IMPORTANT OLD MASTER PAINTINGS

21 APRIL 2015

IMPORTANT OLD MASTER PAINTINGS

Auction, 0001Part 1
FLORENCE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
3.30pm
Viewing

FLORENCE
17-20 April 2015
10am – 1pm / 2pm – 7pm
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Estimate   1000 € - 80000 €

All categories

1 - 30  of 107
57

Alberto Carlieri

(Roma 1672 circa-post 1720)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA CON ROVINE ANTICHE E CORTEO DI PUTTI

olio su tela, cm 74x99

 

Nonostante la precoce ricognizione di Hermann Voss che già nel 1959 aveva reso noti i pochi dati biografici del pittore, così come li riportavano fonti coeve, e soprattutto pubblicato un dipinto firmato per esteso e datato da Roma nel 1707, ad esso accostandone altri per indubbie affinità di stile, la figura di Alberto Carlieri è stata “risuscitata” solo di recente, prevalentemente ad opera di David Marshall (The architectural piece in 1700: the paintings of Antonio Carlieri (1672 – c. 1720), pupil of Andrea Pozzo, in “Artibus et Historiae” 50, 2004, pp. 39-126) dopo che il suo pur nutrito catalogo era stato diviso tra nomi più illustri o quanto meno più noti.

Come già suggerito da Voss, ma in modo sempre più evidente nell’ultimo quarto del Novecento, le prospettive di Alberto Carlieri conservate in collezioni pubbliche e private tedesche o inglesi tendevano infatti a passare sotto i nomi di Giovanni Ghisolfi o del malnoto Domenico Roberti, mentre in Italia venivano quasi sempre attribuite a Gian Paolo Panini, e più precisamente al suo primo periodo.

Una volta chiarito l’equivoco grazie al ritrovamento di altre opere firmate, la fisionomia di Carlieri si è imposta con assoluta chiarezza come indipendente dal percorso paniniano, e invece legata agli esempi seicenteschi del tardo Viviano e di Nicolò Codazzi, oltre che del suo maestro, Fratel Pozzo, di cui tuttavia non sembra abbia proseguito l’attività di frescante.

Presente nelle più illustri quadrerie romane, a cominciare dalla collezione di Filippo II Colonna, da quelle dei Rospigliosi e del cardinal Valenti Gonzaga (non a caso protettore di Gian Paolo Panini) Carlieri elaborò ben presto modelli compositivi ben riconoscibili variandoli in funzione del formato, e un repertorio di soggetti ispirato alle Scritture e alla mitologia classica. Frequente il motivo di putti festanti che compare nel nostro dipinto, come pure il grande vaso (privo di riferimenti specifici all’antico) e l’abbondante vegetazione sullo sfondo. Fra i numerosi possibili confronti citiamo in particolare i dipinti nella Walters Art Gallery di Baltimora, già riconosciuti a Carlieri da Federico Zeri, e un dipinto passato a Londra da Sotheby’s (D.R. Marshall, 2004, cit., AC 50, fig. 63 e AC 43, fig. 68).

 

Estimate   € 15.000 / 20.000
Price realized  Registration
56
Estimate   € 8.000 / 12.000
Price realized  Registration
89

Bernardo Canal

(Venezia 1674-1744)

VEDUTA DI PIAZZA SAN MARCO VERSO LA CHIESA DI SAN GERMINIANO

VEDUTA DELLA PIAZZETTA DI SAN MARCO VERSO SUD, CON LE COLONNE DI S.MARCO E DI S. TEODORO

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 55x80 ciascuno

(2)

 

La coppia di vedute qui presentate possono senz’altro ascriversi al catalogo di Bernardo Canal, padre e, curiosamente, seguace di Antonio, universalmente noto come “il Canaletto”.

Pittore di scenografie teatrali, e come tale ricordato dai documenti come dalle principali fonti settecentesche a partire da Anton Maria Zanetti, che nel 1777 lo nomina come “pittore di teatro”, Bernardo Canal si arrese anche lui al nuovo genere della veduta di soggetto veneziano, inaugurato alla fine del Seicento da Gaspar van Wittel e rinnovato in maniera geniale da suo figlio Antonio, che per amore della veduta dichiarò di avere “scomunicato” il teatro.

Si deve a Rodolfo Pallucchini una prima ricostruzione dell’esiguo catalogo di Bernardo Canal, tutto appoggiato alla firma e alla data “Bernardo Canal fecit 1735” presenti al verso di due vedute veneziane, il Molo e Piazza San Marco, esposte a Venezia nel 1947. Alla stessa serie di cinque vedute, un tempo in palazzo Salom a Venezia e poi presso un erede della medesima famiglia nei pressi di Lucca, appartenevano altri soggetti veneziani indipendenti nella loro composizione dalle vedute del Canaletto sebbene costruite sul suo rigoroso telaio prospettico.

Come i dipinti qui offerti, le tele documentate di Bernardo Canal sono caratterizzate da una gamma cromatica vivace ma fredda e da un’attenzione per le “macchiette” che animano la scena quasi ridondante, e in qualche modo reminiscente dell’esempio di Luca Carlevarijs. Come nelle tele firmate, nuvole sfrangiate solcano il cielo nelle nostre vedute, anch’esse caratterizzate dagli stessi colori vivaci e in qualche modo discordanti, comuni anche a quelle del Richter.

 

Estimate   € 35.000 / 45.000
Price realized  Registration
85

Collezione indivisibile di undici dipinti provenienti da Palazzo Sansedoni di Siena

(11)

 

Nucleo notificato con decreto della Direzione Regionale della Toscana n. 321/2014, Firenze, 24 luglio 2014

 

Il lotto qui proposto, proveniente dallo storico Palazzo Sansedoni di Siena, si compone di undici dipinti che per lo più si possono rintracciare citati nell'inventario dei beni del Cav. Ottavio Sansedoni redatto il 5 luglio 1773, a poco più di un mese dalla sua morte. Nella sua globalità la collezione Sansedoni (iniziatasi a formare fin dal XVI secolo) era composta da dipinti, sculture, bassorilievi, nonchè busti in marmo, tappezzerie, porcellane e disegni anche se a farla da padrona era la scuola pittorica senese cinque-seicentesca grazie a dipinti attribuiti a Baldassarre Peruzzi, Beccafumi, Francesco Rustici e Rutilio Manetti. (cfr: L. Bonelli, Palazzo Sansedoni, a cura di Fabio Gabbrielli, Siena 2004, pp. 479-480)

 

a) Giovanni Domenico Ferretti

(Firenze 1692-1768)

I COMMENTATORI DI CICERONE

olio su tela, cm 171x139

firmato e datato "Gio Ferretti Fe / 1748"

 

Bibliografia: L. Bonelli, op. cit., pp. 479-486

 

L'importante dipinto qui proposto risulta citato nell'inventario del 1773: "Due quadri un poco più grandi (di "circa braccia tre") con cornici dorate e gialle uno esprimente li Commentatori di Seneca, copia del Ferretti dall'originale di Rubens, l'altra li Commentatori di Cicerone originali del Ferretti".

La tela in questione, come indicato nella relazione storico-artistica a cura di Alessandro Bagnoli, che era a pendant con la copia dal Rubens, riveste un particolare interesse sia per l'aspetto artistico sia per il soggetto. Si tratta di un dipinto di alta qualità del pittore fiorentino, che vi ha lasciato la firma e la data sul piccolo calamaio nero posto sopra un libro poggiato sul tavolo. La commissione di quest'opera rivela la cultura classicista del committente, che chiese al pittore di copiare il famoso quadro di Rubens, oggi conservato nella Galleria Palatina a Firenze, per affiancargli un dipinto di analogo soggetto con quattro "commentatori di Cicerone". Questa preziosa indicazione antica porta un utile contributo per definire meglio il soggetto del quadro di Rubens, comunemente indicato come i Quattro filosofi, anche se oggi sappiamo che rappresenta lo stesso Rubens, suo fratello Philippe e gli umanisti Juste Lipse e Jan Woverius. I quattro "commentatori" riuniti attorno al tavolo, analogamente a quanto fanno gli "intellettuali" immaginati da Rubens sotto il busto di Seneca, potrebbero essere identificati come segue: il personaggio in manto rosso e corona di alloro dovrebbe essere Francesco Petrarca, che ottenne l'ambito riconoscimento della laurea poetica in Campidoglio nel 1340 e di cui è noto l'interesse per la prosa di Cicerone e per la riscoperta di gran parte del suo Epistolario. Il 'commentatore' con sopraveste rossa secondo la moda del primo Quattrocento, che è intento a leggere, dovrebbe identificarsi con l'umanista Poggio Bracciolini che recuperò importanti orazioni di Cicerone e lo ritenne uno dei suoi modelli ispiratori. Per il robone ornato di pelliccia e la gorgiera si direbbe che il serio personaggio a sinistra con lo sgardo attento sia uno studioso della fine del Cinquecento; mentre quello con la rigida lattuga bianca potrebbe essere del primo Seicento. E' noto che Ferretti fu uno dei pittori preferiti da alcuni membri di casa Sansedoni, che gli affidarono in vari tempi gli incarichi di affrescare molte stanze del palazzo di famiglia. Il rapporto col pittore iniziò nel 1743. Il dipinto in questione, essendo datato 1748, assieme al suo disperso pendant copiato dal Rubens e a una terza tela di cui si ignora il soggetto, potrebbe essere uno dei tre quadri da stanza che Ferretti propose di sistemare sulle pareti del salone per risparmiare lavoro al suo collaboratore Pietro Anderlini, pittore specializzato nel dipingere finte architetture.

 

b) Giovanni Domenico Ferretti

(Firenze 1692-1768)

AUTORITRATTO

olio su tela, cm 87,5x73 senza cornice

 

L'opera qui illustrata è stata assegnata nella relazione storico-artistica, a cura di Alessandro Bagnoli, al pittore Giovanni Domenico Ferretti che si raffigura in età ormai avanzata. A conferma di tale attribuzione lo studioso propone alcuni confronti con la testa di un San Giuseppe di collezione privata bolognese (cfr. F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Milano 2002, p. 146); per il modo di panneggiare con l'uomo di spalle nella Predica di San Francesco Saverio agli indiani, già Volterra chiesa di San Giusto o con il San Michele arcangelo nell'Immacolata concezione, Campobasso, Convitto Nazionale. Dell'artista sono noti due Autoritratti, quello databile intorno al 1708 della Pinacoteca di Brera, Milano e quello della Galleria degli Uffizi, Firenze eseguito probabilmente nel 1719 (cfr. F. Baldassari, op. cit., pp. 126, 134-135). La pennellata veloce e al contempo soffice del pittore e l'uso accentuato del chiaroscuro sono aspetti che si ritrovano inoltre in altri ritratti dell'artista, come ad esempio in quello di Anton Francesco Gori (cfr. F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Milano 2002, pp. 199-201, figg. 185-186). E' probabile che il presente dipinto sia stato eseguito sul finire del sesto decennio del Settecento, quando Ferretti concluse l'ultima commissione per Rutilio Sansedoni, lasciando il suo nome e data 1759 nell'Allegoria della Nobiltà d'animo coronata dalla Scienza, dipinta su un soffitto del secondo piano del palazzo. Tale datazione trova ulteriore conferma nel tipo di giacca indossata dall'effigiato. Pur non presentando nessuna iscrizione che ne attesti la pertinenza agli altri dipinti del nucleo è altamente probabile che anche quest'opera sia stata in antico in Palazzo Sansedoni a Siena. Dall'inventario del 1773 si apprende infatti che nella stanza denominata "dei pittori" erano appesi i ritratti di sei pittori tra cui un ritratto di Ferretti, non meglio descritto, probabilmente identificabile con il nostro.

 

c) Bottega di Onorio Marinari, sec. XVII

GANIMEDE

olio su tela, cm 93x82

 

Il dipinto, già riferito nel decreto di notifica alla Bottega di Pier Dandini, è stato per ragioni stilistiche ricondotto all'ambiente di Onorio Marinari, come confermato su visione diretta da Silvia Benassai. Nella relazione storico-artistica viene sottolineato come il soggetto corretto del dipinto sia Ganimede e non Ila, in quanto non sembrano sussistere elementi iconografici per avvallare quest'ultima identificazione. Il ragazzo dall'aspetto efebico potrebbe essere quindi Ganimede, il bel giovane di cui si era invaghito Giove che, in forma d'aquila, lo rapì portandolo sull'Olimpo e affiancandolo ad ebe come coppiere degli Dei.

 

d) Pittore senese, metà sec. XVIII

RITRATTO DI AMBROGIO DOMENICO DI GIOVANNI SANSEDONI

olio su tela, cm 99x76 senza cornice

al recto sulla lettera iscritto "A dì 13 Maggio 1757 / Si concede licenza alla M.R. Suor Trafissa/.."; sul retro iscritto "AMBROGIO / DI GIOVANNI SANSEDONI / NATO IL 23. 7BRE J674 / ELETTO TES.RE DELLA METROPOL.NA / IL J5 APLE J710 / MORTO IL 30 APLE J757"

 

L'importanza storica di questo dipinto si deve all'effigiato Ambrogio Domenico di Giovanni Sansedoni, eminente membro della famiglia che, come altri quattro rappresentanti della stessa, ricoprì l'incarico di tesoriere del Duomo di Siena.

 

e) Pittore senese, sec. XVII

RITRATTO DI GIULIO DI ALESSANDRO SANSEDONI

olio su tela, cm 98x77

sul retro della tela cartiglio con lunga iscrizione a penna che ricorda i fatti della vita dell'effigiato morto nel 1621; sul retro del telaio iscritto "Salone Terreno n. 7"

 

Bibliografia: L. Bonelli, op. cit., p. 485

 

Il dipinto è citato nell'inventario del 1773: "Un quadro di b. uno circa con cornici gialle e dorate rappresentante il ritratto di Mons. Giulio Sansedoni Vescovo di Grosseto opera di buon pennello". Giulio di Alessandro Sansedoni viene raffigurato con la berretta e con in mano la biografia del Beato Ambrogio Sansedoni da lui scritta nel 1611. Nel 1606 fu nominato vescovo di Grosseto da Paolo V Borghese e dopo cinque anni preferì tornare a Roma e affiancare Filippo Neri nelle opere di carità, vivendo in ascetica povertà.

 

f) Pittore senese, sec. XVII

RITRATTO DI ALESSANDRO SANSEDONI CANONICO DEL DUOMO

olio su tela, cm 77,5x59

sul retro del telaio iscritto "Sala da pranzo n.1"

 

Il prelato ritratto è Alessandro di Ambrogio Leonardo Sansedoni, vissuto tra il 1638 e il 1710 che fu nominato Tesoriere della Metropolitana nel 1656.

 

g) Pittore toscano, fine sec. XVII

RITRATTO DI GIOVANE UOMO

olio su tela, cm 80x60 senza cornice

h) Pittore senese, inizi sec. XVIII

RITRATTO DI ORAZIO GIUSEPPE DI GIOVANNI SANSEDONI

olio su tela, cm 97x83

sul retro iscritto: "CAVRE ORAZIO GIUSEPPE DI GIO.VANNI SANSEDONI NATO IL J0 9BRE 1680 A SIENA (?) IL (?) SI PORTO' A MALTA PAGGIO DELL'ELMO GRAN MAESTRO"; sul retro del telaio iscritto "corridoio II P" e numero "3"

 

Il presente ritratto riveste notevole importanza storico documentaria in quanto ritrae Orazio Giuseppe, cavaliere gerosolimitano vissuto tra il 1680 e il 1751.

 

i) Seguace di Francesco Rustici detto il Rustichino, sec. XVII

LA MADDALENA CONFORTATA DAGLI ANGELI

olio su tela, cm 106x81

sul retro iscritto "DEL RUSTICHINO"; sul retro del telaio iscritto "Salotto celeste 23"

 

Bibliografia: L. Bonelli, op. cit., p. 483

 

Il dipinto è citato nell'inventario del 1773: "Un quadro grande con cornici intagliate e dorate rappresentante S.ta Maria maddalena co vari angeli opera del Rustichino". La tela costituisce una derivazione dal dipinto di Rustici conservato in collezione privata fiorentina, distinguendosi da questa per la variante nella posa delle mani della santa.

 

l) Seguace di Domenico Beccafumi, sec. XVII

SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNI E IL BEATO GIOVANNI COLOMBINI                            

olio su tela, cm 88x76

sul retro del telaio iscritto "CA del padrone n. 8" e "Camera Rossa n.2"

 

La presente tela costituisce una derivazione del dipinto di Beccafumi conservato presso il Museo Horne di Firenze, probabilmente realizzata da un pittore senese che risentì del luminismo di Rutilio Manetti.

 

m) Scuola bolognese, sec. XVII

Estimate   € 35.000 / 40.000
Price realized  Registration
10

Domenico di Francesco detto di Michelino

(Firenze 1417-1491)

MADONNA CON BAMBINO IN TRONO

tempera grassa su tavola centinata, cm79,5x47 entro cornice a tabernacolo di epoca posteriore, intagliata e dipinta

sul retro iscrizione relativa alla provenienza

 

Corredato da parere scritto di Giuseppe Fiocco, Padova 25 gennaio 1933, che riferiva il dipinto al Maestro di San Miniato

 

Provenienza: collezione privata, Padova

 

La tavola qui presentata, già riferita in un parere scritto di Giuseppe Fiocco del 1933 al Maestro di San Miniato, costituisce un'importante aggiunta al catalogo del pittore fiorentino Domenico di Francesco detto di Michelino grazie alle evidenti affinità stilistiche con altre opere del pittore.

Domenico di Michelino, la cui identificazione spetta ad Anna Maria Bernacchioni (1990), fu a lungo scolaro e collaboratore di Lorenzo Lippi ed anche dopo la morte del maestro collaborò con il figlio Filippino per portare a termine le opere lasciate incompiute da Filippo.

Tali tangenze con gli insegnamenti del Lippi si possono cogliere anche nella nostra opera che trova un valido elemento di confronto con la Madonna in trono ed angeli in preghiera, già presso le Scuole Pie Fiorentine, che mostra le caratteristiche del pittore verso gli anni sessanta. Affinità con la nostra tavola possono essere evidenziate in particolare nel simile modo di realizzare i nimbi e di collocare la Vergine e il Bambino entro strutture architettoniche dai toni rosati, di chiara ascendenza lippesca, che conferiscono al dipinto una spazialità assai tangibile, accentuata dalla struttura centinata della cornice. Interessante notare come la sofisticata e ricercata achitettura che incornicia le due figure in uno spazio prospetticamente definito sia in qualche modo stemperata dal tono intimo e affettuoso dei gesti delle due figure, in cui il Bambino con una mano stringe un dito della madre e porta l'altra alla bocca.

Ulteriori confronti, in particolare per le evidenti affinità fisionomiche con i tratti della nostra Vergine e del Bambino, possono essere effettuati con la Madonna dell'Umiltà e due angeli reggicortina del Museo del Bigallo in cui la ricerca spaziale, a differenza della nostra tavola, cede il passo a un'interpretazione decorativa e calligrafica; con la Madonna con il Bambino sorreggente il globo, già in collezione Budgett poi passata in un'asta Sotheby's di Londra nel 1971, e con la Madonna con Bambino e angeli, della chiesa dei SS. Anna e Biagio di Colle Val d'Elsa (Siena) che sostiene il Bambino in un simile gesto delicato e dolce.

 

Bibliografia di confronto: A. M. Bernacchioni, Documenti e precisazioni sull'attività tarda di Domenico di Michelino: la sua bottega di Via delle Terme, in "Antichità Viva", 6, 1990, pp. 5-14; A. M. Bernacchioni, Committenti sanminiatesi nell'attività di Domenico di Michelino, i Borromei e i Chellini, in "Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato, 57, 1990, pp. 95-118; A. Tartuferi, Domenico di Michelino: un'aggiunta e qualche riflessione sulle molte incertezze della fase iniziale, in "Arte Cristiana", 93, 2005, pp. 286-292.

Estimate   € 70.000 / 100.000
94

Fabrizio Boschi

(Firenze 1572-1642)

CRISTO SPOGLIATO DELLE VESTI

olio su tela, cm 187x112

 

Esposizioni: Fabrizio Boschi, pittore di “belle idee” e di “nobiltà di maniera”. Firenze, Casa Buonarroti, 26 luglio – 13 novembre 2006, n.8.

 

Bibliografia: R. Spinelli, Fabrizio Boschi (1572-1642) pittore barocco di "belle idee" e di "nobilità di maniera", catalogo della mostra, Firenze 2006, pp. 78-79, n.8

 

Reso noto da Riccardo Spinelli in occasione dell’ esposizione monografica dedicata al pittore fiorentino, il dipinto qui offerto è stato datato dallo studioso intorno alla metà del primo decennio del Seicento, e posto in relazione, per quanto ipotetica, con un passo di Filippo Baldinucci che, nella “vita” di Fabrizio Boschi, citava una serie di tele da lui eseguite dedicate ai diversi episodi della Passione.

Come riferito oralmente da Carlo Del Bravo, cui si deve l’attribuzione, il presente dipinto era un tempo in serie con un Cristo alla colonna siglato, comparso sul mercato antiquario negli anni Settanta, che della tela qui offerta costituiva per l’appunto l’immediata prosecuzione sotto il profilo narrativo. Il nostro dipinto mostra infatti un episodio raramente, o forse mai proposto  in queste dimensioni dalla pittura seicentesca, Gesù Cristo spogliato in vista appunto della sua flagellazione: e una scelta così inconsueta e specifica rafforza senz’altro l’ipotesi di appartenenza a un ciclo dedicato alla Passione, quasi si trattasse della versione ingrandita della serie dei Misteri Dolorosi.

Con una partecipazione emotiva in qualche modo eccezionale a Firenze, e un pathos che richiama piuttosto la devozione dei pittori lombardi di primo Seicento, Fabrizio Boschi sottolinea il contrasto tra il volto dolente del Cristo e le fisionomie caricate e quasi bestiali dei suoi tormentatori, il pallore della sua figura emaciata e il bagliore rosato della veste sfilata con prepotenza. La drammaticità della scena è dunque il principale motivo dell’abbandono, da parte del Boschi, dei colori squillanti e degli accordi raffinati che solitamente lo distinguono. Anche in questo senso, i confronti più convincenti devono stabilirsi con la nota pala nella Certosa di Galluzzo, che in modo altrettanto drammatico raffigura la separazione dei Santi Pietro e Paolo, avviati ai rispettivi martiri. La data del 1606 documentata per questo dipinto può quindi senza dubbio valere quale riferimento cronologico per il nostro.

 

Estimate   € 30.000 / 40.000
32

Francesco Curradi

(Firenze 1570-1661)

LOTH E LE FIGLIE

olio su tela, cm 179x200,5 entro cornice coeva a foglia d'oro, intagliata a motivi classici e finemente incisa nella fascia con decorazione a foglie

 

Provenienza: collezione privata, Siena

 

Raro soggetto vetero-testamentario di Francesco Curradi, l’inedito dipinto qui offerto va riferito a una fase relativamente avanzata nell’attività dell’artista fiorentino, come suggerisce la sobria gamma cromatica e l’accentuazione dei contrasti chiaroscurali, sia pure all’interno di una cifra stilistica che, maturata nei primi anni del secolo grazie all’esempio del Passignano e del Bilivert, rimase sostanzialmente invariata nel corso della sua lunga e fortunata carriera.

Quasi superfluo il confronto con altre opere del Curradi: simili alla maggior parte di quelle da tempo note sono infatti le figure dei nostri protagonisti, regolari nei tratti e pacate nei gesti, panneggiate in vesti sobrie e appena scomposte, quasi a malincuore e, beninteso, per pura esigenza di racconto.

Confronti specifici sono possibili, in ogni caso, con il dipinto nella collezione dei marchesi  Pucci pubblicato da Giuseppe Cantelli (Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, fig. 205) che, per rappresentare la fuga di Lot da Sodoma, costituisce un ideale (e forse effettivo) “primo tempo” dell’episodio qui presentato, momento successivo del racconto vetero-testamentario. L’inventario di Ottavio Pucci del 1718 ricorda peraltro in collezione un Lot e le le figlie, quadro grande del Curradi, compagno di una Betsabea del Bilivert, non finita, entrambi completati da cornici arabescate d’oro (The Getty Provenance Index): un referto che, per quanto riguarda l’enunciazione del soggetto, sembrerebbe riguardare il nostro quadro ancor più di quello più sopra citato.

Ulteriori confronti sono possibili con le figure degli astanti nella pala con la Predica del Battista nella chiesa di Santa Trinita, datata del 1649: anche in quel caso si ravvisa infatti quella stilizzazione classicheggiante dei volti femminili comune anche all’opera coeva del collega Ottavio Vannini. L'opera trova raffronti altresì con altri dipinti dell'artista quali Rachele al pozzo, Galleria Palatina di Firenze e con l'Artemisia, già Depositi delle Gallerie Fiorentine, oggi conservato presso Villa La Petraia, Firenze.

 

Estimate   € 20.000 / 30.000
Price realized  Registration
76

Francesco Montelatici detto Cecco Bravo

(Firenze 1601-Innsbruck 1661)

FIGURA VIRILE CON NATURA MORTA ESTIVA IN UN PAESAGGIO

olio su tela, cm 98x140

 

Bibliografia: M. Gregori, Appunti su Cecco Bravo, in “Comma” VI, 1970, 4, p. 10 e fig. a p. 7; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 115; A. Barsanti, Cecco Bravo (Francesco Montelatici), in La natura morta in Italia, a cura di Francesco Porzio, II, Milano 1989, p. 577 fig. 686; Cecco Bravo pittore senza regola. Firenze 1601-Innasbruck 1661, catalogo della mostra a cura di Anna Barsanti e Roberto Contini, Milano 1999, p. 74 fig. b

 

Pubblicato da Mina Gregori in un suo precoce intervento sul pittore fiorentino, il dipinto qui offerto è stato poi riconosciuto da Anna Barsanti come pendant della Figura femminile con natura morta autunnale resa nota indipendentemente da Carlo Del Bravo nel 1971 (Un’osservazione su inediti secenteschi, in “Antichità Viva” 10, 1971, 5, pp. 22-23, fig. 6).

Il recente passaggio in asta del dipinto citato in questa stessa sede  (26 novembre 2014, lotto 60) ha poi offerto l’opportunità di verificare la proposta della studiosa, e di confermare la coppia di tele all’esiguo catalogo di Cecco Bravo pittore di natura morta.

Come già evidenziato dagli studi fiorentini, i modelli compositivi per queste invenzioni in cui elementi di “natura in posa”, disposti in apparente disordine su un piano all’aperto, sono  accompagnati da una figura vista a metà sullo sfondo di cielo trovano un precedente nelle composizioni di Giovanni Pini (documentato a Firenze nei primi anni Trenta), un nome senza dubbio più pertinente di quello del romano Michelangelo Cerquozzi, talvolta chiamato in causa sebbene mosso da intenzioni naturalistiche e narrative del tutto diverse.

Omaggio raffinato al gusto per l’allegoria che pervade la cultura del Barocco, la coppia di nature morte ricomposta dalla Barsanti sembrerebbe databile al sesto decennio del secolo in virtù dei colori intensi e bruniti che le caratterizzano, interrotti dalle pennellate spumeggianti dei toni più chiari. Precedono quindi di poco il trasferimento dell’artista fiorentino alla corte dei Duchi del Tirolo nel 1660, dove egli morì l’anno successivo lasciando, segno del suo approccio eclettico alla pittura, ritratti di corte e una raffigurazione dell’Aurora.

 

Estimate   € 25.000 / 35.000
105

Giovanni Ghisolfi

(Milano 1632-1683)

PREDICA DI UNA SIBILLA TRA LE ROVINE

olio su tela, cm 48x66

 

Provenienza: già Sestieri, Roma (1976);

collezione privata

 

Bibliografia:

A. Busiri Vici, Andrea Locatelli, Roma 1976, p. 23, figg. 23, 24; F. Arisi, Gian Paolo Panini e i fasti della Roma del 700, Roma 1986, p. 35, fig. 32; p. 239, n. 44; A. Busiri Vici, Giovanni Ghisolfi (1623-1683).Un pittore milanese di rovine romane, Roma 1992, p. 25, fig. 27 (illustrato a colori); p. 58, n. 11, ill.; D. R. Marshall, Early Panini reconsidered: the Esztergom Preaching of an Apostle and the relationship between Panini and Ghisolfi, in “Artibus et Historiae” 1997, 36, pp. 146-47; fig. 12; p. 195, nota 61.

 

Più volte pubblicato da Andrea Busiri Vici come opera di Giovanni Ghisolfi, il dipinto qui offerto è stato invece riferito da Ferdinando Arisi ai primi anni romani di Giovanni Paolo Panini sulla base di un’incisione settecentesca (nota peraltro anche a Busiri Vici) che ne riproduce la composizione sotto il nome del pittore piacentino. Lo stesso gruppo di personaggi compare poi nel capriccio di rovine del Musée de la Chartreuse di Douai (F. Arisi 1986, cit. p. 239, n. 46) che ripete il nostro con la sola sostituzione del tempio di Saturno alla piramide Cestia.

Più recentemente, David Marshall ha riconsiderato globalmente il corpus di opere attribuite alla prima attività di Panini, restituendone almeno un quarto ad Alberto Carlieri e una decina, tra cui appunto il nostro dipinto, a Giovanni Ghisolfi, che lo studioso pone giustamente tra i modelli di Gian Paolo Panini. La conferma a quest’ultimo della composizione nel museo di Douai, ispirata a quella qui offerta, è un chiaro esempio di tale influenza.

 

 

 

Estimate   € 8.000 / 12.000
95

Giovanni o Nicolò Stanchi

(Roma 1608 - dopo il 1673; 1623 – 1690 circa)

FIORI IN UN VASO IN METALLO, CON MAZZO DI ANEMONI SU UN PIATTO

VASO DI ANEMONI, GIGLI E TULIPANI, CON ROSE SU PIANO DI PIETRA

coppia di dipinti ad olio su tela ottagonale, cm 53,5x89,5 ciascuno

(2)

 

Provenienza: asta Londra, Phillip’s, 5 luglio 1994, n. 50 a-b

 

Bibliografia: G. Sestieri (a cura di), Dipinti italiani ed europei del XVII e XVIII secolo. Galleria Cesare Lampronti, Roma 1996, pp. 40-41, nn. 23-24; L. Ravelli, Stanchi dei fiori, Bergamo 2005, p. 87, nn. 79-80; S. Proni, La famiglia Stanchi, in G. Bocchi - U. Bocchi, Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Viadana 2005, p. 257, figg. FS 16-17

 

Passati in asta a Londra come opera di Giacomo Recco e ricondotti più correttamente all’ambiente romano, sebbene sotto il nome di Abraham Brueghel, in occasione della mostra tenuta a Roma da Cesare Lampronti, i dipinti qui esaminati sono stati restituiti da Lanfranco Ravelli alla produzione dell’atelier della famiglia Stanchi, come successivamente confermato da Silvia Proni.

Il lungo saggio della Proni, corredato da un regesto di documenti e da citazioni inventariali, ricostruisce in maniera capillare e del tutto convincente la produzione di una delle principali botteghe romane del Seicento, specializzata in dipinti di fiori e frutta (occasionalmente, anche di animali e selvaggina) ricercati dalle più importanti famiglie dell’aristocrazia, dai Colonna, ai Chigi, ai Rospigliosi, e presenti fin dalla fine del secolo nelle raccolte medicee.

Punto di partenza per la ricostruzione del corpus riferito agli Stanchi, le magnifiche specchiere eseguite da Giovanni nel 1670 per la galleria di palazzo Colonna in collaborazione con Carlo Maratta (Ghirlanda di fiori con quattro putti; e Vaso di fiori con cinque putti), in competizione con Mario dei Fiori, autore delle altre a due; per quanto riguarda Nicolò, il fratello minore titolare della bottega dopo la morte di Giovanni, gli specchi in palazzo Borghese, eseguiti nel 1675 in collaborazione con Ciro Ferri. A questi si aggiungono la coppia di festoni di fiori nella Pinacoteca Capitolina, dalla collezione Sacchetti, pagati a Pietro da Cortona, e per lui a “Stanchi”, nel 1651 (replicate in due tele a palazzo Pitti), e una serie di sei piccole tele documentate di Nicolò per il cardinale Flavio Chigi, oggi presso la famiglia Incisa, oltre ad alcune nature morte documentate fin dall’inizio del Settecento nella collezione Pallavicini, ove ancora si trovano.

Estremamente varia per tipologia ma stilisticamente coerente, la produzione degli Stanchi è stata poi suddivisa dalla Proni a seconda dei soggetti proposti: innanzi tutto le ghirlande, legate al modello fiammingo reso celebre a Roma da Daniel Seghers (di cui si conservava un esemplare nella collezione Ludovisi, censito nell’inventario del 1618) e probabilmente in gran parte riferibili al solo Giovanni; i sontuosi bouquets entro vasi in metallo istoriato, sull’esempio di quelli, celebri, di Mario dei Fiori; composizioni di fiori e frutta su sfondo di paesaggio, talvolta con la presenza di figure femminili come nelle scene di vita all’aperto di Michelangelo Cerquozzi, a cui in passato sono state attribuite; ricostruzioni ideali di giardini che riproponevano, in tele di grande formato documentate anche negli inventari delle raccolte del cardinal Flavio Chigi e del cardinal Benedetto Panfili, la ricchezza e la varietà dei giardini delle ville romane di quegli stessi committenti, così come possiamo oggi ricostruirne l’aspetto a partire dai documenti e dalle rare illustrazioni.

Tipiche della “bottega Stanchi” nella precisione smaltata dei singoli fiori e nella costante presenza delle rose “antiche”, quasi una sigla dell’atelier, le tele in esame appaiono particolarmente vicine a quanto, con relativa certezza, possiamo oggi riferire a Giovanni, il maggiore dei fratelli, la cui attività appare documentata fin dal 1634. Anche la presentazione dei vasi e dei fiori recisi su un piano di pietra illuminato dall’alto contro un fondo scuro, memore certamente del primo tempo della natura morta romana caravaggesca, suggerisce in effetti una datazione abbastanza precoce per la coppia di tele qui esaminate.

Da notare, infine, la sequenza di rombi che decora il corpo del vaso in metallo nel secondo dipinto, motivo che ritroviamo in altre forme (ricami dorati sui nastri in seta azzurra che raccolgono fiori recisi o si intrecciano a ghirlande: cfr. S. Proni, 2005, figg. 7, 13, 14, 19) ed è forse collegato allo stemma della famiglia Rospigliosi, che compare esplicitamente a decorare un piedistallo (o “sgabellone”) in una composizione di pesci venduta alla Finarte (S. Proni, fig. 15). La committenza del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa col nome di Clemente IX fra il 1667 e il 1669, è peraltro documentata già nel 1644, quando specchi dipinti con fiori di Giovanni Stanchi sono da lui donati al re di Spagna, Filippo IV.

Come la maggior parte delle opere uscite dalla “bottega Stanchi” anche le nostre composizioni di fiori si distinguono per i colori smaglianti e la perfetta conservazione, dovuta senza dubbio ai materiali di pregio utilizzati in ogni circostanza e non solo per le commissioni più prestigiose: un dato che rende indubbiamente ragione del successo goduto dall’atelier nel corso di ben cinque decenni.

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
81

Giovanni Paolo Panini

(Piacenza 1691-Roma 1765)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA DI ROVINE CON DEDALO E ICARO

olio su tela, cm 74,5x100

sul retro del telaio tracce di vecchia etichetta iscritta: “Dedalus and Icarus. G.P. Panini” ed altra etichetta Colnaghi, Londra

 

Provenienza: Colnaghi, Londra;

asta Christie’s, 24-3-1972, Londra;

collezione privata, Roma;

Galleria Gasparrini (1992), Roma;

collezione privata, Roma

 

Corredato di parere scritto di Giuliano Briganti, Roma, 30/XII/79 e di Ferdinando Arisi, Piacenza, 9 novembre 1992

 

Considerato da Briganti opera giovanile di Gian Paolo Panini, il dipinto qui offerto propone in effetti i confronti più pertinenti con rare opere dell’artista piacentino datate del terzo decennio del Settecento, delle quali condivide l’ardito taglio prospettico e la gamma cromatica fortemente contrastata.

La fuga di colonne osservata da un punto di vista eccentrico richiama ad esempio, sebbene semplificato, l’ambiente della Probatica piscina in raccolta privata, opera firmata e riferibile al 1724 grazie al pendant che reca appunto quella data (F. Arisi, Gian Paolo Panini e i fasti della Roma del 700, Roma 1986, p. 306, n. 161), e ancora la prospettiva architettonica con la Cacciata dei mercanti dal Tempio nella Bayerische Staatsgemaeldesammlung di Monaco (Arisi 1992, p. 312, n. 171) che con la nostra condivide la presenza, piuttosto inusuale e certo non accademica, di capitelli ionici su fusti scanalati.

Ancora, la stessa fuga di archi spezzati fa da sfondo a una Adorazione dei Magi probabilmente identificabile con la tela di uguale soggetto descritta nell’inventario del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, che di Panini fu senza dubbio il maggiore e più illustre committente (Arisi 1992, p. 328, n. 193). Opere, tutte, che nel terzo decennio del secolo rivelano la sapienza del quadraturista, quale Panini era appunto per formazione, facendo riferimento a un repertorio architettonico in qualche modo “di maniera” e ancora privo di quei riferimenti alla scultura classica che in breve, ricercati da “antiquari” e appassionati in Grand Tour, diventeranno quasi il marchio dell’artista.

Priva di confronti, e in effetti unica nella produzione paniniana, la scena al centro della navata principale si riferisce al mito di Dedalo e Icaro. Prototipo dello scultore, Dedalo è raffigurato nell’atto di costruire, incollando le piume una ad una, le ali che libereranno il figlio dalla prigione del labirinto da lui stesso progettato. Per terra, le piume da montare, un secondo paio di ali e altre, forse scartate o ancora in preparazione, alludono agli aspetti squisitamente manuali della pratica dello scultore, come del resto la sega e il martello abbandonati in terra: un soggetto così particolare da far credere che Panini lo dipingesse su richiesta specifica di un cliente e che, per questo motivo, restasse unico nella sua ricchissima produzione.

 

 

Estimate   € 40.000 / 60.000
Price realized  Registration
23

Girolamo Macchietti

(Firenze 1535-1592)

ALLEGORIA DELLA PRUDENZA

olio su tavola, cm 71x57

 

Provenienza: collezione privata, Firenze

 

Esposizioni: La Bella Maniera in Toscana. Dipinti dalla collezione Luzzetti e altre raccolte private, Museo Archeologico e d'Arte della Maremma, Grosseto, dal 31 maggio al 30 settembre 2008

 

Bibliografia: S. Bellesi, in La Bella Maniera in Toscana. Dipinti dalla collezione Luzzetti e altre raccolte private, catalogo della mostra a cura di Federico Berti e Gianfranco Luzzetti, Firenze 2008, pp. 132-135, ill. p. 133

 

Referenze fotografiche: Fototeca Zeri, Bologna, busta 0383, scheda 34581, inv. 83197 (come Michele Tosini)

 

La pregevole tavola qui proposta è stata restituita da Sandro Bellesi al pittore fiorentino Girolamo Macchietti, dopo essere stata variamente attribuita a Giorgio Vasari, al Bronzino e a Michele Tosini, sotto la cui denominazione compare ancora nell'archivio della Fototeca Zeri.

L'elegante profilo muliebre del nostro dipinto, allusivo alla figura allegorica della Prudenza, una delle quattro Virtù Cardinali, viene raffigurata rivestita da "seriche vesti azzurre dagli effetti madreperlacei e adornata da raffinati elementi ornamentali in oro e pietre preziose" con una mano posata su un ripiano ligneo sostenente una serpe intrecciata intorno alle dita e l'altra in atto di sorreggere uno specchio. Sia la serpe che lo specchio costituiscono dei simboli ricorrenti di questa personificazione allegorica: la prima risulta associata a un passo del vangelo di Matteo: "siate […] prudenti come i serpenti", mentre il secondo allude alle capacità razionali dell'uomo saggio di potersi vedere nell'animo per quello che è in realtà. A tali simboli iconografici si aggiunge la bifrontalità della figura che presenta un secondo volto sulla nuca, allusivo ancora una volta alla circospezione propria di questa virtù attenta a guardare davanti e dietro di sè.

Macchietti, educato alla pittura nell'atelier di Michele Tosini per dieci anni, si distinse per le sue opere elganti conformate sulle nuove istanze della Chiesa controriformata in linea con il linguaggio di altri pittori quali Santi di Tito, Mirabello Cavalori e Maso da San Friano. Tra il 1570 e 1572 si colloca la sua importante partecipazione all'arredo artistico dello Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio per il quale eseguì la Medea ed Esone, suo capolavoro indiscusso, e le Terme di Pozzuoli in cui mostra richiami alla grafia pontormesca.

Per talune soluzioni stilistiche e formali, soprattutto nella resa anatomica della figura e nell'aspetto algido degli incarnati, la nostra tavola presenta forti legami proprio con la Medea ed Esone, sopracitata, e con raffigurazioni femminili come la Proserpina del Museo della Ca' d'Oro di Venezia, che ne consentono quindi, come indicato da Bellesi, una datazione approssimativamente verso la metà degli anni settanta.

L'origine delle diverse attribuzioni che si sono succedute nel tempo per la nostra opera va probabilmente rintracciata nel linguiaggio stilistico e figurativo eterogeneo dell'opera stessa che rivela altresì la lezione di Francesco Salviati nella particolarità fisionomica del profilo femminile, oltre ad evidenti assonanze con Giorgio Vasari dal quale però si differenzia per un timbro pittorico più morbido e sfumato, meno ligio pertanto alla "maniacale definizione delle complesse acconciature femminili e agli elementi ornamentali di contorno" propria di Vasari.

Estimate   € 70.000 / 100.000
43

Jacob van de Kerckhoven

(Anversa 1636-Venezia 1712)

NATURA MORTA CON CESTO DI PESCI, CACCIAGIONE, FAGIANO E TESTA DI CINGHIALE                   

NATURA MORTA CON VOLATILI E LEPRE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 87x106 ciascuno entro antiche ed eleganti cornici in legno intagliato a motivo di foglie e mascherone in basso al centro

(2)

 

Corredato da parere scritto di Daniele Benati, Bologna, 20 febbraio 2015

 

I due dipinti, racchiusi entro eleganti cornici intagliate in legno di cirmolo del XVII secolo, propongono sontuose raffigurazioni di cacciagione ambientate sulla nuda terra contro un fondo scuro. L'inquadratura fortemente ravvicinata consente al pittore di indagare il pellame degli animali uccisi: il vello ispido della testa del cinghiale, le penne multicolori delle beccacce e dei germani, le squame dei pesci. La presenza delle ceste e, nel primo dei due dipinti, delle verdure alludono altresì all'imbandigione di cui i frutti della caccia e della pesca saranno fatti oggetto sulla tavola del padrone di casa, secondo un significato di abbondanza e di liberalità che nella natura morta nordica si sostituisce assai presto a quello di Vanitas, presente nei più antichi esemplari di questo genere pittorico.

L'autore del bellissimo pendant si riconosce del resto in modo del tutto piano in Jakob van der Kerkhoven, un artista allievo ad Anversa di Jan Fyt che già nel 1663 risulta trasferito a venezia, dove il suo cognome viene italianizzato in Giacomo da Castello o, meno frequentemente ma più propriamente, Giacomo del Cimitero (tale è infatti il significato di Kerkhoven in lingua fiamminga). Malnoto fino a tempi recenti, l'artista è andato via via assumendo nel campo degli studi un rilievo sempre maggiore, grazie non soltanto ai numerosi dipinti che la critica ha potuto aggiungere ai pochi esemplari firmati, ma anche alle notizie che lo dicono a sua volta maestro di Giovanni Agostino Cassana. Forte della lezione appresa da Fyt, egli dovette di fatto imporsi ben presto in abito veneto, soddisfacendo una richiesta che attribuiva sempre maggiore importanza alla natura morta. Gli inventari sei-settecenteschi testimoniano di fatto una massiccia presenza di suoi dipinti nelle quadrerie dell'aristocrazia veneziana, per la quale il genere della cacciagione doveva costituire un'indubbia novità a fronte delle composizioni di fiori e frutta sino ad allora proposti da Bernardo Strozzi e dai suoi imitatori.

in tale veste Jakob van der Kerkhoven giunge a intervenire anche entro opere di importanti pittori di figura, se ho ragione nell riferirgli gli inserti di frutta e cacciagione della ben nota tela con Una donna che batte due cani di Guido Cagnacci, ora conservata nella collezione Borromeo all'Isola Bella (D. Benati, in Guido Cagnacci, a cura di D. Benati e M. Bona Castellotti, catalogo della mostra di Rimini, Milano 1993, pp. 152-155 n. 36). Poichè quest'ultimo dipinto deve datarsi nel corso degli anni cinquanta, quando Cagnacci lavora appunto a Venezia, il riconoscimento al suo interno della mano di van der Kerkhoven, appoggiato a una Natura morta con cacciagione firmata e datata 1661 passata anni fa sul mercato internazionale (Christie's, Londra, 25 ottobre 1985, n. 35: ripr. in E. Safarik, La natura morta nel Veneto, in La natura morta in Italia, a cura di F. Zeri, I, Milano 1989, I, fig. 422), consente altresì di anticipare di qualche tempo la data dell'arivo a Venezia del pittore anversano rispetto al 1663, in cui vi è sicuramente documentato.

Il confronto con quel dipinto risulta altresì stringente al fine di convalidare anche l'attribuzione del pendant in esame, giacchè assai simile vi appare la definizione ispida del pelame della testa del cinghiale (una costante desunta da Fyt), nonchè l'attenta resa del piumaggio dei volatili. Un altro dipinto dal confronto col quale la paternità di Jacob van der Kerkhoven viene ulteriormente consolidata è la Natura morta con cacciagione, ortaggi e testa di cinghiale conservata nella residenza di Argory a Dungannon nella contea di Tyrone nell'Irlanda del nord, già di proprietà della famiglia MacGeough Bond ed ora del National Trust: la testa di cinghiale vi compare prssochè sovrapponibile a quella effigiata nel primo dei due dipinti qui esaminati, a dimostrazione del fatto che van der Kerkhoven, come altri specialisti di natura morta, soleva ricorrere a un repertorio di studi effettuati sul vero al quale attingere nella confezione dei propri quadri. Assai simile è ancora la lepre in una Natura morta con cacciagione e ortaggi presentata di recente in vendita da Christie's (Amsterdam, 21 giugno 2011, n. 314).

Per la loro ragguardevole qualità, i dipinti in esame, contraddistinti anche da un ottimo stato di conservazione, sono destinati ad assumere un ruolo importante nel tuttora non ricchissimo catalogo dell'artista anversano, tanto che mi riprometto di renderli io stesso noti in una auspicabilmente prossima occasione.

Estimate   € 20.000 / 30.000
Price realized  Registration
1 - 30  of 107