla metà del XVI secolo furono proprio quelle di Colin Nouailher, Pierre Reymond e Jean Pénicaud.

 

Stima   € 5.000 / 8.000
112

Romolo Ferrucci del Tadda (Fiesole, Firenze 1544 - Firenze 1621)

LEONESSA

in pietra serena raffigurata seduta, cm 106x72x52, su ampia base quadrangolare in pietra serena, cm 19x99x84

 

Romolo Ferrucci del Tadda (Fiesole, Firenze 1544 - Firenze 1621), a lioness

 

Bibliografia di confronto

G. Pratesi (a cura di), Repertorio della scultura fiorentina del Seicento e Settecento, Torino 1993, vol. I pp. 44-45, vol. II nn. 148-149;

G. Capecchi, I cani in "pietra bigia" di Romolo Ferrucci del Tadda. Simbolismo e "capriccio" nel giardino di Boboli, Firenze 1998

 

La scultura mostra stringenti affinità con le opere conosciute di Romolo Ferrucci del Tadda, figlio di Francesco Ferrucci detto del Tadda, scultore attivo a Firenze soprattutto nell'ambito di Cosimo I, presso la cui bottega si forma. Inizia la sua attività indipendente nel 1585, ottenendo rapidamente commissioni destinate in particolar modo alla corte medicea. Specializzatosi nella realizzazione di animali in pietra, isolati o in gruppo, con opere documentate soprattutto per il Giardino di Boboli e per la Villa Caruso di Bellosguardo, la sua fama di scultore “animalista” arriva ad estendersi ben oltre i confini del granducato toscano: non solo infatti la sua specialità viene apprezzata e rinonosciuta fino a Mantova, il cui duca risulta per decenni essere un suo committente, ma il Baldinucci (1681-1728) ricorda che a fine Cinquecento, per completare l'arredo di una fontana nel giardino di palazzo Gondi a Parigi per il quale il Francavilla aveva eseguito un marmo con Orfeo, Romolo Ferrucci realizza una "buona quantità d'animali varie sorti" (VII, p. 36).

Stima   € 5.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 164