A CENTURY BETWEEN COLLECTING AND ART DEALING IN FLORENCE

19 OCTOBER 2016

A CENTURY BETWEEN COLLECTING AND ART DEALING IN FLORENCE

Auction, 0190
FLORENCE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
5.30pm
Viewing

FLORENCE
14 -18 October 2016  10am – 1pm / 2pm – 7pm 
19 Octobre 2016  10am/1pm
Palazzo Ramirez-Montalvo Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Estimate   800 € - 180000 €

All categories

1 - 30  of 120
26

Agostino Tassi

(Roma 1578-1644)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA CON LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

olio su tela, cm 69x90

 

 

L’inedito dipinto qui offerto propone una formula compositiva più volte sperimentata da Agostino Tassi tra la metà del secondo decennio del Seicento e i primi anni Venti. Numerose sono infatti le tele restituitegli da Patrizia Cavazzini, che a più riprese si è dedicata al catalogo e alla cronologia del pittore romano, in cui un colonnato in ombra costituisce il proscenio di un più ampio spazio teatrale composto da edifici classicheggianti accarezzati dalla luce e paralleli al piano del dipinto.

Una soluzione che ritroviamo ad esempio nell’Imbarco della Regina di Saba in collezione privata a Roma, che la Cavazzini riferisce al 1617 (Agostino Tassi 1578-1644. Un paesaggista tra immaginario e realtà. Catalogo della mostra, Roma 2008, pp. 178-79, n. 6) e ancora nel dipinto ovale di uguale soggetto nella collezione Busiri Vici (ibidem, p. 67, fig. 75) databile nel 1621-22, e di nuovo ulteriormente amplificato in una tela a Nantes, Musée des Beaux Arts (ibidem, p. 70, fig. 80), del 1628.

Di particolare interesse, nel dipinto qui presentato, il riferimento al palazzo disegnato da Michelangelo sulla piazza del Campidoglio, fonte evidente per l’edificio rinascimentale con porticato che vediamo in secondo piano, mentre il doppio ordine di colonne sullo sfondo potrebbe alludere a un’architettura romana come a una ideazione palladiana.

Il primo piano e, in misura minore, quello intermedio costituiscono lo spazio scenico su cui agiscono le figurine spiritate dei soldati e delle madri in fuga: un soggetto non troppo frequentato da Agostino Tassi quanto invece comune, sebbene con accenti diversi, tra i suoi contemporanei. Le proporzioni allungate delle figure, i loro gesti concitati e i colori brillanti trovano riscontro però in molte opere di Agostino, e suggeriscono di collocare il nostro dipinto nella prima metà degli anni Venti.

 

Estimate   € 8.000 / 12.000
108

Alessio Pellegrini

(Camerino, documentato 1636-1677)

SANTO IN MEDITAZIONE SUL CROCIFISSO

terracotta, cm 37x28,5

 

 


 

Bibliografia di riferimento

M. Mazzalupi, Il fornaio di Petrignano, in La Crocifissione di Petrignano: storia e restauro di una tela del Seicento romano, Pievebovigliana 2009, p. 25 n. 8;

C. Giometti, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, 4, Scultura in terracotta, Roma 2011, pp. 67-68 catt. 49-57;

A. Bacchi, scheda in A Taste for Sculpture: marble, terracotta and ivory, London 2014, pp. 40-43 schede 7-8

 

Quest’ovale in terracotta raffigurante un santo penitente entro una cornice decorativa a motivi floreali è immediatamente accostabile alla serie di nove ovali del tutto simili oggi al Museo Nazionale di Palazzo Venezia. Cinque di essi sono firmati e variamente datati (tra il 1669 e il 1671) da Alessio Pellegrini, uno soltanto (Santa Rosa da Lima) è invece firmato da Bonaventura Pellegrini, mentre tre (tra cui San Filippo Neri) sono privi di iscrizioni. Altri due ovali, di dimensioni pressoché identiche, raffiguranti Santi vescovi, sono di recente venuti alla luce, e sebbene anch’essi privi di firma, il riferimento a Pellegrini sembra quasi ovvio. Come pure per l’esemplare qui presente, sia per la cornice a fiori (anche gli altri hanno cornici simili, ma sempre diverse), che per l’elemento decorativo in basso, una cartouche affiancata da due alette, confrontabile con quello che chiude, nella stessa posizione, l’ovale della Santa Rosa da Lima di Palazzo Venezia, o con quelli, invece in alto, dei due Santi vescovi resi noti solo recentemente.

Su Alessio Pellegrini sappiamo ancora poco, documentato soprattutto come stuccatore, attivo tra Urbino e Fano. Stilisticamente la sua produzione in stucco presenta a volte degli accenti di irrequietezza del tutto assenti nella serie di santi in terracotta a cui è da ricondurre questo ovale.

 

A.B.

 

Estimate   € 1.000 / 1.500
Price realized  Registration
60

Anton Maria Maragliano

(Genova 1664-1739)

VISIONE DI GESÙ BAMBINO DI SANT’ANTONIO DA PADOVA

legno scolpito, dipinto e dorato, cm 57x43x40

 

Bibliografia

D. Sanguineti, Il Paradiso secondo Maragliano in cinque macchine processionali, in F. Cervini, D. Sanguineti (a cura di), Han tutta l’aria di Paradiso. Gruppi processionali di Anton Maria Maragliano tra Genova e Ovada, Torino 2005, pp. 29-30;

D. Sanguineti, scheda in Anton Maria Maragliano: bozzetti e piccole sculture, cat della mostra, Imperia Porto Maurizio, Museo del Presepe, Genova 2010, pp. 72-73, cat. 12

 

Questo gruppo è senz’altro riferibile all’ambito produttivo del grande scultore genovese Anton Maria Maragliano, intagliatore in legno estremamente prolifico, attivo per oltre mezzo secolo nel capoluogo ligure. Come ha scritto a proposito dei suoi gruppi Antonia Nava Cellini (La scultura del Settecento, Torino 1982, p. 153): “si tratta di scene che emulano schemi compositivi di pale dipinte, con l’apparizione divina che occupa, di lato, la collocazione più alta e si lega agli altri personaggi per mezzo di linee divergenti, di panneggi volanti e figure d’accompagno, soprattutto angeli e cherubini; ma l’isolamento delle forme nello spazio e la loro vera presenza tridimensionale cambia il significato della rappresentazione, anche perché la rende mutevole e godibile da più punti di vista.”

Un confronto, anche a livello iconografico, piuttosto stringente è offerto dal grande gruppo (alt. cm. 140) della Madonna con Gesù Bambino e sant’Antonio da Padova nella chiesa di Santa Caterina a Rossiglione Superiore (Genova), opera documentata dall’atto di commissione del 30 marzo 1737, nella quale il santo si accosta, proprio come nel presente pezzo, ad un inginocchiatoio. La grande “cassa” del 1739 è stata in realtà riferita dalla critica ad un valido aiuto di bottega di Antonio Maria, forse il nipote Giovanni Maragliano (D. Sanguineti, Anton Maria Maragliano 1664 – 1739 “Insignis sculptor Genue”, Genova 2013, pp. 387-388 cat. III.11).

L’opera, per le sue dimensioni, non poteva che essere un prezioso oggetto di devozione privata, quasi una riduzione miniaturistica della grandiose macchine barocche approntate da Maragliano nella Liguria a cavallo tra Sei e Settecento.

 

A.B.

 

 

Estimate   € 18.000 / 25.000
22

Attribuito ad Agostino Beltrano

(Napoli 1607-1656)

GIACOBBE LOTTA CON L’ANGELO; IL SOGNO DI GIACOBBE

olio su tela, cm 113x153

 

 

 

Inedito e fino ad oggi poco studiato, il dipinto qui offerto appare attribuibile ad Agostino Beltrano in virtù dei numerosi confronti con opere firmate e spesso datate dell’artista napoletano, peraltro quasi esclusivamente dedito, ai fini della committenza privata, alla raffigurazione di episodi dell’Antico Testamento ambientati nel paesaggio. Innegabile, a questo proposito, il legame con il paesismo romantico e scapigliato di Micco Spadaro che vediamo caratterizzare il nostro dipinto e ritroviamo ad esempio, con analoga partizione spaziale, nella coppia di storie vetero-testamentarie del Beltrano esposte alla mostra Civiltà del Seicento a Napoli (Napoli 1984, nn. 2.10 a-b, alle pagine 194-95 del catalogo).

Nella prima di esse, come nel caso del dipinto qui offerto, una quinta rocciosa isola in primo piano la figura di Mosè, in atto di accogliere le tavole della Legge; fronde luminose e disordinate introducono allo sfondo dove figurine di proporzioni minori inscenano l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro.

Non diversamente, altre opere firmate degli anni Quaranta propongono in primo piano figure di proporzioni monumentali anche se di non grande formato, sottolineate nella posa e nei gesti da ampi panneggi in cui ricorrono costantemente le tonalità del rosso acceso e del giallo dorato: le stesse che nel nostro dipinto caratterizzano le figure di Giacobbe e del suo avversario celeste. Particolarmente raffinata, nel dipinto qui offerto, è appunto la gamma cromatica che anche nelle figure dello sfondo trapassa dai grigi rosati al giallo oro.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
Price realized  Registration
61

Bartolomeo Mazzuoli

(Siena 1674 – 1749)

VISIONE DEL BEATO AMBROGIO SANSEDONI

terracotta, cm 43x32

 

Bibliografia

U. Schlegel, Some Statuettes by Giuseppe Mazzuoli, in “The Burlington Magazine”, CIX, 1967, p. 392 n. 23

 

Questo rilievo in terracotta è stato pubblicato da Ursula Schlegel come una replica di mano di Bartolomeo Mazzuoli dalla pala marmorea raffigurante lo stesso soggetto, eseguita per la cappella di Palazzo Sansedoni a Siena dallo zio di questi, Giuseppe. Il bassorilievo senese, eseguito secondo Lione Pascoli quando l’artista era a Roma (L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti moderni, 2 voll., Roma 1730-1736, ed. Perugia 1992, pp. 932 e 939-940, nota 15), e compiuto certamente entro il 1694, data che compare in un’incisione di Arnold van Westerhouts che lo riproduce, sembra essere stato condotto con interventi di bottega: l’angelo in basso a sinistra, con il libro ed il giglio, e i due cherubini in alto a destra, non possono essere ascrivibili a Giuseppe (G. Gentilini, in Collezione Chigi Saracini – La scultura – Bozzetti in terracotta, piccoli marmi e altre sculture dal XIV al XX secolo, catalogo a cura di G. Gentilini e C. Sisi, Siena 1989, II, p. 293, cat. 78). Per l’angelo in basso, in particolare, si conserva un bozzetto autografo di qualità molto superiore al marmo poi scolpito (F. Pansecchi, Contributi a Giuseppe Mazzuoli, in “Commentari”, X, 1959, p. 40). È importante, allora, notare come nella presente terracotta manchino sia quell’angelo sia i cherubini in alto a destra (quella parte del rilievo, peraltro, reca evidenti segni di restauro, Schlegel, op. cit.): Bartolomeo Mazzuoli si sarebbe quindi ispirato non tanto al bassorilievo in marmo quanto a un primo bozzetto autografo di Giuseppe, forse privo di quei particolari (sulla difficile distinzione, in alcuni casi, delle mani di Giuseppe e del nipote Bartolomeo, cfr. da ultimo anche C. Sisi, scheda in La collezione Chigi Saracini di Siena. Per una storia del collezionismo italiano, cat. della mostra, Mantova, Palazzo Te, Firenze 2000, p. 70)

 

A.B.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
38

Bernardo Cavallino

(Napoli 1616-1656)

CRISTO E L’ADULTERA

olio su tela, cm 72x101

al retro, sulla cornice e sul telaio, etichette della Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli 1938

 

 

Esposizioni

Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli, Castelnuovo, 1938.

 

Bibliografia

Piccola guida della Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli 1938, p. 71, n. 4; La Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700- 800, Napoli 1938, p. 319, n. 4.

 

Esposto con la corretta attribuzione alla storica mostra della pittura napoletana del 1938 ma non riprodotto nel relativo catalogo, peraltro assai parco di illustrazioni, il dipinto qui offerto è rimasto fino ad oggi assolutamente sconosciuto agli studi napoletani e a quelli sull’artista, inaugurati alla metà degli anni Ottanta dalle esposizioni curate da Ann Percy e Ann T. Lurie e culminati nella recente monografia di Nicola Spinosa.

È dunque con grande emozione che si può oggi rivedere, quasi per la prima volta, un dipinto del primo tempo di Bernardo Cavallino, e rintracciarvi i segni della sua prima formazione naturalistica nel solco del caravaggismo napoletano. Evidente, in particolare, l’esempio di Battistello Caracciolo a cui si richiama la figura reclina in primo piano, certo il risultato di uno studio accademico “dal naturale” ma insieme consapevole della pala di Battistello nella chiesa del Pio Monte della Misericordia, del 1615.

I confronti più evidenti rimandano in ogni caso alle opere di Cavallino nella seconda metà degli anni Trenta, al bivio tra il naturalismo del Maestro degli Annunci e una più sapiente e artificiosa messa in scena dei suoi episodi a figure terzine. Si possono in particolare citare il Pagamento del tributo e il Ritorno del Figliol Prodigo, entrambi nel Museo di Capodimonte, simili al nostro dipinto anche per l’ambientazione della scena e la disposizione dei personaggi sul pavimento di pietra di una stanza oscurata, quasi un palcoscenico per l’azione tratta dal Nuovo Testamento.

Giova ricordare, a questo proposito, l’assenza di altre versioni di questo soggetto tra le opere attualmente note del pittore napoletano: fu infatti respinta già da Roberto Longhi l’attribuzione a Bernardo Cavallino dell’Adultera del Museo di Castelvecchio a Verona, esposta a suo nome nella stessa mostra napoletana del 1938.

Si potrebbe quindi ipotizzare con qualche legittimità l’identificazione del dipinto qui offerto con l’effigie della donna adultera di quattro palmi per tre, mano di Bernardo Cavallino, (misure coincidenti con le nostre) censita nel 1716 nella collezione napoletana di Francesco de Palma de Artois, Duca di Sant’Elia, con la stima non indifferente di 50 ducati (cfr. G. Labrot, Documents for the History of Collecting: Italian Inventories 1. Collections of Painting in Naples 1600 – 1780, 1992; The Getty Provenance Index).

 

 

 

Estimate   € 60.000 / 80.000
Price realized  Registration
65

Bernardo Cavallino

(Napoli 1616-1656)

LE NOZZE DI TOBIOLO E SARA

olio su tela, cm 92x120

al retro, sulla cornice e sul telaio, etichette della Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli 1938

 

 

Esposizioni

Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli, Castelnuovo, 1938.

Bibliografia

Piccola guida della Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700 – 800, Napoli 1938, p. 71, n. 3; La Mostra della Pittura Napoletana del 600 – 700- 800, Napoli 1938, p. 319, n. 3.

 

Esposto come opera di Bernardo Cavallino alla mostra della pittura napoletana del 1938 ma non riprodotto nello stringatissimo catalogo che accompagnava quella straordinaria rassegna, il dipinto qui offerto è rimasto sostanzialmente inedito e anzi del tutto sconosciuto alla critica cavalliniana e più in generale agli studi napoletani.

Ben noti ne sono invece il soggetto, tratto dal Libro di Tobia dell’Antico Testamento, e la composizione: si tratta infatti di un tema altre volte replicato da Bernardo Cavallino ed evidentemente di così grande successo da essere ripetuto anche da altri, estranei alla sua bottega.

Si può anzi affermare che, fra tutte le invenzioni ascrivibili alla giovinezza e alla prima maturità dell’artista, intorno ai primi anni Quaranta, queste Nozze di Tobiolo siano state quella di maggiore successo, tanto numerose ne sono le repliche e copie antiche che ne documentano la diffusione, da sola o accompagnata da un altro episodio dello stesso ciclo veterotestamentario, la Guarigione di Tobia: ne ha dato notizia per prima Ann T. Lurie nel catalogo dell’esposizione monografica sull’artista del 1984-85 (Bernardo Cavallino of Naples (1616-1656) pp. 98-99 e 231) e più recentemente Nicola Spinosa nel suo catalogo generale (Grazia e tenerezza “in posa”. Bernardo Cavallino e il suo tempo. 1616 – 1656, Roma 2013, pp. 283-84; 408-9). Spinosa ha proposto anzi di riconoscere i più antichi esemplari autografi di questa serie in una coppia di tele, per la verità scarsamente leggibili nel loro modesto stato conservativo, poi passate sul mercato antiquario. Una proposta che la ricomparsa del nostro dipinto, senza dubbio migliore per qualità, spinge senz’altro a riconsiderare.

Coerentemente con le scelte compositive del giovane Cavallino e con la sua personale interpretazione del caravaggismo “a figure terzine”, le nozze di Tobiolo e Sara sono messe in scena in uno spazio oscuro e disadorno, memore di soluzioni caravaggesche ma forse più della realtà quotidiana esperita dall’artista stesso. Ne diverge però lo straordinario e in qualche modo incongruo brano di natura in posa, degno delle invenzioni di un Giovan Battista Recco nei bagliori dorati del vasellame e nel tappeto prezioso, protetto da una tovaglia candida, su cui poggiano i cibi dell’austero festino nuziale.

Vi compare, forse per la prima volta, un tipo di figura femminile che ritroveremo appena variata nelle vesti di altri personaggi, oltre che in nuove personificazioni di Sara, come è evidente nel confronto con l’Ester e Assuero a Napoli presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa (N. Spinosa 2013, cit., p. 305, n. 39), o ancora nella Madonna annunciata a Melbourne, The National Gallery of Victoria (ibidem, p. 331, n. 68).

 

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
Price realized  Registration
91

Bottega di Giuseppe Briati, Murano, metà sec. XVIII

RARO LAMPADARIO “A CIOCCHE”

vetro trasparente e policromo, ventisei bracci su due ordini di palchi, alt. cm 230, diam. cm 120

 

Questa tipologia di lampadari Ca’ Rezzonico, detta “a ciocche”, si caratterizzata per l’andamento piramidale culminante in un ricco bouquet di fiori colorati tra motivi a guglie e vasi; tali lampadari sono solitamente ritenuti opera del più importante maestro vetraio di Venezia del secolo XVIII o della sua bottega, Giuseppe Briati. Padrone di Fornace a Murano, nato nel 1685 circa e morto il 18 gennaio 1772, all'inizio della sua attività produsse nella sua piccola fornace i cosiddetti soffiati. Fu Gastaldo dei vetrai nel 1724. Alcuni biografi asseriscono che egli abbia carpito i segreti del vetro potassico boemo durante un viaggio che avrebbe compiuto sotto mentite spoglie. Iseppo - così chiamato in laguna - ottenne dal Consiglio dei Dieci il permesso di lavorare in esclusiva il vetro alla "maniera dei boemi", oltre a privilegi e prerogative che suscitarono grande invidia tra i colleghi muranesi per la loro eccezionalità, al punto che il fortunato "paròn" si sentì più volte minacciato di morte da loro. Proprio per questo ottenne dalla Serenissima un ulteriore privilegio: lavorare il vetro a Venezia! La sua fornace "All'Angelo Raffael" aprì i fuochi in centro storico, nella fondamenta che porta ancora il suo nome, nel 1739. Produsse "deseri" e i famosi lampadari "ciocca", oggi chiamati “Ca' Rezzonico”, diventando il fornitore ufficiale del doge

 

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
69

Carlo Lodi (Bologna 1701-1765) 
e Antonio Rossi (Bologna 1700-1753)
PAESAGGIO IDEALE CON SCENA DI SACRIFICIO (Salomone dinanzi ad un idolo pagano)
olio su tela, cm 261x314

Insieme al dipinto al lotto successivo, senza dubbio parte di uno stesso contesto decorativo, la grande tela qui offerta propone un esempio di altissima qualità di quella scuola pittorica fiorita a Bologna nella prima metà del Settecento per decorare, in toni di svagato disimpegno, le “stanze dei paesi” dei palazzi cittadini e delle ville del contado bolognese.Profondamente distinta, nei suoi accenti fantastici, dal paesismo dichiaratamente arcadico fiorito a Venezia e in terraferma come dalle prove erudite della scuola romana, nostalgica dell’Antico e di Claudio di Lorena, la pittura di paesaggio fu coltivata a Bologna con altissima maestria da un piccolo gruppo di specialisti, variamente legati agli ambienti del teatro e della scenografia, e con l’intervento di importanti pittori di figura che, a differenza dei loro colleghi romani, non disdegnarono di collaborare con i loro personaggi a estese decorazioni paesistiche.Quasi sempre di importanti dimensioni e condotti per lo più a tempera, su tela quando non direttamente su muro, i paesaggi bolognesi propongono dunque, anche sotto il profilo collezionistico, una situazione di grande originalità se paragonati alle altre scuole italiane.Tra i suoi protagonisti spicca senza dubbio Carlo Lodi, forse il paesista di maggior successo della sua generazione, attivo ben oltre i confini dell’Emilia e anzi richiesto dalle corti di Spagna e di Sassonia. Costante la sua collaborazione con il coetaneo Antonio Rossi, a cui successe dopo la metà del secolo l’estroso Nicola Bertuzzi.Ed è proprio ad alcune tele eseguite per il convento di San Giacomo Maggiore a Bologna nel 1753, anno estremo del sodalizio con Rossi, che i nostri paesaggi, sebbene a olio invece che a tempera su tela, possono paragonarsi per identità di soluzioni compositive (si veda il Ritorno del Figliol Prodigo, accolto dal padre in una esedra in tutto simile alla nostra scena di sacrificio) e stile delle figure.Nella loro garbata compostezza, in qualche modo reminiscente del raffinato classicismo di un Donato Creti, le figurine nelle tele qui offerte presentano altresì molteplici confronti con le prove autonome di Antonio Rossi: citiamo in particolare le figure di contorno nell’Elemosina di S. Tommaso di Villanova nella Pinacoteca di Cento, del 1744, o l’Ispirazione del Poeta di raccolta privata (entrambi riprodotti da Adriano Cera, La pittura bolognese del 700, Milano 1994, ad vocem, figure 6 e 4, rispettivamente).                                                  

Estimate   € 40.000 / 60.000
23

Cerchia di Antonio Pisano detto Pisanello, primo quarto del sec. XV

CASSONE NUZIALE

legno dipinto, sul fronte scena galante centrata da stemma e sui fianchi motivi fogliacei, cm 96x182x69

 

Opera dichiarata di particolare interesse culturale ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004

 

Bibliografia

R. Calamini e S. De Luca, in Le stanze dei tesori. Collezionisti e antiquari a Firenze tra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Medici Riccardi, a cura di L. Mannini, Firenze 2011, p. 152, n. 1

 

 

All'interno del genere dei cassoni, mobile per eccellenza nell'Italia rinascimentale, quelli nuziali costituiscono una tipologia a sé, appartenenti alla dote nuziale della sposa; venivano realizzati solitamente in coppia con gli stemmi dei due casati ed erano tanto più ricchi di intagli e dipinti quanto più il casato di provenienza della moglie era potente e politicamente influente, ponendosi come una vera e propria manifestazione dello status della famiglia.

Citati già da Boccaccio in un episodio del Decameron, Ambrogiuolo e Bernabò, in cui il protagonista si nasconde in un cassone nuziale per introdursi nella camera della donna amata, per tutto il Quattro e Cinquecento i cassoni nuziali costituiscono un genere in cui si cimentano i più grandi artisti del tempo, quali Paolo Uccello, Botticelli e ancora Ghirlandaio e Jacopo del Sellaio.

I cassoni arrivati intatti dal secolo XV sono piuttosto rari e mostrano una varietà iconografica che spazia dai soggetti mitologici o storici alle allegorie delle virtù e a scene edificanti d'amore e di fedeltà coniugale, inneggiando al corretto comportamento che gli sposi avrebbero dovuto seguire nel corso del matrimonio.

Se sono piuttosto diffusi gli esempi in cui le pitture del fronte sono inquadrate da inserti in pastiglia a delimitare una sequenza pittorica (si vedano il cassone della Conquista di Napoli da parte di Carlo di Durazzo, realizzato a fine Trecento e conservato al Metropolitan di New York, e quelli del XV secolo rispettivamente al Museo Horne e a Palazzo Davanzati), più inconsueti sono i cassoni in cui, come nel nostro caso, la decorazione pittorica occupa tutto il fronte senza soluzione di continuità. Un confronto può essere avanzato con i due pannelli di cassone realizzati intorno al 1460 dalla bottega di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono, uno con il viaggio della Regina di Saba (oggi al Birmingham Museum of Art) e l'altro con l'incontro di Salomone e Saba (Museum of Fine Arts di Boston).

La delicatezza tardogotica delle figure, caratterizzata da cadenze quasi fiabesche che si coniugano a una grande attenzione al naturalismo, suggeriscono di avvicinare il nostro cassone alla cerchia di Pisanello, inserendolo dunque nel contesto dell’Italia settentrionale di inizio secolo XV. Il fronte è interamente dipinto con una scena continua che si svolge all’interno di un giardino in fiore, una sorta di hortus conclusus, tipica ambientazione di dipinti sacri che vedono come soggetto principale la Madonna (si veda ad esempio, dello stesso Pisanello, la Madonna della Quaglia del Museo di Castelvecchio a Verona), probabile allusione, in questo caso, alla castità della sposa. Al centro del giardino è il blasone della famiglia Fanzago di Clusone in val Seriana, con uno stemma coronato da una mano giurante, grembiato da otto pezzi di rosso e argenti e caricato in cuore da uno scudetto rotondo d’azzurro alla torre d’argento merlata alla guelfa, aperta e finestrata di nero. Ai lati dello stemma due coppie di giovani, riccamente abbigliati secondo la moda tardogotica, sono raffigurati di profilo l’una verso l’altro in atto di sollevare le braccia per prendersi le mani. I fianchi, infine, presentano un decoro a racemi stilizzati di foglie che inquadrano ricche melagrane

 

Estimate   € 90.000 / 120.000
67

Cerchia di Simone De Magistris, fine sec. XVI

SAN BENEDETTO E IL MIRACOLO DEL GIOVANE SALVATO DALLE ACQUE

olio su tavola, cm 61x89

 

 

 

Bibliografia di riferimento

A. Marabottini, Due schede umbre e due marchigiane, in “Commentari d’Arte”, Roma, IV, 1998, pp. 124-127 

Collezione Alessandro Marabottini, Roma, 2015, pp. 53-54, scheda 6

 

L’interessante tavola qui offerta mette teatralmente in scena uno dei miracoli attribuiti a San Benedetto da Norcia.

Si narra l’episodio del giovane Placido che, andando a prendere l’acqua del lago, venne trascinato via dalla corrente. Placido però fu salvato grazie all’intervento miracoloso di Benedetto che, avendo assistito alla scena dalla sua cella, mandò San Mauro a soccorrere il fanciullo. Nel dipinto infatti vediamo San Benedetto sulla destra, seduto in preghiera dinanzi al Crocifisso, mentre dà disposizioni a Mauro di andare ad aiutare il giovinetto.

Sul lato sinistro del quadro si apre invece un paesaggio a indicare il mondo esterno, che è separato dalla cella del santo per tramite di una colonna di pietra serena. In questo mondo entra San Mauro che, camminando sulle acque, trae in salvo il piccolo Placido, tenendolo curiosamente per i capelli. Il bambino è raffigurato con una brocca in una mano mentre con l’altra si aggrappa alla salvifica mantellina del monaco.

Nel paesaggio sono visibili anche episodi di vita quotidiana, due giovani che si accingono a fare il bagno nel fiume e un cacciatore, preceduto dal suo cane, che è intento a sparare ad un gruppo di volatili sullo sfondo. La tavola sembra essere così un vero e proprio palcoscenico in cui si muove un’umanità variegata di cui fanno parte santi benedettini, popolani e animali ed è riconducibile, per dimensioni e affinità stilistiche, ad una tavola di analogo soggetto (San Benedetto e il miracolo del ferro caduto nell’acqua) forse parte di uno stesso insieme, nella collezione di Alessandro Marabottini (op. cit. scheda 6).

Quest’ultimo aveva proposto per il dipinto un’attribuzione al pittore marchigiano Simone De Magistris (notizie tra il 1555 e il 1613) motivandola per via del confronto tra la “scheletrica” testa del San Benedetto con quella, simile, di uno dei personaggi nella tela con l’Esaltazione del nome di Gesù, già per l’altare della chiesa di Santa Maria della Rocca di Offida.

Più probabile pensare che la nostra tavola con il Miracolo di San Benedetto, come anche quella in collezione Marabottini, sia opera di un pittore marchigiano nell’ambito di Simone de Magistris dal quale tuttavia eredita molte delle caratteristiche tipiche come l’esasperazione dei colori (si veda il paesaggio fiammeggiante) e gli atteggiamenti anticlassici delle figure, con chiari riferimenti alle stampe nordiche. Tutti elementi che rendono il dipinto offerto un esemplare di grande interesse e originalità. 

Estimate   € 7.000 / 10.000
Price realized  Registration
25

COFANETTO NUZIALE, MANIFATTURA GINORI A DOCCIA, 1870 CIRCA 

porcellana bianca montata in bronzo dorato, cm 34x42x36

Marca N coronata in blu sul fondo

 

La scatola è ornata sui quattro lati da bassorilievi decorati con scene mitologiche, delimitati da più ordini di cornici e intervallati negli angoli da scudi a cartiglio centrati da teste femminili a rilievo. Il contenitore poggia su una base di bronzo dorato con decoro a palmette e sorretta, negli angoli, da quattro leoni accovacciati su basette a rocaille di gusto ancora settecentesco. Il coperchio in porcellana, anch’esso montato in bronzo dorato, mostra una decorazione a bassorilievo coerente con quelle della scatola e intervallata da quattro elementi decorativi applicati a rilievo. Al centro della composizione, una complessa montatura di bronzo dorato, sostenuta da una cornice ornata da motivo a foglie lanceolate, cela un vano segreto collocato sotto una presa appariscente a forma di putto seduto.

Una cassetta simile, priva delle applicazioni di bronzo dorato e sormontata da un gruppo in porcellana raffigurante Bacco e Arianna (gruppo che risulta eseguito dalla manifattura come gruppo a sé già nella seconda metà del Settecento, come si vede in L. Ginori Lisci, La porcellana di Doccia, Milano 1963, p. 71 fig. 45), dal chiaro significato nuziale, compare in una fotografia scattata durante l’Esposizione italiana del 1861 o di quella parigina del 1867, ma è rintracciabile anche in un’incisione relativa all’Esposizione di Parigi del 1878 insieme ad altre descritte come montate in bronzo e in ebano. Nell’immagine citata, accanto allo scrigno in porcellana coerente con il nostro ne compare uno montata in ebano e sormontato da una presa con un amorino, che richiama quello dell’opera in esame. Alla luce di questi confronti e considerando la presenza della “N” coronata, che indica una datazione compresa tra il 1870 e il 1940 circa (A. Caròla-Perrotti, I marchi del giglio di Capodimonte e della “N coronata” ferdinandea nelle porcellane di Doccia, in “Amici di Doccia-Quaderni”, II, 2008, p. 73) si propone quindi una datazione attorno all’ultimo trentennio dell’Ottocento, legittimata proprio dallo stile della montatura di bronzo.

 

Si ringrazia la dott.ssa Rita Balleri per le ricerche d’archivio e per le preziose informazioni fornite

 

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