GINO DE DOMINICIS
(Ancona 1947 - Roma 1998)
Ritratto
1997
olio, pastello e vernice su tela
cm 50x50
al retro firmato, datato e titolato
L'opera è accompagnata da autentica su foto firmata dall'artista e con timbro Galleria Emilio Mazzoli, Modena.
Bibliografia
I. Tomassoni, Gino De Dominicis. Catalogo ragionato, Milan 2011, pp. 478-479, n. 537 (ill.)
Gino De Dominicis è una delle figure più enigmatiche e affascinanti dell’arte italiana del secondo Novecento. La sua opera si colloca in un territorio liminale tra visibile e invisibile, ironia e mistero, presenza e sparizione. In ogni suo lavoro, dalla “Seconda soluzione di immortalità” alle ultime tele, l’artista mette in discussione i fondamenti stessi della rappresentazione, della materia e dell’esistenza. “Io penso che le cose non esistano,” dichiarava, “un bicchiere, un uomo, una gallina non sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, ma solo la verifica della possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di una gallina.” Questa concezione ontologica attraversa tutta la sua ricerca e trova nel Ritratto del 1997 una sintesi estrema e poetica.
Quest’opera, esposta nella sua ultima mostra personale alla Galleria Mazzoli di Modena nel 1998, è emblematica della tensione tra presenza e assenza che caratterizza la fase finale del suo lavoro. Ritratto mostra una figura evanescente, quasi dissolta nella superficie chiara della tela. Il volto, appena accennato da pochi tratti di grafite, si definisce per sottrazione: un naso spigoloso, due piccoli occhi, un sorriso che sfuma. Tutto il resto sembra appartenere a una dimensione incorporea, come se la pittura stessa esitasse a farsi immagine. De Dominicis, attraverso la riduzione estrema della forma, cerca la soglia tra l’essere e il non-essere, tra l’idea e la sua manifestazione sensibile.
La delicatezza e l’ironia di questa figura, sospesa tra umano e archetipico, rimandano a una concezione dell’arte come atto mentale, più che materiale. È un “ritratto” che non rappresenta nessuno, ma l’idea stessa di ritratto, la possibilità di un volto, di un’identità. Come accade in gran parte del suo lavoro, anche qui De Dominicis sembra voler eludere la logica della visibilità: la sua è una pittura che tende al silenzio, alla rarefazione, alla sparizione dell’immagine.
Il Ritratto del 1997 si colloca nello stesso periodo in cui l’artista concepisce e realizza il suo secondo e ultimo libro, pubblicato in occasione della mostra modenese. Anche in quel caso, la sua volontà è quella di sabotare ogni convenzione del catalogo d’arte. De Dominicis impone che le fotografie siano minuscole, sgranate, spesso illeggibili, stampate non “offset” ma con un procedimento sperimentale definito “technicolor”, che rende i colori acidi e innaturali. È un gesto coerente con la sua poetica: la riproduzione deve perdere dettaglio, dissolversi, sottrarsi alla conoscenza. Lo stesso destino tocca al libro, che l’artista comincia a ritirare e distruggere subito dopo il vernissage, lasciandone in circolazione pochissime copie.
In questo contesto, Ritratto appare come un’immagine-soglia, una presenza che resiste pur volendo scomparire. È l’ultima testimonianza della sua ricerca sull’invisibile e sull’immortalità, temi centrali del suo pensiero. L’opera, con la sua apparente semplicità, custodisce un enigma profondo: la rappresentazione del volto come idea immateriale, come pura possibilità d’esistenza. In essa si riconosce il lascito di un artista che ha fatto della negazione dell’evidenza la più alta forma di affermazione poetica.
© Archivio Gino de Dominicis, Foligno