Old Master Paintings

22 APRIL 2013

Old Master Paintings

Auction, 0070

Florence
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26


Viewing

MILAN
11-13 April 2013
10am - 1pm/ 2pm - 6pm
Via Manzoni, 45
milano@pandolfini.it

FLORENCE
17-21 April 2013
10am - 1pm / 2pm - 7pm
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Estimate   300 € - 50000 €

All categories

61 - 90  of 248
67
Simone Pignoni
(Firenze 1611-1698)
ALLEGORIA DELLA TEMPERANZA
olio su tela, cm 87x73
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 4 febbraio 2013
 
"L’opera, selezionata su tinte contrastanti dalle forti accensioni smaltate, presenta una giovane donna di bell’aspetto e dallo sguardo ricco di sottile malizia in atto di sostenere una brocca d’oro con il beccuccio rivolto verso il basso. La presenza della brocca, attributo simbolico ricorrente di varie figure muliebri mitologiche e allegoriche, è da ricondurre in questo caso alla Temperanza, una delle Quattro Virtù Cardinali, come indica anche il bacile circolare, appena accennato, dipinto nella parte inferiore sinistra della composizione. Brocca e bacile ricorrono infatti con frequenza in età moderna nelle raffigurazioni pittoriche dedicate a questa virtù, uno dei fondamenti del dogma cristiano, dove compare solitamente una bella fanciulla nell’atto di versare liquido da un contenitore a un altro, in modo da mescolare l’acqua con il vino, ovvia allusione all’uomo temperante e alla moderazione dei sensi e dei piaceri terreni.
I particolari caratteri stilistici e pittorici consentono di poter assegnare l’opera al catalogo autografo di Simone Pignoni, figura artistica tra le più intriganti e carismatiche nel pantheon artistico fiorentino del Seicento.
Nato nel capoluogo toscano nel 1611, il Pignoni fu indirizzato in giovane età allo studio della pittura inizialmente nella bottega di Fabrizio Boschi e poi nel più qualificato atelier di Francesco Furini, artista con il quale lavorò con frequenza fino alla morte di questi, avvenuta nel 1646. Attratto dalla malizia interpretativa e dalle formule figurative tipiche del lessico furiniano, il pittore si specializzò in opere sacre e profane, dove campeggiavano, essenzialmente, giovani efebi dall’aspetto androgino o suadenti fanciulle in pose ammiccanti  e sensuali. Autore di dipinti sacri e profani, oggi solo in parte riferibili a dati cronologici certi, Simone Pignoni fu apprezzato fino in tarda età dai committenti locali più importanti, che si avvalsero, costantemente, del suo pennello per l’arredo delle proprie quadrerie. Al momento della morte, avvenuta nella città natale nel 1698, l’artista lasciò un nutrito numero di seguaci, che preservarono la sua lezione fino ai primi decenni del Settecento (per una traccia biografica e bibliografica sull’artista si veda Bellesi 2009, I, pp. 223-225).
Interessante e inedita acquisizione al catalogo del Pignoni, l’opera, databile con probabilità tra la fine degli anni quaranta del Seicento e l’inizio del decennio successivo, trova parametri di confronto in varie composizioni dell’artista, riferibili allo stesso tempo, dove compaiono figure femminili disposte nella stessa posa e dagli identici caratteri tipologici, tra i quali merita di essere ricordata, per l’alta qualità stilistica, la raffinata Santa Caterina d’Alessandria, già nella raccolta Bigongiari a Firenze, oggi presso la Caripit a Pistoia (Cantelli 1983, figg. 624-625). Perfettamente adeguata alla lezione del maestro Furini, nella sigla del volto della donna e nelle pennellate calde ricche di impasti, l’opera attesta, in modo marcato, interessi particolari per le arti applicate, come rivela la curatissima definizione del vaso dorato finemente cesellato, rapportabile a oggetti presenti nelle più belle composizioni pittoriche del naturamortista Andrea Scacciati, databili a un’età leggermente più avanzata".
 
Bibliografia di riferimento: G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole, 1983, figg. 624-625; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e Opere, Firenze, 2009, I, pp. 223-225.
 
Estimate    20.000 / 30.000
Price realized  Registration
68
Taddeo Baldini
(Firenze 1623-1694)
LINCO SORREGGE DORINDA FERITA DA SILVIO
olio su tela, cm 158x202,5
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 25 gennaio 2013
 
"Questo grande dipinto, in buono stato di conservazione, presenta in primissimo piano, entro un paesaggio boschivo digradante verso un ameno sfondo collinare rischiarato da un’avvolgente luce dorata, un gruppo costituito da tre figure e un cane. Grazie alla particolarità delle pose dei personaggi è possibile ricondurre la scena qui illustrata a un passo tratto dal Pastor Fido di Giovanni Battista Guarini (atto IV, scena IX), nel quale la ninfa Dorinda, ferita accidentalmente da Silvio, è sostenuta dall’anziano Linco. La scena in conformità con il testo guariniano presenta il momento nel quale il pastore Silvio, seguito dal fedele cane Melampo, invoca il perdono di Dorinda e le rivela, al contempo, il suo profondo amore. Ricca di lirismo interpretativo, la scena si qualifica, soprattutto, per l’intrigante gestualità dei personaggi, colti in pose enfatiche che, conformi al più tipico linguaggio descrittivo di età barocca, infondono all’episodio un tocco di enfatica teatralità.
La tela, frutto di un linguaggio artistico colto e garbatamente eclettico, mostra caratteri stilistici tipici della scuola pittorica fiorentina della metà del Seicento, indirizzati, in particolare, verso le formule stilistiche e figurative di Taddeo Baldini, autore dell’opera, figura artistica di indubbio charme riemersa all’attenzione della critica solo in tempi recenti.
Nato a Firenze nel 1623, Taddeo fu introdotto in giovane età allo studio della pittura nella scuola di Matteo Rosselli, dalla quale si distaccò in un tempo prossimo al 1648, anno d’immatricolazione all’Accademia del Disegno, nota istituzione cittadina dove gli fu subito conferito l’ambito titolo di accademico. Apprezzato dai committenti del tempo per le intense raffigurazioni sacre e profane condotte con notevole perizia pittorica e descrittiva, il Baldini mostrò contatti lessicali stringenti con alcuni dei maestri locali più importanti, in particolare Vincenzo Dandini, Lorenzo Lippi e Giovanni Martinelli, figure di punta della pittura fiorentina alla metà del secolo. Autore di opere apprezzate oggi solo in parte identificate, l’artista morì nella città natale nel 1694 (Bellesi 2009, I, p. 75).
Interessante acquisizione al catalogo del Baldini, l’opera, sulla quale non abbiamo informazioni documentarie relative alla sua provenienza originaria, trova una collocazione cronologica adeguata negli anni sessanta del Seicento, tempo nel quale l’artista fu impegnato nella realizzazione delle pale con la Madonna del Rosario in Santa Maria a Collebarucci a Barberino del Mugello e con Santi in preghiera e le anime del Purgatorio in Santa Maria Novella a Marti, in territorio pisano. Con queste opere, databili tra il 1664 e il 1666, la tela in esame mostra, in effetti, analogie palmari nella resa tipologica delle figure, nella rigidità di alcuni passaggi dei panneggi delle vesti e nella definizione delle dita allungate delle mani, solitamente definite con maggior rigore anatomico".
 
Bibliografia di riferimento: S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e Opere, Firenze 2009, I, p. 75; con bibliografia precedente.
 
Estimate    15.000 / 20.000
70
Giovanni Montini
(Firenze 1613-1673)
ALLEGORIA DELL’ASTRONOMIA
olio su tela, cm 83,5 x 64
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 11 marzo 2013, di cui si riportano di seguito le parti salienti:
 
“(..) Nata a pendant di un dipinto con Mercurio di Vincenzo Dandini, proveniente dalla stessa collezione, la tela presenta caratteri stilistici e tipologici particolari che consentono di poterla assegnare, senza margini di dubbio, al pennello di Giovanni Montini.
Educato fin da giovane età allo studio della pittura nell’atelier di Jacopo Vignali, Montini, nato nel capoluogo toscano nel 1613, dette inizio, dopo una lunga collaborazione con il maestro, a una prolifica attività indipendente intorno alla metà degli anni trenta, periodo segnato dall’apertura di una bottega in via dei Cenni e dall’immatricolazione all’Accademia del Disegno. Da questo tempo molte risultano le commissioni allogate all’artista, che nel corso della sua vita rimase fedele interprete della lezione vignaliana. Autore di opere sacre e profane, Montini, che nel suo ultimo tempo di attività si accostò alla pittura morbida di Felice Ficherelli e Simone Pignoni, morì nel 1673 a Firenze, città nella quale il suo corpo fu inumato nella Santissima Annunziata (per il profilo biografico sull’artista e sull’elenco delle sue opere si veda Bellesi 2009, p. 205; con bibliografia precedente).
La forte dipendenza dallo stile di Jacopo Vignali e l’analitica definizione della figura e degli elementi di contorno inducono a collocare convincentemente l’opera tra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo, tempo segnato dalla realizzazione di vari dipinti affini al nostro esemplare, tra i quali appare doveroso menzionare, per la buona qualità esecutiva, la pala con l’Apparizione della Madonna e due sante a san Domenico Soriano nella Badia Fiesolana, del 1648, e Rebecca ed Eleazaro al pozzo nella collezione Luzzetti a Firenze, riferibile più o meno allo stesso tempo (per queste opere si veda Oliveti 2001-2002, figg. 188 e 197).
 
Bibliografia di riferimento: C. Oliveti, Contributo alla riscoperta di Giovanni Montini, in “Proporzioni”, Nuova Serie, II-III, 2001-2002; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, I, Firenze 2009.
 
Estimate    20.000 / 30.000
71
Vincenzo Dandini
(Firenze, 1609 – 1675)
MERCURIO
olio su tela, cm 84,5 x 67
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi, 10 marzo 2013, di cui si riportano di seguito le parti salienti:
 
“(..) Elegante e raffinata, la tela, eseguita in coppia con un’Allegoria dell’Astronomia di Giovanni Montini proveniente dalla stessa raccolta, mostra requisiti stilistici e pittorici che consentono di poterla ascrivere al catalogo autografo di Vincenzo Dandini, personalità tra le più importanti e originali dell’arte fiorentina della metà del Seicento.
Nato a Firenze nel 1609, Vincenzo Dandini fu educato allo studio della pittura inizialmente presso il fratello Cesare e poi nelle scuole del Passignano e di Matteo Rosselli. Dopo l’immatricolazione all’Accademia del Disegno (1631), il giovane artista ebbe la possibilità di completare i suoi studi a Roma, dove, tra il 1635 e il 1636, fu allievo di Pietro da Cortona. Al rientro in Toscana si affermò, entro breve tempo, come uno dei pittori più à la page e a tale riguardo fu conteso da Casa Medici, dalle famiglie patrizie e dagli ordini religiosi più importanti. Attratto inizialmente dalla lezione barocca romana, dalle novità della pittura emiliana di ambito reniano e dal linguaggio libertino furiniano, Dandini si accostò gradualmente, nel corso del tempo, agli ideali etici e spirituali neo-savonaroliani. Tali inclinazioni religiose, sottolineate nelle fonti antichi e nei documenti oggi noti, portarono l’artista, nei suoi ultimi anni di vita, a dedicarsi soprattutto all’esecuzione di dipinti sacri, improntati su una spiritualità pura e profonda scevra di patetismi devozionali. Maestro fiorentino tra i più importanti del suo tempo, Vincenzo Dandini, morto nella città natale nel 1675, ebbe una scuola rinomatissima, nella quale si formarono artisti di primo piano come il nipote Piero, Anton Domenico Gabbiani e Giovan Battista Foggini (sull’artista si veda Bellesi 2009, pp. 127-129; con bibliografia precedente).
Collocabile cronologicamente tra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo, la tela, deferente alla lezione del fratello maggiore Cesare e sensibile alle pitture di Lorenzo Lippi e Giovanni Martinelli, presenta affinità lessicali e tipologiche stringenti con vari dipinti di Vincenzo, riferibili più o meno al tempo sopra indicato, tra i quali appare sufficiente menzionare, per maggiori pertinenze stilistiche, la Baccante nella Galleria Corsini, databile al 1650, e il pressoché coevo Ganimede nelle collezioni della Banca Popolare di Vicenza a Prato (per queste opere si veda Bellesi 2003, pp. 102-105, nn. 25-26; con bibliografia precedente).
 
Bibliografia di riferimento: S. Bellesi, Vincenzo Dandini e la pittura a Firenze alla metà del Seicento, Ospedaletto/Pisa 2003; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, I, Firenze 2009.
 
 
Estimate    20.000 / 30.000
72
Francesco Furini
(Firenze 1603-1646)
NESSO E DEIANIRA
olio su tela, cm 116x176
sul retro bollo in ceralacca sul telaio e uno sulla cornice ed etichetta relativa alla provenienza
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 9 marzo 2013, di cui si riportano di seguito le parti salienti:
 
“ (..) I caratteri stilistici e la conduzione pittorica consentono di poter assegnare convincentemente l’opera al catalogo autografo di Francesco Furini, personalità artistica tra le più amate e apprezzate dai critici sei-settecenteschi e contemporanei. (..) Autore di intriganti favole mitologiche, di seducenti immagini allegoriche e di eleganti raffigurazioni sacre, Francesco Furini fu, nel corso degli anni, molto richiesto dai committenti fiorentini più esclusivi, tra i quali comparivano, non a caso, anche i più colti membri di Casa Medici. L’entrata nel mondo ecclesiastico, avvenuta nel 1633, non impedì al pittore di proseguire la sua attività, orientata sempre più verso un tipo di pittura morbida e dolcemente sfumata, caratterizzata in gran parte da immagini languide e maliziosamente sensuali. Carico di onori, Francesco Furini, il cui stile rimase vivo negli allievi fin quasi al termine del secolo, morì nella città natale nel 1646 (per una traccia biografica sull’artista e il corretto catalogo delle sue opere si veda Bellesi, 2009, I, pp. 153-155 e II, figg. 691-707; con bibliografia precedente).
Interessante e inedita acquisizione al catalogo pittorico dell’artista, l’opera, in buono stato di conservazione, è da ritenersi, alla luce attuale delle conoscenze, un’importante replica autografa di una tela eseguita nel 1631 per la collezione Riccardi a Firenze, passata nel 1680 nella Galleria Corsini dove è tuttora conservata (Cantelli 2010, p. 109 n. 27). Di formato leggermente maggiore rispetto al dipinto finora noto (che misura cm 116 x 158), l’opera, proveniente anch’essa da una storica collezione fiorentina, mostra dati stilistici ed esecutivi caratteristici della fase giovanile dell’artista. Deferente tipologicamente ai modelli tratti dall’antichità classica e dalla statuaria fine-cinquecentesca fiorentina del Giambologna e della sua cerchia, la tela, come l’esemplare Corsini, mostra affinità dirette con altre interessanti composizioni realizzate da Furini più o meno nello stesso tempo, come l’Ila e le ninfe nella Galleria Palatina a Firenze e la Giuditta con Oloferne e l’ancella Abra in Palazzo Barberini a Roma: opere databili intorno alla metà degli anni trenta”.
 
Bibliografia di riferimento: S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, Firenze 2009, G. Cantelli, Francesco Furini e i furiniani, Ponderera/Pisa 2010.
 
Estimate    40.000 / 60.000
75
Francesco Botti
(Firenze 1645-1711)
SANTA MARIA MADDALENA PENITENTE
olio su tela, cm 126,5x166,5
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi, Prato, 8 marzo 2013, di cui si riportano di seguito le parti salienti:
 
“(..) L’opera risulta riferibile, come indicano l’esame stilistico e antichi riferimenti orali tramandati dalla famiglia di appartenenza, a Francesco Botti, maestro lodato dai biografi settecenteschi e riemerso all’attenzione degli studi in tempi relativamente recenti (Bellesi 1996, pp. 63-138; con bibliografia precedente). Nato nel 1645, Francesco Botti, figlio del pittore Giacinto, dopo aver ricevuto una prima educazione sotto la guida del padre fu introdotto, ancora giovinetto, nel qualificato atelier di Simone Pignoni, artista con il quale collaborò per lungo tempo fino in età matura. Per completare degnamente la sua formazione compì, come tradizione, alcuni viaggi di studio, soprattutto a Venezia, città nella quale ebbe modo di studiare la pittura lagunare cinquecentesca e avvicinarsi al linguaggio di maestri coevi come Sebastiano Mazzoni e Antonio Carneo. Sicuramente autonomo a partire dal 1678, tempo della sua immatricolazione all’Accademia del Disegno, Botti, dopo il ritorno in patria, dette inizio a una fiorente attività, contraddistinta da pale d’altare e da dipinti “da stanza”, molto apprezzati dai committenti per la felice sintassi stilistica, orientata, in prevalenza, verso le sensuali immagini pignoniane, gli effetti fumosi delle pitture di Livio Mehus e la briosità inventiva di Cecco Bravo. Una maggiore aderenza agli orientamenti antiaccademici contraddistingue la produzione tarda del pittore, nella quale appaiono evidenti debiti dalla lezione di Pier Dandini e di Alessandro Gherardini. Artista assai apprezzato e stimato dai critici, Francesco Botti morì nella città natale nel 1711 (per una traccia biografica sul pittore si veda Bellesi 2009, pp. 92-93; con bibliografia precedente).
L’opera, databile con probabilità tra gli anni sessanta e settanta del XVII secolo, attesta come molte altre composizioni dell’artista una forte dipendenza dallo stile e dai modelli pittorici di Simone Pignoni. Lo stretto legame con il linguaggio pignoniano, ricorrente e costante nel percorso operativo di Botti, venne sottolineato con frequenza dai biografi antichi, in particolare dall’abate Orazio Marrini (...) (Marrini 1764, p. XXXXV).
Perfettamente in linea con gli insegnamenti di Pignoni, la tela con Santa Maria Maddalena penitente risulta, in effetti, un’originale rivisitazione di una nota composizione del maestro, ovvero la tela con Danae oggi conservata nella collezione Apolloni a Roma (Contini 1997, p. 60): opera più volte presa in esame da Botti come attesta, ad esempio, una versione, sempre con Danae, ubicata nei depositi delle Gallerie Fiorentine (Bellesi, Ricognizioni, op. cit., p. 90 nota 33 e fig. 6). Seppur variata per esigenze iconografiche, la tela in esame rivela affinità stringenti con il prototipo pignoniano nella particolare disposizione della figura, nella cura gestuale della stessa e nel dosaggio luministico. Affine all’opera risulta, ancora, un modellino apparso come autografo del maestro e poi assegnato alla bottega dallo stesso, apparso sul mercato antiquario nel 2001 (Baldassari 2008, p. 177 n. 4; con bibliografia precedente)”.
 
Bibliografia di riferimento: O. Marrini, Serie di ritratti di celebri pittori dipinti di propria mano, I, Firenze 1764; S. Bellesi, Ricognizioni sull’attività di Francesco Botti, in “Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato”, 1996, n. 63, pp. 63-138; R. Contini, L’influenza di Pietro da Cortona in Toscana, lui vivente: quale bilancio?, in Pietro da Cortona per la sua terra. Da allievo a maestro, catalogo della mostra a cura di R. Contini (Cortona), Milano 1997; F. Baldassari, Simone Pignoni, Torino 2008; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, I, Firenze 2009.
 
Estimate    25.000 / 35.000
82
Attribuito ad Orazio Gentileschi
(Pisa 1563-Londra 1639)
SANTA CECILIA
olio su tela, cm 110x79,5
al recto: numero d'inventario "207" dipinto in basso a sinistra
sul retro: sul telaio parte di una vecchia etichetta non leggibile con iscrizione a bistro; sul retro della cornice iniziali “S.C.” a bistro ed etichetta con iscritto “1915 proveniente dall’eredità Corsini Barberini”
 
Provenienza: collezione Barberini-Colonna;
collezione Barberini-Sciarra;
collezione Corsini;
collezione Antinori
 
Esposizioni: Artemisia Gentileschi. Storia di una passione, catalogo della mostra di Milano, a cura di Roberto Contini e Francesco Solinas, 22 settembre 2011-29 gennaio 2012, cat. 2
 
Bibliografia: G. Papi, Artemisia Gentileschi: Milan, in "The Burlington Magazine", 153, 1305, 2011, pp. 846-847; Artemisia Gentileschi. Storia di una passione, catalogo della mostra di Milano, a cura di Roberto Contini e Francesco Solinas, 22 settembre 2011-29 gennaio 2012, cat. 2, pp. 134-135 ill.
 
Il dipinto qui presentato è stato esposto e pubblicato da Roberto Contini in occasione della mostra tenuta a Milano nel 2012 su Artemisia Gentileschi, come opera giovanile di Orazio Gentileschi. Lo studioso nella sua scheda critica rileva come in questa Santa Cecilia l'artista mostri di saper unire i "troppo eversivi segnali" di Caravaggio con i "modi semplici e tuttavia veridici di suoi corregionali" come quelli "a marcia lenta" di un Agostino Ciampelli. Questa particolare fase stilistica del primo decennio del Seicento trova, secondo Contini, un riscontro con la Circoncisione della Pinacoteca Comunale di Ancona: "Nella grande pala marchigiana, come non cogliere nella fanciulla con chignon ultimissima a destra un taglio del volto mèmore sì di un Lilio, ma pur anche del menzionato Ciampelli?". Affinità stilistiche vengono riscontrate con altre opere di Gentileschi quali il Cristo portacroce di Vienna dove la mano della Maddalena mostra attinenze esecutive con la Santa Cecilia qui proposta. Lo studioso sulla base dei confronti sopracitati propone una datazione per l'opera tra il 1603 e il 1605.
Taluni richiami con la nostra opera si possono inoltre riscontrare con la figura di Santa Cecilia della pala d'altare della Pinacoteca di Brera di Milano, seppur d'impronta più caravaggesca.
Gianni Papi nella recensione alla mostra di Artemisia Gentileschi apparsa sul "Burlington Magazine" riteneva più probabilmente l'opera di ambito fiorentino "uncertain (...) more probably a Florentine work" (Papi 2011, p. 847).
 
Estimate    30.000 / 40.000
83
Pittore caravaggesco, prima metà sec. XVII
SAN GIROLAMO
olio su tela, cm 98x128
 
Le note qui di seguito riportate si devono a Marco Chiarini
 
“Il tema del San Gerolamo in penitenza, di origine molto antica, conobbe il culmine della sua popolarità con Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (Milano 1571-Porto Ercole 1610), e da lui si diffuse in tutta l'Europa del Seicento. Nei suoi esempi si afferma una visione terrena, crudamente realistica, del santo che, al suo tavolo dove poggia il simbolo dell'al di lá, il teschio umano, è intento alla lettura dei testi biblici. Questi elementi compaiono in questo dipinto inedito e qui illustrato per l'anima volta, opera di una personalità ancora da ricostruire, molto vicina al grande caravaggesco spagnolo Jusepe de Ribera (1591-1652). Lo "scavo" che il nostro pittore fa della testa e del torso del vecchio intento alla lettura di un lungo rotolo cartaceo è l'indizio più certo della conoscenza della pittura del Ribera: basta il confronto con i numerosi quadri del maestro spagnolo dello stesso soggetto a darcene la certezza, ma è soprattutto il confronto con il San Paolo eremita del Prado a darci la chiave interpretativa di questo quadro. La ricerca anatomica del torso, restituito nel suo aspetto quasi da "scorticato" , la lucida descrizione della testa quasi calva e scavata nelle orbite, la presenza silente ma significativa del cranio a sinistra, sono segno di un prodotto che esce dalla stessa drammatica cultura figurativa”.
Tali affinità con la pittura di Ribera emergono, nonostante alcune varianti compositive, anche dal confronto con il San Gerolamo della Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma (inv. 2330) che recava sul bordo superiore del libro la falsa firma "Jusepe de Ribera F. 1649". Un restauro del 1942 fece emergere l'esatta firma e data "Enrico So.f, 1652" restituendo quindi l'opera ad Hendrick van Somer (?, 1615-Napoli, 1684/85), pittore di grande qualità strettamente legato a Ribera, la cui personalità è tuttavia ancora problematica e in via di definizione.
 
Bibliografia di riferimento: A. Schiattarella, in Civiltà del Seicento a Napoli, a cura di E. Bellucci, Napoli 1984, I, p. 462.
 
Estimate    15.000 / 20.000
61 - 90  of 248