Dal Rinascimento al Primo '900 Percorso attraverso 5 secoli di pittura | DIPINTI ANTICHI

1 LUGLIO 2020

Dal Rinascimento al Primo '900 Percorso attraverso 5 secoli di pittura | DIPINTI ANTICHI

Asta, 0338
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15.30
Esposizione
FIRENZE
Venerdì      26 giugno 2020   10-18
Sabato      27 giugno 2020   10-18
Domenica   28 giugno 2020   10-18
Lunedì        29 giugno 2020   10-18
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   3000 € - 80000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 59
36

Stefano Camogli detto il Camoglino

(Genova, 1610 circa – 1690)

VASO DI FIORI CON SCIMMIA

olio su tela, cm 90x146

 

FLOWERS IN A VASE AND A MONKEY

Oil on canvas, cm 90x146

 

Provenienza

Londra, Christie’s, asta 14/4/1999, lotto 113

 

Bibliografia

A. Orlando, “Pittore eccellente di arabeschi, di fogliami, di fiori, di frutti”. Stefano Camogli in casa Piola, in D. Sanguineti, Domenico Piola e i pittori della sua “casa”, Soncino 2004, pp. 77-100, fig. 28; A. Orlando in Van Dyck e i suoi amici. Fiamminghi a Genova 1600-1640, catalogo della mostra a cura di A. Orlando, Genova 2018, fig. 2, p. 248.

 

Riconosciuto quale autografo di Stefano Camogli da Anna Orlando successivamente al passaggio sul mercato inglese come cerchia di Nicola Giuli, la tela costituisce un tipico esempio dell’attività del pittore genovese, allievo del fiammingo Jan Roos - attivo a Genova dal 1616 al 1638 – e in seguito naturamortista indipendente e stretto collaboratore del cognato Domenico Piola.

Rispetto al maestro che dipinge attraverso un susseguirsi di diafane velature, Camogli ha un modo assai più materico di rendere la consistenza di fiori, vasellame e animali, avvalendosi di una preparazione rossastra: la scimmietta che, dispettosa, sembra voler strappare le due ortensie bianche presenta la pennellata a tratteggio tipica del Grechetto, utilizzata anche dal Camoglino.

Ritroviamo poi nell’opera offerta uno dei suoi topoi compositivi, il protagonismo di un vaso descritto nella ricchezza dei diversi dettagli preziosi, nel nostro caso la montatura dorata con un’aggettante testa di cherubino, forse citazione di una delle opulente suppellettili che ornavano le dimore dei facoltosi committenti genovesi. Assai probabile una sua collocazione quale sovrapporta per il gioco di finzione sullo sfondo con la decorazione architettonica a conchiglia entro cui sono sistemati in perfetto equilibrio i vari elementi raffigurati.

Anna Orlando, accostando questo Vaso di fiori con scimmia alla Natura morta con vaso di fiori e volatile come Vanitas, di collezione privata, esposta a Genova nel 2018 (A. Orlando in Van Dyck e i suoi amici. Fiamminghi a Genova 1600-1640, catalogo della mostra a cura di A. Orlando, Genova 2018, scheda II.4, pp. 248-249.), suggeriva una sua collocazione tra le opere più precoci di Stefano Camogli, quando più evidente è la lezione del Roos, soprattutto a livello compositivo; una lezione volta successivamente dal genovese, nei tardi anni trenta, in chiave più decisamente barocca.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
22

Seguace di Annibale Carracci, sec. XVII

IL MANGIAFAGIOLI

olio su tela, cm 87,5x113

 

Follower of Annibale Carracci, 17th century

THE BEAN - EATER

oil on canvas, cm 57,5x113

 

Provenienza

Londra, mercato antiquario, 1952; Roma, collezione Luigi Salerno; Roma, Finarte, “Mobili, arredi, dipinti e libri dallo studio di Luigi Salerno”, 5 Aprile 2000, lotto 760; Milano, collezione privata

 

Esposizioni

Bologna 1584. Gli esordi dei Carracci e gli affreschi di palazzo Fava. Bologna, Pinacoteca Nazionale, 13 ottobre – 16 dicembre 1984, n. 83

 

Bibliografia

E. Battisti, Profilo del Gobbo dei Carracci, in “Commentari” V, 1954, p. 298; D. Posner, Annibale Carracci. A Study in the Reform of Italian Painting around 1590,  Oxford 1971, p. 5, n. 8; Bologna 1584. Gli esordi dei Carracci e gli affreschi di palazzo Fava. Catalogo della mostra, Bologna 1984, n. 83.

 

Esempio straordinario del primo naturalismo “lombardo” alla fine del Cinquecento, e più recentemente assurto a vera e propria icona della cucina italiana, il Mangiafagioli dipinto da Annibale Carracci circa il 1584 conobbe, imprevedibilmente, fortuna immediata tanto da essere modello per la versione appena più tarda che qui presentiamo, e per una copia seicentesca segnalata dagli studi moderni ma non rintracciata.

Nato come studio “dal naturale”, al pari del Ragazzo che beve recentemente trafugato a Oxford, il Mangiafagioli è documentato per la prima volta nel 1678 nella collezione Pallavicini con la corretta attribuzione (“Un villano che mangia fagioli… mezza figura al naturale di Annibale Carracci), così poco scontata da lasciar intuire l’esistenza di una precoce documentazione circa il suo autore. Passò quindi nella collezione Colonna dove alla fine del Settecento la guida del Ramdohr lo ricordava come “Bambocciata di Annibale Carraccio, piena di verità”.

Più complicata la sua vicenda critica nel corso del Novecento, e oscillante tra i nomi di Bartolomeo Passerotti e Pietro Paolo Bonzi (Il Gobbo dei Carracci, per l’appunto, secondo il Malvasia) con significative varianti nella datazione, fino al generale riconoscimento di Annibale Carracci, proposto in occasione della mostra bolognese del 1956 e mai più messo in discussione.

Avanzata da Hoogewerff nel 1923, l’attribuzione a Pietro Paolo Bonzi (Cortona 1576 circa – Roma 1636) per il dipinto della Galleria Colonna si era intanto estesa anche alla tela qui presentata, ricordata da Eugenio Battisti in un primo intervento sul pittore cortonese.

Ne resta oggi non identificabile l’autore che, nell’accentuazione delle ombre e degli aspetti in qualche modo caricaturali della figura, sembra recuperare il gusto più arcaico di un Passerotti piuttosto che lo studiato naturalismo di Pietro Paolo Bonzi, come documentato nel Ragazzo con melone già a Berlino, dalla collezione Giustiniani che, sebbene distrutto, costituisce uno dei rari esempi della sua produzione documentata.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
13

Scuola toscana, prima metà sec. XVI

SANTO MONACO MARTIRE

olio su tavola, cm 16,5x26

tracce di iscrizioni incise in prossimità degli angoli superiori

 

Tuscan school, first half of 16th century

SAINT MONK AND MARTYR

oil on panel, cm 16,5x26

traces of engraved inscriptions on the upper corners

 

Si tratta con ogni probabilità di uno degli scomparti di una predella che comprendeva figure di santi come elementi di raccordo tra scenette istoriate. Larghe campiture si alternano a pennellate liquide che segnano le pieghe del saio o l’ondeggiare verso sinistra della barba ravvivata anche da sottili lumeggiature.

L’iscrizione in alto a destra dove ancora ben visibile è la lettera “M” iniziale e la “O” finale hanno portato in passato a un’attribuzione a Domenico Beccafumi (Monteaperti, 1486 – Siena, 1551), nato Mecherino o Mecarino.

Pur nella difficoltà di inquadrare il contesto di provenienza, data l’essenzialità della composizione che fornisce pochi elementi idonei a stabilire stringenti confronti stilistici, proprio alcuni esempi ricondotti all’attività di Beccafumi e bottega permettono di collocare l’opera nell’ambiente artistico toscano di primo cinquecento. Si vedano la piccola tavola raffigurante Santo Stefano della collezione Chigi Saracini di Siena e gli scomparti della predella, conservati al museo del Louvre di Parigi e presso la Pinacoteca Nazionale di Siena (P. Torriti, Beccafumi, Milano 1998, p. 77, scheda P14 e pp. 145-147, scheda P68), in origine parte della Madonna col Bambino e Santi dell’Oratorio di San Bernardino di Siena - tre racconti francescani alternati alle figure di San Bonaventura, Santa Elisabetta d’Ungheria e di confratelli in adorazione – che mostrano analogie nella resa delle figurette attraverso poche pennellate capaci di restituire la sensazione di movimento e nella predilezione per tonalità chiare.

 

Stima   € 3.000 / 5.000
Aggiudicazione  Registrazione
37

Scuola romana, prima metà sec. XVIII

RITRATTO DEL CARDINALE GIUSEPPE RENATO IMPERIALI (1651-1737)

olio su tela, cm 101x75,5

 

Roman school, first half of 18th century

PORTRAIT OF CARDINAL GIUSEPPE RENATO IMPERIALI (1651-1737)

oil on canvas, cm 101x75,5

 

Fra i protagonisti della Curia romana a partire dal pontificato di Clemente XI Albani (1700-1721) e candidato egli stesso al pontificato nei conclavi del 1724 e del 1730, Giuseppe Renato Imperiali, cardinale dal 1690, si distinse per la sua attività quale prefetto della Congregazione del Buon Governo, responsabile dell’amministrazione delle finanze dello Stato della Chiesa. Tra i suoi molti incarichi, anche la cura di numerosi edifici ecclesiastici e civili di cui promosse il restauro e l’abbellimento ad opera dei maggiori artisti del tempo. Vertice della sua carriera politica, la nomina a Legato Imperiale a latere in virtù della quale accompagnò l’imperatore Carlo VI d’Asburgo nel corso del suo viaggio in Italia, tra l’autunno del 1711 e il gennaio successivo. L’entrata congiunta a Milano, descritta dalle cronache contemporanee, fu celebrata da un grande dipinto di Domenico Maria Viani.

L’interesse del personaggio risiede altresì nella sua attività di collezionista e bibliofilo, ampiamente documentata dalle fonti storico-artistiche che ricordano gli artisti protetti dal cardinale e i prestiti da lui concessi alle mostre organizzate ogni anno a San Salvatore in Lauro, oltre che dall’inventario della collezione redatto alla sua morte nel 1737. Pubblicato da Simonetta Prosperi Valenti Rodinò (Il cardinale Giuseppe Imperiali committente e collezionista, in “Bollettino d’arte” XLI, 1987, pp. 17-60) il documento descrive la collezione di dipinti e sculture, per lo più dedicata ad artisti contemporanei ma non priva di opere del Cinquecento acquisite nel corso della legazione a Ferrara, dal 1691 al 1697, e il raffinatissimo arredo delle sale di palazzo Ferraioli a piazza Colonna, ove accanto a oggetti preziosi spiccavano le porcellane orientali, così alla moda nel Settecento.

Come da disposizioni testamentarie, la collezione del cardinale fu dispersa appena dopo la sua morte allo scopo di finanziare il mantenimento e l’apertura al pubblico della sua biblioteca. Frequentata da studiosi del calibro di Giuseppe Bottari, anche la biblioteca Imperiali fu dispersa alla fine del XVIII secolo.

La memoria della collezione è affidata, oltre che ai documenti, a un esiguo numero di opere identificate e ai pittori ricordati dalle fonti biografiche per essere stati protetti dal cardinale, primo fra tutti Francesco Fernandi, detto appunto Imperiali, di grande successo presso il pubblico inglese, e Cristoforo Munari.

Il cardinale fu celebrato dal monumento funebre eretto nella chiesa di Sant’Agostino, in posizione simmetrica rispetto a quello che egli stesso aveva commissionato per lo zio, il cardinale Lorenzo, a cui doveva l’avviamento alla carriera ecclesiastica. Inaugurato nell’agosto del 1745, secondo quanto riporta il Diario Ordinario, fu progettato dall’architetto senese Paolo Posi e ornato da figure allegoriche scolpite da Pietro Bracci; queste affiancavano l’epigrafe celebrante il defunto e ne sorreggevano il ritratto, realizzato in mosaico minuto da Pietro Paolo Cristofari.

Il dipinto qui offerto è appunto il modello di quel ritratto, trasposto in mosaico sulla base di un disegno di Ignazio Stern che, con ogni evidenza, si limitò ad aggiornare l’aspetto del cardinale imbiancandone i capelli e ammorbidendo i contorni del viso. Altrettanto vivace è però lo sguardo, oltre che identica la posa e le pieghe della mozzetta secondo il modello del ritratto cardinalizio messo alla moda dal Baciccio nell’ultimo quarto del XVII secolo.

Sappiamo dall’inventario della collezione che il cardinale Imperiali e i suoi congiunti si valsero dei maggiori ritrattisti del momento, dal Baciccio stesso a Francesco Trevisani, al meno noto Pietro Nelli che lo raffigurò al momento della nomina, nel 1690. Il nostro ritratto sembra altresì il modello per l’incisione di Gaspare Massi (1698-1731) pubblicata nel primo volume di Mario Guarnacci, Vitae et Res Gestae Pontificorum Romanorum et S.R.E. Ecclesiae Cardinalum, Roma 1751, col. 359.

L’età apparente del cardinale, tra i sessanta e i settant’anni, ne suggerisce l’esecuzione intorno al 1710-15.

 

 

 

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
1

Scuola fiorentina, seconda metà sec. XVI

SANTO VESCOVO 

SAN NICOLA DI BARI

coppia di dipinti, olio su tavola, cm 35x14

al retro, il numero 222 a vernice nera

(2)

 

Florentine school, second half of 16th century

SAINT BISHOP (SAINT GREGORY THE GREAT?)

SAINT NICOLAS OF BARI

oil on panel, cm 35x14, a pair

on the back, the number "222" in black varnish

(2)

 

Se pur di dimensioni assai ridotte, i due santi vescovi dipinti sulla coppia di tavolette presentata mostra un linguaggio espressivo caratterizzato da grande controllo disegnativo delle forme nonché da una attenta stesura pittorica capace di restituire i sobri ornamenti delle figure. La lontana eco pontormesca, rintracciabile nell’espressività del volto di San Nicola di Bari, unita all’accentuazione realistica che connota quello dell’altro vescovo, avvicinabile alle moderne istanze della pittura riformata di Santi di Tito, costituiscono ulteriori conferme sulla loro collocazione nell’ambito della produzione pittorica religiosa toscana della seconda metà del Cinquecento.

I decenni finali del XVI secolo videro impegnato in una cospicua serie di commissioni sacre, sia a Firenze che in centri minori della Toscana medicea, Giovanni Battista Naldini (Firenze, 1535 – 1591): un ciclo di dipinti su tavola di piccolo formato, raffiguranti santi, destinato all’altare Ricasoli del duomo di Pistoia, e oggi conservato presso il Museo civico della medesima città, realizzato da Naldini col supporto della sua bottega, si configura come valido confronto sia dal punto di vista stilistico che per contestualizzare le due tavolette all’interno di un più grande e complesso apparato decorativo.

Il rigore formale e la ricerca di espressività, di cui si parlava in apertura, avvicinano i due santi vescovi alla attività dell’officina naldiniana, memore della produzione dell’ultimo Vasari al quale Naldini si accostò dopo il primo apprendistato presso Pontormo.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
55

Pier Leone Ghezzi

(Roma 1674 – 1755)

RITRATTO DEL CARDINALE ANNIBALE ALBANI

olio su rame, ovale, cm 18x14

firmato e dedicato sulla lettera

 

PORTRAIT OF CARDINAL ANNIBALE ALBANI

oil on copper, an oval, cm 18x14

signed and dedicated on the letter

 

Inedito e per il momento non documentato, questo delizioso ritratto – prezioso anche nel supporto lucente e nel piccolo formato – costituisce un esempio assai raro di ritratto informale, quasi immagine “rubata” all’insaputa del soggetto, e insieme un magnifico esempio di quell’attitudine a coglierne l’essenza che Leone Pascoli attribuiva al Ghezzi riferendosi però alle sue caricature: “dilettasi ancora di far ritratti caricati, e veduto che ha una volta sola il soggetto ne forma sì forte e viva impressione, che nulla più gli bisogna per farli simili”.

Colto nell’attimo di volgere lo sguardo dalla lettera che ha in mano, quasi inseguendo un pensiero improvviso o rispondendo al saluto di un interlocutore sopraggiunto a sua insaputa, il nipote del papa regnante è qui davvero giovanissimo, appena dopo la nomina a cardinale, avvenuta il 23 dicembre 1711 e perfezionata il 2 marzo 1712 con l’attribuzione del titolo di S. Eustachio.

Nato a Urbino nel 1682 e dunque appena trentenne al momento di vestire la porpora, fin dal 1709 Annibale Albani aveva iniziato la carriera diplomatica come nunzio apostolico a Vienna e poi a Colonia. Tornato a Roma nel 1711, insieme alla nomina cardinalizia ricevette quella di segretario dei memoriali.

Si potrebbe supporre che il nostro dipinto nasca nelle stesse circostanze di quello, da tempo noto, che Ghezzi dipinse su tela ritraendo il giovane porporato frontalmente e in una posa appena più formale mentre, assorto in un pensiero, solleva lo sguardo dalla lettera che, come nel nostro caso, reca la dedica di Pier Leone Ghezzi (fig. 1; già collezione Castelbarco Albani; Firenze, Sotheby’s, 22-24 maggio 1973). Sebbene i tratti vi appaiano più marcati e soprattutto appesantiti dalla posa frontale, identica è la sprezzatura nei riflessi della mozzetta.

È quindi verosimile che il nostro rametto ne costituisca una variante più intima, omaggio personale di Pier Leone Ghezzi al nipote di Clemente XI che appunto nel 1712 inaugurava la sua committenza al pittore nel campo delle opere pubbliche, affidandogli l’esecuzione di una delle pale nella cappella di famiglia a S. Sebastiano fuori le mura, cui seguiranno nel 1715 gli affreschi nella basilica di S. Clemente e nel 1718 gli Apostoli a S. Giovanni in Laterano.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
46

Pasqualino Lamberti (?) detto Pasqualino Veneto

(attivo a Venezia dal 1490 al 1504)

MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNINO

olio su tavola, cm 83x66

firmato e datato sul cartiglio in basso al centro “1503/PASQUALI/NUS/V. P.”

 

MADONNA WITH CHILD AND SAINT JOHN THE BAPTIST

oil on panel, cm 83x66

signed and dated lower center on the cartouche "1503/PASQUALI/NUS/V. P.”

 

 

Provenienza

Svizzera, collezione privata; New York, Newhouse Gallery, 1975; Milano, Galleria Sacerdoti; Milano, collezione privata

 

Bibliografia

R. Palluccchini, Un’altra aggiunta a Pasqualino Veneto, in “Storia dell’Arte” 1980, 38-40, pp. 215-16, figg. 1-2; P. Humfrey, Cima da Conegliano, Cambridge 1983, p. 194, cat. 240; fig. 19 3b; M. Biffis, voce “Pasqualino Veneto” in Dizionario Biografico degli Italiani, 81, 2014.

 

Referenze Fotografiche

Fototeca Federico Zeri, scheda 26498

 

Pubblicata per la prima volta da Rodolfo Pallucchini, questa bellissima tavola – notevole anche per l’ottimo stato conservativo - costituisce un interessante documento della articolata situazione pittorica del primissimo Cinquecento veneziano. Insieme alla Madonna col Bambino e la Maddalena del Museo Correr, firmata e datata del 1496, presenta inoltre l’unica data certa della produzione di Pasqualino, ponendosi quasi all’estremo della sua attività conclusa prima del 6 dicembre del 1504.

L’ultimo documento che lo riguardi direttamente registra infatti, nel gennaio di quell’anno, la prestigiosa commissione della Scuola Grande della Carità per un telero raffigurante la Presentazione della Vergine al Tempio, affidata al pittore a seguito di una competizione vinta dal suo disegno ma ben poco progredita, a giudicare dell’esiguo pagamento riscosso dal fratello nel gennaio 1505, esattamente un anno dopo.

Difficile immaginarne la composizione, certo ampia e articolata, alla luce del catalogo del pittore oggi conosciuto: le opere riunite da Berenson, Puppi e Pallucchini e dagli studi più recenti intorno alle tavole firmate declinano in maniera quasi esclusiva il tema, squisitamente belliniano, della Madonna col Bambino, eventualmente accompagnati da un'altra figura, come nel caso del nostro Giovanni Battista.

La cronologia ricostruita, per quanto in via di ipotesi, a partire da sole due date certe e soprattutto dalla relazione con gli artisti attivi a Venezia in quello scorcio di secolo ha suggerito che Pasqualino compisse la sua formazione nella bottega di Giovanni Bellini verso la metà degli anni Ottanta, per poi legarsi a Cima da Conegliano, suo riferimento costante già nella citata Madonna del Museo Correr come in quella presso l’Accademia dei Concordi a Rovigo, per poi virare nella direzione di Giovanni Mansueti, chiamato in causa da Rodolfo Pallucchini a proposito del dettagliatissimo paesaggio del dipinto qui offerto, di cui costituisce l’elemento distintivo.

 

Stima   € 60.000 / 80.000
38

Maximilian Pfeiler

(attivo a Roma – documentato dal 1694 al 1721)

NATURA MORTA DI FRUTTA E FIORI SU SFONDO DI PAESAGGIO

olio su tela, cm 97x123

firmato sulla pietra in basso a sinistra; in basso a destra il numero 1315 a vernice gialla

 

STILL LIFE WITH FRUITS AND FLOWERS IN A LANDSCAPE BACKGROUND

oil on canvas, cm 97x123

signed on the stone lower left; the number 1315 in yellow varnish lower right

 

Splendida composizione di frutta all’aperto, il dipinto qui presentato riunisce, anche in virtù delle importanti dimensioni, molti fra i motivi sperimentati da Pfeiler nel corso della sua fortunata attività. Alcuni di essi – fichi e gelsomini riflessi su un piatto d’argento; pesche rosseggianti dalle lunghe foglie arricciate; l’elegante brocca in metallo – derivano dai modelli del suo primo maestro, Christian Berentz, che Pfeiler include nel suo repertorio combinandoli instancabilmente in composizioni sempre più esuberanti, tipiche delle istanze decorative della natura morta tardo-barocca.

Significativo fu anche l’esempio di Franz Werner Tamm, non tanto nella scelta dei singoli elementi quanto nella loro presentazione all’aperto: un dato particolarmente evidente nel dipinto qui offerto in cui la composizione di frutta, immaginata sulla riva di un corso d’acqua come talvolta nelle opere del maestro amburghese, si iscrive con sapienza tra fronde e elementi marmorei sullo sfondo di cielo.

Per la varietà di motivi e la qualità con cui furono realizzati, questo dipinto si accosta in particolare alla serie di quattro tele di formato verticale in collezione privata a Modena pubblicate da Gianluca e Ulisse Bocchi (Pittori di natura morta a Roma. Pittori stranieri 1630 – 1750, Viadana, 2006, pp. 332-335).

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
42

Marco Ricci

(Belluno 1676 – Venezia 1730)

CAPRICCIO DI ROVINE ANTICHE CON UN PALAZZO RINASCIMENTALE

olio su tela, cm 42x36

 

CAPRICCIO OF ANCIENT RUINES WITH A RINASCIMENTAL PALACE

oil on canvas, cm 42x36

 

Esposizioni

Galleria Levi, Milano, 1967

 

Bibliografia

M. Precerutti Garberi, 700 veneto: paesaggi e vedute. Catalogo della mostra, Milano, Galleria Levi, 1967, pp. 10-11, n. 1

 

Come già indicato da Mercedes Precerutti Garberi in occasione dell’esposizione milanese in cui il dipinto comparve per la prima volta, il capriccio qui offerto è in strettissima relazione con quello di più ampie dimensioni (cm 73x55) ora nelle raccolte del Wadsworth Atheneum a Hartford (Connecticut) dalla collezione Donà delle Rose, un tempo attribuito a Marco Ricci e ora riconosciuto opera giovanile di Antonio Canal (cfr. Constable – Links, Canaletto, p. 40, n. 479 e tav. 210, n. 479; Marco Ricci e il paesaggio veneto del 700. Catalogo della mostra a cura di Dario Succi e Annalisa Delneri, Milano 1993, p. 67, n. 24).

La datazione di quest’ultimo al secondo decennio del Settecento, e comunque prima di quel 1721 in cui il giovane Antonio Canal “scomunicò il teatro” per dedicarsi alla veduta, o eventualmente appena dopo, dovrebbe fornire un ante quem per il dipinto qui in esame, che apparentemente ne costituisce il precedente, sia pure con qualche variante. Evidente la relazione con la scenografia teatrale a cui, ben prima dei Canal, si era dedicato con successo Filippo Juvarra, possibile fonte per il nostro capriccio. E non è impossibile ipotizzare un incontro a Roma, circa il 1707, tra il giovane Marco Ricci e l’architetto messinese che a Roma era appunto responsabile del teatro del cardinale Ottoboni a palazzo della Cancelleria.

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
41

Luca Giordano

(Napoli, 1634-1705)

BATTAGLIA DI CAVALIERI

olio su tela, cm 202 x 310

firmata e datata su un cartiglio al centro “Lucas Jordanus/Inventor Aetatis Sua…./XV P. 1651”

A BATTLE SCENE

oil on canvas, cm 202x310

signed and dated on a cartouche " Lucas Jordanus/Inventor Aetatis Sua…./XV P. 1651"

 

Provenienza

Bruun Rasmussen, Copenhagen, 5 marzo 2002, lot 1192; Sotheby’s, Londra, 11 luglio 2002, lot 186; Galleria Mossini, Mantova; collezione privata

Bibliografia

“Relatione della vita di Luca Giordano pittore celebre fatta sotto li 13 agosto 1681” in G. Ceci, Scrittori della storia dell’arte napoletana anteriori al De Dominici in “Napoli Nobilissima” VIII, 1899, XI, p. 166; O. Ferrari – G. Scavizzi, Luca Giordano. Nuove ricerche e inediti, Napoli 2003, p. 27, AO1; tav. AO1; V. Farina, "Disegnò ben dodici volte l'intera battaglia di Costantino". Un foglio ritrovato ed altre novità per Luca Giordano disegnatore, in "Confronto. Studi e ricerche di storia dell'arte europea" II, 2, dicembre 2019, pp. 105-132.

Comparso in asta per la prima volta nel 2002, l’interessante dipinto qui offerto è stato inquadrato criticamente da Oreste Ferrari che lo ha giustamente identificato con una delle opere giovanili citate nella Relatione del 1681, conservata a Firenze nella Biblioteca Magliabechiana tra le carte di Filippo Baldinucci e di Anton Francesco Marmi, e pubblicata da Giacomo Ceci nel 1899.

Vivace nello stile e ricca di dettagli inediti sulla attività del pittore, ritratto dall’Anonimo come un fanciullo-prodigio dotato di straordinario talento, la Relatione ricorda infatti il viaggio a Roma compiuto dal giovanissimo Luca per studiare l’Antico e le opere dei maestri: un tirocinio di cui resta memoria nei disegni superstiti, dedicati appunto alle statue classiche, ai pittori del Cinquecento e a quelli più recenti, tra cui Pietro da Cortona nella volta Barberini. Raffaello costituiva il principale modello per qualunque giovane artista, e non è dubbio che Luca Giordano si esercitasse disegnando nelle Stanze del Vaticano, come recentemente chiarito da Viviana Farina. “Tornato in Napoli con così fresca memoria – così l’anonimo relatore – subito di suo capriccio fece due quadri grandi di battaglie ad imitatione di Messentio (sic) con generale applauso, e oggi si conservano in Bologna dal Sig. Marchese Tanari”.

Sebbene non ne sia riemerso il compagno, non è dubbio che il nostro dipinto – ispirato alla Battaglia di ponte Milvio ma insieme reminiscente della sua moderna reinterpretazione ad opera del Cavalier d’Arpino nella Sala degli Orazi e Curiazi – corrisponda a una delle tele in casa Tanari: lo conferma anche la data del 1651 apposta sul cartiglio centrale, appena successiva a quella del 1650 generalmente riferita al soggiorno romano. Da segnalare, la civetteria con cui il giovane artista vi si dichiara appena quindicenne, quando sappiamo invece che aveva già diciassette anni, età giovanile ma non del tutto inusuale per un esordio nella professione di pittore.

Si potrebbe invece dubitare dell’esecuzione “a suo capriccio” per due tele di così ampie dimensioni e per l’uso di pigmenti pregiati: dati che potrebbero suggerirne l’esecuzione su richiesta di un committente.

Vi si chiarisce altresì un elemento significativo nella formazione del pittore napoletano, che sulla scorta di un passo di Bernardo De Dominici si poneva nell’imitazione delle battaglie di Aniello Falcone, ma che sembra invece debitrice dei modelli più aulici della tradizione cinquecentesca.

 

 

Stima   € 70.000 / 100.000
Aggiudicazione  Registrazione
58

Jacopo Amigoni

(Napoli, 1682 – Madrid, 1752)

FERDINANDO VI DI BORBONE E BARBARA DI BRAGANZA CON LA CORTE

olio su tela, cm 46,5x61

 

FERDINANDO VI DI BORBONE AND BARBARA DI BRAGANZA WITH THE COURT

oil on canvas, cm 46,5x61

 

Bibliografia

V. von Hermann, Jacopo Amigoni und die anfänge der Malerei des Rokoko in Venedig, in “Jahrbuch der Königlich Preussischen Kunstsammlungen”, 39, 1918, p. 168 (cit.), fig. 18, p. 165; F. Zambelli D’Alma, Contributo a Carlo Giuseppe Flipart, in “Arte Antica e Moderna” V, 1962, p. 190 (cit.), fig. 68d (l’incisione del dipinto); J. Luna, El retrato de Ferdinando VI y Barbara con su corte, por Amigoni, in “Archivo Espanol de Arte” 52, 1979, pp. 339-341; R. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, I, Milano 1994, pp. 124-26 (sulla vicenda generale).

 

Questo raffinatissimo dipinto costituisce l’unico documento pittorico oggi conosciuto del ritratto dei sovrani spagnoli circondati dalla corte e incoronati dalla Fama eseguito da Jacopo Amigoni per il palazzo del Buen Retiro in occasione del suo soggiorno madrileno, tra il 1747 e il 1752. Documentato dall’incisione trattane da Charles-Joseph Flipart (1721–1797) allievo a Venezia dell’Amigoni stesso e, come incisore, di Joseph Wagner, il grande dipinto fu visto da Anton Raphael Mengs nel 1768 nella sua collocazione originaria, per poi finire distrutto, verosimilmente nel corso della guerra peninsulare del 1808 che vide la fine del palazzo reale voluto da Filippo IV nel primo quarto del Seicento.

L’incisione di Flipart, la cui lastra si conserva nella Calcografia madrilena, è stata per lungo tempo l’unica conferma alla citazione del Mengs, così come ricostruito dall’indagine di Juan Luna (1979) riportata da Rodolfo Pallucchini che tuttavia non conosceva il nostro dipinto. È tuttavia proprio lo studioso veneziano a citare questa composizione, a lui nota attraverso l’immagine incisa, in relazione a un altro celebre ritratto di gruppo dipinto da Jacopo Amigoni proprio negli stessi anni, quello che unisce in una conversazione tra amici i protagonisti del dramma in musica settecentesco, ovvero Pietro Metastasio, Carlo Broschi - il celebre Farinelli - la cantante Teresa Castellini e il pittore stesso (Melbourne, National Gallery of Victoria).

Anche il nostro dipinto dà conto del ruolo della musica alla corte madrilena, ponendo nella cantoria a destra sullo sfondo un gruppo di musici in cui si è voluto riconoscere il violinista Joseph Herrando e lo stesso Farinelli, presente alla corte di Madrid dal 1737 e forse artefice dell’invito all’Amigoni, che lo raggiunse dieci anni dopo.

Pittore di corte, attivo nella decorazione dei palazzi reali di Aranjuez e del Retiro, ritrattista dei sovrani e dei cortigiani più in vista, Jacopo Amigoni concluse a Madrid una fortunata carriera interamente spesa al servizio delle maggiori corti europee e dell’aristocrazia internazionale, lontano da Venezia che pure lo annovera tra i suoi protagonisti.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
L'opera è corredata di certificato di libera circolazione
19

Giuseppe Nogari

(Venezia 1699-1763)

BUSTO DI RAGAZZO

olio su tela, cm 53x43

 

BUST OF A BOY

oil on canvas, cm 53x43

 

Il bel dipinto qui offerto è indubbiamente una delle prove più riuscite di Giuseppe Nogari, il cui catalogo è stato troppo spesso appesantito da repliche e derivazioni che, pur documentando il successo di opere richieste dai maggiori collezionisti del tempo, non ha giovato a una corretta valutazione del suo talento, che qui pienamente si esprime.

Iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani nel 1726 dopo la formazione nella bottega di Antonio Balestra e un possibile viaggio a Bologna, Nogari esordì nel 1733 come pittore di pale d’altare: un genere poco congeniale alle sue qualità e subito abbandonato su suggerimento del nobile milanese Ottavio Casnedi che gli commissionò, secondo quanto riporta l’Abecedario di Pellegrino Orlandi (ed. 1753) una serie di mezze figure.

Che questa conversione a un genere nuovo e richiesto in tutte le corti europee, coltivato negli stessi anni da Giovan Battista Piazzetta come da artisti francesi, avvenisse prima del 1736 è documentato dalla data di quell’anno iscritta al verso di una delle quattro tele commissionate a Nogari dal conte Carl Gustav Tessin, ora nel Museo Nazionale di Stoccolma. Anche alla corte di Torino, dove fu attivo in palazzo Reale e a Stupinigi con una serie di sovrapporte di soggetto allegorico, Nogari riscosse il maggior successo con le “teste di carattere” di gusto olandese dipinte per il Gabinetto degli Specchi o delle Miniature, oltre che in singole tele ora alla Sabauda. La sua adesione ai modelli olandesi del Seicento si iscrive nella moda rembrandtiana coltivata a Venezia anche attraverso l’incisione, in particolare da Giovan Battista Tiepolo. Richieste da Carlo Emanuele III di Savoia come da Augusto III di Sassonia, le sue figure di genere sono ricordate dai più sofisticati conoscitori della seconda metà del secolo, tra cui Francesco Algarotti e Pierre-Jean Mariette.

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
27

Giacomo Cipper detto Todeschini

(Feldkirch 1664 – Milano 1736)

COPPIA DI AMANTI E SUONATORE DI ZAMPOGNA

olio su tela, cm 89x123

 

A COUPLE OF LOVERS AND A PIPER

oil on canvas, cm 89x123

 

Esposizioni

La natura e la grazia, Cesena, Galleria Comunale d’Arte, 30 giugno – 9 settembre 2012, n. 29

 

Bibliografia

P. Di Natale, in La natura e la grazia. Catalogo della mostra a cura di A. Giovanardi, Cesena 2012, pp. 90-91, n. 29

 

Opera tipica del Todeschini, attivo a Milano dall’ultimo decennio del Seicento e così chiamato per le sue origini transalpine, il dipinto ripropone – forse inconsapevolmente- un motivo tipico della pittura veneziana del primo quarto del Cinquecento in cui una coppia di amanti è accompagnata da un musico, scoperta allusione all’armonia della relazione amorosa. Se tuttavia gli aristocratici amanti della scuola detta (impropriamente) giorgionesca, accompagnati da un suonatore di liuto, aspiravano a una relazione esclusivamente spirituale, gli strumenti a fiato – in questo caso la zampogna – alludono invece all’amore carnale, di cui sono generalmente protagonisti personaggi di estrazione popolare.

Questa connotazione appare sottolineata, nel nostro dipinto, anche dai cibi rustici – pane e formaggio, e un boccale di vino che il protagonista solleva con entusiasmo – splendido brano di natura morta in primo piano nella composizione.

Come sottolineato da Pietro Di Natale, che per primo è intervenuto sul dipinto, la nostra tela presenta le più strette assonanze compositive con i Giocatori di carte di raccolta privata, di nuovo tre figure ai lati di un tavolo con la stessa natura morta rustica, e identico sfondo di roccia e cielo. I personaggi del nostro dipinto si ritrovano poi in altre tele del Todeschini, quali la figura femminile nel Ciabattino e donna che lavora a maglia, mentre la figura a sinistra nei Giocatori di filetto e soldato differisce dal nostro protagonista maschile solo per l’aggiunta di un paio di baffi spioventi sulle labbra carnose.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
21

Francisco de Herrera, il Vecchio

(Siviglia, 1576 - Madrid 1656)

TESTA DEL BATTISTA

olio su tela, cm 57x65,5

firmato in basso a destra "Fran de Herrera f"

 

THE HEAD OF SAINT JOHN THE BAPTIST

oil on canvas, cm 57x65,5

signed "Fran de Herrera f" lower right

 

Documentato come incisore nel 1609 e attivo per le chiese e i conventi della città natale a partire dal 1616, Herrera “Il Vecchio” fu uno dei protagonisti del rinnovamento della pittura sivigliana insieme a Francisco Zurbaràn, col quale condivise l’importante commissione del ciclo di storie di San Bonaventura per l’omonimo convento a partire dal 1626.

Documentato a Madrid nel 1647-48, Herrera morì in quella città, sembra nel 1654 o due anni dopo, secondo alcune fonti.

Pittore di soggetti religiosi in maniera quasi esclusiva (tra le eccezioni, il Suonatore cieco a Vienna nel Kunsthistorisches Museum, verso il 1640, che al nostro dipinto si lega per la stesura fluida e le ombre profonde) Herrera dipinse altre volte la testa recisa di martiri cristiani, soggetto caro alla spiritualità seicentesca e diffuso in Spagna come in area milanese. Particolarmente realistico, il nostro dipinto mostra il volto emaciato del Battista, e addirittura la lama che ha troncato il suo capo, entro un bacile che ne raccoglie il sangue posto sopra un tavolo, vera e propria natura morta oggetto di meditazione. Confronti stilistici con altre opere datate, tra cui un soggetto analogo nel museo del Prado, ne suggeriscono la datazione nell’ultimo decennio di attività dell’artista.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 59