Da una collezione Milanese e da altre proprieta' private

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Giuseppe Bernardino Bison

€ 40.000 / 60.000
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Giuseppe Bernardino Bison
(Palmanova Del Friuli 1762 - Milano 1844)
IL CORO DEI CAPPUCCINI
olio su tela, cm 67,5x49
sul retro del telaio bollo in ceralacca
 
Provenienza: collezione Ingegner Raffaele Tosoni, Milano;
collezione Arturo Spender, Venezia;
collezione privata, Milano
 
Bibliografia: C. Piperata, Il pittore Giuseppe Bernardino Bison da Palmanova, "La Panarie", XIII, 74, maggio-giugno, 1937, pp. 173-181, cit. p. 179; G. Fiocco, Giovanni Antonio Pordenone, Pordenone 1939, fig.104; C. Piperata, Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844), Padova 1940, pp. 45, 63, 66 n.19, fig. 26; G. C. Argan, C. Piperata, Giuseppe Bernardino Bison/ Recensione, "Le Arti", II, 1941, p. 379; P. Damiani, Giuseppe Bernardino Bison, Udine 1962, p. 37; F. Magani, Giuseppe Bernardino Bison, Soncino (Cr) 1993, p.34; F. Magani, Giuseppe Bernardino Bison pittore e disegnatore, in Giuseppe Bernardino Bison pittore e disegnatore, catalogo della mostra di Udine a cura di G. Bergamini-F. Magani-G. Pavanello, Milano 1997, pp. 33-66, cit. p. 59, fig. 28 p. 62; G. Pavanello, A. Craievich, D. D'Anza, Giuseppe Bernardino Bison, Trieste 2012, p. 261, n.414
 
Pubblicato per la prima volta alla fine degli Trenta del secolo scorso, il dipinto qui presentato ha goduto del duplice interesse degli specialisti di Bernardino Bison e di quelli di Giovanni Antonio da Pordenone che, su versanti diversi, se ne sono occupati senza avere però l’opportunità di esaminarlo direttamente.
Priva di fondamento è infatti la notizia riportata dal Damiani circa la firma e la data del 1831 che sarebbero apposte al dipinto: un’indicazione cronologica comunque non lontana dal vero dal momento che, come già suggerito da Carolina Piperata nella prima, fondamentale, monografia sull’artista, è possibile riconoscere la nostra tela nel “Coro dei Cappuccini” pagato al Bison il 13 agosto del 1832 dal suo mecenate-agente milanese, l’Ingegnere Raffaele Tosoni. Un pagamento ulteriore del gennaio 1833 si riferisce, oltre che a due vedute del Duomo di Milano dipinte a tempera, ad “alcune aggiunte al Coro dei Cappuccini”: forse un arricchimento delle spiritose “macchiette” che ne animano il primo piano.
Il dipinto si iscrive dunque, con certezza assai rara nel corpus del pittore veneziano, nel primo tempo del suo soggiorno a Milano, dove il Bison si era appunto trasferito nel 1831 dopo aver trascorso a Trieste circa un quarto di secolo. A Milano sarà appunto il Tosoni a sostenere e indirizzare la sua attività, finanziando la sua presenza alle esposizioni pubbliche e acquistando gran parte della sua produzione, come documenta il lungo elenco delle opere pagate al pittore e in parte rivendute tra il 1833 e il 1844 (Piperata 1940, pp. 63-65). Tra queste, le numerose vedute di Venezia e Milano, molte delle quali dedicate al Duomo e ad altre chiese, con cui l’artista si adeguava al gusto “Grand Tour” coltivato in quegli anni anche da Giuseppe Migliara. Tra queste, l’Interno di S. Maria in Passione, probabilmente eseguito per Tosoni nel 1836, documenta assai bene il suo operare a metà tra l’osservazione del vero e la sua trasfigurazione fantastica, nella dilatazione scenografica dello spazio della navata e nell’invenzione del suo apparato decorativo, che risulta di pura fantasia con la sola eccezione della cinquecentesca pala d’altare, tuttora conservata:
un metodo probabilmente utilizzato anche nel nostro dipinto, in cui non è dato ravvisare un luogo certo o dipinti realmente esistiti.
Nel commentarlo sotto questo profilo, il Fiocco proponeva di riconoscere nel polittico appeso al centro del coro (in una situazione peraltro improbabile, data la curva della parete absidale) un’opera perduta del Pordenone vicina per struttura e iconografia al polittico, distrutto o mai eseguito, documentato da un disegno allora a Vienna in collezione Lederer.
Sostenendo l’aderenza al vero della veduta di Bison, vero e proprio documento di un’opera perduta e di una chiesa probabilmente distrutta, Fiocco supponeva altresì che gli affreschi che, nel nostro dipinto, ornano il catino absidale fossero opera dello stesso Bison, e anzi occasione stessa dell’incontro col maestro friulano. Resta il fatto però che non resta traccia di opere del Pordenone appartenenti a quell’ipotetico insieme, né un polittico così complesso ed articolato anche sotto il profilo iconografico risulta documentato nel ricchissimo regesto di documenti pubblicato dalla Furlan, ove non si riscontrano peraltro possibili coincidenze con i luoghi ove fu attivo Bison.
Si può dunque supporre che quest’ultimo abbia operato una sorta di contaminazione tra opere diverse del Pordenone (ma forse anche del Romanino, senz’altro visto a Brescia nel 1831?) quali ad esempio il polittico nella parrocchiale di Varmo, la pala in San Leonardo a Moriago, e quella nella chiesa di Torre di Pordenone (con cui il nostro dipinto è stato impropriamente identificato). In altre parole, anche in quest’opera a metà tra la veduta dal vero e la scena di genere Bison si conferma osservatore insaziabile e onnivoro della pittura del passato, in grado soprattutto di restituirle freschezza e vitalità rendendola assolutamente contemporanea.