old master paintings

23 NOVEMBER 2016

old master paintings

Auction, 0189
FLORENCE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
4.30 pm
Viewing
FLORENCE
18-21 November 2016
10am-1pm / 2pm-7pm 
Palazzo Ramirez-Montalvo 
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Estimate   2000 € - 60000 €

All categories

1 - 30  of 57
53

Stefano Tofanelli

(Nave, Lucca 1752 – Lucca 1812)

ACHILLE E PENTESILEA

olio su tela, cm 121x97

 

Bibliografia

A. Cera, La pittura neoclassica in Italia, Milano 1987, tav. 612

 

Pubblicato da Adriano Cera con il titolo, sufficientemente generico, "Morte di una regina siriaca" il dipinto qui offerto non sembra reperibile tra i soggetti di Stefano Tofanelli riportati dai suoi principali biografi.

Esso appare tuttavia un chiaro esempio degli esiti della formazione accademica, fondata sull’esercizio del disegno e sulla copia dalla scultura classica, ricevuta dal Tofanelli negli anni della sua educazione romana, a partire dal 1769. Se infatti i protagonisti della scena raffigurata non sono immediatamente identificabili, del tutto evidente è la loro derivazione dal gruppo scultoreo oggi collocato a Firenze nella Loggia dei Lanzi e generalmente ritenuto raffigurare Menelao in atto di sorreggere il corpo di Patroclo. Acquistato a Roma da Cosimo I prima del 1570 e collocato alla metà del Seicento all’estremità meridionale di Ponte Vecchio dopo il restauro su un modello di Pietro Tacca, esso costituisce, come si sa, l’esemplare più completo di una serie di repliche da un originale pergameno, tra cui il più noto è il cosiddetto Pasquino. Una scultura che fino all’analisi di Ennio Quirino Visconti, che per primo ne precisò il soggetto nel 1788, veniva associata agli episodi più diversi della storia e del mito ma si presentava comunque ricca di assonanze formali col tema della Pietà proprio dell’iconografia cristiana, tanto da poter essere usato nei più diversi contesti. Il precoce interesse di Stefano Tofanelli per questo modello è peraltro indicato da una delle storie di Apollo dipinte per il salone della villa di Luigi Mansi a Segromigno (Lucca) tra il 1784 e il 1791, dove l’episodio di Apollo e Giacinto presenta (in controparte) la stessa composizione.

 

Estimate   € 15.000 / 20.000
Price realized  Registration
52

Stefano Tofanelli

(Nave, Lucca 1752 – Lucca 1812)

SANSONE E DALILA

olio su tela, cm 135x107

al retro della cornice iscritto: "Quadro di Stefano Tofanelli Pittor Lucchese fatto in Roma l'Anno 1793"

 

Bibliografia

S. Rudolph, La pittura del 700 a Roma, Milano 1983, tav. 670.

R. Giovannelli, Tofanelli Morghen Leonardo, in “Labyrinthos” 25-26, 1994, pp. 201 e 223, nota 26.

G. Sestieri, Repertorio della pittura romana della fine del Seicento e del Settecento, Torino 1994, I, p. 173.

 

 

Il tema del dipinto qui offerto fu scelto da Stefano Tofanelli come occasione per “un gruppo di figure grandi in piccola tela e per far vedere la furberia delle donne, e le sciocchezze degli amanti che di loro si fidano”. Un tema di successo, apparentemente, se l’artista lucchese, allora all’apice della sua carriera romana dopo il suo intervento nella decorazione di Palazzo Altieri, lo replicò in due versioni e ne trasse un disegno destinato all’incisione. L’Elogio pubblico pronunciato da Cesare Lucchesi in occasione della morte del Tofanelli ricorda infatti il dipinto di tale soggetto presso la signora Camilla Orsetti di Lucca, verosimilmente la più antica versione qui offerta, e la replica conservata presso la sorella dell’artista insieme a una “storia di Giaele” che ben si legava a quella di Sansone per il tema legato alle “eroine” del Vecchio Testamento e la riflessione sulla loro pericolosità nei confronti del sesso maschile (R. Giovannelli, Per Stefano Tofanelli, in “Labyrinthos” 21-24, 1992-93, pp. 401 e 405, nota 15).

È probabile che a questo soggetto si riferisse l’artista in una lettera scritta da Roma al marchese Mansi il 6 aprile del 1793 parlando di un quadro e del disegno autografo, preparatorio per la sua riproduzione a stampa: la nostra composizione corrisponde infatti in ogni dettaglio al foglio (matita nera, mm. 448x335) conservato all’Albertina di Vienna (inv. 1440; V. Birke – J. Kertész, Die Italienischen Zeichnungen der Albertina. Generalverzeichnis, II, Wien 1994, SR 1616; A. Cera, Disegni acquarelli tempere di artisti italiani dal 1770 ca. al 1830 ca., Bologna 2002, II, Tofanelli, fig. 2).

Se ne conosce l’incisione trattane da Giuseppe Lazzarini, che la dedica a Sua Maestà Carlo Lodovico di Borbone, Infante di Spagna e Duca di Lucca consente di datare dopo il 1824, quando Stefano Tofanelli era ormai scomparso da oltre un decennio.

 

Estimate   € 22.000 / 25.000
Price realized  Registration
50

Giovanni Domenico Lombardi detto l'Omino

(Lucca 1682-1751)

ALLEGORIA DELLA FEDE

olio su tela, cm 172x210

 

L'opera è corredata da parere scritto di Alberto Crispo, Parma, 3 febbraio 2011

 

Bibliografia

V. Tani, "Paulo Borghese Guidotti humilmente prostrato alla felicissima patria avanti". Un affascinante messaggio di genio, follia, e luce caravaggesca per Pietro Paolini e la pittura lucchese del Sei-Settecento, "Rivista di archeologia, storia, costume", 39, 2011, n. 1-2, pp. 3-60, ill. p. 28.

 

Bibliografia di riferimento

P. Betti, Giovan Domenico Lombardi nei Musei Nazionali di Lucca, Lucca 2003

A. Crispo, Itinerari di Giovan Domenico Lombardi tra Lucca, Roma e il settentrione, in “Nuovi Studi”, VIII, 10 (2003), 2004, pp. 207-221

 

Artista sfaccettato e affascinante, dedito a vari generi pittorici tra cui si ricordano soggetti storici e religiosi, scene di genere, scene galanti, nature morte e ritratti, Giovanni Domenico Lombardi fu un importante protagonista del panorama artistico lucchese della prima metà del Settecento.

Lavorò principalmente per le chiese del territorio lucchese e per le famiglie più illustri del patriziato cittadino. Il suo apprendistato si svolse nella sua città natale presso il pittore Giovanni Marracci, ma furono le opere dei suoi concittadini Pietro Paolini e Girolamo Scaglia ad influenzare la sua pittura soprattutto nell’interesse per gli effetti luministici e la descrizione quasi teatrale degli ambienti.

Il Lombardi completò la propria formazione compiendo un viaggio di studio in Lombardia e nel Veneto dove acquistò una più profonda sensibilità per la ripartizione delle zone luminose grazie al contatto con le opere dei grandi pittori del Cinquecento quali Tiziano, Tintoretto, Veronese, e con le novità che andavano delineandosi nel panorama artistico lagunare. Il risultato di questa esperienza affiora ad esempio nell´Adorazione dei Magi oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi. Nel 1706 era già tornato a Lucca dove si sposò e iniziò a lavorare a diversi cicli pittorici.

La grande tela qui illustrata in catalogo, raffigurante un’elaborata allegoria della Fede sul carro trionfale accompagnata da Carità, Speranza e Prudenza, rientra tra le opere da assegnare al Lombardi.

Alberto Crispo riconosce le caratteristiche principali del pittore nel forte chiaroscuro, nei gesti esasperati e nelle figure vertiginosamente scorciate.

La composizione mette in scena così una complessa allegoria delle Virtù cristiane che sconfiggono i Vizi - i tre personaggi incatenati - e il Peccato - la figura distesa sulla sinistra assalita da un serpente che gli morde il cuore.

La datazione dell’opera ci porta verso gli anni Quaranta del Settecento, dopo un possibile viaggio del Lombardi a Roma e un rinnovato interesse per i modelli michelangioleschi scolpiti e dipinti.

 

Estimate   € 15.000 / 20.000
Price realized  Registration
47

λ Maestro anversese, 1590-1600 ca. IL TRIONFO DI DAVID olio su tavola, cm 254x121 tracce di firma nell’angolo inferiore destro: "Ruf (...)l"   Bibliografia di riferimento A. Baroni Vannucci, Jan van der Straet detto Giovanni Stradano, flandrus pictor et inventor , Milano 1997, p. 406, n. 702/7; M. Leesberg (a cura di), The New Hollstein Dutch & Flemish Etchings, Engravings and Woodcuts 1450-1700. Johannes Stradanus , Ouderkerk aan den IJssel 2008, vol. 1, n. 140. Il disegno preparatorio per la stampa si trova alla Biblioteca Reale Albert I di Bruxelles, inv. n. S IV 37872.   Dopo la vittoria su Golia, Davide fece il suo ingresso in Gerusalemme, portando la testa del gigante come trofeo. Tale momento costituisce il soggetto del dipinto in esame, in cui il giovane eroe, in compagnia di Saul, viene accolto da una folta schiera di donne. Nello specifico la scena dipinta s’ispira al passo biblico I Samuele 18, versetti 6-7: "E avvenne che al loro entrare, quando Davide tornò dall’aver abbattuto i filistei, le donne uscivano da tutte le città d’Israele con canto e danze incontro a Saul il re, con tamburelli, con allegrezza e con liuti…". L'imponente quadro, eseguito su tavola, è particolarmente ambizioso per quanto riguarda le dimensioni e la ricchezza dei materiali usati. Esso porta tutte le caratteristiche di un’opera realizzata ad Anversa sul finire del Cinquecento. Il supporto è costituito da cinque assi di legno di quercia, la qualità di legno preferito dai maestri di Anversa. Tipicamente fiamminghe sono pure la ricca tavolozza e la definizione dei volti con tocco leggero e trasparente. L’indagine riflettografica del dipinto (2013) ha evidenziato un impianto grafico assai accurato, eseguito sia a carboncino che a pennello. Tale disegno sottostante sta a dimostrare la particolare cura con la quale è stato realizzato il dipinto. Per la parte centrale della composizione, in cui figurano decine di personaggi, è possibile indicare una fonte precisa; essa trae ispirazione da un disegno di Giovanni Stradano (Bruges 1623 - Firenze 1605), tradotto in stampa da Adriaen Collaert (Anversa ca. 1560 - 1618) intorno al 1590. Lo Stradano originario di Bruges, trascorse quasi tutta la sua carriera nella Firenze granducale. Le prime commissioni importanti gli furono affidate da Cosimo I de' Medici intorno al 1555. A partire dal 1578 Giovanni Stradano mantenne stretti contatti con Philips Galle, editore di Anversa, fornendogli numerosi disegni di gusto prettamente manieristico (Baroni Vannucci 1997, p. 64). L’incisione di Adriaen Collaert raffigurante L'ingresso di Davide in Gerusalemme fa parte di una serie di stampe intitolata Encomium Musices , in cui storie tratte dal vecchio e dal Nuovo Testamento si susseguono per metter in evidenza lo straordinario potere della musica (per la serie di stampe e la sua datazione esatta vedasi Leesberg 2008, vol. 1, pp. 198-213, nn. 135-151 (con bibliografia). L'autore della tavola qui esaminata ha ingrandito la composizione su ambedue i lati. Sia la parte sinistra con gli alberi verdeggianti, come anche la parte destra con i due soldati in conversazione e il gruppo di cavalieri dietro, sono da considerare aggiunte di propria invenzione. Per la figura femminile in primo piano che regge un tamburello il pittore ha fatto ricorso ad un'altra incisione dell’ Encomium Musices , e cioè la stampa raffigurante Il canto di Mosè e Miriam nei presso del mar Rosso (Esodo 15:1-21) con, sulla destra, una suonatrice in atteggiamento simile (Baroni Vannucci 1997, p. 405, n. 702/5; Leesberg 2008, n. 137). Il rapporto con le due incisioni permette di circoscrivere la data di esecuzione della tavola tra il 1590 e il 1600 circa. Il dipinto è di grande effetto, grazie alle dimensioni, il numero delle figure, la sontuosità dei colori e l’ampia applicazione d'oro. È da evidenziare pure la ricca elaborazione dei vestiti più lussuosi. Accentuando la festosità della scena, il pittore ha messo il valore didattico della narrazione biblica in secondo piano, evocando con i propri mezzi artistici l’allegria dei canti e dei suoni.   Prof. Dr. Gert Jan van der Sman

λ

Maestro anversese, 1590-1600 ca.

IL TRIONFO DI DAVID

olio su tavola, cm 254x121

tracce di firma nell’angolo inferiore destro: "Ruf (...)l"

 

Bibliografia di riferimento

A. Baroni Vannucci, Jan van der Straet detto Giovanni Stradano, flandrus pictor et inventor, Milano 1997, p. 406, n. 702/7;

M. Leesberg (a cura di), The New Hollstein Dutch & Flemish Etchings, Engravings and Woodcuts 1450-1700. Johannes Stradanus, Ouderkerk aan den IJssel 2008, vol. 1, n. 140.

Il disegno preparatorio per la stampa si trova alla Biblioteca Reale Albert I di Bruxelles, inv. n. S IV 37872.

 

Dopo la vittoria su Golia, Davide fece il suo ingresso in Gerusalemme, portando la testa del gigante come trofeo. Tale momento costituisce il soggetto del dipinto in esame, in cui il giovane eroe, in compagnia di Saul, viene accolto da una folta schiera di donne. Nello specifico la scena dipinta s’ispira al passo biblico I Samuele 18, versetti 6-7: "E avvenne che al loro entrare, quando Davide tornò dall’aver abbattuto i filistei, le donne uscivano da tutte le città d’Israele con canto e danze incontro a Saul il re, con tamburelli, con allegrezza e con liuti…".

L'imponente quadro, eseguito su tavola, è particolarmente ambizioso per quanto riguarda le dimensioni e la ricchezza dei materiali usati. Esso porta tutte le caratteristiche di un’opera realizzata ad Anversa sul finire del Cinquecento. Il supporto è costituito da cinque assi di legno di quercia, la qualità di legno preferito dai maestri di Anversa. Tipicamente fiamminghe sono pure la ricca tavolozza e la definizione dei volti con tocco leggero e trasparente. L’indagine riflettografica del dipinto (2013) ha evidenziato un impianto grafico assai accurato, eseguito sia a carboncino che a pennello. Tale disegno sottostante sta a dimostrare la particolare cura con la quale è stato realizzato il dipinto. Per la parte centrale della composizione, in cui figurano decine di personaggi, è possibile indicare una fonte precisa; essa trae ispirazione da un disegno di Giovanni Stradano (Bruges 1623 - Firenze 1605), tradotto in stampa da Adriaen Collaert (Anversa ca. 1560 - 1618) intorno al 1590.

Lo Stradano originario di Bruges, trascorse quasi tutta la sua carriera nella Firenze granducale. Le prime commissioni importanti gli furono affidate da Cosimo I de' Medici intorno al 1555. A partire dal 1578 Giovanni Stradano mantenne stretti contatti con Philips Galle, editore di Anversa, fornendogli numerosi disegni di gusto prettamente manieristico (Baroni Vannucci 1997, p. 64).

L’incisione di Adriaen Collaert raffigurante L'ingresso di Davide in Gerusalemme fa parte di una serie di stampe intitolata Encomium Musices, in cui storie tratte dal vecchio e dal Nuovo Testamento si susseguono per metter in evidenza lo straordinario potere della musica (per la serie di stampe e la sua datazione esatta vedasi Leesberg 2008, vol. 1, pp. 198-213, nn. 135-151 (con bibliografia).

L'autore della tavola qui esaminata ha ingrandito la composizione su ambedue i lati. Sia la parte sinistra con gli alberi verdeggianti, come anche la parte destra con i due soldati in conversazione e il gruppo di cavalieri dietro, sono da considerare aggiunte di propria invenzione. Per la figura femminile in primo piano che regge un tamburello il pittore ha fatto ricorso ad un'altra incisione dell’Encomium Musices, e cioè la stampa raffigurante Il canto di Mosè e Miriam nei presso del mar Rosso (Esodo 15:1-21) con, sulla destra, una suonatrice in atteggiamento simile (Baroni Vannucci 1997, p. 405, n. 702/5; Leesberg 2008, n. 137).

Il rapporto con le due incisioni permette di circoscrivere la data di esecuzione della tavola tra il 1590 e il 1600 circa. Il dipinto è di grande effetto, grazie alle dimensioni, il numero delle figure, la sontuosità dei colori e l’ampia applicazione d'oro. È da evidenziare pure la ricca elaborazione dei vestiti più lussuosi. Accentuando la festosità della scena, il pittore ha messo il valore didattico della narrazione biblica in secondo piano, evocando con i propri mezzi artistici l’allegria dei canti e dei suoni.

 

Prof. Dr. Gert Jan van der Sman

Estimate   € 20.000 / 30.000
Price realized  Registration
46

Scuola ligure, seconda metà sec. XV

SAN GIROLAMO

SAN FRANCESCO

coppia di dipinti ad olio su tavola, cm 82,5x33,5

(2)

 

Tradizionalmente attribuiti a Giovanni Mazone nella raccolta di provenienza, le due tavole qui offerte appartengono senz'altro alla scuola ligure del tardo Quattrocento e mostrano, in particolare, affinità stilistiche e compositive con il polittico di San Giovanni Battista, proveniente dal piccolo comune di Luceram e oggi conservato al Musée Masséna di Nizza, restituito al raro artista nizzardo Giacomo Durandi in occasione della "Exposition Rétrospective" tenuta a Nizza nel 1912.

Si osservano in particolare notevoli motivi di confronto tra i volti e le pieghe dei panneggi del San Giovanni Battista e del San Paolo nell’opera citata e quelli del nostro San Girolamo, e ancora tra il volto di San Michele Arcangelo e il nostro San Francesco.

Pittore nizzardo attivo anche nel ponente ligure, Giacomo Durandi è documentato tra il 1443 e il 1468; di lui si conoscono solo due opere firmate, il polittico a sedici scomparti dedicato a Santa Margherita nella cattedrale di Fréjus esposto, come quello di San Giovanni Battista già citato, alla "Exposition Rétrospective" di Nizza del 1912, che reca l'iscrizione "Hoc opus fecit fieri dñs ant…. boneti b … fici …… ecl..ie …. Jacoburn Durandi de Nic." e la tavoletta con il Battesimo di Cristo iscritta sulla cornice "…LXV die 10 Iulii per Iacobum de Nic.".
Il polittico di San Giovanni Battista mostra un abbandono degli elementi tardogotici, presenti invece in quello di Santa Margherita non soltanto nella rappresentazione delle figure ma nell'impianto architettonico ricco di cuspidi e pinnacoli.

Anche per questo motivo si ritiene che sia stato eseguito nel periodo conclusivo dell'artista intorno al 1465, un dato indicativo anche per la cronologia delle tavole qui presentate.

 

 

Estimate   € 12.000 / 15.000
Price realized  Registration
45

Valentin Lefèvre

(Bruxelles 1637  - Venezia 1677)

I SANTI MARCO E MARCELLIANO ESORTATI AL MARTIRIO DA SAN SEBASTIANO

olio su tela, cm 74x54

 

L'opera è corredata di parere scritto di Ugo Ruggeri

 

Bibliografia di riferimento

U. Ruggeri, Valentin Lefèvre (1637 - 1677). Dipinti. Disegni. Incisioni, Reggio Emilia 2001

 

 

La tela qui presentata, raffigurante I Santi Marco e Marcelliano esortati al martirio da San Sebastiano, viene riferita al pittore fiammingo Valentin Lefèvre da Ugo Ruggeri, che vi riconosce uno di quei tipici esercizi di copia che Lefèvre soleva intraprendere dalle opere di artisti veneziani del XVI secolo, in particolare da Paolo Veronese; il dipinto infatti è ripreso dal telero veronesiano conservato nella chiesa di San Sebastiano a Venezia.

Valentin Lefèvre, nato nel 1642 a Bruxelles, si trasferì a Venezia già negli anni Cinquanta del Seicento per studiare proprio i capolavori del Veronese. Nella città lagunare lavorò per il resto della sua breve vita; morirà infatti nel 1677 a soli 35 anni.

Per le caratteristiche stilistiche e morfologiche, e per la lucidità fiamminga della stesura, l’opera qui in catalogo è avvicinabile alla Cena in casa del Fariseo e la Presentazione al tempio delle collezioni reali inglesi, già attribuite a Valentin Lèfevre quando erano nella collezione del console Smith; esse costituiscono le prime e sicure testimonianze dell’interesse di Lèfevre per Paolo Veronese e della sua attività di copista per cui era noto.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
44

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Cesare Dandini

(Firenze 1596-1656)

SAN SEBASTIANO

olio su tela, cm 65x50

al retro presenta etichetta della "Mostra Nazionale Antiquaria Città di Firenze Palazzo Strozzi n. 584"

 

Bibliografia di riferimento

F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728, 6 voll., ed. a cura di F. Ranalli, Firenze 1845-1847, 5 voll, IV, 1846, pp. 549-562

G. Cantelli, Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento, Fiesole (Firenze), 1983, pp. 56-58

S. Bellesi, Cesare Dandini, Torino 1996

 

Filippo Baldinucci tramanda che Cesare Dandini "era (…) giovanetto di vago aspetto, e di bellissime pittoresche proporzioni del volto" le stesse che si sono trasferite ai protagonisti dei suoi dipinti che rappresentano infatti poetici giovani a mezzo busto.

Tra questi possiamo annoverare anche il San Sebastiano qui presentato, il cui dolore rende ancora più espressiva e toccante la delicatezza dei lineamenti.

Una figura questa non estranea a precedenti colti: è infatti evidente il riferimento al patetismo della scultura pergamena, e in particolare alla testa marmorea dell’Alessandro morente di arte greca conservata presso la Galleria degli Uffizi. Proprio da questa scultura sembra derivare l’espressione del santo con la fronte corrugata in una maschera di dolore che ne sublima la giovane bellezza incorruttibile.

La biografia di Cesare è piuttosto movimentata: secondo Filippo Baldinucci, a soli dodici anni entra nella bottega di Francesco Curradi che per la sua avvenenza fisica lo utilizza come modello di molte sue figure.

Dopo tre anni di scuola dal Curradi si sposta nella bottega di Cristofano Allori e poi in quella del Passignano che lo coinvolge alla realizzazione di una pala d’altare per Pisa, oggi riconosciuta in una tela che si trova nella cattedrale della città.

Intorno al 1621, quando si immatricola all’Accademia del Disegno, Dandini avvia una sua propria attività legata principalmente alla pittura su rame di piccolo formato.

Nonostante la vita irrequieta, di cui Baldinucci ci tramanda alcuni passaggi: "incominciò a dar bando agli studi, e poco meno al dipingere, ed in quella vece a’ spendere il suo tempo ne' passatempi e nella caccia", Cesare Dandini è stato un pittore assai prolifico avendo realizzato nature morte, ritratti, pale d’altare, soggetti sacri e quadri "da stanza".

Tornato a Firenze dopo un soggiorno romano, a partire dal 1625 diventa uno dei pittori più richiesti dalla nobiltà fiorentina grazie a figure seducenti e ad una pittura metallica e brillante con influenze neomanieriste. A questa fase, durata quasi un decennio, può essere ricondotto il nostro scultoreo San Sebastiano con ascendenze bronziniane che si apprezzano nell’incarnato smaltato del viso e del busto.

Estimate   € 8.000 / 12.000
41

Francesco De Mura

(Napoli 1696-1782)

ASSUNZIONE DELLA VERGINE

olio su tela, cm 151,5x105,5

 

L'opera è corredata da parere scritto di Ferdinando Bologna, Napoli 1984

 

Provenienza

Christie's, Londra, 24 febbraio 1984, lotto 29;

Collezione privata, Napoli

 

Venduto a Londra con un’attribuzione a Francesco Solimena, il dipinto qui offerto è stato giustamente ricondotto al catalogo del giovane De Mura da Ferdinando Bologna in una circostanziata comunicazione al proprietario di poco successiva al passaggio in asta. Custodita per oltre tre decenni in una raccolta privata napoletana, l’opera è rimasta tuttavia del tutto inedita e quindi sconosciuta agli studi che in questo periodo hanno messo progressivamente a fuoco la figura dell’allievo più illustre di Francesco Solimena.

Modello della nostra paletta, riproposto con minori varianti compositive, è l'Assunzione della Vergine dipinta dal Solimena per la cattedrale di Capua, documentata come già in loco nel 1725. Un’opera a lungo studiata dal maestro napoletano, come indicano il disegno preparatorio identificato da Ferdinando Bologna al British Museum e il bozzetto conservato a Trapani nel Museo Pepoli, e immediatamente celebre tanto da essere riprodotta all’incisione e replicata a olio dalla bottega in un dipinto ora nei depositi della Galleria Nazionale di Arte Antica a Roma (F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958, I, pp. 194, 249-50; II, figg. 160-61).

Il nostro dipinto ne differisce per la forma rettangolare, priva dei profili sagomati che sui lati brevi caratterizzano la pala di Capua ma, soprattutto, per la raffinata gamma cromatica lontana dai colori accesi e dalle ombre risentite del modello. Una preferenza che appunto caratterizza fin dagli esordi la produzione di Francesco De Mura, che ne farà la sua cifra personalissima.

Presente nella bottega di Solimena a partire dal 1708, e tra gli allievi certamente il più dotato, fin verso la fine degli anni Venti De Mura resterà strettamente legato ai modelli del maestro, progressivamente divergendone tuttavia nella preferenza per composizioni più raffinate e leggere, già percepibili nelle prime prove per Montecassino, del 1731.

Sofisticata sperimentazione sulle possibili varianti dal modello solimeniano, la nostra tela deve quindi situarsi nel breve tratto di tempo che separa la pala di Capua (1725) dalle prime prove pienamente autonome di De Mura all’inizio del quarto decennio del Settecento.

 

 

 

 

 

Estimate   € 20.000 / 30.000
Price realized  Registration
38

Attribuito a Simone Pignoni

(Firenze 1611-1698)

GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE

olio su tela, cm 83,8x59

 

Esposizioni

Prima mostra mercato degli antiquari toscani, Fortezza da Basso, 2 - 17 giugno 1990, Pontassieve, Firenze 1990, p. 83, come Simone del Pignone

 

Bibliografia di riferimento

F. Baldassari, Simone Pignoni (Firenze 1611-1698), Torino 2008, p. 175, fig. 1a

 

L'opera è accompagnata da parere scritto di Mina Gregori che riportiamo integralmente:

 

"Il soggetto è indicato dalla presenza della spada, con cui l'eroina uccise il gigante. Gli echi dell'arte delicata del Furini inducono a indicare con certezza questa mezza figura femminile come opera di Simone Pignoni uno dei pittori più interessanti e raffinati della generazione attiva dopo il 1630.

(...) Le opere che conosciamo riconducono il Pignoni al clima morbido, pittoricamente evoluto dei decenni centrali del secolo, che rappresenta la risposta degli artisti fiorentini alle novità introdotte da Pietro da Cortona.

Anche in quest'opera il tocco del pennello sui bianchi e sul vestito, il contrato chiaroscurale e la libertà con cui è modellato il tre quarti del volto, confermano la partecipazione del Pignoni, da protagonista, a questa fase, ricca di soluzioni pittoriche originali".

Il soggetto con la giovane e bella fanciulla giudea che libera il suo popolo dal generale nemico Oloferne, seducendolo e decapitandolo, si presta bene pertanto a una pittura fondata sulla delicatezza dei colori degli incarnati, tipica del Pignoni, come ricorda anche Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica (1795-1796, I, p. 176) quando cita il pittore come migliore allievo del Furini.

Francesca Baldassari, nella monografia sul pittore, pubblica tra le opere d’invenzione pignoniana ma con interventi di bottega, una tela di ubicazione sconosciuta, analoga alla nostra.

 

Estimate   € 10.000 / 15.000
Price realized  Registration
35

Francesco Solimena

(Canale di Serino 1657 - Barra 1747)

LA PIETÀ E LA SPERANZA

olio su tela, cm 127x181

firmato in basso a sinistra "Fran.cus Solimena"

 

Provenienza

Sotheby's, Londra, 11 luglio 1979, lotto 330

 

Bibliografia

N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento. Dal Barocco al Rococò, Napoli 1988, p. 118, n. 54 e p. 213, fig. 62

 

Custodito da oltre trent’anni in una raccolta privata italiana, l'imponente dipinto qui offerto è stato pubblicato da Nicola Spinosa nella sua fondamentale ricognizione della pittura napoletana del Settecento, ma non è stato in realtà oggetto di studi più specifici in grado di documentarne l'antica provenienza e l’eventuale appartenenza ad un più ampio contesto.

Nel presentarlo a seguito del passaggio sul mercato antiquario inglese, Spinosa suggeriva trattarsi del "modello" per una possibile decorazione a fresco di evidente collocazione ecclesiastica, considerato il soggetto, non ricordata però da fonti o documenti. È probabile che le nostre figure femminili, personificazioni della Speranza e della Pietà (quest'ultima, decisamente infrequente, è riconoscibile grazie alla stretta adesione dei suoi attributi e colori alle indicazioni dell'Iconologia di Cesare Ripa) si accompagnassero almeno alle Virtù teologali, Fede e Carità, ed eventualmente alle quattro Virtù cardinali per comporre insieme un ciclo di otto figure divise in quattro campi: una soluzione proposta da Francesco Solimena nelle chiese napoletane di San Paolo Maggiore e del Gesù Nuovo fra la fine del nono decennio del Seicento e l’inizio degli anni Novanta e di cui anche il bozzetto con le sante Caterina e Cecilia qui riprodotto per confronto può darci un’idea per quanto riguarda la realizzazione finale.

La datazione proposta da Spinosa rimanda invece alla fine degli anni Venti del Settecento, in contiguità con gli affreschi eseguiti dal Solimena fra il 1727 e il 1730 nella cappella di San Filippo nella chiesa dei Gerolamini, dove le figure di santi nei peducci degli archi mostrano una ricerca di grandiosità accentuata dal colore a macchia molto vicina in effetti alle nostre Virtù.

Pur nella relativa sommarietà del "modello di presentazione" (nobilitato però dalla firma del pittore) le nostre figure femminili, che un opportuno restauro ricondurrà alla vivacità originaria, mostrano quella ricerca di monumentalità e rigore compositivo che segna l’impegno classicista di Francesco Solimena tra terzo e quarto decennio del Settecento, a partire dalla pala dell’Assunta nel duomo di Capua di cui, in questo catalogo, presentiamo la sofisticata rilettura di Francesco De Mura.

 

Estimate   € 45.000 / 65.000
Price realized  Registration
33

Jacques Courtois, il Borgognone

(Saint-Hyppolite 1621 - Roma 1676)

BATTAGLIA DI CAVALIERI

olio su tela, cm 52,5x78

 

Provenienza

Finarte, Milano, 8 giugno 1984, lotto 469

 

Bibliografia

G. Sestieri, I pittori di battaglie. Maestri italiani e stranieri del XVII e XVIII secolo, Roma 1999, p. 199, fig. 96

 

Da tempo celato alla vista in una raccolta privata milanese, il dipinto qui offerto si conferma oggi un autografo certo dell’artista borgognone, presentando in modo quasi paradigmatico le figure e l’impianto compositivo caratteristico del suo ricco catalogo di battaglie. La gamma cromatica luminosa e vivace suggerisce l’accostamento alla coppia di battaglie, di piccole dimensioni ed eccezionalmente dipinte su tavola, anch’esse vendute alla Finarte nel 1996 (G. Sestieri, 1999, p. 198, figg. 93-94).

Particolarmente interessante è poi, nel nostro dipinto, la presenza di motivi e soluzioni compositive che passeranno con ben poche varianti nelle tele di Francesco Monti, il Brescianino, che del Borgognone si conferma, insieme a Pandolfo Reschi, il seguace più brillante e dotato. Numerosi confronti consentono infatti di tracciare una linea precisa tra il dipinto qui offerto e le tele del Monti all’Accademia dei Concordi di Rovigo che, non a caso, Sestieri (1999, p. 208, figg. 1-2 e tav. I) conferma al Brescianino ipotizzando però una possibile derivazione da modelli non identificati di Jacques Courtois: modelli, possiamo aggiungere oggi, certo non lontani dalla battaglia che qui presentiamo.

 

Estimate   € 20.000 / 30.000
32

Attribuito a Filippo Tarchiani

(Castello, Firenze 1575-1645)

SAN FRANCESCO IN MEDITAZIONE

olio su tela, cm 123x98

 

L'opera è corredata da parere scritto di Giuseppe Cantelli, Firenze, 24 febbraio 2006

 

Bibliografia di riferimento

Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Biografie, catalogo della mostra, Firenze 1986, pp. 172-174

 

 

Il dipinto qui presentato, raffigurante San Francesco in meditazione sul teschio, rientra tra i soggetti cari alla pittura fiorentina della prima metà del Seicento.

Giuseppe Cantelli, per quest'opera di "alta e rara qualità pittorica e di intensa concentrazione psicologica", propone un'interessante attribuzione a Filippo Tarchiani; gli elementi per cui la tela è avvicinabile al Tarchiani sono da ricercarsi nella presenza dei contrasti di ombre e luci di origine caravaggesca, insolite nella Firenze post 1630, ma presenti in un pittore come Tarchiani.

L’artista, per la cui vita si rimanda alle pagine di Claudio Pizzorusso citate in bibliografia, fu allievo di Agostino Ciampelli e ricordato anche presso lo studio di Gregorio Pagani; tra il 1608 e il 1615 la sua pittura si orientò verso una forma di purismo neocinquecentesco date le influenze della lezione di Jacopo da Empoli soprattutto nelle compatte e lucide superfici pittoriche.

Dal 1630 cominciò ad ammorbidire i passaggi chiaroscurali e a cercare soluzioni meno rigide “come si vede in questo San Francesco in meditazione, stilisticamente vicino ai tondi, con Santa Cecilia e Re David dipinti per l’organo della chiesa della Badia a Firenze nel 1635” che Cantelli ha ricondotto da Baccio del Bianco proprio al Tarchiani.

 

 

Estimate   € 8.000 / 12.000
31

Gaspare Lopez detto Gasparo dei Fiori

(Napoli - Firenze 1740)

VASO DI FIORI ALL'APERTO CON COLONNA E CERAMICHE

olio su tela, cm 88x117

 

Nato a Napoli nell’ultimo quarto del Seicento, Gaspare Lopez è stato un pittore naturamortista del periodo tardo-barocco. Secondo il biografo napoletano Bernardo De Dominici iniziò i suoi studi con il pittore Andrea Belvedere, per poi proseguirli con Jean-Baptiste Dubuisson. 

In seguito alle esperienze maturate con quest’ultimo, Lopez si orientò verso una pittura illusionistica che ha come soggetto squisiti trionfi floreali all’aperto. In seguito ai successi conseguiti nella città partenopea, Lopez si trasferì a Roma e poi a Venezia.

Dopo aver viaggiato anche in Polonia, Prussia e Portogallo, rientrò in Italia stabilendosi a Firenze dove rimase fino alla sua morte, nel 1740.

Si presume che sia arrivato a Firenze nel 1728, anno in cui si immatricolò all’Accademia del Disegno. Le sue eleganti composizioni floreali ebbero subito grande successo presso i Medici che lo nominarono pittore di corte; in particolare fu apprezzato dal granduca Gian Gastone e dalla sorella, l’elettrice palatina, Anna Maria Luisa.

Alla sua ascesa come pittore di fiori contribuì la mancanza di rivali importanti nella città granducale dopo la morte di Andrea Scacciati nel 1710 e quella di Bartolomeo Bimbi nel 1729; fu molto richiesto così dai nobili fiorentini per i quali realizzò raffinate composizioni in cui aveva fuso le esperienze maturate a Napoli e nei viaggi con quelle acquisite in Toscana. Ferito in seguito a una rissa durante un viaggio a Venezia, Lopez rientrò a Firenze dove morì il 15 ottobre del 1740. Fu seppellito nella chiesa di San Michele Visdomini.

La grande tela qui presentata, caratterizzata da una natura rigogliosa e fresca si può accostare al dipinto con Fiori, fontana, pappagallo e rovine sullo sfondo già a Casalmaggiore (Cremona), Galleria D’Orlane (pubblicato in S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento e Settecento, Firenze, 2009, p. 51, n. 922). In entrambe le composizioni si ritrovano fiori e frutta disposti all’aria aperta tra vasi e ceramiche secondo il gusto dominante a Napoli nel primo decennio del secolo.

Anche in quest’opera, contraddistinta dalla presenza del grande vaso ricco di fiori al centro, la fontana zampillante, le colonne e le ceramiche appoggiate al terreno, si evince l’amore del Lopez per le composizioni entro verdeggianti giardini con decorazioni combinate tra loro con studiata casualità; solo il cielo denso di nubi minaccia la serenità di questa ambientazione bucolica, resa con uno stile leggero e arioso.

 

 

Estimate   € 12.000 / 15.000
30

Bottega di Pietro da Cortona, sec. XVII

MADONNA COL BAMBINO E SANTA MARTINA

olio su tela, cm 124,5x147

sul telaio, etichette "399" e "B.K.H. Grebruder Heilhon n. 892/1"

 

Provenienza

Pandolfini, Firenze, 22 aprile 2013, lotto 169;

Collezione privata, Roma

 

L'inedito dipinto qui esaminato costituisce una versione originale e, per quanto risulta, non replicata di uno dei temi più cari a Pietro da Cortona, la cui devozione a Santa Martina fu all’origine di numerosi dipinti e sculture e, soprattutto, della chiesa dedicata ai SS. Luca e Martina alle pendici del Campidoglio.

Alla santa Pietro dedicò infatti una serie di pale che ne raffiguravano il martirio, la principale eseguita per la chiesa di San Francesco a Siena, e almeno due diverse composizioni dove la fanciulla è invece nell’atto di ricevere da Gesù Bambino, tra le braccia della Madre, il giglio o la palma, simboli di purezza e del martirio subito.

La più celebre di queste composizioni, più volte incisa, è senza dubbio la tela nel museo del Louvre (G. Briganti, Pietro da Cortona o della pittura barocca. Seconda edizione, Firenze 1982, fig. 219), replicata in un dipinto di raccolta privata (ibidem, tavola 285, n. 12); il soggetto è ripreso con varianti nella composizione in deposito dal Louvre al museo di Rennes (ibidem, fig. 244) dove i protagonisti compaiono a tre quarti di figura. Di entrambe sono note diverse repliche, per lo più eseguite con l’intervento più o meno importante degli allievi. La bottega assunse peraltro un ruolo sempre più significativo nel corso degli ultimi due decenni di attività del maestro, che si riservò in misura crescente la semplice fase progettuale, ed eventualmente un primo abbozzo delle opere commissionate, affidando in gran parte agli allievi la realizzazione delle sue invenzioni (cfr. il recente intervento di Giovan Battista Fidanza, A rediscovered altarpiece by Pietro da Cortona and insights into the collaboration between the master and his pupils, in "The Burlington Magazine" CLV, 2013, 1325, pp. 541-45).

L’inventario dello studio del Berrettini dopo la morte avvenuta nel 1669 evidenzia peraltro una serie di opere non finite e consegnate agli allievi affinché le completassero: come risulta dai documenti furono in particolare Ciro Ferri, Lazzaro Baldi e Lorenzo Berrettini a portare a termine i "pensieri” del maestro.

Come rivelano le articolate ricerche di Donatella Sparti (tra cui: La casa di Pietro da Cortona: architettura, accademia, atelier, officina, Roma 1997) tra i “Quadri cominciati nello studio, di diversi" (proprietari) non mancava ad esempio una "Santa Martina in piccolo principiata, del Sig. Girolamo Dacci, restituita", e una "Santa Martina sbozzata", poi venduta a Paolo Falconieri.

Tra gli allievi di Pietro fu probabilmente Ciro Ferri a dedicarsi, assai più dei colleghi, al tema prediletto dal maestro. A lui si deve ad esempio una paletta ora nella sacrestia della chiesa di San Marco a Roma. L’inventario di suo figlio Pietro Ferri, morto nel 1750, pubblicato da Cristina Paoluzzi ricorda, tra gli altri, una "Madonna col Bambino e Santa Martina" senza indicazione di autore; una "Madonna con Santa Martina copia da Pietro da Cortona fatta da Ciro" (forse la stessa legata al nipote Carlo Catucci e stimata 25 scudi); e ancora una "Madonna con Bambino e Santa Martina di Pietro da testa, scudi 20", insieme ad altre raffigurazioni della santa, originali o copie e di misure diverse, alcune non finite (Un inventario inedito per la quadreria di Ciro Ferri, in Cultura nell’età delle Legazioni, Firenze 2005, pp. 537-87)

È dunque probabile che il nostro dipinto, in cui la sintetica ampiezza delle figure richiama appunto le opere tarde della bottega cortonesca, e che appare completo in tutte le sue parti ma non del tutto finito nelle ultime velature (in particolare nella figura della giovane martire inginocchiata) si celi appunto tra le composizioni imperfette completate da uno dei più stretti collaboratori del Berrettini, forse per l’appunto Ciro Ferri, il più vicino al maestro e senza dubbio il più dotato.

 

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λ Scuola fiorentina, XVII secolo LA CACCIA DEL CARDINALE GIOVAN CARLO DE’ MEDICI A CAFAGGIOLO, 1641-1644   olio su tela, cm 164,5x313,5 sull'etichetta applicata alla cornice si legge: "Sc. Fiorentina del sec. XVII/Cacciata data a Cafaggiolo al card. Corsi"   Provenienza Già collezione Corsi, Firenze Collezione privata   Bibliografia G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto , Firenze, 1937, p. 18 e p. 67, fig. 28 D . Pegazzano, Corsi (parte prima) , in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento , a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto (Pisa), 2015, pp. 97-99, figg. 7-8     Il grande dipinto qui presentato mette in scena la caccia del cardinal Giovan Carlo de’ Medici presso la Villa Medicea di Cafaggiolo detta anche Castello di Cafaggiolo. Il cardinale dei Medici è raffigurato al centro della composizione seguito dai battitori e da un corteo di nobili anch’essi a cavallo; sul lato sinistro invece, girato verso lo spettatore, è ben riconoscibile il committente dell’opera, monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) figlio di Jacopo e Laura Corsini, che fu protonotario apostolico a Roma dal 1626 al 1630 e vice legato ad Avignone dal 1645 al 1653. Il quadro si presenta come chiara testimonianza del forte legame che nei primi anni Quaranta del Seicento intercorreva tra Lorenzo Corsi e Giovan Carlo dei Medici. I due personaggi condividevano infatti la passione per il collezionismo e il mecenatismo come per il teatro, la musica e i giardini, secondo quanto richiesto ad esponenti delle famiglie aristocratiche, per giunta insigniti delle più alte cariche della gerarchia ecclesiastica. Ulteriore testimonianza di questo legame è dato anche dalla presenza di Lorenzo Corsi come sovrintendete ai lavori per il giardino del Casino di Giovan Carlo in via della Scala. Monsignor Lorenzo si distinse per i suoi ampli orizzonti culturali che lo portarono ad interessarsi a diversi generi pittorici come la ritrattistica, la natura morta e le allegorie morali più che alla pittura sacra. Un tipo di gusto e di inclinazione che aveva maturato sicuramente durante il periodo romano ma anche per l’influenza della famiglia granducale: non è casuale infatti la scelta di acquistare o commissionare opere a determinati artisti fiorentini come Giovanni Martinelli, Mario Balassi, Francesco Furini e Salvator Rosa che gravitavano intorno ai Medici e a Giovan Carlo in particolare. La collezione di famiglia venne così incrementata grazie alla spiccata sensibilità di Lorenzo Corsi che continuò quanto già iniziato con lungimiranza dal padre Jacopo alla fine del Cinquecento e dallo zio Bardo, ovvero l'accrescimento della quadreria e la valorizzazione degli spazi del palazzo di città (Palazzo Tornabuoni Corsi) e della villa di Sesto. La caccia del cardinale è ricordata nell'inventario della nobile famiglia di appartenenza del 1747 (si veda in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto , citato alla pagina 18 e riprodotto a pagina 67 fig. 28); la ritroviamo poi pubblicata da Donatella Pegazzano nell’ambito del suo studio sulla famiglia Corsi, qui citato in bibliografia. In base ai documenti reperiti di committenza e pagamento, che iniziano nel novembre del 1641 e continuano fino al marzo del 1643, la studiosa restituisce anche un nome agli autori del quadro: Giovan Battista Stefanini, detto Battistone e Francesco Arrigucci; il primo pittore si occupò della realizzazione delle figure mentre il secondo del paesaggio; l’opera risulta terminata nel 1644 anche se nel 1646 lo Stefanini non l’aveva ancora consegnata a causa del mancato pagamento, complice probabilmente l’assenza da Firenze di Lorenzo Corsi  che era partito già da un anno ad Avignone per esercitare la vice legatura, anticamera al cardinalato. Questa tipologia di opere che hanno per soggetto una veduta celebrativa rientra in un genere che ebbe molto successo dal Cinque al Settecento e che trova un illustre precedente nelle quattordici lunette raffiguranti le ville medicee dipinte da Giusto Utens tra il 1599 e il 1602. Si tratta di eleganti vedute delle ville di proprietà della famiglia Medici caratterizzate da una grande precisione descrittiva; oltre a costituire una preziosa testimonianza sull’aspetto originario di questi edifici, esse formano anche un vero e proprio inventario dei possedimenti granducali. La scelta della villa di Cafaggiolo come sfondo per la caccia del nostro dipinto non è casuale: infatti dal 1537, quando divenne di proprietà del duca Cosimo I, vi venne realizzato un " Barco " murato ossia una riserva di caccia dove animali rari potevano girare liberamente. L'utilizzo della villa come casino di caccia fu continuato anche dai figli di Cosimo, Francesco I e Ferdinando I, che vi soggiornarono soprattutto nei mesi autunnali. La villa faceva parte dei possedimenti medicei già dalla metà del Quattrocento quando fu ristrutturata da Michelozzo su incarico di Cosimo il Vecchio. Abitata generalmente in estate, fu un luogo assai amato anche da Lorenzo de' Medici che vi ospitò la sua corte di umanisti; secondo la tradizione compose proprio lì il poemetto La Nencia da Barberino .

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Scuola fiorentina, XVII secolo

LA CACCIA DEL CARDINALE GIOVAN CARLO DE’ MEDICI A CAFAGGIOLO, 1641-1644  

olio su tela, cm 164,5x313,5

sull'etichetta applicata alla cornice si legge: "Sc. Fiorentina del sec. XVII/Cacciata data a Cafaggiolo al card. Corsi"

 

Provenienza

Già collezione Corsi, Firenze

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Firenze, 1937, p. 18 e p. 67, fig. 28

D. Pegazzano, Corsi (parte prima), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto (Pisa), 2015, pp. 97-99, figg. 7-8

 

 

Il grande dipinto qui presentato mette in scena la caccia del cardinal Giovan Carlo de’ Medici presso la Villa Medicea di Cafaggiolo detta anche Castello di Cafaggiolo.

Il cardinale dei Medici è raffigurato al centro della composizione seguito dai battitori e da un corteo di nobili anch’essi a cavallo; sul lato sinistro invece, girato verso lo spettatore, è ben riconoscibile il committente dell’opera, monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) figlio di Jacopo e Laura Corsini, che fu protonotario apostolico a Roma dal 1626 al 1630 e vice legato ad Avignone dal 1645 al 1653.

Il quadro si presenta come chiara testimonianza del forte legame che nei primi anni Quaranta del Seicento intercorreva tra Lorenzo Corsi e Giovan Carlo dei Medici. I due personaggi condividevano infatti la passione per il collezionismo e il mecenatismo come per il teatro, la musica e i giardini, secondo quanto richiesto ad esponenti delle famiglie aristocratiche, per giunta insigniti delle più alte cariche della gerarchia ecclesiastica.

Ulteriore testimonianza di questo legame è dato anche dalla presenza di Lorenzo Corsi come sovrintendete ai lavori per il giardino del Casino di Giovan Carlo in via della Scala.

Monsignor Lorenzo si distinse per i suoi ampli orizzonti culturali che lo portarono ad interessarsi a diversi generi pittorici come la ritrattistica, la natura morta e le allegorie morali più che alla pittura sacra. Un tipo di gusto e di inclinazione che aveva maturato sicuramente durante il periodo romano ma anche per l’influenza della famiglia granducale: non è casuale infatti la scelta di acquistare o commissionare opere a determinati artisti fiorentini come Giovanni Martinelli, Mario Balassi, Francesco Furini e Salvator Rosa che gravitavano intorno ai Medici e a Giovan Carlo in particolare.

La collezione di famiglia venne così incrementata grazie alla spiccata sensibilità di Lorenzo Corsi che continuò quanto già iniziato con lungimiranza dal padre Jacopo alla fine del Cinquecento e dallo zio Bardo, ovvero l'accrescimento della quadreria e la valorizzazione degli spazi del palazzo di città (Palazzo Tornabuoni Corsi) e della villa di Sesto.

La caccia del cardinale è ricordata nell'inventario della nobile famiglia di appartenenza del 1747 (si veda in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, citato alla pagina 18 e riprodotto a pagina 67 fig. 28); la ritroviamo poi pubblicata da Donatella Pegazzano nell’ambito del suo studio sulla famiglia Corsi, qui citato in bibliografia.

In base ai documenti reperiti di committenza e pagamento, che iniziano nel novembre del 1641 e continuano fino al marzo del 1643, la studiosa restituisce anche un nome agli autori del quadro: Giovan Battista Stefanini, detto Battistone e Francesco Arrigucci; il primo pittore si occupò della realizzazione delle figure mentre il secondo del paesaggio; l’opera risulta terminata nel 1644 anche se nel 1646 lo Stefanini non l’aveva ancora consegnata a causa del mancato pagamento, complice probabilmente l’assenza da Firenze di Lorenzo Corsi  che era partito già da un anno ad Avignone per esercitare la vice legatura, anticamera al cardinalato.

Questa tipologia di opere che hanno per soggetto una veduta celebrativa rientra in un genere che ebbe molto successo dal Cinque al Settecento e che trova un illustre precedente nelle quattordici lunette raffiguranti le ville medicee dipinte da Giusto Utens tra il 1599 e il 1602. Si tratta di eleganti vedute delle ville di proprietà della famiglia Medici caratterizzate da una grande precisione descrittiva; oltre a costituire una preziosa testimonianza sull’aspetto originario di questi edifici, esse formano anche un vero e proprio inventario dei possedimenti granducali.

La scelta della villa di Cafaggiolo come sfondo per la caccia del nostro dipinto non è casuale: infatti dal 1537, quando divenne di proprietà del duca Cosimo I, vi venne realizzato un "Barco" murato ossia una riserva di caccia dove animali rari potevano girare liberamente.

L'utilizzo della villa come casino di caccia fu continuato anche dai figli di Cosimo, Francesco I e Ferdinando I, che vi soggiornarono soprattutto nei mesi autunnali.

La villa faceva parte dei possedimenti medicei già dalla metà del Quattrocento quando fu ristrutturata da Michelozzo su incarico di Cosimo il Vecchio.

Abitata generalmente in estate, fu un luogo assai amato anche da Lorenzo de' Medici che vi ospitò la sua corte di umanisti; secondo la tradizione compose proprio lì il poemetto La Nencia da Barberino.


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