old master paintings

23 NOVEMBER 2016

old master paintings

Auction, 0189
FLORENCE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
4.30 pm
Viewing
FLORENCE
18-21 November 2016
10am-1pm / 2pm-7pm 
Palazzo Ramirez-Montalvo 
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Estimate   2000 € - 60000 €

All categories

1 - 30  of 57
23

Vincenzo Martinelli

(Bologna 1737 - 1807)

e Nicola Bertuzzi

(Ancona 1710 - 1777)

PAESAGGIO LACUSTRE CON BARCHE E UNA PASTORELLA

olio su tela, cm 79x101

 

Le quattro tele qui di seguito singolarmente presentate, in serie tra loro, costituiscono un’interessante aggiunta al catalogo del paesista Vincenzo Martinelli e in particolare alla sua collaborazione con Nicola Bertuzzi, detto l’Anconetano.

Sono in effetti gli studi dedicati a quest’ultimo, pittore di figura a olio e a fresco per le chiese e i palazzi di Bologna, ad aver individuato la sua partecipazione come figurista nelle tempere, e più raramente negli olii, dei suoi colleghi bolognesi specializzati nella pittura di paesaggio.

La monografia pubblicata da Guido Zucchini nel 1955 (Il pittore Nicola Bertuzzi detto l'Anconitano 1710-1777) pubblica infatti per la prima volta la bellissima serie di tempere eseguite nel 1764 insieme a Carlo Lodi nella villa dei marchesi Boschi detta "La Sampiera", ora nelle raccolte della Cassa di Risparmio di Bologna, e quella di poco successiva per il casino Marsigli, dove le figurine di Bertuzzi animano invece i paesi di Vincenzo Martinelli, nipote di Carlo Lodi e suo successore in questa specialità.

Sebbene dipinti a tempera, sono appunto questi ultimi a presentare le più strette affinità compositive con la nostra serie, mentre le figurine di donne, bambini, pescatori e sfaccendati di ogni sorta nate dalla sbrigliata fantasia del Bertuzzi si ripetono con caratteri molto simili in entrambe le serie citate e in altre ancora. Non è forse un caso, ricordando le strettissime tangenze di Bertuzzi "falso veneziano" (come lo chiamò Ugo Ruggeri nel 1982) con la pittura veneta e in particolare con Giuseppe Nogari, che nella raccolta di provenienza le nostre tele fossero appunto credute veneziane.

 

 

Estimate   € 8.000 / 12.000
Price realized  Registration
32

Attribuito a Filippo Tarchiani

(Castello, Firenze 1575-1645)

SAN FRANCESCO IN MEDITAZIONE

olio su tela, cm 123x98

 

L'opera è corredata da parere scritto di Giuseppe Cantelli, Firenze, 24 febbraio 2006

 

Bibliografia di riferimento

Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Biografie, catalogo della mostra, Firenze 1986, pp. 172-174

 

 

Il dipinto qui presentato, raffigurante San Francesco in meditazione sul teschio, rientra tra i soggetti cari alla pittura fiorentina della prima metà del Seicento.

Giuseppe Cantelli, per quest'opera di "alta e rara qualità pittorica e di intensa concentrazione psicologica", propone un'interessante attribuzione a Filippo Tarchiani; gli elementi per cui la tela è avvicinabile al Tarchiani sono da ricercarsi nella presenza dei contrasti di ombre e luci di origine caravaggesca, insolite nella Firenze post 1630, ma presenti in un pittore come Tarchiani.

L’artista, per la cui vita si rimanda alle pagine di Claudio Pizzorusso citate in bibliografia, fu allievo di Agostino Ciampelli e ricordato anche presso lo studio di Gregorio Pagani; tra il 1608 e il 1615 la sua pittura si orientò verso una forma di purismo neocinquecentesco date le influenze della lezione di Jacopo da Empoli soprattutto nelle compatte e lucide superfici pittoriche.

Dal 1630 cominciò ad ammorbidire i passaggi chiaroscurali e a cercare soluzioni meno rigide “come si vede in questo San Francesco in meditazione, stilisticamente vicino ai tondi, con Santa Cecilia e Re David dipinti per l’organo della chiesa della Badia a Firenze nel 1635” che Cantelli ha ricondotto da Baccio del Bianco proprio al Tarchiani.

 

 

Estimate   € 8.000 / 12.000
4

Ottavio Vannini                                              

(Firenze, 1585-1644)                                                      

SAN GIOVANNI EVANGELISTA

SAN LUCA EVANGELISTA

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 64x61                               

(2)                           

 

 

L'inattesa comparsa di questo pendant vale come risarcimento alla emorragia di opere travasate, in questi ultimi anni, dal catalogo del Vannini in quello del suo non scarso alter ego Antonio Ruggieri, l'allievo che per un decennio almeno si prese la briga di perpetuarne la maniera, peraltro sempre – con una sola eccezione – in lavori di propria invenzione (quando, va da sé, egli non si trovasse a dar fine alle pendenze – tante – del maestro defunto). Al proposito, vale la pena di evocare il caso recentissimo del bel Giaele e Sisara del Seminario Arcivescovile fiorentino – parte della celebre serie d'ottagoni lasciata in eredità alla compagnia di San Benedetto Bianco da Gabriello Zuti –, dipinto che Maria Cecilia Fabbri ha potuto passare in toto, su base documentaria, tra le spettanze del Ruggieri – anno 1648 –, confermando sospetti già adombrati circa una partecipazione di quest'ultimo a quella che correntemente passava per una prova estrema d'Ottavio (M. C. Fabbri, in Il Rigore e la Grazia. La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino, catalogo della mostra (Firenze), a cura di A. Grassi, M. Scipioni, G. Serafini, Livorno, 2015, p. 148).  

Per tornare ai due dipinti che qui si presentano, in origine ovali, sono da credere parte  di una serie di quattro – mancano all'appello Matteo e Marco –, divisa in epoca imprecisabile.

Le notizie in possesso degli attuali proprietari non consentono di ricostruirne la storia più antica, e valgono soprattutto ad accertare la provenienza fiorentina delle due tele, che sarebbe piaciuto trovare listate nell'inventario dei quadri di qualcuno dei più affezionati collezionisti del Vannini, confortate dalla compagnia di altre opere del maestro: in casa Galli Tassi ad esempio, o in casa Del Rosso (meglio però sarebbe dire, in quest'ultimo caso,  nelle 'case'  Del Rosso, poiché anche il ramo cadetto della famiglia poteva vantare non poche pitture d'Ottavio: E. Arnesano, Del Rosso (ramo cadetto), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, I, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto, 2015, pp. 237-259).

Neppure ci viene in aiuto il referto biografico del Baldinucci, piuttosto avaro, a parte nel caso – macroscopico – dei tanti cimenti per i Del Rosso di via Chiara, nell'elencare lavori del pittore che non fossero murali o grandi pale d'altare di destinazione pubblica. Solo il ricordo generico di "più tele d'Apostoli" eseguite per i Da Bagnano può avere un qualche valore, nel testimoniare della consuetudine del Vannini con le mezze figure in serie.

A consolarci di questa – temporanea, vogliam credere – assenza di dati, interviene però la qualità  davvero superba dei due ex ovali, tale da meritar loro la palma tra i quadri da stanza (o comunque di minor formato) licenziati da Ottavio dopo il 1630. Anzi, a voler essere più circostanziati, dopo il 1632, l'anno del San Girolamo di Monsummano, ovvero il dipinto che per primo – almeno tra i databili con sicurezza – mostra compiutamente quei tratti di accresciuto spessore materico e ‘prestezza' di condotta che sono la novità più evidente dell'inoltrata attività del pittore: tratti che senza intaccare la lucidità della visione pittorica del Vannini si mostrano abbinati ad un generale registro di muscolare grandeur.

I due nostri Evangelisti –  l'uno, Giovanni,  in posa ispirata, l'altro, Luca, concentrato nella scrittura – certificano al meglio una tale svolta, in virtù anche dell'intatta pelle pittorica. Essi paion cavati di peso dalla colossale Madonna e Santi del San Domenico di Pistoia, massimo cimento sacro del pittore nel bel mezzo del quarto decennio (e quasi il manifesto d'una via vanniniana ad un 'barocco' iperdisegnato; in particolare Giovanni ha qui un quasi perfetto corrispettivo nell'angelo che accompagna Santa Francesca Romana); o ancora dall'Ultima Cena di Colle Valdelsa,  licenziata nel 1636.

La soluzione di posa del San Giovanni si ritrova poi con incidenza singolare – e varianti più o meno significative – in questa stagione matura del pittore. Segno di come il  “tornare e ritornare sopra una cosa sola tante volte” che il Baldinucci riferisce al pittore, si possa estendere dal piano meramente tecnico su cui lo confina il biografo, a quello di una continua, studiosa rimeditazione di propri pensieri formali.

È così che il giovane santo si può leggere d'un fiato, anche nel tono sentimentale severamente accorato, col San Sebastiano del convento di San Marco a Firenze, riconosciuto al Vannini in tempi relativamente recenti (Francesca Baldassari, Carlo Dolci, Torino, 1995, p. 56), e con le altre versioni autografe di tale soggetto: quella ad esempio passata di recente presso Cambi (2 dicembre 2013, lotto 369, olio su tela, cm 89x73, come lavoro del lucchese Pietro Sigismondi).

 

Filippo Gheri

 

                                           

Estimate   € 8.000 / 12.000
Price realized  Registration
44

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Cesare Dandini

(Firenze 1596-1656)

SAN SEBASTIANO

olio su tela, cm 65x50

al retro presenta etichetta della "Mostra Nazionale Antiquaria Città di Firenze Palazzo Strozzi n. 584"

 

Bibliografia di riferimento

F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728, 6 voll., ed. a cura di F. Ranalli, Firenze 1845-1847, 5 voll, IV, 1846, pp. 549-562

G. Cantelli, Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento, Fiesole (Firenze), 1983, pp. 56-58

S. Bellesi, Cesare Dandini, Torino 1996

 

Filippo Baldinucci tramanda che Cesare Dandini "era (…) giovanetto di vago aspetto, e di bellissime pittoresche proporzioni del volto" le stesse che si sono trasferite ai protagonisti dei suoi dipinti che rappresentano infatti poetici giovani a mezzo busto.

Tra questi possiamo annoverare anche il San Sebastiano qui presentato, il cui dolore rende ancora più espressiva e toccante la delicatezza dei lineamenti.

Una figura questa non estranea a precedenti colti: è infatti evidente il riferimento al patetismo della scultura pergamena, e in particolare alla testa marmorea dell’Alessandro morente di arte greca conservata presso la Galleria degli Uffizi. Proprio da questa scultura sembra derivare l’espressione del santo con la fronte corrugata in una maschera di dolore che ne sublima la giovane bellezza incorruttibile.

La biografia di Cesare è piuttosto movimentata: secondo Filippo Baldinucci, a soli dodici anni entra nella bottega di Francesco Curradi che per la sua avvenenza fisica lo utilizza come modello di molte sue figure.

Dopo tre anni di scuola dal Curradi si sposta nella bottega di Cristofano Allori e poi in quella del Passignano che lo coinvolge alla realizzazione di una pala d’altare per Pisa, oggi riconosciuta in una tela che si trova nella cattedrale della città.

Intorno al 1621, quando si immatricola all’Accademia del Disegno, Dandini avvia una sua propria attività legata principalmente alla pittura su rame di piccolo formato.

Nonostante la vita irrequieta, di cui Baldinucci ci tramanda alcuni passaggi: "incominciò a dar bando agli studi, e poco meno al dipingere, ed in quella vece a’ spendere il suo tempo ne' passatempi e nella caccia", Cesare Dandini è stato un pittore assai prolifico avendo realizzato nature morte, ritratti, pale d’altare, soggetti sacri e quadri "da stanza".

Tornato a Firenze dopo un soggiorno romano, a partire dal 1625 diventa uno dei pittori più richiesti dalla nobiltà fiorentina grazie a figure seducenti e ad una pittura metallica e brillante con influenze neomanieriste. A questa fase, durata quasi un decennio, può essere ricondotto il nostro scultoreo San Sebastiano con ascendenze bronziniane che si apprezzano nell’incarnato smaltato del viso e del busto.

Estimate   € 8.000 / 12.000
45

Valentin Lefèvre

(Bruxelles 1637  - Venezia 1677)

I SANTI MARCO E MARCELLIANO ESORTATI AL MARTIRIO DA SAN SEBASTIANO

olio su tela, cm 74x54

 

L'opera è corredata di parere scritto di Ugo Ruggeri

 

Bibliografia di riferimento

U. Ruggeri, Valentin Lefèvre (1637 - 1677). Dipinti. Disegni. Incisioni, Reggio Emilia 2001

 

 

La tela qui presentata, raffigurante I Santi Marco e Marcelliano esortati al martirio da San Sebastiano, viene riferita al pittore fiammingo Valentin Lefèvre da Ugo Ruggeri, che vi riconosce uno di quei tipici esercizi di copia che Lefèvre soleva intraprendere dalle opere di artisti veneziani del XVI secolo, in particolare da Paolo Veronese; il dipinto infatti è ripreso dal telero veronesiano conservato nella chiesa di San Sebastiano a Venezia.

Valentin Lefèvre, nato nel 1642 a Bruxelles, si trasferì a Venezia già negli anni Cinquanta del Seicento per studiare proprio i capolavori del Veronese. Nella città lagunare lavorò per il resto della sua breve vita; morirà infatti nel 1677 a soli 35 anni.

Per le caratteristiche stilistiche e morfologiche, e per la lucidità fiamminga della stesura, l’opera qui in catalogo è avvicinabile alla Cena in casa del Fariseo e la Presentazione al tempio delle collezioni reali inglesi, già attribuite a Valentin Lèfevre quando erano nella collezione del console Smith; esse costituiscono le prime e sicure testimonianze dell’interesse di Lèfevre per Paolo Veronese e della sua attività di copista per cui era noto.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
2

λ

Maestro del 1416

MADONNA CON BAMBINO IN TRONO

tempera su tavola, cm 163,5x50, ingombro totale cm 170x59

 

Provenienza

Christie's, Londra, 11 luglio 1980, lotto 92 (come Rossello di Jacopo Franchi)

 

Referenze fotografiche

Fototeca Zeri, Bologna, busta 0134; fasc. 4, scheda 10116, come "Maestro del 1416", Ravello Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

F. Zeri, Sul catalogo dei dipinti toscani del secolo XIV nelle Gallerie di Firenze, in "Gazette des Beaux-Arts", 71 (1968), pp. 66-70

 

Catalogata da Federico Zeri nella cartella della sua fototeca intitolata al Maestro del 1416, la tavola qui presentata sarebbe, secondo lo studioso, la parte centrale di un trittico i cui scomparti laterali, raffiguranti  San Giacomo Maggiore, San Michele Arcangelo, San Giovanni Battista e San Matteo Evangelista si trovano al Museo Czartoryski di Cracovia (sezione del Museo Nazionale). Secondo Zeri le tre tavole rappresentano l’ultima fase artistica del pittore che si concluse probabilmente entro il terzo decennio del XV secolo. Il nome dell’artista, formatosi probabilmente nella bottega di Lorenzo di Niccolò, deriva dall’unica opera datata (1416) che si trova alla Galleria dell’Accademia a Firenze, una Madonna con Bambino tra quattro Santi e nella parte apicale Cristo benedicente con due angeli.

Più recentemente Alessandro Tomei (comunicazione scritta al proprietario) ha attribuito il dipinto al Maestro della Madonna Strauss secondo alcuni identificabile con Ambrogio di Baldese, attivo a Firenze tra la fine del XVI e gli inizi del XV secolo.

 

 

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
Price realized  Registration
8

Francesco Botti

(Firenze 1640-1711)

NATIVITA' DELLA VERGINE

olio su tela, cm 95x117

 

Bibliografia

S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento e Settecento. Biografie e opere, Firenze, 2009, I, pp. 92-93; II, p. 100, fig. 191 (Roma, collezione privata)

 

 

Non sono molte le notizie che riguardano questo interessante pittore, le più esaustive sono inserite nel Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento di Sandro Bellesi, qui citato in bibliografia, dove troviamo pubblicata anche la foto del nostro quadro.

Figlio del pittore Giacinto Botti, Francesco fu battezzato da Francesco Furini il prete-pittore amico del padre; probabilmente il suo nome è stato dato proprio in onore di colui che aveva celebrato il battesimo.

Botti iniziò la sua attività di artista inizialmente presso la bottega del padre e in seguito in quella di Simone Pignoni, maestro che prese come modello tanto che alcune delle sue prime opere furono a lungo attribuite al Pignoni stesso. Questo aspetto sicuramente non giovò al Botti che venne offuscato dalla fama del maestro per molto tempo.

L’inizio di una sua originale carriera al di fuori dell’atelier del Pignoni avvenne probabilmente intorno al 1678 anno in cui fu immatricolato presso l’Accademia del Disegno.

Il suo linguaggio stilistico, come è evidente anche nella nostra tela, risente di un intreccio lessicale in cui si leggono derivazioni dallo sfumato morbido del Furini, dalle accensioni luministiche del Pignoni e dalle opere tarde di Sebastiano Mazzoni, che studiò probabilmente durante un suo soggiorno a Venezia.

La Natività di Maria qui proposta va inserita in una fase matura dell’attività di Botti, quando iniziò a dedicarsi alle pale d’altare e ai soggetti religiosi. In essa si nota un colore steso per velature sottili tanto da ottenere effetti di trasparenza quasi lirici, soprattutto nelle delicate alternanze del rosa, dell’ocra e del blu.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
19

Livio Mehus

(Oudenaarde, Fiandra 1627 - Firenze 1691)

MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA

olio su tela, cm 97,5x85

 

Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi

 

Bibliografia di riferimento

M. Chiarini, I quadri della collezione del Gran Principe Ferdinando II, in “Paragone”, 1975, 301, p. 60

M. Gregori, Livio Mehus o la sconfitta del dissenso, in “Paradigma”, 1978, p. 206, nota 92, e fig. 103

M Chiarini, Livio Mehus, Un pittore barocco alla corte dei Medici (1627-1691). Catalogo della mostra, a cura di Marco Chiarini, Firenze, 2000

 

L'interessante tela qui proposta, raffigurante il Matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, presenta caratteristiche tali, oltre alla particolarità con cui sono condotte le figure, da poter essere assegnata con sicurezza al pittore olandese Livio Mehus.

Sono diversi gli elementi stilistici che consentono di individuare la sua mano: dall'influenza vaporosa di Pietro da Cortona, agli echi della pittura fiamminga coeva, fino alle reminiscenze correggesche.

Il nostro dipinto, come segnala Sandro Bellesi, è la redazione più accurata di una composizione già nota di Mehus che si trovava a Bergamo, presso Previtali e che è pubblicata dalla Gregori nell'articolo Livio Mehus o la sconfitta del dissenso alla figura 103. È ancora Mina Gregori a riportare in nota la presenza sul mercato fiorentino di un'altra versione analoga ma mai riprodotta (che potrebbe coincidere con la nostra) e a indicare come la composizione del Mehus sia in rapporto con un'opera del Volterrano di analogo soggetto, dipinta per Vittoria della Rovere nel 1661. Il dipinto di Volterrano, oggi di proprietà della Banca Popolare di Vicenza, ebbe grande successo grazie al fascino di una pittura morbida e delicata che deve aver influenzato anche Livio Mehus; quest'ultimo, proprio con Volterrano e Pier Dandini, era considerato già alla metà del secolo uno dei più importanti esponenti della pittura barocca fiorentina. Dal 1684 è documentato anche come Maestro dell'Accademia del Disegno insieme a questi due artisti.

La cifra stilistica con effetti nebbiosi e foschi per lo sfondo, ma con improvvise accensioni luministiche che fanno risaltare la tenerezza dell'incarnato della santa egiziana e del Bambino, ci portano a datare il quadro a una fase tarda dell'attività del Mehus, intorno agli anni Settanta-Ottanta del Seicento, quando sono più palpabili le influenze della lezione genovese del Grechetto. 

Nato nelle Fiandre nel 1627, Livio Mehus si trasferì con la famiglia a Milano quando aveva circa dieci anni, e iniziò lì i primi studi presso l'ignoto battaglista Carlo fiammingo. Le vicende turbolente della sua gioventù sono narrate dal Baldinucci (1681-1728, ed. 1845-1847, V, 1846, pp. 523-538) che racconta come a quindici anni decidesse di avviarsi a piedi verso Roma per studiare gli artisti che lì lavoravano. Arrivato però a Pistoia fu segnalato al principe Mattias de' Medici, fratello del granduca Ferdinando II, che gli permise di completare i suoi studi a Firenze presso Pietro da Cortona che in quel tempo - anni Quaranta del Seicento - stava completando la decorazione dei soffitti per le sale di Palazzo Pitti.

Il desiderio di apprendere nuovi linguaggi pittorici portò Mehus a intraprendere altri viaggi in Emilia e in Veneto oltre che a Roma, dove si recò nel 1650 insieme all'amico Stefano Della Bella; qui lavoravano ancora Claude Lorrain, Salvator Rosa (già cononsciuto a Firenze), Pietro Testa, artisti importanti per comprendere l'articolata miscellanea culturale che caratterizza la sua pittura.

Il percorso artistico del Mehus si è contraddistinto, fino alla fine del suo operato, per immagini percorse da emozioni mistiche e sublimi a cui possiamo accostare anche il nostro Matrimonio di Santa Caterina. Il dipinto spicca infatti per il forte pathos che trapela soprattutto dalla figura di Caterina chiusa nella sua silenziosa estasi mentre riceve da Gesù, secondo quanto tramandato nell'agiografia medioevale, l'anello nuziale simbolo dell'unione della giovane a Dio.

Come Stefano della Bella, e in seguito Stefano Magnasco, Mehus rappresentò, nel dissolvimento materico delle forme, l'aspetto del barocco meno sfarzoso e trionfale, rielaborando piuttosto, in forme del tutto originali, quanto imparato presso Pietro da Cortona. Fu per questo suo aspetto molto apprezzato dal Gran Principe Ferdinando che collezionò ben quarantacinque quadri del pittore, la metà di questi ancora conservati (si veda M. Chiarini, I quadri della collezione del Gran Principe Ferdinando II, in "Paragone", 1975, 301, p. 60).

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
38

Attribuito a Simone Pignoni

(Firenze 1611-1698)

GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE

olio su tela, cm 83,8x59

 

Esposizioni

Prima mostra mercato degli antiquari toscani, Fortezza da Basso, 2 - 17 giugno 1990, Pontassieve, Firenze 1990, p. 83, come Simone del Pignone

 

Bibliografia di riferimento

F. Baldassari, Simone Pignoni (Firenze 1611-1698), Torino 2008, p. 175, fig. 1a

 

L'opera è accompagnata da parere scritto di Mina Gregori che riportiamo integralmente:

 

"Il soggetto è indicato dalla presenza della spada, con cui l'eroina uccise il gigante. Gli echi dell'arte delicata del Furini inducono a indicare con certezza questa mezza figura femminile come opera di Simone Pignoni uno dei pittori più interessanti e raffinati della generazione attiva dopo il 1630.

(...) Le opere che conosciamo riconducono il Pignoni al clima morbido, pittoricamente evoluto dei decenni centrali del secolo, che rappresenta la risposta degli artisti fiorentini alle novità introdotte da Pietro da Cortona.

Anche in quest'opera il tocco del pennello sui bianchi e sul vestito, il contrato chiaroscurale e la libertà con cui è modellato il tre quarti del volto, confermano la partecipazione del Pignoni, da protagonista, a questa fase, ricca di soluzioni pittoriche originali".

Il soggetto con la giovane e bella fanciulla giudea che libera il suo popolo dal generale nemico Oloferne, seducendolo e decapitandolo, si presta bene pertanto a una pittura fondata sulla delicatezza dei colori degli incarnati, tipica del Pignoni, come ricorda anche Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica (1795-1796, I, p. 176) quando cita il pittore come migliore allievo del Furini.

Francesca Baldassari, nella monografia sul pittore, pubblica tra le opere d’invenzione pignoniana ma con interventi di bottega, una tela di ubicazione sconosciuta, analoga alla nostra.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
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