Importanti maioliche rinascimentali

17 APRILE 2019
Asta, 0294
4

PIATTO DA POMPA, DERUTA, 1480 CIRCA

Stima
€ 40.000 / 60.000

PIATTO DA POMPA, DERUTA, 1480 CIRCA

in maiolica decorata in blu di cobalto e giallo ocra, verde ramina e bruno di manganese nei toni del viola; alt. cm 7, diam. cm 40,5, diam. piede cm 13,5

 

A LARGE DISH, DERUTA, CIRCA 1480

 

Provenienza

Parigi, Collezione Adda;

Firenze, Collezione privata

 

Bibliografia

B. Rackham, Islamic Pottery and Italian Maiolica. Illustrated Catalogue of a Private Collection, Londra 1959, p. 268 n. 274, tav. 113

 

 

L’esemplare ha un cavetto profondo e largo, la tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato, e poggia su un piede ad anello forato in origine a crudo, mentre il verso presenta invetriatura che ricopre l’intera superficie; caratteristiche tutte comunemente in uso nelle botteghe derutesi.

Al centro del cavetto una raffigurazione istoriata con il mito di Diana e Atteone, qui in una versione mutuata liberamente dalle raffigurazioni canoniche tratte probabilmente dalle incisioni. La divinità sola, senza le compagne, si copre con la lunga chioma mentre il cacciatore Atteone, con il corno da caccia e l’arco ancora in mano, che già si muta in cervo, è inseguito dai propri cani che poi lo sbraneranno. La scena vede la fonte al centro di una vasta pianura interrotta all’orizzonte da una città turrita al di sopra della quale nel cielo, in una riserva, è dipinto un complesso motivo a foglia gotica. Una marcata linea arancio filettata di blu suddivide il cavetto dalla tesa, sulla quale si distende un motivo a foglie arricciate, dipinte in blu, giallo arancio e verde su un fondo puntinato. Una linea giallo arancio sottolinea poi il bordo esterno.

La fonte diretta del soggetto è riconoscibile nella volgarizzazione di Ovidio fatta da Giovanni Bonsignori negli anni 1375-1377, oltre alle allegorie composte a uso didattico nel 1322 da Giovanni del Virgilio. Da qui le divergenze rispetto al testo ovidiano, come la presenza di due soli cani anziché la moltitudine di cui parla, o la figura di Diana, presentata qui quasi fuori contesto, lontana dalla grotta (si veda al proposito C. Cieri Via, L’arte delle metamorfosi. Decorazioni mitologiche nel Cinquecento, Roma 2003).

Ci pare invece di riscontrare una certa somiglianza nella definizione del paesaggio con le prime incisioni, ancora della seconda metà del XV secolo, come ad esempio le opere di Baccio Baldini, dove ritroviamo specchi d’acqua e vegetazione erbosa realizzati con tratti marcati e incisivi, oppure alcuni dettagli delle incisioni della Metamorfosi di Bonsignori, però databili alla seconda metà del XV secolo.

Questa tipologia di piatti fu per lungo tempo attribuita a manifattura faentina, anche se la coincidenza del loro retro con la tipica morfologia derutese ha sempre destato dei dubbi in merito, tanto che le opere affini vantano una consistente mole di studi. Alcuni esemplari con bordura decorata secondo un motivo analogo, ma decoro centrale molto differente, costituiscono un valido raffronto. Il primo confronto ci deriva dal piatto da parata del British Museum, con giovane gradiente con bastone e falce in una riserva circondato da motivi a fiore di briona, uno dei piatti più antichi con decoro mutuato da un’incisione (D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics. A Catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, p. 77 n. 45). Nell’elenco di opere con tipologia decorativa ancora vicina al nostro esemplare, possiamo ricordare anche Il piatto del Victoria and Albert Museum con fanciulli che si arrampicano su un albero con il motto E NON SE PO MANGIARE SENZA FATICA, ma anche il piatto, ancora del VAM (inv. 1806-1855), con allegoria dell’amore crudele, nel quale la scelta dei decori secondari nel cavetto contempla un motivo a foglia gotica (D. Thornton in A. Bayer, S. Cartwright, Art and Love in Renaissance Italy, New Haven 2009, pp. 89-90 n. 22). Numerosi inoltre i frammenti coerenti con queste opere conservati nel Museo Regionale di Deruta.

Anche l’opera in esame era nota come opera della manifattura di Faenza, databile attorno al 1475, pubblicata da Berbard Rackham nel volume dedicato all’importante collezione Adda, ove era conservato probabilmente ancora intatto e senza integrazioni pittoriche che ne appiattiscono un poco il decoro.