Importanti Maioliche Rinascimentali

1 OTTOBRE 2015

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0046
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
Ore 17.00
Esposizione

FIRENZE
24 Settembre al 1 Ottobre2015
orario 10 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1500 € - 100000 €

Tutte le categorie

61 - 65  di 65
61

PIATTO

VENEZIA, ULTIMO QUARTO DEL XVI SECOLO

Maiolica dipinta in monocromia blu su fondo smaltato berettino molto scuro; tocchi di bianco di stagno.

Alt. cm 3; diam. cm 22,2; diam. piede 9,1.

 

Il piatto, con cavetto poco profondo e non particolarmente marcato, ha una tesa ricurva ad orlo estroflesso e poggia su un piede ad anello largo e poco rilevato. È interamente coperto da uno spesso strato di smalto berettino di colore azzurro cupo, dalla superficie brillante, che mostra qualche piccola bollitura.

La decorazione, che si sviluppa sull’intera superficie, mostra la raffigurazione di un paesaggio caratterizzato dalla presenza di architetture con edifici dal tetto a cuspide, finestre alte rettangolari e finestre ad occhi di pernice. I gruppi di edifici sono valorizzati dalla presenza di alte torri dalla copertura cuspidata sulla destra, e con una cupola a cipolla dal carattere orientaleggiante al centro e sullo sfondo, con un’allusione forse a dei minareti. Gli elementi naturalistici del paesaggio sono un vasto prato con ciuffi d’erba e ciottoli all’esergo e uno scoglio dal profilo arrotondato che svetta al centro di una baia abitata da piccoli velieri. Nel cielo, ombreggiato da piccole nuvole, volano alcuni uccelli.

Il verso del piatto mostra una decorazione a pennellate radiali attorno al piede, invece del più comune motivo cosiddetto “a cestello”.

Il decoro “a Paesi” è molto diffuso nel tardo Cinquecento a Venezia e in tutto il Veneto (1) e i  confronti sono pertanto numerosi, al punto che si può applicare una distinzione stilistica: gli esemplari più antichi mostrano un tratto più sottile, più accorto e calligrafico, che via via si sgrana negli esemplari più recenti. La lumeggiatura attenta e la precisione nel delineare le architetture è per Saccardo un elemento che sparisce negli esemplari più tardi.

I pezzi dei servizi mostrano decori simili a quello esposto sul piatto in studio, ma con modalità morfologiche, pittoriche e stilistiche differenti: lo studio di Saccardo, Camuffo e Goffo ci suggerisce alcuni esemplari di confronto (2); una scodella con decoro simile, ma con caratteristiche pittoriche meno calligrafiche, è conservata nella Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano (3). Il nostro piatto si distingue però dalla maggior parte degli esemplari in studio per la presenza di un paesaggio lagunare, raro e solitamente sostituito da dettagli di gusto rovinistico (4). Senza voler paragonare il livello eccezionale raggiunto dalle architetture raffigurate sul grande piatto del Museo dell’Ermitage (5), riteniamo che la presenza di architetture all’orientale e lo stile molto curato nell’esecuzione giustifichino l’inserimento del nostro piatto in una fase produttiva abbastanza precoce e pertanto nell’ultimo quarto del secolo.

Anche questo piatto è stato pubblicato da Alverà Bortolotto nel suo studio monografico sulla maiolica veneta e compare tra i piatti presenti alla mostra tenutasi a Milano negli anni ‘80 dello scorso secolo, dedicata alle immagini architettoniche nella maiolica del Cinquecento (7), e nel catalogo della mostra sulle maioliche veneziane del Cinquecento che si svolse, sempre a Milano, negli anni novanta dello scorso secolo (8).

 

 

1 Si pensi all’attività di Maestro Alvise a Treviso, in ERICANI-MARINI 1990, pp. 230-232.

2 SACCARDO-CAMUFFO-GROSSO 1992.

3 SACCARDO in AUSENDA 2000, pp. 289-290 n. 317.

4 SACCARDO in AUSENDA 2000.

5 IVANOVA 2003, p. 134 n. 123.

6 ALVERA' BORTOLOTTO 1981, tav. CXI.

7 BERNARDI 1980, p. 37 nn. 38.

8 CANELLI 1990, n. 24.

 

 

Stima   € 16.000 / 20.000
62

VASO

MANISES (VALENCIA), METÀ CIRCA DEL SECOLO XVI

Maiolica decorata in lustro dorato e blu di cobalto.

Alt. cm 13; diam. bocca cm 21; largh. massima cm 25; diam. base cm 17,2.

Sotto la base etichetta quadrata stampata con la scritta “EXPOSITION NATIONALE/ DE CÉRAMIQUE/ 1897/ SECTION RETROSPECTIVE” e a mano “356”. Altra etichetta rotonda stampata della COLLECTION IMBERT ROME, al centro numero scritto a mano poco leggibile.

 

Il vaso è prodotto al tornio e presenta un corpo cilindrico appena rastremato verso la base, che si presenta a fondo piano. La bocca si apre larga e aggettante con una tesa obliqua e un orlo arrotondato. Dall’orlo partono tre anse a S dal profilo cilindrico, che scendono fino al corpo.

Il rivestimento, in smalto stannifero color avorio, è ricoperto da una decorazione a lustro di colore rosso ramato che interessa l’intera superficie del vaso, anche nella parte interna. Il decoro è meno curato all’interno del contenitore, con un motivo a larghe foglie e spirali, e con puntinature a riempire i campi vuoti. Sulla tesa corre un motivo a piccoli fioretti quadripetali con lunghi pistilli e gambo fogliato dall’andamento mosso. Sul corpo, sui due lati principali, si scorge il tipico decoro a pardalot, circondato da fioretti sinuosi e puntinature. La base è anch’essa decorata con un motivo naturalistico dipinto con maggior rapidità. Il decoro deriva dal prototipo dei pardalot, da rintracciare quasi certamente nel tipo dell'aquila raffigurata sul rovescio di piatti valenciani della prima metà del IX-X secolo. Una stilizzazione di questo genere, evolvendosi nel tempo, diviene di uso comune sui prodotti valenciani fra il XII e il XVIII secolo.

Le decorazioni della parte interna del vaso e della base sono campite a lustro secondo modalità già tarde della produzione ispano-moresca. Invece, i due tipici uccelli dipinti sul fondo puntinato del corpo presentano tratti stilistici ancora antichi e non la tipica stilizzazione a fasci di linee secondo l’evoluzione del decoro. Per queste caratteristiche, ci pare di poter ascrivere l’opera ancora a una fase precoce o comunque di transizione.

La produzione valenciana di ceramiche a lustro metallico fu grandemente apprezzata nel Rinascimento italiano e le importazioni di maioliche iberiche estremamente ricercate, tanto che i pezzi decorati a lustro costituirono uno status symbol ambito dalle corti europee e ispirarono produzioni emulative in Italia. Con il Romanticismo e il sorgere del gusto per l’Oriente si scatena in Europa un collezionismo animatissimo di questo tipo di oggetti. La Spagna diventa di moda e la ceramica medievale a riflesso metallico diviene paradigma del collezionismo orientaleggiante (1). Non ci stupisce dunque l’esistenza di un’opera a lustro nella collezione Imbert ma, soprattutto, la presenza della stessa opera all’Exposition nationale de la céramique et de tous les arts du feu (Palais des Beaux-Arts du 15 mai au 31 juillet 1897).

Un esempio più recente di questo tipo di collezionismo è costituito dalla vasta raccolta di maioliche ispano-moresche donata al museo di Palazzo Venezia a Roma dall’antiquario romano Gustavo Corvisieri (2).

 

1 CASANOVAS 1996, pp. 42-60.

2 SCONCI-TORRE 2008.

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
63

GRANDE PIATTO

MANISES (VALENCIA) O SIVIGLIA, METÀ SECOLO XVI

Maiolica decorata in lustro dorato e blu di cobalto.

Alt. cm 16; diam. cm 38,6.
 

Il grande bacile mostra una forma tonda concava profonda, con tesa obliqua molto accentuata. Il cavetto è fondo e centrato da un umbone rilevato, a sua volta rimarcato da un motivo ad anello sottolineato in blu.

Il piatto è interamente rivestito anche sul retro da uno smalto stannifero color avorio decorato a lustro. L’ornato in blu si ripete sulla tesa, decorata da una sottile doppia linea sinuosa. Il blu è stato utilizzato per suddividere la decorazione, che è comparsa solo a seguito della seconda cottura.

Il decoro a foglie bipartite, intervallate simmetricamente da un rametto anch’esso fogliato, si ripete lungo la tesa e nel cavetto. Al retro un caratteristico motivo decorativo a “foglie di felce”, tipico dei decori di questo periodo storico, nell’incavo che si forma in corrispondenza del cavetto e si fa più accentuato con un fiore stellato o ruota, anch’esso tipico di questa fase di produzione. In base alla decorazione, che sul fronte riprende il motivo cosiddetto “ad arbusto” e sul retro un motivo tipico della serie popolare, possiamo ipotizzare una probabile datazione riconducibile alla fine del XVI secolo. Il piatto è comunque poco comune tra quelli pubblicati e presenti nelle collezioni italiane. Sebbene non mostri stemmi al centro dell’umbone, ha mantenuto ancora il gusto più arcaico per la bicromia grazie all’utilizzo dell’azzurro.

Il decoro del retro, di derivazione più antica, è spesso presente anche su pezzi chiusi, come gli albarelli, quale motivo secondario in associazione a decori più consistenti come la foglia (1).

Gli esemplari di confronto mostrano molteplici varianti del fronte, mentre si ha una maggiore uniformità per il decoro del retro, che come già detto ci aiuta nella datazione, da collocarsi intorno alla metà del secolo XVI. La forma della tesa, liscia e priva di baccellature, che richiama i bacili metallici, non è molto comune e la ritroviamo in alcuni piatti (2) delle Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano. Il primo piatto, con decoro semplificato a grossi “nastri annodati” su un motivo a piccole spirali, mostra una grande sobrietà compositiva che gioca sul contrasto con alcuni tocchi di blu. Il secondo è più coerente con il progetto compositivo del nostro, con un ripetersi simmetrico di motivi ad alberelli alternati a metope dal decoro geometrico. Entrambi i confronti si possono datare alla fine del secolo XVI.

 

1 CAVIRÒ 1991, p. 184 e p. 195 per il decoro sul retro del piatto.

2 CAVIRÒ in AUSENDA 2002, pp. 260-261 nn. 362 e 364.

 

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
64

PIATTO TONDO

SIENA, FERDINANDO MARIA CAMPANI, 1733-1745

Maiolica dipinta in policromia con bruno di manganese, verde ramina, giallo antimonio e blu di cobalto.

Alt. cm 2,6; diam. cm 25,8; diam. base cm 18.

Iscrizione in corsivo nero che corre sul retro lungo l’orlo interno della tesa Iacob ad puteum vidit rachel; et adaquato grege, indicavit et, quod frater esset patris sui; tre piccole etichette con cornice blu, su una è leggibile il numero ‘63’.

 

 

Piatto tondo con orlo liscio, ampia tesa orizzontale, corta balza e ampio cavetto. Il retro è interamente rivestito da un leggero strato di smalto stannifero che mostra sulla tesa pulci e i segni lasciati dai distanziatori di cottura. Attorno alla balza corre la scritta Iacob ad puteum vidit rachel; et adaquato grege, indicavit et, quod frater esset patris sui in corsivo nero di accurata calligrafia. L’orlo è color nocciola con un filetto bruno di manganese. Il dipinto è stato eseguito con i colori a gran fuoco sapientemente accostati. La scena è dominata dal blu dai toni molto forti nelle vesti delle figure e molto sfumati nel paesaggio, nelle lontane cime montuose, nel cielo; il modellato degli incarnati e del pellame animale è realizzato in giallo e bruno; tocchi di verde olivastro e smeraldo creano il prato, le fronde arboree e i ciuffi fogliati. Ed infine un sottile ripasso in bruno accentua i contorni delle figure e tocchi lumeggiati in giallo su prato e paesaggio ne vivacizzano il chiaroscuro.

In primo piano a destra, protagonista della scena istoriata, un giovane forte uomo barbuto con veste blu e manto giallo esprime fisicamente sorpresa nel vedere due giovani donne che si tengono per mano, circondate da pecore e capre che si abbeverano al pozzo. Come ci indica la scritta sul retro, è illustrata la scena della Bibbia (1) in cui si narra del primo incontro di Giacobbe con la bella cugina Rachele che, con la sorella Lia, aveva portato il gregge alla fonte. Giacobbe accettò di servire lo zio Làbano per sette anni per poterla sposare.

La scena figurata deriva fedelmente da un riquadro dell’affresco di Raffaello Sanzio su una volta della Loggia Vaticana (1517-1519). L’incisione ad acquaforte di Nicolas Chaperon, che la riprende, fa parte del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649 con 52 incisioni numerate. La nostra scena è la n. 22 e reca sotto il riquadro figurato la scritta: “Jacob ad puteum, vidit Rachel, et adaguato grege, indicavit ei/quod frater estet patris fui.Gen XXIX”: la scritta ripresa sul retro del piatto.

Vi sono alcuni piatti di maiolica dipinti nello stesso codice formale con scene derivate dalla medesima serie di incisioni raffaellesche e che recano l’iscrizione di identico tipo. Tre portano anche la firma dell’artista senese Ferdinando Maria Campani e la data “1733”. Un piatto che mostra raffigurata la colonna di nubi nell’accampamento ebraico è conservato al Kunstgewerbe Museum di Berlino (2). Due sono al British Museum di Londra: uno rappresenta la Creazione del Sole e della Luna, l’altro la Creazione di Eva (3). Un altro bellissimo pezzo con dipinto il Giudizio di Salomone raffaellesco porta la scritta sul retro ma non la data e firma dell’artista, come il nostro (4).

Ferdinando Maria Campani, nato a Siena nel 1702, era un pittore ad olio, considerato un buon ritrattista e copista di capolavori: sappiamo che aveva eseguito opere per incarico di Violante di Baviera, Principessa di Toscana (5).

Non ha ancora trovato una spiegazione documentaria il suo passaggio alla maiolica e l’assoluta coerenza stilistica con la formula decorativa di Bartolomeo Terchi, il celebre ceramista romano documentato attivo a Siena dal 1725. Gli studiosi ipotizzano che Campani sia stato tecnicamente educato alla decorazione su maiolica dal Terchi, già al servizio della famiglia Chigi da diversi anni a San Quirico d’Orcia (6). La passione per il revival della maiolica istoriata voluta dai Chigi e da Violante di Baviera porta il suo talento di copista alla ceramica.

Per un’altra serie di piatti “per S.A.R.”, forse la stessa Violante, i documenti senesi provano la volontà del “Campani Pittore da piatti” di far acquistare zaffera di alta qualità per fare “un buon turchino” che a Siena non si trovava, e di lamentarsi di “nol può copiare giusto stante la mancanza del color rosso che fa un gran pregiudizio all’originali” (7). E ancora nel 1748 sono registrati pagamenti dei Chigi diretti al Campani per “varie pitture di piatti di coccio situati appesi nelle sale della villa di Centinale opere assai graziosamente colorite e ragionevolmente disegnate” (8).

Il nostro piatto finemente istoriato, come i suoi simili, dal brillante blu apparteneva certamente ad una serie nobile.

Ancora oggi, molti considerano Ferdinando Maria Campani “the finest maiolica artist of the eighteenth century” (9).

 

Raffaella Ausenda

 

1 Genesi, 29, 9-20.

2 Inv. K2164, firmato “1733 Ferdinando Maria Campani Senese dipinxe” (PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 81 n. 68; HAUSMANN 1972, n. 307).

3 ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, p. 197.

4 Già collezione privata milanese: PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 77.

5 Vedi ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996; ANSELMI ZONDANARI, in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.

6 A. Cornice, voce, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 17 (1974).

7 2 agosto 1736, vedi G. Mazzoni, Regesto, doc. Archivio Monte dei Paschi, Archivio Sansedoni, in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 89.

8 G. Mazzoni, Cenni su B. Terchi e F. M. Campani, in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 1996, p. LVI doc. 1748; RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 196.

9 WILSON 1989, p. 76.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
65

TARGA

SAN QUIRICO D'ORCIA (SIENA), BARTOLOMEO TERCHI, 1717-1724

Maiolica dipinta in policromia con giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 1,6; lunghezza cm 52; larghezza cm 29.  

Un’antica etichetta cartacea incollata sul retro reca scritto in corsivo con inchiostro nero  “[…] de David in /magiolica di Rafael, o/ di Giulio Romano/ 84”.

 

Il corpo ceramico è composto dall’unione (a crudo) di tre piastre in terracotta chiara, rivestito da uno strato sottile di smalto stannifero sul fronte. Vi si notano sul retro due leggere colature. Due sottili linee nere profilano i margini nei lati minori del quadro pittorico. L’albero e le zolle di terra ondulate, che impostano la composizione in primo piano, sono dipinte in scuro bruno di manganese e in verde ramina. L’intera scena figurata è disegnata con una linea in bruno di manganese sottile e leggera, con la coloritura acquarellata in giallo-bruno degli incarnati e in azzurro-bruno di molte vesti. Arricchiscono un poco il cromatismo della scena effetti minori di cangiantismi in azzurro-giallo e qualche piccola zona tessile colorata in verde ramina. Al contrario, dominano il sistema visivo i campi gialli del carro e della cassa lignea. Le pennellate, che avrebbero dovuto lumeggiare diverse forme, hanno fatto difetto durante la cottura brunendosi probabilmente a causa della presenza di smalto stannifero: lo possiamo notare soprattutto nella veste della figura reale sul carro.

In questa lastra sono dipinti due episodi biblici, Il trionfo di Davide sugli Assiri e Il passaggio con l’arca dell’alleanza attraverso il fiume Giordano (1), composti in un unico corteo trionfale dell’ingresso di David a Gerusalemme, trionfante sui barbari, in un carro prezioso e, alle sue spalle, il trasporto dell’Arca dell’Eterna Alleanza in una cassa lignea dorata.

Ambedue sono derivati dagli affreschi di Raffaello Sanzio nelle Logge Vaticane, tramite le celebri incisioni di Nicolas Chaperon (1612-1656) del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649.

La scena dipinta sulla maiolica mostra una notevole cura nel ripetere la posizione delle figure e dei cavalli in modo fedele al modello grafico. La qualità disegnativa è alta nelle figure protagoniste, ma diventa ben più corsiva nei volti delle figure secondarie. Il forte tronco frondoso e il corpo dei cavalli sono modellati con un sapiente chiaroscurare steso a piccoli tratti sottili, paralleli e talvolta incrociati. Nel blu le pennellate sono più diluite e il colore ha un tono celeste chiaro.

Questa targa è stata esposta all’importante mostra di storia della ceramica tenuta a San Quirico d’Orcia nel 1996. Allora apparteneva a una collezione privata ferrarese. Gianni Mazzoni, che ne compilò la scheda di catalogo, lo attribuì alla produzione di Bartolomeo Terchi degli anni ’20 del XVIII secolo a San Quirico o Siena (2). 

Bartolomeo Terchi era nato a Roma nel 1691 nel quartiere di Trastevere, forse da una famiglia di “vascellari” (3).  Nel 1717, ventitreenne, era giunto nel senese, a San Quirico d’Orcia, per lavorare nella bottega ceramica dei marchesi Chigi, producendo pezzi istoriati di alta qualità. Il suo grande successo artistico lo fece rimanere a lungo attivo in ambito chigiano, sfornando anche molte ceramiche destinate ai Medici, e trasferendosi a Siena nel 1725 per ben dieci anni. Piatti, piastre e grandi vasi decorati con scene figurate derivate da incisioni rinascimentali e barocche appartenenti alla collezione Chigi sono oggi esposti a Palazzo Chigi Saracini a Siena (4). Nel 1735 Bartolomeo, raggiunto e superato dal Campani, lasciò la Toscana per tornare in Lazio: è documentata la sua attività ceramica a Bassano di Sutri fino al 1753, poi a Roma e, nel 1766, a Viterbo (5).

Su una piastra rettangolare in maiolica, firmata “Bar: Terchi Romano/in San Quirico” ed esposta al Louvre (6), è dipinta una scena con Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Questo pezzo, proveniente dalla collezione Campana, venne acquisito dai musei nazionali francesi nel 1861. Lo stile pittorico e, soprattutto, il disegno dei volti delle figure secondarie mostrano un’assoluta coerenza con quelli del nostro pezzo.

Questo ci permette di considerare la nostra lastra dipinta tra il 1717 e il 1725 a San Quirico d’Orcia, forse nel primo periodo. Ravanelli Guidotti ha pubblicato un’altra lastra  stilisticamente affine conservata in un museo di Rouen che raffigura Mosè che mostra le tavole della legge (7).

La stessa scena raffaellesca col carro dorato di David è visibile su due grandi piatti senesi ma pittoricamente diversi perché opera di Ferdinando Maria Campani, il massimo concorrente di Bartolomeo Terchi. Uno, firmato e datato 1749 (8), porta lo stemma della Marchesa Rockingham del Wentworth Woodhouse, Yorkshire (9). L’altro, conservato in una collezione privata italiana, mostra la stessa scena dipinta con pari qualità artistica e con maggior carica cromatica (10).

Raffaella Ausenda  

 

 

1 Giosuè, 3 e 5.

2 MAZZONI in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 4 n. 4. In quell’occasione la rivista “CeramicAntica” del Giugno 1996 le dedicò la quarta di copertina (Anno VI, n. 6 (61)).

3 Fondamentali gli studi di PELLIZZONI-ZANCHI 1982 e di ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.

4 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, pp. 28-34 e 196-197.

5 S. Angeli, Non avere altro impiego e professione che quella di fabricatori di maioliche: Bartolomeo e Antonio Terchi e la ceramica viterbese del Settecento, in “Vascellari: rivista di storia della tradizione ceramica”, Anno 1, n. 1 (gen.-giu. 2003), pp. 142-163).

6  Di dimensioni cm 44 x 61, inv. n. OA 1852; GIACOMOTTI 1974, p. 458 n. 1357.

7 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 30.

8 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 79 n. 66.

9 Vedi piatto con lo stesso stemma e la scena allegorica de La Verità svelata dal Tempo, conservato all’Ashmolean Museum di Oxford.

10 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 97, e in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 13 n. 20.

 

 

 

Stima   € 12.000 / 16.000
Aggiudicazione  Registrazione
61 - 65  di 65