DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

11 OTTOBRE 2017

DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

Asta, 0220
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17.30
Esposizione

FIRENZE
7-10 Ottobre 2017
orario 10-13 / 14–19 
11 Ottobre 2017
orario 10-13
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1000 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 129
87

 

Pietro Bellotti

(Roè Volciano, 1625 – Gargnano, 1700)

RITRATTO DI ANZIANA IN MEDITAZIONE

olio su tela, cm 60x53

 

Bibliografia di riferimento

L. Anelli, Pietro Bellotti. 1625-1700, Brescia, 1996, p. 247, fig. 207; p. 260, fig. 224; p. 307, fig. 264.

 

È un pennello intriso di materia densa quello che accumula colore nelle carni del volto e della mano, colore che scava rughe profonde, entrando nei solchi dove deposita ombre bruno scuro.

La figura, che non è un ritratto di persona anziana ma piuttosto un soggetto allegorico, peraltro caro alle tematiche del Bellotti, appoggia la guancia al palmo della mano, assorta in una contemplazione interiore meditando sul passare degli anni (uno ad uno segnati dalle rughe che lasciano). Si tratta di un dipinto di grande suggestione che si ascrive tra le opere di questo raro artista dal realismo potente e a volte crudo, a metà strada tra naturalismo lombardo e colorismo veneto.

I rimandi più evidenti sono alla Testa di vecchia del Museo Civico di Padova, alla Vecchia con lo scaldino (Bologna, Pinacoteca Nazionale) al Ritratto di vecchia che tiene un teschio di Nimes, Musée d’Art et d’Histoire, non ultimo al dipinto raffigurante Vecchia filosofa allo scrittoio già asta Christie’s a New York (1990) dove la bellissima natura morta con libri, teschio e clessidra, rimanda a meditazioni sulla vita e sul tempo che passa inesorabilmente, riflessioni analoghe a quelle del nostro soggetto.

                       

Stima   € 8.000 / 12.000
71

Agostino Zoppo

(1520 circa - 1572)

BUSTO DI GUIDO D’AREZZO

marmo, cm 68x55x34

 

Come indica la scritta presente nel peduccio (scolpito nello stesso blocco di marmo del ritratto), questo busto raffigura il monaco benedettino Guido di Arezzo vissuto nell’XI secolo e ritenuto il creatore della moderna notazione musicale articolata in sette note. La fortuna iconografica di questo personaggio fu notevole specie in ambito benedettino poiché l’ordine riconosceva in Guido, nonostante egli non fosse né un Santo né un beato, una delle figure più straordinarie fra coloro che avevano fatto parte della congregazione religiosa fondata nel VI secolo da San Benedetto.

I caratteri stilistici di questa immagine chiamano in causa la produzione scultorea veneta di secondo Cinquecento. Proprio qui, fra Venezia e Padova, negli anni che precedono la metà del secolo, artisti come Danese Cattaneo (1512-1572) e Alessandro Vittoria (1525-1608) crearono alcuni dei massimi capolavori della ritrattistica rinascimentale scolpita tanto in marmo, quanto in bronzo e in terracotta. A quei modelli ha senza dubbio guardato anche l’autore del nostro ritratto. Il busto, ieraticamente frontale, mostra una singolare ma assai efficace economia di mezzi: la veste del religioso dove viene segnata con una semplice incisione l’attaccatura delle maniche, esibisce solo qualche sottile accenno di pieghe sul petto mentre in alto il cappuccio circonda la testa leggermente ruotata verso destra. Qui lo scultore dispiega una notevole sottigliezza di passaggi nel restituire i caratteri del volto, il leggero incavarsi delle guance, il corrugarsi della fronte in corrispondenza delle sopracciglia e la pacata ma intensa nobiltà dello sguardo. Un vero pezzo di bravura è poi costituito dalla barba, allo stesso tempo meticolosamente incisa ma complessivamente ricca di passaggi pittorici che ne esaltano brillantemente gli effetti di chiaroscuro. Proprio tali elementi e cioè da una parte la rarefatta sintesi descrittiva della veste, dall’altra la sontuosità materica nella resa della barba, sono quelli che richiamano con maggiore forza i ritratti dello scultore cui credo spetti questo busto e cioè il padovano Agostino Zoppo (Padova 1520 circa-1572). Noto soprattutto per i suoi bronzetti e per la produzione di gusto antiquario di cui il Monumento di Tito Livio nel Palazzo della Ragione a Padova (1547) rimane la testimonianza più celebre, Agostino Zoppo fu altresì autore di una serie notevole di busti che solo gli studi più recenti hanno saputo individuare e mettere a fuoco nella loro originalità all’interno del complesso contesto della produzione veneta dell’epoca. Nel 1999 l’identificazione del Busto di Luca Salvioni Gallina (Minneapolis Institute of Arts) con il ritratto di un personaggio di questa famiglia citato nella Nota dei crediti dello Zoppo, redatta all’indomani della sua scomparsa nel 1572 (D. Myers, Renaissance Portrait Sculptures small and large, in ‘The Medal’, 34, 1999, pp. 3-10), ha consentito di porre finalmente una base documentata per ricostruire tale attività; attività che dovette essere tutt’altro che sporadica come dimostrano intanto gli otto ritratti menzionati in quella stessa nota ma anche la possibilità di collegare stilisticamente al Busto di Luca Salvioni Gallina vari altri busti.

Nel 2009 Claudia Kryza Gersch ha proposto di avvicinare allo Zoppo il cosiddetto Busto di Girolamo Fracastoro del Kunsthistorisches Museum di Vienna (Porträt eines paduanischen Gelehrten, in Wir sind Maske, catalogo della mostra di Vienna a cura di S. Ferino Pagden, Cinisello Balsamo 2009, p. 86, n. I.19) e, per parte mia, gli ho riferito altri tre ritratti in bronzo e uno in terracotta. Quelli in bronzo sono il cosiddetto Busto di giurista della Frick Collection di New York (inv.16.2.47), il Busto di gentiluomo del Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 576-1865) e il Busto di Giovan Pietro Mantova Benavides della Ca’ d’Oro; quello in terracotta è il Busto di Matteo Forzadura (collezione privata), in passato attribuito a Danese Cattaneo o a Francesco Segala (Andrea Bacchi, Agostino Zoppo, Busto di Matteo Forzadura, in D. Banzato E. Gastaldi, a cura di, Ospiti al museo: maestri veneti dal XVI al XVIII secolo tra conservazione pubblica e privata, catalogo della mostra, Padova 2012, p. 56-59). Va notato fra l’altro come tutti questi busti abbiano lasciato da tempo la città di Padova, circostanza che attesta la notevolissima considerazione di tali opere, molte delle quali approdate in importanti istituzioni museali in Europa e negli Stati Uniti. Una circostanza tanto più notevole se pensiamo che spesso questi busti vennero acquistati senza che se ne conoscesse il nome dell’autore o quello del personaggio raffigurato, ma soltanto in virtù della loro qualità e dell’aura di grande prestigio, da sempre riconosciuta alla bronzistica e più in generale alla scultura patavina. Diversamente dalla maggior parte di quelli finora noti, il Busto di Guido Monaco è scolpito in marmo, materiale utilizzato da Agostino in questo campo solo per il già citato Busto di Tito Livio che, stilisticamente, sembra però precedere di vari anni il busto qui considerato. Di fatto dunque i confronti migliori per confermare allo Zoppo il Busto di Guido Monaco sono quelli con il Busto di giurista della Frick Collection e con il Busto di Matteo Forzadura due opere che si collocano nella fase più tarda della sua attività, direi posteriormente al 1560.

A.B.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
129

Alberto Mazzetti

(attivo nel XX secolo)

BUSTO FEMMINILE

bronzo, alt. cm 53

siglato

 

Bibliografia

Persone. Ritratti per cinque secoli, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2001, p. 65

 

"Talvolta non basta un monogramma decifrabile grazie ad una tradizione orale per uscire dall’anonimato. E' quanto accade ad Alberto Mazzetti, scultore, fiorentino forse, del quale non resta altra evidenza all'infuori di questa elegante testa del 1938.

La naturalezza della figura denota una profonda assimilazione della scultura ritrattistica ottocentesca rilanciata, nel corso degli anni Venti, anche dal "ritorno" di Vincenzo Gemito. Ma la misura e il controllo esercitati sulla forma dipendono chiaramente dallo studio di modelli quattrocenteschi, Verrocchio in primis per la preziosa ricercatezza del dettaglio. Sicché alla composta sintesi delle masse che costruiscono una anatomia come insistentemente accarezzata, si unisce la formidabile acconciatura pirotecnica dei capelli, nella quale le ciocche a fiore sulla fronte rivelano uno stilismo che punta dritto verso l'insegnamento di Libero Andreotti.

La vicinanza di questo busto ai ritratti che resero celebre in un breve torno di anni, fra il 1934 e il '35, Antonio Berti, conferma l'ipotesi che anche Mazzetti appartenesse alla folta schiera degli allievi dell'Istituto d'Arte di Firenze guidati dal grande maestro pesciatino. E allora lui potrebbe essere quell' "allievo Mazzetti", apparentemente quindicenne o giù di lì, che Andreotti aveva effigiato intorno al 1926 in un gesso (Pescia, Gipsoteca Andreotti) e in una terracotta (Pisa, eredi Andreotti)".

 

Persone. Ritratti per cinque secoli, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2001, p. 65

Stima   € 1.000 / 1.500
107

Ambrogio Nava

(Milano 1791 - Milano 1862)

LE GHIACCIAIE DI VILLA CAGNOLA A INVERIGO

olio su tela, cm 99x74

firmato e datato "1822" in basso a destra

 

Esposizioni

Quadreria 2009. Dalla bizzaria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, Carlo Virgilio & C., Roma, 23 aprile - 12 giugno 2009, n. 23

 

Bibliografia

F. Giacomini in Quadreria 2009. Dalla bizzaria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, catalogo della mostra (Carlo Virgilio & C., Roma, 23 aprile - 12 giugno 2009) a cura di G. Capitelli, Roma 2009, pp. 60-61

 

"La tela, firmata e datata 1822, va con ogni probabilità identificata con il dipinto citato nel volume Viaggio pittorico nei monti di Brianza di Federico e Caterina Lose, pubblicato a Milano nel 1823. A corredo delle ventiquattro incisioni dipinte all'acquatinta che costituivano il pregio del volume, i Lose fornivano una serie di notizie "storico-artistiche" di estremo interesse. Nel commentare la veduta della villa Cagnola, i due artisti osservavano infatti: "Fra gli oggetti che somministrano nel territorio d'Inverigo argomento di studio pittorico merita particolarmente d'essere fatta menzione d'una folta macchia d'annose piante che difendono dai raggi solari le ghiacciaie della casa Cagnola, da cui con molto accorgimento trasse partito il sig. conte Ambrogio Nava milanese, pittore dilettante di paesaggio di merito distinto, per la composizione di un quadro che all'esposizione annuale del 1822 formava in quel genere uno dei più belli ornamenti delle sale dell'I.R. Accademia di Brera" (Viaggio pittorico [1823] 1999, p. 137).

Nato nel 1791, Ambrogio Nava fu figura di spicco dell'aristocrazia milanese negli anni del dominio napoleonico e nella successiva fase di dipendenza dall'Austria. Presidente dell'Accademia di Brera nel 1850-54, la sua fama è legata principalmente - oltre all'oltraggio subito dal suo ritratto, realizzato da Hayez, durante l'esposizione del 1852 a Brera) (Hayez 1983, n. 122, p. 250) - alla sua attività di pittore paesaggista e di architetto. A quest'ultimo impegno appartiene la sua opera più nota, ovvero il restauro della guglia maggiore del duomo di Milano, prossima alla demolizione e salvata da Nava, a quel tempo e poi per molti anni amministratore e in seguito architetto del duomo stesso, con un discreto, felice intervento di consolidamento. L'impresa è narrata dall'artista stesso nel volume Relazione dei restauri intrapresi alla gran guglia del duomo di Milano nell'anno 1844 ed ultimati nella primavera del corrente 1845, pubblicato a Milano nel 1845, a cui seguì qualche anno più tardi una nuova pubblicazione, Memorie e documenti storici intorno alle origini, vicende e riti del Duomo di Milano (1854), che attesta invece l'interesse di Nava per studi di tipo storico-architettonico sulla Fabbrica milanese. L'attività di architetto, che sembra assorbire le sue energie soprattutto negli anni della maturità, annovera inoltre una serie di altri interventi, tutti concentrati in Brianza, luogo a cui l'artista, come del resto buona parte della nobiltà milanese, appare particolarmente legato. A lui si devono la serra (la "Limonaia") della villa di famiglia costruita attorno al 1820 da Luigi Canonica, a Monticello; il campanile della chiesa parrocchiale della Purificazione di Maria Vergine nel paesino di Torrevilla, presso Monticello; il progetto per gli apparati decorativi della tardosettecentesca chiesa parrocchiale di Santa Margherita ad Albese-Cassano (1860-62); infine, il completamento delle fabbriche lasciate incompiute dal marchese architetto Luigi Cagnola: la cappella dei Santi Gervasio e Protasio a Tregasio-Triuggio, nota come il "Pantheon della Brianza" (1842), e la villa di Inverigo, a sua volta caratterizzata dalla cupola che copre l'imponente massa del salone, per questo soprannominata "La Rotonda" (Ronzoni 2003, pp. 97-107).

E' proprio questo inconfondibile edificio a comparire sullo sfondo del dipinto qui esposto: adagiato sulla sommità di una collina, il severo quadrilatero voltato a cupola costituiva il punto focale del complesso architettonico iniziato da Luigi Cagnola nel 1813 come propria residenza privata. Ricordato anche da Stendhal nel suo Journal du voyage dans la Brianza (1818), l'edificio vantava un eccezionale panorama su quel luogo di delizie e di impareggiabile bellezza che era allora la Brianza e si caratterizza tuttora per la retorica monumentalità, inconsueta da quelle parti, oltre che per l'eclettismo dei modelli estetici presi a riferimento da Cagnola.

Diversi anni dopo la realizzazione di questo dipinto, nel 1834, un anno esatto dopo la morte del marchese-architetto, Nava ne avrebbe sposato la vedova, Francesca d'Adda, venendo dunque di fatto in possesso della villa, di cui completò la costruzione - comunque già avanzata in tutte le sue parti - con l'aiuto dell'allievo di Cagnola Francesco Peverelli.

Il dipinto rappresenta una delle più significative opere note del Nava pittore: sono stati fino ad ora individuati, infatti, ben pochi dei numerosi paesaggi realizzati da questo nobile che, secondo una moda molto diffusa nell'aristocrazia milanese, si dedicava per diletto alle arti figurative (Le Arti Nobili 1994, pp. 97, 148). Assidua la sua presenza alle mostre annuali di Brera, dove, forte anche di un giovanile soggiorno romano che certo gli consentì di venire a contatto con le molteplici tendenze della pittura di paesaggio, espose con una qualche continuità dal 1812 al 1844 (Gozzoli-Rosci 1975, p. 51, nota 19). Come detto, questo dipinto, insieme ad altri due "paesi a olio", fu presentato nel 1822. Esso si fonda su una declinazione lucidamente descrittiva del tradizionale paesaggio classico, sulla scia di quella linea analitica portata ai più alti esiti da Jakob Philipp Hackert nella seconda metà del Settecento. Gli elementi architettonici - il rustico edificio della ghiacciaia, la villa sul fondo - così come le figurette dei pastori, ancora di chiara ascendenza settecentesca, appaiono dominati dalla mole maestosa, in qualche modo già romantica, dei lecci, esaltati dall'attento gioco delle luci e delle ombre".

 

F. Giacomini in Quadreria 2009. Dalla bizzaria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, catalogo della mostra (Carlo Virgilio & C., Roma, 23 aprile - 12 giugno 2009) a cura di G. Capitelli, Roma 2009, pp. 60-61

Stima   € 8.000 / 10.000
67

Andrea Celesti

(Venezia, 1637 – Toscolano, 1712)

DUE PUTTINI CHE GIOCANO

DUE PUTTINI CHE MANGIANO

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 59x42,2

(2) 

 

I dipinti sono corredati da parere scritto di Annalisa Scarpa, Venezia 17 aprile 2010 di cui riportiamo alcuni passaggi salienti:

 

"Le due tele qui riprodotte rappresentano due gradevolissime scenette con putti: la prima li mostra in una specie di danza che si confonde quasi con una specie di lotta ludica che nulla ha di aggressivo; la seconda ci mostra uno dei due fanciullini intento a nutrire il compagno con un fare molto protettivo e tenero.

Si tratta quindi di due tematiche di genere, gradevolissime nella loro delicata narrazione così come nella raffigurazione tenera di un racconto che non ha una precisa connotazione temporale. Indubbiamente il soggetto è molto particolare, direi quasi un unicum nella pittura italiana; non si tratta infatti della consueta teoria di putti giocosi cui siamo adusi, con esempi ben famosi: basti pensare a opere di Cignani, come di Sebastiano Ricci o di Gaspare Diziani, quanto piuttosto di un soggetto più intimo e familiare certamente di destinazione mirata e certamente privatissima.

Stilisticamente le due tele ci conducono alla mano di un pittore di bizzarra genialità, Andrea Celesti.

Uno di quei pittori che, come Giulio Carpioni e Sebastiano Mazzoni, sembrano fluttuare nel proprio mondo contemporaneo con un linguaggio di autonomia estrema, attenta sì agli stimoli e alle suggestioni ma prepotentemente libera da condizionamenti. (...)

La coppia di putti qui riprodotta rientra, a mio giudizio, nella produzione di questo fantasioso e interessantissimo artista veneto.

Pur essendo un unicum, in quanto a tematica, nella sua produzione, essa si avvicina nei suoi protagonisti a fisionomie tipiche dell'artista, presenti in dipinti come La Sacra Famiglia della Pinacoteca di Brescia, dove il Bambino mostra analoghe connotazioni anatomiche, o La Croce portata da angioletti della Parrocchiale di Goito, dove ne ritornano, se non uguali similari, le movenze.

Ancor più suggerisce l'attribuzione la pittura liquida, dai toni morbidi e delicatamente chiaroscurati nelle carni, cui fanno da contrappunto il bruno ocra o il verde sottobosco delle casacchine ricche di cangiantismi illuminati a tratti da sprazzi di luce che si illuminano nelle camiciole e nei panni lumeggiati di bianco".

Stima   € 15.000 / 20.000
90

Andrea di Lazzaro Cavalcanti, detto il Buggiano

(Borgo a Buggiano 1412 - Firenze 1462)

e bottega di Bernardo Gambarelli, detto il Rossellino?

(Settignano? 1409 circa - Firenze 1464)

VASO DECORATIVO A URNA CON FREGIO ALLEGORICO DI PUTTI E TRALCI DI VITE

marmo, cm 52x42x38


Opera dichiarata di particolare interesse culturale ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004

Bibliografia

G. Gentilini e F. Ortenzi, in Vetera et Nova, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2005, pp. 40-59 n. 2;

F. Bacci, Acquasantiere, fonti battesimali e lavabi. Per una storia dell’arredo lapideo nella Firenze del Quattrocento, tesi di dottorato di ricerca in Storia delle Arti e dello Spettacolo, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2015/2016, p. 30

 

 

Questo raro, raffinato vaso decorativo d’ispirazione archeologica e tipologia inconsueta contribuisce a comprovare l’impegno creativo profuso dagli scultori fiorentini del Rinascimento nell’arredo lapideo: una produzione particolarmente apprezzata dalla storiografia ottocentesca, in ragione di una diffusa sensibilità per i valori delle arti decorative, che negli ultimi decenni ha riconquistato le attenzioni della critica (G. Gentilini, Fonti e tabernacoli… pile, pilastri e sepolture: arredi marmorei della bottega dei da Maiano, in Giuliano e la bottega dei da Maiano, atti del convegno, Fiesole, 13-15 giugno 1991, a cura di D. Lamberini, M. Lotti, R. Lunardi, Firenze 1994, pp. 182-195; F. Caglioti, Donatello e i Medici, Firenze 2000; Bacci, op. cit.).

Il vaso, nel corpo di forma globulare, su cui staccano due anse di tipo metallico, con orlo profilato a ‘ovoli e dardi’ e il duplice piede scampanato scandito da baccellature, richiama urne cinerarie di epoca romana (Firenze, Galleria degli Uffizi; Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco e Museo Pio Clementino; Venezia, Museo Archeologico; Pisa, Camposanto), in particolare il cratere reimpiegato come fonte battesimale nella chiesa di San Michele Arcangelo a Camiliano di Capannori, trovando puntuali riscontri in alcuni celebri arredi marmorei di metà Quattrocento: lo splendido fonte battesimale della Collegiata di Empoli (ora nell’attiguo Museo), scolpito nel 1447 da Bernardo Rossellino, l’acquasantiera (forse in origine anch’essa un vaso decorativo) della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, a lungo riferita alla cerchia donatelliana e più di recente allo stesso Rossellino, e il perduto ‘nodo’ della fontana del giardino dei Pazzi (New York, Metropolitan Museum), attribuita ad Antonio Rossellino o Benedetto da Maiano verso la fine degli anni Sessanta.

Peculiare dell’opera in esame è invece la decorazione scolpita a bassorilievo, che raffigura, con notevole vivacità espressiva ed efficaci scorci prospettici, un corteo di quattro putti variamente atteggiati sotto una sorta di pergola con foglie di vite: uno di essi brandisce una fiaccola riversa e il suo compagno trasporta sulle spalle un agnello, mentre sull’altra faccia del vaso un fanciullo, che porta due ceste di vimini per la vendemmia, conduce con sé una capra, seguito da un putto con una cetra capovolta in atto di indicare con la stecca. L’inconsueta, criptica iconografia, che coniuga motivi della tradizione pagana bacchica con riferimenti funerari (il “tedoforo” con la face riversa), cristologici (il “buon pastore”), eucaristici (i tralci d’uva, il putto vendemmiante che reca il “capro espiatorio”) desunti da sarcofagi romani e paleocristiani, dichiara la sofisticata cultura umanistica del committente, presumibilmente partecipe delle speculazioni di Marsilio Ficino sulla “theologia platonica”, la “docta religio” e sulla musica come “harmonia mundi”. Rimane invece più arduo ipotizzare la funzione e la destinazione originaria del manufatto, che poteva trovar posto sia in un contesto ecclesiale, come urna o cippo funerario, sia più probabilmente in una signorile dimora privata: forse in un portico o un giardino destinato ad ospitare i certami poetici e le dispute filosofiche dei dotti membri dell’Accademia neoplatonica, fondata dal Ficino nel 1462 per incarico di Cosimo dei Medici, riunitasi inizialmente nella Villa le Fontanelle poi nella Villa medicea di Careggi. 

Quanto alla paternità dell’opera, presumibilmente da ricercare dunque tra gli artisti della cerchia medicea, riteniamo di poter confermare il riferimento al Buggiano, già dettagliatamente argomentato (Gentilini e Ortenzi, op. cit.) e ora accolto da Alfredo Bellandi in una monografia sullo scultore di prossima pubblicazione (Andrea Cavalcanti «discipulo Filippi ser Brunelleschi»), il quale potrebbe averla eseguita collaborando con la bottega dei fratelli Rossellino, cui ci riconducono, come si è visto, l’ornato e la tipologia del manufatto, recentemente menzionato da Francesca Bacci (op. cit.) in relazione al vaso-acquasantiera della Sagrestia Vecchia che la studiosa riconduce proprio a Bernardo Rossellino.

Figlio adottivo del Brunelleschi, il Buggiano, dedito soprattutto agli arredi lapidei (lavabi delle due Sagrestie di Santa Maria del Fiore, su disegno del Brunelleschi, 1438-1445; altare e ornati della Cappella Cardini in San Francesco a Pescia: Atti del convegno su Andrea Cavalcanti detto ‘il Buggiano’, Buggiano Castello, 23 giugno 1979, Buggiano 1980), tra i quali è opportuno ricordare le due perdute acquasantiere della Villa di Careggi (G. Gentilini, Una perduta pila del Brunelleschi, due del Buggiano e alcune altre acquasantiere fiorentine del primo Quattrocento, in Le vie del marmo, aspetti della produzione e della diffusione dei manufatti marmorei tra Quattrocento e Cinquecento, atti del convegno, Pietrasanta, 3 ottobre 1992, a cura di R.P. Ciardi e S. Russo, Firenze 1994, pp. 61-68), fu infatti impegnato in modo consistente nel cantiere mediceo brunelleschiano della Sagrestia Vecchia, e la sua collaborazione con la bottega di Bernardo Rossellino è attestata quantomeno dal suo intervento nel Monumento Bruni in Santa Croce del 1450 (A. Markham Schulz, The sculpture of Bernardo Rossellino and his Workshop, Princeton 1977, pp. 49-50).

I modi peculiari del Buggiano sono del resto ben riconoscibili nelle fisionomie paffute, nella mimica allegra e nell’anatomia corpulenta di almeno due putti, quello che reca in spalla l’agnello e quello con la cetra, agevolmente confrontabili con il Gesù Bambino che ricompare nelle varie redazioni in terracotta e stucco di una composizione mariana concordemente attribuitagli (Firenze, Museo Nazionale del Bargello; Villamagna, Pieve di San Donnino; etc.), mentre il putto con la fiaccola, più delicato e pittorico, richiama la maniera dei Rossellino, inducendo a ipotizzare un intervento di Giovanni, personalità meno nota rispetto ai fratelli Bernardo e Antonio, quale si evince dalle figure angeliche del Monumento a Filippo Lazzeri in San Domenico a Pistoia realizzato tra il 1462 e il 1468.

 

G.G.

 

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
93

Andrea Torresani

(Brescia 1695-1728)

RITRATTO DI CACCIATORE

olio su tela, cm 94,5x76

 

Bibliografia

M.Tanzi, Un ritratto di Andrea Torresani, pittore della realtà in Lombardia, in "Prospettiva", Firenze 2002, pp. 89-92

C. Parisio, Giorgio Duranti 1687-1753, Brescia 2004, p. 11, fig. 3

Sette ritratti lombardi dalla tarda maniera alla maniera pura, testi di Marco Tanzi e Massimo Vezzosi, Firenze 2009, pp. 16-21                                                                            

 

Il dipinto si segnala immediatamente per la elevata temperatura qualitativa, la sapiente impaginazione della scena e, soprattutto, per la resa realistica dell’effigiato che si volge allo spettatore con un’aria sospesa tra canagliesca indolenza, ironia e sarcasmo. Si tratta di un parallelo, in qualche modo più eccentrico e beffardo, della produzione contemporanea di Giacomo Ceruti e Fra Galgario: il suo autore è all’evidenza un altro protagonista, sino ad ora sconosciuto, della “pittura della realtà” nella Lombardia del Settecento, capace di guardare ai due campioni attivi a Brescia e Bergamo, ma attento anche alle varianti più nordicizzanti di questo linguaggio, che passano attraverso Giacomo Francesco Cipper, il Todeschini, ed il curioso Almanach. Un prete-cacciatore, diviso tra religiosità (scarsa, a leggere senza pregiudizi negli abissi ambigui dello sguardo) e passione venatoria, con le bellissime gabbiette sullo sfondo, il civettone antropomorfo sul davanzale ed il cagnetto devoto.

Una serie di sigle estremamente personali qualificano lo stile di questo pittore misterioso, a partire dalla straordinaria capacità di penetrazione, quasi psicanalitica, nei recessi dell’animo dell’effigiato. La presa sulla realtà disinvolta: un personaggio che non si preoccupa di farsi ritrarre in un ambiente secondario del palazzo, con i bottoni slacciati, guardando “in camera” con la massima naturalezza, quasi sornione. Poi brani di pittura bellissima, da parte di un artista che si dimostra in qualche modo – come il ritrattato – sprezzante: le mani enormi e così caratterizzate, con la sinistra, poggiata sul libro, che sembra persino indossare un guanto, tanta è la rapidità, abile e strafottente, di esecuzione; il gusto pungente e quasi parodistico nella definizione dei volatili e del cane. Insomma un enigma di prima grandezza nella pittura lombarda di primo Settecento, equidistante, sul versante dello stile, tra Milano da una parte, Brescia e Bergamo dall’altra.

Andrea Torresani viene ricordato dalle fonti come importante pittore di paesaggio e  soprattutto come ritrattista; va citato infatti l'interessante taccuino di disegni, conservato presso l'Accademia Carrara di Bergamo, in cui i ritratti sono caratterizzati da un realismo graffiante e da una sottile vera ironica.

                

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
40

Antonio Cavallucci

(Sermoneta, 1752 - Roma, 1795)

SOCRATE SI CONGEDA DAI DISCEPOLI

olio su tela, cm 89x134,5

 

Il dipinto sarà pubblicato da Alessandro Agresti sulla rivista "Studi di Storia dell'Arte"

 

Attribuito al Cavallucci da Massimo Vezzosi, attribuzione confermata oralmente da Alessandro Agresti, cui si devono gli studi più recenti sul pittore romano riscoperto negli anni Settanta del Novecento grazie a Steffi Roettgen, il dipinto qui offerto – non ricordato dalle fonti biografiche sull’artista – resta in qualche modo isolato nella sua produzione prevalentemente volta, sebbene non in modo esclusivo, a soggetti sacri e di pubblica destinazione. È proprio in questo senso che, dopo gli avvii nel palazzo del suo protettore, il duca Francesco Caetani, grazie all’appoggio di Monsignor Francesco degli Albizzi, Economo della Fabbrica di San Pietro dal 1778, Antonio Cavallucci riceve le prime importanti commissioni pubbliche nell’ambito del programma di rinnovamento della “Roma cristiana” voluto da Pio VI Braschi, di cui diventerà uno degli interpreti più accreditati.

È appunto con il ciclo di quattro storie petrine eseguite prima del 1784 per la sacrestia della basilica vaticana che il nostro dipinto mostra i più forti legami stilistici, pur nello svolgimento di un tema radicalmente estraneo a quella temperie spirituale. L’accostamento è suggerito dalla presenza di modelli comuni alle figure degli Apostoli nelle tele vaticane e agli anziani discepoli del filosofo greco nella tela qui offerta (dove il protagonista sembra invece citare una scultura classica), ai quali si aggiunge un giovane e inedito Alcibiade. Anche i colori smaltati dei panneggi, dai colori discordanti ma unificati dal lieve chiaroscuro, rimandano alle opere pubbliche dipinte dal Cavallucci nella seconda metà degli anni Ottanta, quali il Sogno di Giuseppe in S. Andrea a Subiaco del 1788.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
42

Attribuito a Carlo Innocenzo Carloni

(Scaria d'Intelvi, Como 1686 - 1775)

LA PACE CHE BRUCIA LE ARMI A MARTE

olio su carta, mm 275x206                                

 

Su suggerimento di Enrico Maria Dal Pozzolo il delizioso dipinto ad olio su carta qui presentato si può accostare alla mano del bel pittore Carlo Innocenzo Carloni che faceva parte della famiglia comasca di artisti chiamati i Carlone (o Carloni). Suo padre Giovan Battista era stuccatore e anche il fratello Diego Francesco era stuccatore e architetto.

Appena dodicenne seguì il padre in Germania per essere avviato all'arte dello stucco; ma avendo dimostrato una forte tendenza per la pittura, fu affidato dal padre al pittore Giulio Quaglio, pure intelvese, che lo portò a Venezia e Udine. Dopo il 1706 si recò a Roma dove ebbe come maestro il veneto Francesco Trevisani. Nel 1715 si stabilì a Vienna chiamato dal principe Eugenio di Savoia per il quale aveva dipinto l'affresco con la Glorificazione del Principe nella sala dei marmi del Belvedere inferiore, in collaborazione con il quadraturista Marcantonio Chiarini. A Vienna il Carloni visse diversi anni con la famiglia, ritornando in Italia per alcune commissioni; intorno al 1725 circa si datano due tele nella chiesa di Balerna (Canton Ticino), quattro nella basilica di San Fedele a Como, e, ancora a Como, gli affreschi e i quadri del santuario del Crocefisso e l'affresco dello scalone del palazzo Gallio. Nel 1727 ritornò in Austria e nello stesso anno si trasferì con la famiglia a Praga per decorare lo scalone e due sale del palazzo Clam Gallas.

In Italia di nuovo nel 1737, Carloni ricevette nuove commissioni a Calusco d'Adda (scalone di Villa Colleoni) e nel duomo di Monza dove lavorò dal 1738 per circa sette anni.

La visione pittorica di Carloni è una visione in chiaro, costruita con una pennellata veloce e leggera; quello che stupisce e incanta sia nella sua pittura che nel nostro dipinto è la grande libertà inventiva sempre pervasa da uno spirito teatrale. La sua pittura briosa e vivace, ricca di fantasia ed estro, è segnata sicuramente dal gusto decorativo della tradizione tipica degli intelvesi e dell'attività dei suoi familiari.

Marte e Venere in primo piano sono i personaggi di un vaporoso spettacolo, la dea nasconde e brucia le armi del suo amato che le porge dei fiori profumati.

Dal punto di vista stilistico, la pittura appare estremamente leggera, quasi dissolta nei toni del pastello.

 

 

 

 

 

Stima   € 6.000 / 8.000
38

Bartolomeo Mazzuoli

(Siena 1674 - 1749)

SANTA CATERINA DA SIENA CORONATA DI SPINE

busto in stucco dipinto su base modanata pertinente dipinta con stemma araldico (della famiglia Bandinucci?), cm 75x56x33

 

A lungo impegnato nella rinomata e prolifica bottega di famiglia, come collaboratore del padre Giovanni Antonio e dello zio Giuseppe (lavori nella Villa Chigi di Cetinale), Bartolomeo si distinse sia come scultore in marmo (monumenti sepolcrali nella chiesa del Carmine, in San Cristoforo e nella Cattedrale di Siena; rilievi e statue in Palazzo Sansedoni), con una produzione spesso desunta dai modelli di Giuseppe (statue del Salvatore e della Vergine in Cattedrale) e di altri scultori romani (Bernini, Ferrata, Legros) conservati nella bottega senese dei Mazzuoli (M. Butzek, Die Modellsammlung der Mazzuoli in Siena, in “Pantheon”, XLVI, 1988, pp. 75-102; V. Di Gennaro, Arte e industria a Siena in età barocca. Bartolomeo Mazzuoli e la bottega di famiglia nella Toscana meridionale, Siena 2016), sia come stuccatore, proseguendo così un’affermata tradizione familiare (statue nella Certosa di Maggiano; Apostoli nella Collegiata di Sinalunga; complessi decorativi a Montepulciano).

Le fonti locali ne ricordano un’intensa e apprezzata vena ritrattistica, che si traduce nella capacità di infondere una vivida presenza anche a effigi religiose altrimenti congelate in schemi iconografici convenzionali, come nel pulsante busto in terracotta del Beato Bernardo Tolomei conservato nella Collezione Chigi Saracini di Siena (G. Gentilini, in G. Gentilini e C. Sisi, Monte dei Paschi di Siena. Collezione Chigi-Saracini. 4. La scultura. Bozzetti in terracotta, piccoli marmi e altre sculture dal XIV al XX secolo, Firenze 1989, pp. 360-361 n. 105), o nel penetrante, affilato busto della Benincasa che qui si presenta: l’amata mistica senese, giovinetta di particolare bellezza, devota al culto della Passione di Cristo al punto da riceverne le stigmate cui allude la corona di spine, attributo ricorrente nell’iconografia della santa, indossata sull’abito delle terziarie domenicane (a Siena dette Mantellate).

Di particolare interesse la presenza sul basamento di uno scudo araldico sul quale è dipinto un blasone (troncato: nel primo d’azzurro, al monte di sei cime movente dalla partizione e accostato da due stelle a otto punte dello stesso; nel secondo bandato d’argento e d’azzurro), quasi identico all’arme della famiglia Bandinucci, attestata a Firenze nel quartiere di Santa Maria Novella (Raccolta Ceramelli Papiani, Archivio di Stato di Firenze, fasc. 369: arme che però è sbarrata, non bandata). Si tratta forse dei Bandinucci de’ Conti di Monte Maggio (o di un ramo collaterale), nobile famiglia originaria di Cortona - un territorio, quello della Valdichiana, dove i Mazzuoli furono attivi in più occasioni -, e dunque una corretta identificazione araldica, oltre a definire la committenza del busto in esame, potrebbe consentire di circoscriverne la datazione, individuarne l’ubicazione originaria e forse accertarne la paternità qui proposta per ragioni stilistiche.

 

Stima   € 5.000 / 8.000
3

Bartolomeo Sinibaldi, detto Baccio da Montelupo

(Montelupo Fiorentino, 1469 - Lucca, 1537 circa)

TESTA VIRILE BARBATA (SAN DOMENICO?)

terracotta, cm 22x20x22

 

Bibliografia di riferimento

D. Lucidi, Contributi a Baccio da Montelupo scultore in terracotta, in “Nuovi Studi”, XVIII, 2013, 19, pp. 51-101.

 

La bella testa dai nobili lineamenti giovanili, in origine parte di un busto o di una statua, modellata con grande sensibilità e perizia tecnica, è caratterizzata nell’espressione da una toccante dolcezza malinconica che, insieme alla tonsura parzialmente nascosta dalla corona di folte ciocche ondulate e al foro dietro la nuca per apporvi un’aureola, ci consente di identificarla nell’effigie di un religioso canonizzato. Plausibile, dunque, pensare a San Domenico di Guzmán (Caleruega 1170 - Bologna 1221), il popolare fondatore dell’Ordine dei frati predicatori (Domenicani), sovente raffigurato in giovane età, con una simile testa tondeggiante percorsa da una rada barbetta, e talora proprio con questa stessa inflessione pensosa e accorata, identica, ad esempio, nella figura del santo inserita dall’Angelico nel polittico dipinto nel 1437 per la chiesa di San Domenico a Perugia (ora nella Galleria Nazionale dell’Umbria).

Una tale proposta conforta il tradizionale riferimento attributivo a Baccio da Montelupo, che, dopo un apprendistato nel giardino di San Marco favorito da Lorenzo il Magnifico, accanto al giovane Michelangelo del quale rimase a lungo stretto amico, si unì ai più ferventi seguaci del Savonarola, lavorando in numerose occasioni per i principali conventi domenicani: San Domenico a Bologna, dove si venera il corpo del Santo e dove Baccio si era rifugiato insieme al Buonarroti nel 1495, San Marco a Firenze, per il quale intagliò nel 1496 un monumentale Crocifisso, San Romano a Lucca (F. Petrucci, Baccio da Montelupo a Lucca, in “Paragone”, XXXV, 1984, 417, pp. 3-22).

Di fatto l’opera trova efficaci riscontri stilistici nei lavori del Sinibaldi, scultore particolarmente versato nella modellazione della terracotta (Lucidi, op. cit.), caratterizzati da un naturalismo sensibile e temperato, da volumi concisi, raddolciti da memorie della grazia di Desiderio da Settignano quale si colgono qui nella morbida modulazione pittorica dei capelli e degli incarnati e da un'analoga intonazione patetica. Riscontri che ravvisiamo a partire dalle figure del Compianto in terracotta modellato nel 1495 per la stessa chiesa bolognese di San Domenico (oggi in frammenti conservati nell’attiguo museo), simili anche nel taglio sottile e allungato degli occhi o nel risalto carnoso delle labbra e del naso, intensificandosi nei lavori databili sulla metà del secondo decennio del Cinquecento, al tempo del monumentale San Giovanni Evangelista bronzeo realizzato nel 1514 per il tabernacolo dell’Arte della Seta in Orsanmichele, dove affiorano modi più forbiti e animati, in linea con gli orientamenti del classicismo di Andrea Sansovino.

 

G.G.

 

Stima   € 14.000 / 20.000
56

Battista Lorenzi, detto Battista del Cavaliere

(Settignano, 1527 - Pisa, 1594)

UN GIOVANE ASSOPITO E UN BAGNANTE (SCENA MITOLOGICA?)

bassorilievo ‘a stiacciato’ in marmo, cm 27,3x34,5x3

 

Bibliografia di riferimento

H. Utz, Skulpturen und andere Arbeiten des Battista Lorenzi, in “Metropolitan Museum Journal”, 7, 1973, pp. 37-70

 

Concepito e finemente intagliato come un’antica gemma o un prezioso cammeo, tanto da richiedere un apprezzamento tattile - proprio come suggeriva la trattatistica rinascimentale per simili rilievi ‘a stiacciato’ -, questo squisito medaglione ovale marmoreo di piccole dimensioni era certamente destinato all’arredo di uno studiolo o di un camerino, dove, in compagnia di ‘anticaglie’ e altre memorie di gusto archeologico, il suo seducente soggetto profano poteva evocare la bellezza e la libertà arcadica del mito e della letteratura greco-romana, sollecitando, con una iconografia sfuggente e forse criptica, un’esegesi interpretativa erudita. L’immagine in primo piano dell’avvenente giovanetto ignudo, mollemente assopito all’ombra di un alberello, con accanto un fedele cagnolino, sulla ripa di uno specchio d’acqua dove sullo sfondo compare un bagnante intento a detergersi le gambe, può infatti ricordare numerosi personaggi ben noti della mitologia greca, ma sembra sottrarsi a una identificazione esaustiva e convincente: Endimione sprofondato nel suo sonno di eterna giovinezza, il superbo Narciso insensibile alle attenzioni di molti giovani, Ermafrodito sulle rive del lago ove fu visto dalla ninfa Salmace, o anche, per la posizione adagiata, Adone e Giacinto.

I riferimenti all’antico riguardano anche gli aspetti formali, in quanto le due figure si collegano a modelli ben noti diffusi attraverso la glittica o i sarcofagi romani - divinità fluviali, naiadi, Diomede col Palladio, etc. -, ma rivisitati accentuandone la complessità posturale con un virtuosismo che presuppone un attento studio dei nudi di Michelangelo dipinti nella volta della Cappella Sistina in Vaticano (1508-12) o disegnati nel perduto cartone della Battaglia di Cascina che avrebbe dovuto affrescare nel Palazzo della Signoria a Firenze (1505-6), cui attinsero, come è noto, innumerevoli artisti, primo tra i quali lo scultore Baccio Bandinelli.  D’altra parte l’anatomia tersa e l’assottigliato allungamento proporzionale del nudo in primo piano, rivelano un’adesione ai moduli del manierismo di metà Cinquecento, forse attraverso un aggiornamento sull’esperienza del Cellini, richiamando la Ninfa eseguita nel 1542 per Fontainebleau (Parigi, Musée du Louvre), o, nella posa languida con la mano sopra la testa reclinata, il Narciso scolpito intorno al 1560, rimasto nella bottega celliniana fino alla morte del maestro (1571) e poi confluito nei giardini medicei (Firenze, Museo Nazionale del Bargello). Rammentano qui il Cellini persino la cornicetta modanata e l’ovato compresso del medaglione, identico a quello del rilievo in bronzo raffigurante un Levriero acquisito nel 1545 dal duca Cosimo I dei Medici (anch’esso al Bargello); mentre l’articolazione della figura principale è praticamente sovrapponibile alla Venere dipinta dal Bronzino nel 1553 per Alamanno Salviati (Roma, Galleria Colonna).

Tali coordinate culturali orientano dunque la paternità del marmo in esame verso Battista Lorenzi (Giovanni Battista di Domenico Lorenzi), detto Battista del Cavaliere proprio in ragione del suo discepolato nella bottega del cavalier Bandinelli, artista particolarmente legato alle memorie michelangiolesche, avendo scolpito nello studio ch’era stato del Buonarroti la statua destinata al monumento funebre in Santa Croce (1564-72), dal 1560 in strettissimi rapporti col Cellini, al punto da subentrare nel 1571 nella sua bottega, e da quel momento privilegiato dalla prestigiosa committenza del figlio di Alamanno Salviati, Jacopo, per il quale fu impegnato anche come restauratore di marmi antichi (Utz, op. cit.; A. Fazzini, Collezionismo privato nella Firenze del Cinquecento. L’"appartamento nuovo" di Jacopo di Alamanno Salviati, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia”, 1, 1993, pp. 191-224).

Per quanto sia difficile, tra le opere di tipo prevalentemente statuario ascritte oggi al Lorenzi, trovare riscontri tipologici per il nostro rilievo, non mancano le conferme stilistiche a una tale proposta: ad esempio, nella sintesi levigata degli incarnati e soprattutto nella peculiare conformazione tondeggiante della testa del nudo disteso, caratterizzata dal naso appuntito e da una capigliatura a caschetto con le ciocche proiettate in avanti, che ben si confronta con quella di Alfeo nel gruppo scolpito intorno al 1568 per la Villa il Paradiso di Alamanno Bandini (New York, Metropolitan Museum of Art). L’opera che qui si presenta induce dunque ad approfondire la conoscenza dei marmi da studiolo e della produzione profana di piccolo formato del Lorenzi, ad oggi attestata quasi solo da una Venere al bagno di collezione privata che ben dialoga con i nostri bagnanti (C. Pizzorusso, in Schede fiorentine e una scultura di Girolamo Campagna, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2001, pp. 8-13 n. 1): una produzione verosimilmente assimilabile ai sensuali rilievi di soggetto mitologico di Francesco Mosca, detto il Moschino, a lungo attivo, fino alla morte nel 1578, nel cantiere del Duomo di Pisa, quello stesso in cui trascorse l’ultimo decennio della sua vita Battista Lorenzi.

G.G.

 

Stima   € 15.000 / 25.000
28

Bernardino Nocchi

(Lucca, 1741 - Roma, 1812)

MOSE' CALPESTA LA CORONA DEL FARAONE

olio su carta, cm 20,2x26,2

 

Attribuzione confermata con parere orale di Roberto Giovanelli

 

Il dipinto qui proposto, probabilmente un bozzetto preparatorio, descrive l'episodio, raccontato anche da Flavio Giuseppe nelle "Antichità Giudaiche", in cui il faraone Ramses I pone per gioco la sua corona sulla testa del piccolo Mosé che la scaraventa subito dopo a terra calpestandola.

Il sovrano adirato chiede ai suoi ministri se questo gesto non meriti la condanna capitale. Fortunatamente l'intervento dell'angelo Gabriele, sotto forma di uno dei saggi di corte, risolve la situazione; egli consiglia infatti di far portare pietre preziose e carboni ardenti e poi far scegliere al bambino cosa prendere. In questo modo essi avrebbero potuto vedere se il bambino fosse interessato alle ricchezze e di conseguenza al Regno d'Egitto. Guidato dall'angelo, Mosè prende il carbone e se lo porta alla bocca rimanendo ferito sulla lingua, ma avendo salva la vita.

La scena è dipinta da Nocchi con una forte carica drammatica data da pennellate veloci e dall'impostazione scenografica concentrata sulla figura del bambino e sulle donne che cercando di intercedere per la salvezza di Mosè . 

Bernardino Nocchi inizia la sua formazione artistica sotto la guida del pittore Giovan Antonio Luchi che fu uno dei fondatori dell'Accademia Lucchese di Belle Arti e che ebbe tra i suoi allievi più importanti anche Stefano Tofanelli. Trasferitosi a Roma nel 1769 entrò nella bottega del pittore Nicola Lapiccola. Riuscì ad affermarsi nell'ambiente artistico romano grazie all'esecuzione degli affreschi nella sala dei Fasti Prenestini in palazzo Vidoni Caffarelli iniziati nel 1773. Nel 1780 il pittore ricevette due importanti commissioni da Papa Pio VI lavorando stabilmente per la corte pontificia e subentrando a Lapiccola nelle pitture dei Sacri Palazzi Apostolici, documentate nell'archivio segreto Vaticano (Russo, 1990, pp. 177-208). Nel 1787 esegue per la volta della sala delle Stampe nella Biblioteca Vaticana il Ritratto di Pio VI alla Fama. Tra le opere più importanti dell'artista possiamo ricordare La gloria di santa Pudenziana commissionata dal cardinal Lorenzo Litta nel 1803 per la chiesa di Santa Pudenziana a Roma collocata sull'altar maggiore.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
9

Carlo Francesco Nuvolone

(Milano, 1609 - 1662)

SAN GIACOMO

olio su tavola, cm 62,5x49,5

 

Bibliografia di riferimento

F.M. Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Cremona, 2003

 

Dipinto con passaggi cromatici che vanno dall’impiego di paste di colore spesse, fino a velature sottili magnificamente conservate, il dipinto mostra chiaramente gli stilemi della pittura lombarda del Seicento. Riconosciuto a Carlo Francesco Nuvolone da J. Stoppa (comunicazione orale) la bellissima tavola in noce è da annoverare tra i raggiungimenti più alti del primo periodo di Carlo Francesco.

L’opera è databile all’epoca dei lavori giovanili (tra i Santi Agostino e Ambrogio a Milano, Castello Sforzesco, dei primi anni ’30, fino alla Santa Caterina a Bergamo, Collezione privata, del 1636 circa, tutti riprodotti in Filippo Maria Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Cremona, 2003, p. 340 fig. 22, p. 66, tav. XVIII e p. 334, fig. 16) eseguiti sotto l’influsso del Cerano e di Daniele Crespi.

E al Cerano pare proprio accostarsi Carlo Francesco nel dipinto qui presentato, quando si voglia paragonarlo al sofferente e crudo San Rocco del Cerano (ma più probabilmente proprio un San Giacomo per la presenza della conchiglia cucita sul mantello da pellegrino) di ubicazione sconosciuta (già Milano, Alessandro Orsi), ripetuto nella posizione della testa e fino in quella della mano destra che trattiene il libro tra indice e medio, solo dal nostro artista, ammorbidito in una pennellata più soffusa e sciolta, intrisa di un sentimento maggiormente pacato.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
88

Carlo Francesco Nuvolone

(Milano, 1609 - 1662)

BUSTO DI GIOVANE DONNA (LA POESIA?)

olio su tela, cm 69x53,2            

 

Bibliografia di riferimento

F.M. Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Cremona, 2003

 

Quest'opera di straordinaria qualità è un esempio altissimo delle capacità di Carlo Francesco Nuvolone di rendere la morbidezza soffice degli incarnati del viso e delle mani, con le dita delicate che si affusolano verso le estremità, così come dei vaporosi capelli, fino alla sgargiante luce nelle pieghe rosse del manto.

A questa invenzione il pittore dovette essere particolarmente affezionato. Sperimentata a figura quasi intera nell'Ester (Milano, collezione privata) e qui ridotta al solo busto, certamente essa dovette riscuotere molto favore tra i collezionisti poiché, variata nelle vesti o nello scarto della testa o ancora con l’aggiunta di un piccolo angelo e trasformata in santa, è stata replicata dall’artista in tre diverse versioni: una a New York, collezione F. Mont (la più vicina alla nostra); a Milano, in collezione privata, di forma ottagonale e con l’aggiunta di un angioletto a destra, come Santa Caterina (o la Filosofia?); e un’altra sempre in collezione privata, con l’angioletto sulla destra ma diversamente atteggiata nel busto e con ambedue le mani a sinistra (tutte riprodotte in Filippo Maria Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Cremona, 2003, p. 364, fig. 46; pp. 366-367 figg. 48-49)

Confrontando la versione di collezione Vezzosi con le altre tre sopra menzionate deve essere obiettivamente rilevata la punta qualitativa che essa esibisce, tanto da far credere che possa essere proprio questa la prima della serie. 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
109

Carlo Markò

(Budapest 1822 - Mosca 1891)

IL CASTELLO DELLA VERRUCA VICINO PISA

olio su tela, cm 46x61,5

firmato e datato "1875" in basso a destra

retro: etichetta sul telaio con titolo

 

Sono ancora oggi visibili le rovine del Castello e la rocca della Verruca che furono in passato teatro di cruente battaglie tra Pisani e Fiorentini. Il sito era già occupato da una fortificazione dal 780, ma la rocca vera e propria fu costruita solo nel XIII secolo, ed è sopravvissuta come struttura militare attiva fino alla definitiva caduta di Pisa nel 1503. Le ultime strutture ad esser costruite, in vista dell'ultimo decisivo scontro con i Fiorentini, furono le quattro torri angolari, due orientali di grossa dimensione e due occidentali più piccole, con feritoie e balestriere.

Nel 1509, tuttavia, la fortezza fu ristrutturata da Antonio da Sangallo a cui vengono attribuiti i due bastioni poligonali e da Luca del Caprina, della bottega del Francione, a cui viene attribuita la grossa torre cilindrica su uno spigolo del perimetro. La fortezza fu in seguito dismessa venendo a mancare la sua posizione di frontiera e quindi la sua utilità difensiva.

La struttura della rocca aveva un'importanza cruciale per la Repubblica Pisana, perennemente in guerra con Firenze. Il castello era il nucleo di un sistema di fortificazioni sparse sul territorio circostante, tra cui possiamo elencare i castelli di Caprona, Vicopisano e Buti. Le comunicazioni tra questi avamposti e la rocca, così come quelle tra la rocca e la città di Pisa, avvenivano con lenzuola, stendardi, fumo, fuochi o colpi di artiglieria attraverso un codice che permetteva di informare repentinamente sui movimenti delle truppe nemiche in avvicinamento. In caso di scarsa visibilità il segnale veniva passato attraverso le varie torri dislocate sui monti pisani: la Torre dello Spuntone, il castellare di Asciano, il castello di Agnano e il castello di San Giuliano.

Nei primi anni del Novecento venne avviato un progetto per la realizzazione di una croce monumentale, in risposta all'iniziativa di papa Leone XIII di porre il simbolo della cristianità sulle cime più alte d'Italia. La prima pietra venne posata dall'Arcivescovo di Pisa Maffi nel 1904, ma i lavori non proseguirono per il blocco imposto dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali, decisa a preservare l'aspetto dell'antica fortezza.

 

 

 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
83

Cerchia di Andrea Contucci, detto Andrea Sansovino

(Monte San Savino 1467 - 1529)

TESTA VIRILE BARBATA, DALL’ANTICO (ANTONINO PIO)

modello da studio in terracotta, cm 32x21x17

 

Poco più piccola del naturale, la testa qui proposta non era normalmente esposta (come del resto il grosso delle opere presenti nella collezione Vezzosi) e risulta quindi freschissima alla conoscenza. Nata come oggetto di studio da tenersi appesa nella bottega, come testimonia il retro nemmeno sgrossato ed il foro praticato in alto direttamente nella creta fresca, atto a far passare una corda per appenderla, essa dimostra la sua appartenenza alla stagione del primo Cinquecento toscano e i suoi debiti verso la statuaria antica. Appare infatti evidente che si tratti di una rimeditazione, in senso di studio ed approfondimento su un probabile modello antico, non necessariamente “ricopiato” pedissequamente ma usato quale base di meditazione stilistica.

All’esame essa dimostra un fare potente, sintetico e di grande forza, laddove l’autore cerca la restituzione di un proprio ideale di moderna classicità: le forti segnature dei tratti fisiognomici, le rughe intense e i riccioli, soprattutto visibili nella barba, eseguiti con “vermi” di terra modellati a parte e poi applicati, rimandano alle opere tarde di Andrea Sansovino, eseguite tra il 1518 ed il 1529 anno della morte dell’artista. Confronti possono essere instituiti con la colossale testa di Porsenna, a Montepulciano, quanto resta di una statua in terracotta “all’antica” alta circa tre metri e il San Rocco in terracotta policroma a Battifolle (Arezzo), probabile ultima opera dell’artista.

Date le evidenti similitudini con i lavori sopra menzionati è possibile immaginare che in quella direzione sia da cercare l’autore dell’opera qui presentata.

 

Stima   € 12.000 / 15.000
84

Cerchia di Francesco Mochi

(Montevarchi 1580 - 1654)

CRISTO CROCIFISSO

intaglio in legno di bosso, cm 37x28

croce d’albero dipinta su base a volute dorata, inizi del sec. XVIII, cm 100x39x16

 

Intagliato con particolare virtuosismo, conferendo al corpo inarcato e consunto la sottigliezza e l’elastica tensione di un giunco, questo singolare, drammatico Crocifisso in legno di bosso, destinato alla devozione privata. rivela intriganti affinità formali con la statuaria marmorea e in bronzo di Francesco Mochi: eccentrico, magistrale interprete, tra Roma, Orvieto e Piacenza, del trapasso dai formalismi del manierismo giambolognesco alla spericolata teatralità del barocco berniniano (Francesco Mochi e il suo tempo, a cura di R. Barbielli Amidei, Firenze 1981).

L’anatomia smagrita, ossuta, le proporzioni allungate, l’andamento incurvato e dinoccolato del corpo di Cristo richiamano infatti le spettrali figure del monumentale Battesimo commissionato al Mochi da Orazio Falconieri per l’altar maggiore di San Giovanni dei Fiorentini nel 1634, ma non ancora a termine alla morte dello scultore (collocato sul Ponte Milvio, poi in Palazzo Braschi e solo nel 2016 consegnato alla chiesa cui era destinato), dove ritroviamo anche simili fisionomie dolenti, con la bocca dischiusa in un prolungato lamento e lunghi capelli filamentosi, come pure un’identica concezione del panneggio, con l’andamento diagonale percorso da fitte pieghe tesissime. Stilemi così peculiari e ricorrenti nell’attività matura del Mochi - ad esempio nei Santi Pietro e Paolo scolpiti per San Paolo fuori le Mura (oggi nel Museo di Roma) o nello scattante, burbero San Matteo del Duomo di Orvieto, eseguito tra il 1631 e il 1644 (Museo dell’Opera del Duomo in Sant’Agostino) - da poter prospettare, in assenza di attestazioni relative ad una simile produzione autografa, un modello del maestro tradotto da qualche abile specialista nell’intaglio del bosso.

G.G.

Stima   € 7.000 / 10.000
65

Cerchia di Giovanni Marigliano, detto Giovanni da Nola

(Nola 1488 circa - Napoli 1558)

RE MAGIO (MELCHIORRE?)

statua in legno dipinto e dorato, cm 116x40x44

 

Bibliografia di riferimento

L. Gaeta, Sulla formazione di Giovanni da Nola e altre questioni di scultura lignea del primo ‘500, in “Dialoghi di Storia dell’Arte”, 1, 1995, pp. 70-103;

Giovanni da Nola, Annibale Caccavello, Giovan Domenico d’Auria. Sculture ‘ritrovate’ tra Napoli e Terra di Lavoro 1545-1565, a cura di R. Naldi, Napoli 2007

 

La bella testa dai tratti maturi che esprimono nobiltà e saggezza, l’incedere lento, riverente, leggermente incurvato verso il basso come nell’atto di offrire un dono con la mano destra dischiusa, la fulgida, preziosa cromia delle vesti, con la tunica interamente dorata e il mantello argentato, i calzari a stivale adatti a un lungo viaggio, ci consentono di identificare questa notevole statua lignea con uno dei tre re Magi (ovvero sapienti) venuti d’Oriente per salutare e omaggiare la nascita di Gesù “re dei Giudei” (nello specifico quello di mezza età, perlopiù ritenuto il persiano Melchiorre menzionato nel Vangelo dell’infanzia Armeno), e quindi di ricondurla ad uno smembrato gruppo presepiale raffigurante la Natività con l’Adorazione dei Magi.

Tali affollati Presepi a figure mobili, grandi al vero o poco meno, in legno dipinto con suntuosi motivi tessili, furono particolarmente diffusi nell’arte napoletana del Rinascimento, cui rimandano sia la raffinata decorazione graffita a ‘estofado’, ancora ben conservata nelle bordure, nel risvolto del mantello e nella cintura - una tecnica di ascendenza iberica oggi rivalutata da un’ampia letteratura critica -, sia gli aspetti formali, che trovano significativi riscontri soprattutto nelle opere di Giovanni da Nola, protagonista della scultura partenopea della prima metà del Cinquecento, in marmo e in legno (F. Abbate, La scultura napoletana del Cinquecento, Roma 1992, pp. 181-258).

Formatosi nella bottega dell’intagliatore lombardo Pietro Belverte, apprezzato proprio per i gruppi presepiali dipinti a ‘estofado’ (Presepe Carafa, Napoli, San Domenico Maggiore, 1507), il giovane Nolano si distinse nei suoi primi anni per una cospicua produzione di sculture lignee (Compianto, Teggiano, Chiesa della SS. Pietà, 1510-12; San Sebastiano, Nocera Inferiore, Convento di Sant’Antonio, 1514; Ancona di Sant’Eustachio, Napoli, Santa Maria la Nova, 1516-17 ca.: Gaeta, op. cit.; R. Naldi, Giovanni da Nola tra il 1514 e il 1516, in “Prospettiva”, 77, 1995, pp. 84-100). Un successo, ben attestato dal Presepe commissionatogli dal Sannazzaro per la chiesetta di Santa Maria del Parto a Margellina, eseguito con l’intervento di collaboratori tra il 1519 e il 1524 (composto in origine da quattordici statue oggi ridotte a cinque), che dovette indurre la bottega di Giovanni da Nola ad impegnarsi nella scultura lignea anche negli anni successivi, quando il marmo era ormai la materia privilegiata. Lo suggeriscono la Vergine e il San Giuseppe oggi nel Museo di San Martino - immagini utilmente confrontabili con quella che qui si presenta, come mi segnala Riccardo Naldi -, provenienti da un Presepe ad altorilievo già in San Giuseppe dei Falegnami, per i quali è stata proposta una cronologia verso il 1530 (F. Bologna, in Sculture lignee nella Campania, catalogo della mostra, Napoli, Palazzo Reale, a cura di F. Bologna e R. Causa, Napoli 1950, pp. 178-179 n. 77), o anche una figura virile in adorazione (San Giuseppe o Un pastore) di collezione privata databile al tempo dell’Altare Ligorio in Sant’Anna dei Lombardi, scolpito tra il 1528 e il 1532 (R. Naldi, in Vetera et nova, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2005, pp. 86-93 n. 6).

In effetti, nell’opera in esame, il movimento trattenuto che conferisce alla statua una postura ingobbita rimarcando la flessione delle ginocchia e lo sviluppo snodato della gamba in primo piano, l’acuta definizione anatomica e l’articolazione prensile delle mani, il complesso andamento del panneggio che s’increspa in un dedalo di pieghe morbidamente acciaccate per poi ricadere in nette falde lamellari, risultano peculiarità formali ricorrenti in particolar modo nei lavori in marmo della maturità di Giovanni da Nola - ad esempio, le ritroviamo nel San Matteo dell’Altare Arcella in San Domenico Maggiore, datato 1536, o nella Deposizione Giustiniani di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli -, mentre meno stringenti appaiono i riscontri per la testa, più tersa e composta. Dunque, non essendo noti lavori in legno direttamente ascrivibili al maestro in questi ultimi decenni e considerando la consistente compartecipazione di Annibale Caccavello e Gian Domenico d’Auria alle sue ultime imprese (Giovanni da Nola, op. cit.), sembra opportuno in questa sede una certa prudenza attributiva, che, d’altra parte, non ci esime dal riconoscere al nostro Re magio una intensità espressiva e una qualità d’intaglio difficilmente compatibili con i modi, spesso più grevi, enfatici e impacciati, dei due ben noti collaboratori e seguaci del Nolano.

 

G.G.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
108

Clemente Alberi

(Bologna 1803 - Bologna 1864)

RITRATTO DEL DOTTOR GIUSEPPE MAZZACORATI

olio su tela, cm 89x66

firmato e datato "1838" in basso a sinistra

 

Il dipinto che qui presentiamo raffigura uno degli uomini illustri della Bologna dell'800.

Giuseppe Gaetano Mazzacorati, nato a Bologna nel 1803, laureato in Giurisprudenza, fu fondatore della Banca Agricola, e fino al 1859, rappresentante dell'Impresa dei Lotti pontifici. Come latifondista partecipò alla prima Esposizione nazionale organizzata a Firenze nel 1861 presentando campioni di riso cinese e novarese.

Assieme al padre, è schedato nel Libro dei compromessi nella rivoluzione del '31, perché "si pronunciò molto trasportato pel liberalismo in entrambe le epoche, in favore del quale spese assai. Somministrò sussidi a chi si dimostrò esaltato liberale, e che fosse bisognoso. Istigò al partito rivoluzionario, disse infamità contro il Governo, e si dichiarò uno dei nemici dei preti. Ora apparisce moderato, ma non lo è". Nel 1847 fu creato nobile di Bologna, e nel 1877 affrancò il canone feudale in favore del Regio Demanio nazionale, succeduto alla Camera dei Tributi in Roma, per conservare il pieno diritto al titolo di marchese della Massetta e ville di Pagno, Rivo e Casalecchio nel Montefeltro, di cui era stato investito suo padre Giovanni. Si ricorda che il primo maggio 1860, in occasione della visita del re Vittorio Emanuele II a Bologna, Giuseppe Mazzacorati aspettò il Re, proveniente dalla Toscana, ai piedi della sua villa fuori porta Santo Stefano. Accogliendolo sulla sua carrozza scoperta, lo accompagnò per l'ultimo tratto di strada fino alla porta, e poi per via Santo Stefano, Cartoleria Nuova (ora via Guerrazzi), Strada Maggiore, Mercato di Mezzo (via Rizzoli), e piazza del Nettuno fino a San Petronio. Al termine della visita, il Re decorò Giuseppe con una medaglia di benemerenza in bronzo, per avere, in qualità di soldato della Guardia Nazionale a cavallo, prestato al sovrano un servizio d’onore "in guisa da meritarsi tutta la sua soddisfazione". Morì a 83 anni il 27 maggio 1887, per "pneumonite esaurimento vitale".

 È quindi comprensibile come il Mazzacorati abbia affidato l'esecuzione del proprio ritratto all'Alberi, pittore riconosciuto come il miglior ritrattista in Bologna.

Stima   € 3.000 / 5.000
24

Da Andrea Guardi

(Firenze, 1405 circa - Pisa, 1476)

MADONNA COL BAMBINO (DEL TIPO DETTOMADONNA DELL’ACCOGLIENZA”)

bassorilievo in marmo, cm 50x36x5,5

 

Bibliografia di riferimento

A. Jolly, Madonnas by Donatello and his circle, Frankfurt am Main 1998, pp. 147-153 n. 44;

G. Donati, Andrea Guardi. Uno scultore di costa nell’Italia del Quattrocento, Pisa 2015

 

 

L’inedito rilievo testimonia un’originale interpretazione, sfuggita alla critica, di un celebre, fortunato modello compositivo donatelliano conosciuto attraverso varie redazioni in bronzo, stucco, terracotta e marmo, denominato Madonna “sotto un arco” per il singolare inquadramento architettonico in scorcio prospettico che caratterizza le versioni più antiche - in altre, come qui, trasformato in una nicchia  -, o più propriamente “Madonna dell’accoglienza” per il gesto benevolo della Vergine rivolto ai fedeli, simile a quello adottato nella statua di Santa Giustina realizzata da Donatello verso il 1450 per l’Altare del Santo nella basilica di Sant’Antonio a Padova (F. Negri Arnoldi, Bellano e Bertoldo nella bottega di Donatello, in “Prospettiva”, 33-36, 1983-84, pp. 93-101; A. Luchs, in Donatello e i Suoi. Scultura fiorentina del primo Rinascimento, catalogo della mostra, Firenze, Forte di Belvedere, a cura di A.P. Darr e G. Bonsanti, Milano - Firenze 1986, pp. 166-167, n. 51; Jolly, op. cit.).

L’esemplare più noto e raffinato di questa tipologia, che si ritiene elaborata da Donatello intorno al 1430, è la placchetta in bronzo dorato della National Gallery of Art di Washington, talora considerata autografa o più spesso di un allievo impegnato nella bottega padovana (chiamando in causa anche Bertoldo), della quale esistono numerose repliche in bronzo (Berlino, Bode-Museum; Londra, Wallace Collection; etc.) e calchi in terracotta (Berlino, Bode-Museum; Parigi, Musée du Louvre) o stucco dipinto (Londra, Victoria and Albert Museum; Budapest, Museums der Bildenden Künste; etc.), che attestano l’ampia diffusione del modello, così come un disegno riferito alla cerchia di Pisanello (Chantilly, Musée Condé) e, con qualche variante, un dipinto attribuito a Giorgio Schiavone (già Roma, Christie’s, 1973). Inoltre se ne conoscono alcune più libere versioni marmoree eseguite da scultori diversi della cerchia donatelliana, in Santa Maria delle Nevi a Sinalunga, in Santa Maria Assunta di Orbignano presso Lamporecchio (Pistoia) - immagini tuttora oggetto di una viva devozione -, nel Museo Cristiano in Vaticano e nel Camposanto di Pisa (ora esposta nel Museo Nazionale di San Matteo), entrambe col Bambino riproposto in controparte. Rilievi ai quali possiamo aggiungere il monumentale tabernacolo della Rocca di Brancaleone a Ravenna, finora trascurato dalla pur vasta letteratura sull’argomento, forse scolpito, come suggerisce un’iscrizione, dal veneziano Marino di Marco Cedrini verso il 1460.

Il marmo pisano è ormai da tempo concordemente riferito ad Andrea Guardi (Andrea di Francesco di Guardi da Firenze), scultore formatosi nella bottega di Donatello collaborando verso il 1428 al sepolcro Brancaccio scolpito a Pisa per la chiesa napoletana di Sant’Angelo a Nilo - dove forse intervenne nella Madonna col Bambino, caratterizzata proprio dal medesimo gesto di “accoglienza” -, ed in seguito attivo con successo lungo la costa tirrenica, a Napoli, Noto, Pisa, Carrara, Genova, Piombino (Donati, op. cit.). E allo stesso Guardi, che adottò spunti della Madonna dell’accoglienza donatelliana anche nella lunetta della porta di San Ranieri nella Cattedrale di Pisa, sono dunque agevolmente riconducibili sia la Madonna di Orbignano, già attribuita in modo dubitativo al Bellano, sia l’immagine in esame: opere accumunate dalla fisonomia robusta della Vergine, dai tratti pingui del Bambino, dalla gestualità un po’ impacciata delle figure, dalla stretta nicchia che le accoglie, dai fogliami d’impronta gotica inseriti nei pennacchi dell’arco, dalle aureole scanalate e da molti altri stilemi ricorrenti nei rilievi mariani di questo maestro, come, ad esempio, la Madonna in adorazione del Bambino del Bode-Museum di Berlino.

Del resto il rilievo che qui si presenta replica un marmo di analoghe dimensioni (cm 50 x 34 ca.) transitato anch’esso sul mercato antiquario come opera del Guardi (Monroe, Fairfield Auction, 16 novembre 2014, lotto 223), assai di recente e pertanto non ancora recepito dalla bibliografia sullo scultore, rispetto al quale rivela qualche variante plastica - nel volto della Vergine, nella nicchia o nel panno intorno ai fianchi del Bambino - che fa pensare ad un’esecuzione seriore, forse ad opera di un collaboratore della prolifica bottega pisana del maestro.

 

G.G.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
50

Domenico Mioni, detto Domenico da Tolmezzo

(Canale di Gorto 1448 - Udine 1507)

SAN GIACOMO MAGGIORE

statua in legno dipinto e dorato, cm 111x30x23

 

Bibliografia

M. Vezzosi, Domenico da Tolmezzo. Il ritorno di un santo pellegrino, Firenze 2011

 

Questa importante scultura lignea, che s’impone con ieratica potenza espressiva, raffigura l’apostolo Giacomo detto ‘il Maggiore’, restituendone nel volto accigliato l’indole focosa e intransigente, in atto di sorreggersi con il bastone da pellegrino, principale attributo iconografico, come fosse sul punto d’intraprendere il suo lungo viaggio per predicare il vangelo, esibito sul fianco, durante il quale avrebbe raggiunto la Spagna, dove, come è noto, il suo corpo si venera nel celebre santuario di Compostela in Galizia (denominato Santiago dal nome del santo), meta sin dal Medioevo di assidui pellegrinaggi.

L’opera è stata presentata nel 2011 dallo stesso Massimo Vezzosi (op. cit.), con una pubblicazione monografica di ineccepibile rigore scientifico cui si rimanda per una disamina più esaustiva, e riferita con riscontri puntuali a Domenico da Tolmezzo, protagonista indiscusso della felice stagione della scultura lignea in Friuli, responsabile di grandiose, affollate ancone dove la tradizione lagunare dei polittici tardogotici fiammeggianti - ancora richiesti dalla committenza locale - si coniuga con un più moderno vigore plastico e prospettico di sentore rinascimentale nonché pittore di talento aggiornato sugli esiti della cultura figurativa veneta e mantegnesca, conosciuta durante un probabile soggiorno a Venezia tra il 1469 e il 1475 (G. Marchetti, Domenico da Tolmezzo scultore, Udine 1962; G. Nicoletti, Domenico da Tolmezzo, Udine 1969; Mostra della scultura lignea in Friuli, Udine, Villa Manin di Passarano, a cura di A. Rizzi, Udine 1983).

Tra i riscontri attributivi più calzanti si segnalano le immagini del medesimo santo inserite nelle monumentali ancone lignee di San Pietro a Zuglio, eseguita tra il 1481 e il 1483 (il San Giacomo, trafugato insieme alle altre statue nel 1981, è tra le cinque recuperate ed esposte dal 2017 nel Civico Museo Archeologico di Zuglio), e della Parrocchiale di Forni di Sopra, databile sul 1500: figure quasi sovrapponibili a quella in esame nella caratterizzazione fisionomica, nella foggia e nell’andamento del mantello (pure interamente dorato), sollevato intorno all’avambraccio destro in modo da creare una profonda ansa sul ventre e una ricaduta a ventaglio lungo il fianco, o nella robusta articolazione delle mani nocchiute. Ineccepibile è anche la datazione proposta, intermedia alle due citate ancone, in prossimità della statua della Trinità conservata nella chiesa della Santissima a Coltura di Polcenigo, firmata e datata 1494, dove ritroviamo una medesima concentrazione formale, nei penetranti tratti del volto e nell’articolazione spigolosa del panneggio.

Possibile che, per le sue notevoli dimensioni, la statua si trovasse in origine al centro di una simile ancona dedicata proprio a San Giacomo, protettore dei pellegrini e quindi oggetto di particolare devozione in un territorio traversato dai perigliosi valichi alpini e dalle importanti vie di comunicazione con la Germania e l’Europa dell’Est; e dunque che attraverso adeguate ricognizioni della cospicua documentazione d’archivio su Domenico da Tolmezzo e sull’arte del legno in Friuli - un patrimonio oggetto di consistenti dispersioni -, possano emergere maggiori certezze sull’ubicazione originaria e magari la commissione dell’opera.

 

G.G.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
61
Valerio Castello
(Genova, 1624 - 1659)
 CROCIFISSIONE TRA I DOLENTI
olio su tela, cm 130x97,5

L’inedito dipinto qui offerto costituisce un’interessante aggiunta al catalogo di Valerio Castello, ancora aperto a inattese scoperte soprattutto per quanto riguarda la prima attività dell’artista genovese. La nostra tela si iscrive appunto negli anni che appena precedono la metà del secolo, come indica il confronto con due opere di uguale soggetto da tempo note agli studi sul pittore. Si tratta della teletta in collezione Koelliker, possibile abbozzo per una composizione più ampia (A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento, Torino 2006, pp. 122-25) e di un’altra tela in collezione privata che si accosta alla nostra in maniera ancora più puntuale. Entrambe sono pubblicate da Camillo Manzitti (Valerio Castello, Torino 2004, p. 90, n. 28; p. 100, n. 43, rispettivamente). È appunto questa seconda Crocefissione, in cui tuttora persiste il famosissimo modello di Antonio van Dyck, a offrire precisi confronti con la nostra che ne ripete gli angeli piangenti tra le nubi temporalesche e, con qualche variante, il paesaggio sullo sfondo tanto da porsi come possibile ulteriore sviluppo di quella invenzione, peraltro di minori dimensioni (cm 39,5x31,5). La principale novità riguarda le figure dei dolenti che nel nostro dipinto emergono dall’ombra quasi posassero sullo stesso piano dello spettatore e, in primo piano, richiamano anche sotto il profilo cromatico gli angeli all’estremo opposto della diagonale. L’intenso patetismo della Vergine, possibile rilettura dei modelli correggeschi ricordati da Anna Orlando in relazione alla versione Koelliker, dove un diverso gruppo di dolenti appare appena abbozzato, ritorna altresì nella Madonna Assunta di raccolta privata (Manzitti 2004, cit., p. 100, n. 42) databile anch’essa poco prima della metà del secolo.
Stima   € 10.000 / 15.000
62
Stima   € 6.000 / 8.000
114
Luigi Basiletti
(Brescia 1780 - Brescia 1859)
RITRATTO DI DUE FANCIULLI
olio su tela, cm 61x47,5

Pittore e incisore notevole, buon architetto e valente archeologo, Basiletti nasce a Brescia dove esercitò primariamente la sua attività anche d'intenditore d'arte e restauratore di dipinti e dove fu socio dell'Ateneo bresciano nel 1810, membro dell'Accademia di S. Luca nel 1814, dell'Accademia di Brera nel 1828 e anche censore dell'Ateneo di Brescia dal 1816 al 1844.
Dopo aver fatto i primi studi di pittura presso Sante Cattaneo a Brescia, passò all'Accademia di Bologna, ove vinse un concorso, e quindi nel 1806 a Roma ove si fermò vari anni. Oltre che a qualche pala d'altare (Angelo custode nel Duomo di Brescia, 1811), a qualche quadro storico o mitologico (Niobe nella Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia; Ferimento di Baiardo, Ateneo di Brescia, 1826) e ad affreschi decorativi (lunette nel salone dell'Ateneo bresciano, sale in palazzo Martinengo), il suo nome è legato a ottimi ritratti: da quello giovanile del Canova nell'Ateneo a quello della famiglia Balucanti Cigola del 1812 presso i conti Fenaroli di Brescia, a quello del poeta Cesare Arici che gli dedicò la sua Brescia romana, a quello, più tardo, del conte Tosio.
La sua maggior fama pittorica è tuttavia dovuta giustamente a vedute e paesaggi (Lago d'Iseo, Tempio della Sibilla, Pozzuoli, Ischia nella Pinacoteca Tosio Martinengo; l'Aniene a Tivoli nella Galleria d'Arte Moderna di Milano; Campagna bresciana nella raccolta Calini di Brescia), tra i più notevoli e vivi del tempo, ricchi d'atmosfera, delicatissimi di colore nonostante il rigore del precisissimo segno neoclassico. Della sua vasta opera di paesaggista e ritrattista, conservata presso le vecchie famiglie di Brescia, pochi pezzi sono oggi noti e accessibili.
L'artista può essere giudicato forse meglio e più compiutamente dai suoi Ricordi di viaggio (quattro album di disegni di 245 fogli complessivi, una cartella di 175 fogli sciolti e 13 grandi disegni isolati) esistenti presso la Pinacoteca Tosio Martinengo. Assistette per lunghi anni il conte Tosio nella formazione della sua pinacoteca e come dilettante di architettura intervenne spesso nei problemi edilizi cittadini risolvendo, tra l'altro, prima del 1820, i dispareri sull'ornamento della cupola del Cagnola nel duomo nuovo di Brescia e, tra il 1820 e il 1823, approntando, in collaborazione con l'architetto A. Vita, i disegni per il Mercato del Grano di Brescia, insigne fabbrica neoclassica.
Stima   € 4.500 / 6.500
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