Francesco Montelatici, detto Cecco Bravo
(Firenze, 1601 - Innsbruck, 1661)
SCENA DI TENTAZIONE
olio su tela, cm 108x158
A TEMPTATION SCENE
oil on canvas, 108x158 cm
Provenienza
già collezione Mina Gregori
Il dipinto è corredato da expertise di Sandro Bellesi che riportiamo
integralmente:
“Selezionata su tinte dai toni fortemente bruniti, la tela, in buono statodi conservazione, mostra una scena ricca di fascino per l’enigmatica
formulazione dell’episodio illustrato, la cui interpretazione iconografica e iconologica risulta tuttora un mistero per la mancanza di appropriate chiavi di lettura, perdute, purtroppo, con il passare del tempo. Nota al momento della critica d’arte in altre due redazioni sulle quali torneremo a parlare in seguito, l’opera mostra in primissimo piano, entro un ambiente non meglio definito dominato da un ampio tendaggio, due figure femminili in prossimità del tavolo. Una donna giovane e avvenente, probabilmente una regina per la presenza di una corona tra le sue chiome, è posizionata su un’elegante sedia dall’alto schienale e di fronte a questa compare una vecchia, il cui volto è celato in gran parte nell’ombra, effigiata in atto di sostenere nella mano destra un sacchetto di pelle e numerose collane d’oro o altri metalli pregiati. Legata sicuramente a un messaggio morale non privo di accezioni escatologiche cristiane, l’opera allude con probabilità a una scena di tentazioni connessa ai beni terreni, simboleggiati, come valori effimeri dell’esistenza umana, dalla cupidigia e dal potere della ricchezza del mondo terreno. La presenza di un cagnolino, accucciato e quasi spaventato posto accanto al sacchetto e alle collane, vuole alludere con probabilità all’unico amore terreno
al quale mostrano fedeltà le due donne: la ricchezza. Il cane, in effetti, è per tradizione popolare e iconografica simbolo di fedeltà, fedeltà connessa, in questo caso, ai solo beni materiali terreni.
In base al confronto con altri due esemplari pittorici oggi noti raffiguranti la stessa composizione e ai caratteri stilistici ed esecutivi, l’opera risulta assegnabile al catalogo di Francesco Montelatici, meglio noto come Cecco Bravo, pittore tra i più originali ed estroversi attivi a Firenze nella metà del Seicento. Nato nella Città del Giglio nel 1601, l’artista, educato allo studio della pittura inizialmente nella scuola di Giovanni Bilivert e poi sotto la guida di Sigismondo Coccapani, iniziò a lavorare a partire dai primi anni venti, tempo nel quale è documentata la sua presenza in alcune imprese medicee allogate a Matteo Rosselli. Nell’ambiente di questo apprezzato maestro, Montelatici ebbe modo di accostarsi alle estrosità e alle bizzarrie di Domenico Pugliani e di Giovanni da San Giovanni, artisti con i quali evidenziò, soprattutto nella fase più avanzata della sua attività notevoli punti di contatto. Dopo probabili viaggi di studio effettuati in Emilia e a Venezia, il pittore dette in via, a Firenze, a una serrata attività autonoma contraddistinta da un numero rilevante di opere, improntate, essenzialmente, su un linguaggio stilistico libero, privo di regole fisse, dove spiccano figure definite per lo più in modo bizzarro e dalla forte carica empatica. Attento alle sperimentazioni pittoriche del suo tempo, l’artista, che raggiunse un posto d’onore presso l’Accademia del Disegno nel 1638, si accostò nel corso degli anni quaranta alla poetica sensuale di matrice furiniana e manifestò, in seguito, contatti diretti con le tendenze anti-accademiche d’impronta veneziana, comuni ad artisti come Strozzi e Mazzoni, pittore, quest’ultimo, confuso spesso con il Nostro. Dopo anni di buoni riconoscimenti artistici in terra toscana, l’artista fu convocato nel 1660 alla corte di Innsbruck, dove morì l’anno successivo (per l’artista si veda soprattutto Cecco Bravo. Firenze 1601-Innsbruck 1661. Pittore senza regola, catalogo della mostra a cura di A. Barsanti e R. Contini, Milano, Firenze, 1999 e, più recentemente, S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, Firenze, 2009, I, pp. 203-205 e III, figg. 1090-1106). Come già indicato l’opera in esame è da porre in stretta relazione ad altre due pitture autografe dello stesso artista, note da tempo alla critica d’arte. Si tratta di due tele conservate, rispettivamente, presso Mina Gregori a Firenze e in collezione privata (per queste si veda distintamente A. Barsanti in Cecco Bravo. Firenze 1601 - Innsbruck 1661. Pittore senza regola, catalogo della mostra a cura di A. Barsanti e R. Contini, Firenze, Milano, 1999, p. 33, come collezione privata e F. Baldassari, La Pittura del Seicento a Firenze. Indice degli Artisti e delle Loro Opere, Torino, 2009, p. 571 fig. 330)”. Rispetto a queste il nostro esemplare si differenzia comunque per una pittura secca e compatta, imputabile sicuramente a un tempo diverso di esecuzione. Caratteri analoghi alla nostra pittura ricorrono in effetti nella produzione giovanile del pittore, come si evince dal confronto lessicale con dipinti dello stesso come la coppia di quadretti con Esaù e Giacobbe e Giuditta con la testa di Oloferne e l’ancella Abra nella collezione Rosselli del Turco a Firenze, Santa Chiara che respinse l’attacco dei Saraceni ad Assisi in collezione privata o, ancora, San Giorgio con il drago già presso Sergio Scatizzi a Firenze (per queste opere si veda Cecco Braco, op. cit., 1999, pp. 58-59 nn. 7-8, 68-69 n. 13): opere databili agli anni Venti e Trenta del Seicento. La scelta di un tema iconografico misterioso intriso di forti valenze etiche e morali, avvicina il dipinto al mondo elitario della più sofisticata cultura fiorentina legata alle “accademie”, ovvero esclusi circoli privati, all’interno delle quali venivano discussi e commentati argomenti di studio di vari tipo connessi alla scienza, alla filosofia, alla lettura e, addirittura, all’esoterismo. Soggetti come quello trattato da Cecco Bravo in questa realizzazione risultano molto rari nella pittura italiana del tempo e trovano riscontri appropriati solo in commissioni private, sulle quali oggi sappiamo ben poco, come testimonia ad esempio, tra gli esemplari più noti, una delle composizioni pittoriche di Cesare Dandini più apprezzate, ovvero la Giovane donna con fattucchiera, conosciuta al momento in varie redazioni autografe dell’artista oppure afferibili alla sua bottega (a tale riguardo si veda S. Bellesi in Luce e Ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, catalogo della mostra a cura di P. Carofano, Pontedera, Pisa, 2005, pp. 42-45 n. 14; con bibliografia precedente)”.