Importanti maioliche rinascimentali

17 APRILE 2019

Importanti maioliche rinascimentali

Asta, 0294
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 11.00
Esposizione
FIRENZE
12 - 15 aprile 2019
orario 10-18 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   1000 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 65
50

VASSOIO OVALE FONDO, URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, FINE SECOLO XVI-INIZIO SECOLO XVII

in maiolica dipinta in policromia con giallo arancio, giallo antimonio, blu di cobalto, bruno di manganese, verde ramina; alt. cm 5,5, cm 38,5x29

 

A DEEP OVAL DISH, URBINO, WORKSHOP OF PATANAZZI, LATE 16TH-EARLY 17TH CENTURY

 

 

Il vassoio ovale concavo con tesa orizzontale poggia su un sottile piede a cercine. La trama decorativa è distribuita su tre fasce concentriche. Al centro in una cornice ovale sottile decorata a piccole baccellature una figura di Baccante, con lorica annodata alla spalla, gradiente in un paesaggio campestre con in mano grandi grappoli d’uva e con una corona di grappoli e pampini sul capo.

Il secondo ordine interessa la balza e la tesa con una decorazione a motivo di grottesche fantastiche centrato nei punti cardinali da piccoli camei con ritratti incorniciati di forma quadrata o ovale, mentre in alto, seduti sulla cornice centrale, due putti alati sorreggono delle cornucopie. L’orlo esterno infine è decorato da una finta baccellatura. Il verso è bianco fatta eccezione per due linee gialle concentriche a rimarcare l’orlo.

Il vassoio trova riscontro nella produzione della bottega urbinate dei Patanazzi, ed in particolare è stringente la somiglianza di alcuni elementi decorativi, nelle grottesche e nella stessa figura centrale, con i vassoi ovali del servizio Contarini conservati nelle raccolte di arti Applicate del Museo del Castello Sforzesco di Milano (T. Wilson, in R. Ausenda (a cura di). Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche, vol. I, Milano 2000, pp. 232-235 nn. 239-242), nonché l’uso attestato nella bottega urbinate di putti di foggia analoga ai nostri e di piccoli o grandi camei a grisaille come ad esempio nel servizio “Amor Ardet” (C. Ravanelli Guidotti in F. Trevisani, Le ceramiche dei duchi d’Este. Dalla Guardaroba al Collezionismo, catalogo della mostra, Milano 2000, pp. 30-53) ci confortano nell’attribuzione.

Lo schema decorativo con grottesche è ampiamente condiviso in tutte le botteghe urbinati della fine del XVI secolo, ed i Patanazzi mutuano il decoro dalla bottega Fontana interpretandolo con uno stile caratteristico. Per la datazione facciamo riferimento al Servizio Contarini, ma molte sono le analogie con un piatto firmato da Alfonso Patanazzi del Victoria and Albert Museum datato 1608, con cui pare condividere una certa grossolanità nel tratto pittorico (F. Negroni, Una famiglia di ceramisti urbinati: i Patanazzi, Faenza 84, 1998, pp. 104-115). Ed è quindi questo l’arco temporale cui ci pare corretto collocare l’opera in esame.

Stima   € 10.000 / 15.000
66

VASO A “BOMBOLA”, PALERMO, FINE SECOLO XVI

in maiolica decorata in policromia con verde ramina, blu di cobalto molto sordo, rosso ferraccia, giallo antimonio, arancio cupo e bruno di manganese su smalto stannifero piuttosto ricco e lucente; alt. cm 35, diam. bocca cm 12,3, diam. piede cm 13,2

 

AN OVOID JAR, PALERMO, LATE 16TH CENTURY

 

 

Il vaso ha la caratteristica forma definita a bombola con orlo piano, labbro appena estroflesso, e collo cilindrico abbastanza alto che scende su una spalla arrotondata e collegata alla pancia, che ha forma ovoidale e si stringe in un calice rastremato terminante in un piede con base a disco estroflesso.

La decorazione presenta sul fronte la figura di un santo con cappello a larga tesa e mantello sulle spalle, che avanza in un paesaggio montano. La scena è racchiusa in un medaglione circondato da una cornice baccellata, costituita da due volute combacianti. Il resto del corpo è ornato da un motivo a trofei a risparmio su fondo blu, con scudi, else di spade, faretre e strumenti musicali disegnati in giallo e ombreggiati fortemente in grigio scuro con tocchi di giallo arancio. Un sottile tralcio continuo di foglie arricciate d’acanto su fondo arancio corre sulla spalla e all’inizio del calice mentre il decoro a trofei, in cui non manca la presenza di un capo ferino più simile ad’un aquila, riprende sul collo. Il calice del piede è a sua volta ornato con una fascia a foglie gialle arricciate su campo blu.

Per stile e modalità decorative, in particolare nella corona che corre sul piede, il vaso è sicuramente opera di un pittore ricercato, ancora fortemente influenzato dagli stilemi faentini così marcati nelle produzioni siciliane e mutuati attraverso le esperienze palermitane soprattutto della bottega dei fratelli Lazzaro di Palermo. Proprio la vicinanza alle esperienze faentine e i decori ancora declinati in forme particolarmente eleganti, ci fanno propendere per una datazione ancora precoce.

Un confronto ci deriva dal vaso con Santa Martire delle raccolte del Banco di Sicilia (G. Croazzo in R. Ausenda (a cura di), Le collezioni della fondazione Banco di Sicilia. Le maioliche. Milano 2010, pp. 32-33 n. 1) che condivide con il nostro alcune caratteristiche decorative che ne attestano la produzione locale.

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
64

VASO A “BOMBOLA”, PALERMO, BOTTEGA LAZZARO, 1600 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con verde ramina, blu di cobalto molto sordo, rosso ferraccia, giallo antimonio, arancio cupo e bruno di manganese su smalto stannifero povero. Iscritto sul retro SPQR; alt. cm 34,8, diam. bocca cm 11,6, diam. piede cm 11,8

 

AN OVOID JAR, PALERMO, WORKSHOP OF LAZZARO, CIRCA 1600

 

 

Il vaso ha la caratteristica forma cosiddetta a bombola con orlo piano, labbro estroflesso e corto collo leggermente cilindrico appena estroflesso che scende su una spalla arrotondata e collegata alla pancia, che ha forma ovoidale e si stringe in un calice rastremato che termina in un piede con base a disco estroflesso.

La decorazione mostra sul fronte Santa Apollonia con la pinza, simbolo del martirio, in un medaglione circondato da una cornice baccellata, costituita da due volute combacianti. Il resto della superficie è ornato da un motivo a trofei a risparmio su fondo blu, con scudi, else di spade, faretre e strumenti musicali disegnati in grigio chiaro e colorati con ampie pennellate acquarellate di giallo; tra gli elementi spicca proprio sul fronte del piede un’insegna ferina. Un sottile tralcio continuo di foglie arricciate d’acanto su fondo arancio corre sulla spalla e sul calice.

Un riscontro molto prossimo ci deriva dalla boccia della collezione del Museo Medievale di Bologna (C. Ravanelli Guidotti, Ceramiche occidentali del Museo Civico Medievale di Bologna, Bologna 1985, pp. 251-252 n. 215) decorata con una santa stilisticamente simile alla nostra e una marcata somiglianza nella realizzazione dei decori. Un altro confronto in riferimento soprattutto alla modalità stilistica del decoro a trionfi, ci deriva da un vaso globulare del Petit Palais a Parigi, con raffigurazione di San Francesco da Paola (F. Barbe, C. Ravanelli Guidotti, Forme e “diverse pitture” della maiolica italiana. La collezione delle maioliche del Petit Palais, Parigi 2006, pp. 133-134 n. 60).

Anche per quest’opera l’influenza faentina è ancora marcata.

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
63

VASO A “BOMBOLA”, PALERMO, BOTTEGA PAOLO LAZZARO, 1620 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con verde ramina, blu di cobalto molto sordo, rosso ferraccia, giallo antimonio, arancio cupo e bruno di manganese su smalto stannifero povero; alt. cm 35, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 12,5

 

AN OVOID JAR, PALERMO, WORKSHOP OF PAOLO LAZZARO, CIRCA 1620

 

 

Il vaso ha la caratteristica forma definita a bombola con orlo piano, labbro estroflesso e collo alto cilindrico appena estroflesso che scende su una spalla arrotondata e collegata alla pancia, che ha forma ovoidale e si stringe in un calice rastremato terminante in un piede con base a disco estroflesso.

La decorazione presenta sul fronte la figura della Santa Vergine con il Bambino che tiene in mano un uccellino (cardellino?), racchiusa in un medaglione a mandorla circondato da alte fiamme, a loro volta contornate da una fascia blu sfumata che raccorda il decoro a una cornice baccellata, costituita da due volute combacianti. Il resto del corpo è ornato da un motivo a trofei a risparmio su fondo blu, con scudi, else di spade, faretre e strumenti musicali disegnati in grigio chiaro e colorati con ampie pennellate acquarellate di giallo: tra gli elementi spicca un’insegna con testa ferina. Un sottile tralcio continuo di foglie arricciate d’acanto su fondo arancio corre sulla spalla, mentre il collo e il calice del piede sono decorati con larghi tralci di foglie gialle delineate in arancio e accompagnate su fondo blu. Il collo e la parte del calice del piede sono decorati con una fascia a linee concentriche nei toni del giallo.

La tipologia decorativa di questo vaso ha le sue radici nella produzione faentina grazie a Geronimo Lazzaro, attivo a Palermo all’inizio del secolo XVII: il modello si diffuse nelle botteghe palermitane e in seguito in tutta l’isola. Gli atti notarili nelle botteghe palermitane registrano la presenza di opere decorate alla maniera di Faenza decorate “da mano maestra”.

La forma del vaso, ancora molto faentina, e le marcate influenze dalla città romagnola soprattutto nei decori secondari del collo e del piede, fanno pensare ad una forte influenza dei pittori faentini o comunque alla conoscenza del vasellame così frequentemente importato dalla città romagnola. Per decoro e forma riteniamo quest’opera databile al primo ventennio del secolo XVII.

L’albarello da farmacia del Museo di Arti Decorative del Castello Sforzesco di Milano ci pare vicino stilisticamente a questo esemplare, che è tuttavia più accurato nella realizzazione dei decori minori e dei trofei. (R. Ausenda, Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche, II, Milano 2001, p. 302 n. 330).

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
7

UTELLO DA FARMACIA, MONTELUPO (?), FINE SECOLO XV

in maiolica dipinta a policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese e bianco di stagno; alt. cm 20,6, diam. bocca cm 9,8, diam. piede cm 10,6

 

A SPOUTED APOTHECARY JAR, MONTELUPO (?), LATE 15TH CENTURY

 

 

Il vaso farmaceutico ha corpo sferoidale che poggia su un piede a base piano con leggera svasatura, la spalla è arrotondata e collegata al collo cilindrico con imboccatura estroflessa e orlo piano. Dal collo parte un’ansa a nastro dal profilo ingrossato, sul fronte un versatore a cannello collegato al collo da un cordolo dipinto di verde. Il vaso sul fronte sotto il cannello ha un cartiglio con finale accartocciato e dipinto di giallo arancio, con scritta apotecaria a caratteri capitali “DIA MORON”, ad indicare un elettuario galenico ottenuto cuocendo more mature e miele con l’aggiunta di mirra, zafferano e agresto.

Il motivo decorativo a foglia gotica, che occupa l’intera superficie del vaso con modalità piuttosto corrive e stile disegnativo grossolano, prende ispirazione dalla miniatura gotica e caratterizza molte delle manifatture italiane dell’epoca. Un confronto vicino, ma privo di cordone legato al cannello che è interamente dipinto di verde, ci deriva dalla Collezione Cora (G. Bojani, A. Fanfani, C. Ravanelli Guidotti, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La donazione Galeazzo Cora. Ceramiche dal Medioevo al XIX secolo, Milano 1985, p. 66 n. 31), con attribuzione a Montelupo nella prima metà del XVI secolo. Anche il confronto con un piccolo boccaletto marcato P pubblicato da Fausto Berti e proposto a confronto da Carmen Ravanelli Guidotti per l’orciolo sopracitato, ci pare convincente, come pure il confronto con albarelli montelupini con decoro simile (F. Berti, La maiolica di Montelupo, secolo XIV – XVIII, Milano 1986, p. 70 n. 18).

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
42

TRE ALBARELLI, URBINO, BOTTEGA DI ORAZIO FONTANA, 1565-1570 CIRCA

in maiolica dipinta in arancio, blu, bruno nei toni del nero, verde, viola

 

THREE PHARMACY JARS (ALBARELLI), WORKSHOP OF ORAZIO FONTANA, CIRCA 1565-1570

 

 

I vasi a rocchetto mostrano un’ampia imboccatura circolare con orlo estroflesso, un collo breve e cilindrico poggiante su una larga spalla, corpo cilindrico che si apre nel calice e scende in un piede di media altezza su base ad orlo estroflesso. Il decoro istoriato occupa l’intera superficie del vaso ed è dominato da una figura femminile con corona e scettro seduta su una poltrona a stecche posta su un basamento al di sotto del quale si allarga un cartiglio sostenuto da due amorini con scritta farmaceutica a caratteri capitali, intorno alla quale si estende un vasto paesaggio lacustre abitato da villaggi e montagne, alte scogliere e alberi dal tronco sinuoso.

A. Il decoro, con stile più corrivo, presenta figure più grandi e massicce, minor cura nella realizzazione del paesaggio e presenza di piccole barche in nero di manganese su lago, a causa forse di rimpiazzo poco più tardo. Il cartiglio “MITRLDATI FINA” indica un antidoto antiveleno, principio primario dell’antica Farmacia: racconta Galeno che tale antidoto fu fatto preparare da Mitridate per paura di essere avvelenato, e se ne serviva quotidianamente. La leggenda racconta che, dopo 57 anni di regno e all’età di 79 anni, Mitridate dovette arrendersi a Pompeo che lo vinse in battaglia. Per non cadere nelle mani del Re romano, Mitridate cercò la morte con il veleno che bevve con le figlie, ma mentre esse morirono all’istante, lui dovette farsi uccidere da Bithio, il suo soldato, poiché assuefatto ad ogni veleno. Pompeo trovò poi la formula dell’antidoto e la portò come bottino di guerra a Roma dove il medico di Nerone, Andromaco Cretense, trasse le indicazioni per la preparazione della sua Teriaca; alt. cm 21,5, diam. bocca cm 10,4, diam. piede cm 9,8;

B. Il decoro è molto prossimo a quello degli esemplari migliori della bottega di Orazio Fontana. Il cartiglio “U.D.VIRNICE” indica probabilmente un unguento di canfora che serviva per proteggere le ferite dal contatto con l’aria; alt. cm 23, diam. bocca cm 11,6, diam. piede cm 10,2;

C. Ancora di buona qualità, ma più corrivo del precedente e con figure più marcate, conteneva il “FILONIO.ROMANO”, elettuario composto dei semi di prezzemolo, papavero bianco, d’apio finocchio, oppio, cassia lignea, castorio, costo arabo, cannella, dauco di Creta, di Nardo indico, di piretro, di zafferano di miele; alt. cm 23, diam. bocca cm 10,4, diam. piede cm 10,2.

Stima   € 6.000 / 8.000
12

TONDINO, FAENZA, 1530 CIRCA

in maiolica decorata in blu di cobalto, giallo antimonio nei toni del giallo e giallo arancio, bianco di stagno; alt. cm 2,8, diam. cm 22, diam. piede cm. 6,5

 

A PLATE (TONDINO), CIRCA 1530

 

Bibliografia di confronto

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1998, pp. 306-327;

F. Barbe, C. Ravanelli Guidotti, Forme e “diverse pitture” della maiolica italiana. La collezione delle maioliche del Petit Palais, Parigi 2006, pp. 137-138

 

 

Il piatto presenta cavetto fondo, piede ad anello non rilevato e un’ampia tesa a bordo arrotondato profilato di blu. Al centro del cavetto campeggia un medaglione con emblema araldico, probabilmente legato alla famiglia Della Rovere. Intorno, fino all’orlo sottolineato da una ghirlanda fogliata con piccoli frutti, secondo i modi del decoro a vaghezze e gentilezze, si estende un gioco di rabesche alternate a nastri annodati (decorazione “a groppi”); il fondo berettino è poi interamente riempito da sottili motivi in bianco di stagno. Sul verso, nel cavo del piede e sulla restante superficie, sono tracciati cerchi tagliati in diagonale, alternati ad altrettanti spirali e rombi lobati, anch’essi tagliati in diagonale. Notevole la qualità decorativa dell’opera, che rende pienamente visibile lo stemma facendolo spiccare su di un fondo giallo, anch’esso decorato da sottili spirali e puntinature in blu, e poggiandolo quasi fosse una figura su una collinetta ricoperta da erba. Per un elenco di opere affini si veda quanto scritto da Carmen Ravanelli Guidotti nel catalogo del Petit Palais a proposito di un piatto con decoro simile, ma centrato da motivo a trofei.

Stima   € 5.000 / 7.000
21

TAGLIERE, URBINO, BOTTEGA FONTANA, 1540 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, verde, blu, bianco e bruno di manganese nel tono del nero su fondo smaltato; alt. cm 5, diam. cm 26,7 (mancante di piede)

 

A TRENCHER, URBINO, WORKSHOP OF FONTANA, CIRCA 1540

 

Provenienza

Sotheby’s, Importanti maioliche italiane, Firenze, 19 ottobre 1970, lotto 97;

Firenze, Collezione privata

 

 

La maiolica, parte di un antico servizio da puerpera, ha forma sagomata con più piani a scalare, bordo rilevato arrotondato e estroflesso. L’oggetto è interamente smaltato e decorato.

Il decoro in piena policromia interessa l’intera superficie: al centro la raffigurazione dell’Annunciazione in un portico coperto, dove Maria seduta a leggere in una nicchia architettonica, che pare ispirarsi a certe icone ortodosse, indica con un dito verso l’alto dove la colomba dello Spirito Santo appare avvolta in una piccola nube. L’angelo, realizzato secondo i dettami classici delle incisioni, si avvicina a Maria reggendo in una mano il giglio bianco simbolo di purezza, mentre un paesaggio montuoso compare oltre il fornice della finestra. L’orlo a rilievo è decorato con una fitta ghirlanda fogliata con piccoli frutti e legacci intrecciati.

Il verso della coppa è anch’esso decorato con un motivo azzurro quasi evanescente, dove la prima cornice, sagomata a rilievo, riporta un motivo a baccellature seguito da una fascia azzurra decorata con rabesche blu, che termina in un’ultima cornice poco rilevata. Resta un foro al centro, probabilmente di giunzione, che però non sembra coevo.

Jacquelin Marie Musacchio nella scheda di una coppa da puerpera del Walters Museum di Baltimora (inv. n 48.1333.a.b, A. Bayer, Art and Love in Renaissance Italy, New York 2008, pp. 166-167 nn. 78a e 78b) attribuita a Casteldurante, presenta una scutella con tagliere, seppur con qualche perplessità sul fatto che possano appartenere allo stesso servizio, utile a comprendere appieno la funzione della nostra maiolica, che appoggiata all’interno della coppa avrebbe costituito un valido appoggio alle vivande, mantenendole calde, appoggio nel nostro caso garantito dal duplice anello a scalare. Anche la minor cura dedicata alla decorazione dell’esterno ci conferma come quella parte dovesse essere inserita all’interno di un altro contenitore, quello del brodo. Il bordo rilevato costituiva un valido fermo per l’ongaresca superiore.

L’alta qualità complessiva del decoro ci porta a pensare che si tratti di un’opera prodotta nella bottega Fontana attorno al 1540 circa, e quindi ancora nell’ambito di Guido Durantino.

Stima   € 18.000 / 25.000
51

SALIERA PLASTICA, URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, FINE SECOLO XVI

in maiolica dipinta in policromia con giallo arancio, blu cobalto, giallo antimonio, bianco stagno e bruno di manganese; cm 14x11x11

 

A SALT CELLAR, URBINO, WORKSHOP OF PATANAZZI, LATE 16TH CENTURY

 

 

La saliera in maiolica è formata da figure di aria che sostengono un invaso ovale decorato con un volto di donna, dipinta in tutte le sue parti a policromia con attenzione particolare alle lumeggiature delle parti plastiche, secondo la tradizione che ritroviamo anche nei calamai di manifattura urbinate. Le quattro figure poggiano su una base rettangolare sorretta da zampe ferine.

Questa tipologia di saliera presenta numerose varianti, sia nella scelta dei personaggi sia nella realizzazione dei decori, come ad esempio la saliera del Victoria and Albert Museum di Londra con tre delfini che sorreggono un piccolo piattello, o le due saliere con draghi e arpie custodite a casa Raffaello, molto vicine alla nostra. Si veda inoltre quella pubblicata nel catalogo della mostra parigina delle maioliche del Petit Palais (F. Barbe, C. Ravanelli Guidotti (a cura di), La collezione delle maioliche del Petit Palais della Città di Parigi, Venezia 2006, pp. 156-158 n. 78, solo per i draghi).

Un esempio particolarmente prossimo è stato pubblicato da Riccardo Gresta, che sottolinea come le saliere fossero oggetti da tavola molto usati nei palazzi, tanto da comparire spesso negli inventari. E del resto la loro produzione dovette interessare quasi tutte le botteghe del Ducato (R. Gresta, in E. Sannipoli (a cura di), La via della ceramica tra Umbria e Marche: maioliche rinascimentali da collezioni, Gubbio 2010, p. 294 n. 3.46).

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
34

PIATTO, VENEZIA, BOTTEGA DI MASTRO DOMENICO, 1570 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, giallo arancio, verde ramina e bruno di manganese. Sul retro iscrizione Abran e lettere di collezione in bruno, sovracoperta in corsivo LFT; alt. cm 4,8, diam. cm 29,5, diam. piede cm 11

 

A DISH, VENICE, WORKSHOP OF MASTRO DOMENICO, CIRCA 1570

 

 

Il piatto ha profondo cavetto e larga tesa obliqua con orlo arrotondato, il retro poggia su un basso piede ad anello appena accennato, è listato di giallo a segnare le forme escluso il piede, al centro del quale è delineata in corsivo in blu di cobalto la scritta Abran.

Sul fronte una scena istoriata con più momenti rappresentati su diversi piani. Il paesaggio è aperto e vede sullo sfondo a destra una ricca città con edifici a cupola, al centro un complesso e variegato paesaggio, a sinistra una casa con un largo cortile con un pozzo, ed una figura femminile che esce allarmata da un cancelletto aperto; alla sua destra un fanciullo governa degli armenti, mentre sullo sfondo un vecchio è inginocchiato davanti a tre figure alate. Si tratta della narrazione, realizzata qui con grande maestria pittorica sia nella resa dei piani prospettici, sia nel totale dominio della materia, del momento in cui Abramo riceve da Dio sotto aspetto di tre viandanti la notizia che l’anno successivo l’anziana moglie Sara avrà un figlio: e proprio la moglie Sara sembra qui presagire l’evento o comunque indicare la scena. Il nome di Abramo nella forma qui utilizzata compare solo nella Genesi 11,26 e 17,5, in Neemia 9,7 e nelle Cronache I, 1,26.

L’opera per stile e decoro trova riscontro nelle migliori interpretazioni su forme aperte della bottega di mastro Domenico, che sappiamo essere stato anche pittore, ma di cui conosciamo solo pochi esemplari firmati. Citiamo qui ad esempio un piatto in collezione privata con l’Incontro tra Giuda e Tamara (A. Alverà Bortolotto (a cura di), Maioliche veneziane del Cinquecento da collezioni private, Galleria Canelli, Milano 1990, n. 17), nel quale ritroviamo la stessa suddivisione e distribuzione della scena in più piani, lo steccato in primo piano ed il pastore con gli armenti. Ma è soprattutto nei grandi vasi presenti proprio in questo catalogo che si riscontra un paesaggio del tutto simile a quello della città che compare sullo sfondo del nostro piatto.

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

PIATTO, URBINO, CERCHIA DI FRANCESCO XANTO AVELLI, PROBABILMENTE GIULIO DA URBINO, 1534 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con verderame, verde oliva, giallo, giallo arancio, blu di cobalto, bruno di manganese nella tonalità del nero e del marrone, bianco di stagno; alt. cm 3, diam. cm 28,2, diam. piede cm 10

 

A PLATE, URBINO, CIRCLE OF FRANCESCO XANTO AVELLI, PROBABLY GIULIO DA URBINO, CIRCA 1534

 

Bibliografia di confronto

J.V.G. Mallet, Xanto: i suoi compagni e seguaci, in “Francesco Xanto Avelli da Rovigo. Atti del Convegno Internazionale di Studi 1980”, Rovigo 1988, pp. 78-79;

T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 262-265 n. 114

 

 

Il piatto ha un ampio e largo cavetto, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello abbastanza rilevato. Il verso non è decorato. Sul recto si legge una scena istoriata: al centro del cavetto, in un’ansa di un fiume ai piedi di un’alta roccia, una figura maschile anziana, con lunga barba, esce dall’acqua afferrando con una mano la veste di una giovane donna sull’argine, mentre con l’altra sorregge il tridente, vestito unicamente di un mantello gonfiato dal vento, oltre ai calzari con alti parastinchi; ai suoi piedi emerge dalle acque la testa di un orso con le fauci spalancate. Sulla sinistra la fanciulla, con una lunga veste, che cerca di fuggire sorreggendosi alla mano di una compagna. Sulla tesa opposta una donna con arco e faretra corre verso la foresta. Intorno sullo sfondo si apre un paesaggio lacustre con città dagli alti edifici, torri e alcune montagne dal profilo squadrato.

In assenza di indicazioni fornite sul retro del piatto pensiamo che la scena si possa interpretare come Il ratto di Proserpina: Ade, qui raffigurato senza il carro, rapisce la figlia di Demetra che coglieva fiori sull’argine del fiume insieme a Ecate e Ciane, la stessa Ecate nel frattempo fugge per avvisare la madre di Proserpina. La figura dell’orso, dipinta ai piedi del Dio degli Inferi, si può interpretare in vario modo: a indicare la ferocia del ratto, a simboleggiare Cerbero, oppure in una chiave simbolica ancora da interpretare, come ed esempio ad indicare la morte di un membro della famiglia Orsini (il cardinale Fanciotto Orsini che aveva vissuto la caduta di Roma e la cui morte era avvenuta nel 1534?).

La scena raffigura comunque la narrazione del mito con una certa sincronia temporale: è il momento del rapimento di Proserpina, cui segue la morte e trasformazione in sposa del dio degli Inferi Ade, e la possibilità, solo in seguito, e grazie all’intervento della madre Demetra, di tornare per sei mesi l’anno in superficie generando la primavera e l’estate. Lo specchio d’acqua rappresenta il lago Averno, ingresso dell’Ade, che secondo la versione ovidiana delle Metamorfosi si spalanca colpito dal tridente del dio. Di un certo interesse anche la lettura di Ecate, qui in veste di Diana, secondo una versione romana che associa le due divinità nella loro veste lunare, ma anche accomunate da una lettura più antica, italica, nella quale la Diana/Ecate sovrintende alla nascita, alla crescita e alla morte. Presente in Dante, sia nel Purgatorio sia nell’Inferno in varie accezioni, la divinità è talvolta sovrapposta anche a Persefone stessa (qui gli abiti sono simili, ma non identici), ma ci pare che la sovrapposizione Diana /Ecate /Luna sia quella più comune: si pensi a Farinata che accenna “alla donna che qui regge”, cioè Luna-Proserpina, e quindi Diana (in Inferno, X, 80).

La rappresentazione dei personaggi è probabilmente mutuata da incisioni di più autori, secondo una tecnica particolarmente utilizzata da Francesco Xanto Avelli e seguaci nella prima metà del XVI secolo. Tra le figure ci pare di riconoscere il corpo di Marte dalla serie delle figure in nicchia di Jacopo Carraglio, al quale il pittore ha qui unito il capo di un vecchio e mutato la posizione delle braccia. L’immagine di Diana trae forse spunto da incisioni di Marcantonio Raimondi come la Giustizia o la Temperanza, mentre ci pare invece che la figura di Proserpina possa derivare dalla figura femminile in fuga, posta sulla destra dell’incisione di Giulio Bonasone con il mito di Giasone e Medea, oppure da una delle Esperidi e Ninfe dell’incisione, sempre di Bonasone, con Ercole che guida la mandria di Gerione.

A nostro parere l’ambiente è quello di Francesco Xanto Avelli, e probabilmente si dovrebbe trattare di una collaborazione tra il maestro e uno dei suoi seguaci. Nel confronto con opere degli anni attorno al 1534 si riconoscono molte caratteristiche stilistiche tipiche di quel periodo. Ad esempio i profili con il naso largo, sottolineati in bruno, e gli occhi piccoli lumeggiati di bianco con un piccolo puntino coincidono con un’opera firmata da Giulio da Urbino datata 1534 e conservata al British Museum (inv. PGE1997,4-I,1), altrettanto non possiamo dire per le muscolature potenti lumeggiate di bianco, nel nostro piatto con fattezze allungate rispetto ai muscoli brevilinei e massicci del piatto di confronto.

Nel piatto in esame l’invenzione è complessa come, pure la disposizione dei personaggi; la presenza della roccia alta e scura e certi dettagli del paesaggio, oltre all’uso abbondante del verde scuro e una certa perizia tecnica, farebbero pensare a Xanto Avelli, tuttavia le figure non interessate dal restauro hanno caratteristiche somatiche che ci conducono alla mano di Giulio di Urbino o di Lu.Ur.

Anche nel piatto di recente pubblicazione raffigurante La follia di Orlando attribuito a Giulio di Urbino (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 262-265 n. 114) riconosciamo alcune caratteristiche fisionomiche che ci fanno pensare alla mano di Giulio, soprattutto nella figura di Diana/Ecate del nostro piatto. Il piatto di confronto reca anch’esso la data 1534. Tuttavia il modo di lumeggiare la muscolatura, di realizzare i piedi delle figure, ad esclusione di Ecate, di dare contrasti di luce nelle vesti, nei volti e in alcuni elementi del paesaggio ci sembrano ancora molto vicine all’opera di Xanto, ed anche la rapidità nella creazione della raffigurazione, così colta e che gioca sulla conoscenza dei modelli incisori, ci sembra del maestro. Rimaniamo pertanto incerti nell’attribuzione tra il maestro e i membri della sua cerchia, a sottolineare l’importanza dell’opera nel panorama complessivo degli studi della materia. Negli anni di realizzazione del nostro piatto infatti Xanto Avelli era ormai pittore affermato e avrebbe potuto occupare una posizione tale da permettergli di utilizzare assistenti (J.V.G. Mallet, Xanto: i suoi compagni e seguaci, in “Francesco Xanto Avelli da Rovigo. Atti del Convegno Internazionale di Studi 1980”, Rovigo 1988, pp. 78-79).

Stima   € 40.000 / 60.000
32

PIATTO, URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DURANTINO, 1550-1570 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, giallo arancio, verde ramina, bruno di manganese. Sul retro iscrizione: Joseph’ messo ne’l pozzo e poi / ue’duto seguita da sigla sormontata da croce; alt. cm 5,8, diam. cm 31,4, diam. piede cm 10,2

 

A DISH, URBINO, WORKSHOP OF GUIDO DURANTINO, CIRCA 1550-1570

 

 

Il grande piatto ha profondo cavetto e larga tesa obliqua con orlo arrotondato, il retro poggia su un basso piede ad anello appena accennato, al centro del quale si legge l’iscrizione in corsivo in blu di cobalto Joseph’ messo ne’l pozzo e poi / ue’duto seguita da sigla sormontata da croce; il retro è listato di giallo a segnare le forme. Sul fronte una ricca e complessa decorazione, con il giovane Giuseppe calato nel pozzo dai fratelli, nascosto per far credere al padre che fosse morto, e cederlo poi ai mercanti che lo porteranno in Egitto.

Tutta la scena è tratta con poche varianti per la forma e le libertà del pittore dall’incisione Giuseppe calato nella cisterna del Monogrammista HS, Sebald Hans Beham, post 1533 (Bartsch VIII, p. 230).

Il piatto trova riscontro in altre opere con scene bibliche, ma anche nei piatti del Servizio con Stemma Salviati a paesi, nei quali si riconoscono le medesime sottili linee giallo ocra usate a sottolineare i cambi di pendenza delle balze e delle rocce, i piccoli paesi in prospettiva tratti anch’essi da incisioni nord europee, le balze rocciose o i plinti architettonici in primo piano. Tale servizio fu iniziato attorno al 1558.

Questo modo di dipingere un po’ calligrafico, che dà forza incisiva alle immagini, è quello tipico della bottega di Guido Durantino.

Il rinfrescabottiglie del MET di New York, con il trionfo di Bacco, costituisce a nostro avviso un valido confronto stilistico. Il pittore interpreta liberamente il tema, trasformando il trionfo marino di Nettuno nel trionfo di Bacco, che compare in piedi sul carro trainato da leoni accompagnato da tutto il campionario tipico di naiadi e tritoni, più consoni a una scena marina. Il paesaggio di fondo è abitato da palazzi e case di derivazione dalle incisioni nordiche, lo stile pittorico delle figure è veloce, nervoso e un poco rigido, ma di lettura immediata (T. Wilson, Maiolica. Italian Renaissance ceramics in the Metropolitan Museum of Art, London 2016, p. 278 n. 98). Altro interessante confronto ci deriva da un piatto di 23 cm della bottega Fontana databile agli anni Settanta del XVI secolo, conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana (BAV inv. 2244), raffigurante Achab, re di Giudea, che sacrifica ai falsi Dei. I due sacerdoti sulla sinistra hanno molte affinità stilistiche con le figure dei mercanti sulla sinistra del nostro piatto e così pure molti dettagli del paesaggio (C. Ravanelli Guidotti, L’Istoriato. Libri a stampa e maioliche italiane del Cinquecento, catalogo della mostra, Faenza 1993, p. 244 n. 4). Va detto però che la grafia della scritta sul retro non coincide con le opere in confronto.

Stima   € 25.000 / 35.000
5

PIATTO, FAENZA, FINE SECOLO XV-INIZI XVI

in maiolica decorata con blu di cobalto, giallo, giallo arancio e verde ramina; alt. cm 4,5, diam. cm 27,5, diam. piede cm 9,5.

 

Bibliografia di confronto

R. Casadio, Maioliche faentine dall’Arcaico al Rinascimento, Faenza 1985, pp. 48-49;

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1988, pp. 236-250;

C. Ravanelli Guidotti, Delle gentili donne di Faenza. Studio sul “ritratto” sulla ceramica faentina del Rinascimento, Faenza 2000, p. 353 n. 30

 

Il piatto presenta la caratteristica forma con ampia svasatura e cavetto profondo separato dalla tesa da un gradino smussato, la tesa orizzontale e terminante in un orlo arrotondato. Il retro, privo di piede, ha un appoggio appena incavato. Sul fronte e sul retro sono evidenti gli appoggi dei distanziatori di cottura. Al centro della composizione un giovane paggio è ritratto di profilo, rivolto a sinistra, con i capelli lunghi ricadenti sulle spalle e trattenute da una fascia, vestito di un giustacuore ricamato; il profilo ombreggiato e inserito in un medaglione riempito da puntinature. Tutto intorno si sviluppa un ornato a cornici concentriche decorate da motivi a embricazioni, a crocette, spirali concentriche, perlinature, ornati a nodo e a dente di lupo con campiture riempite da puntinature.

Il piatto costituisce un valido esempio della produzione tardo quattrocentesca a Faenza e ben s’inserisce nella vasta famiglia delle “Belle” che, talvolta propone, al centro della composizione, un ritratto maschile. La ricchezza del decoro, la finezza e nella decorazione e la presenza di motivi già rinascimentali ci fa ritenere quest’opera come precoce rispetto alle produzioni più note. Il retro è decorato con filettature concentriche, note comunemente come motivo “a calza” nei colori giallo ocra e blu. Un esemplare simile, sebbene più semplificato nella scelta del decoro con aggiunta di palmetta persiana nella tesa, mostra un’impostazione vicina a quella della nostra opera, ugualmente con profilo maschile, ma con l’aggiunta di due ali, è stato pubblicato nel 1985 da Rino Casadio. Anche i frammenti presenti sul territorio faentino, alcune analogie con decori pavimentali e la raffinatezza pittorica ci fanno pensare al periodo di transizione tra i due secoli. Inoltre, al di là dei ritratti delle Belle o di paggi, questo tipo di decoro vede protagonisti anche simboli amorosi, come nel piatto con coniglio, gamelio d’amore, presentato da Carmen Ravanelli Guidotti nella monografia sul ritratto sulla ceramica faentina del Rinascimento.

Stima   € 8.000 / 12.000
31

PIATTO, URBINO, 1560 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, giallo arancio, verde ramina, bruno di manganese. Sul retro iscrizione Susanna tentata dallj vecc/hi nel giardino; alt. cm 4,5, diam. cm 27,2, diam. piede cm 9,8

 

A MAIOLICA PLATE, URBINO, CIRCA 1560

 

 

Il piatto ha profondo cavetto e larga tesa obliqua con orlo arrotondato, il retro poggia su un basso piede ad anello appena accennato, al centro del quale è delineato in corsivo in blu di cobalto la scritta Susanna tentata dallj vecc/hi nel giardino, ed è listato di giallo a segnare l’orlo e il piede.

Sul fronte una scena istoriata con al centro Susanna mentre si lava nella fonte del giardino del marito Joachim, un giardino recintato che lascia scorgere sullo sfondo un vasto paesaggio lacustre; ai lati i due vecchi ambasciatori che si erano entrambi invaghiti della giovane donna, e che rifiutati la accuseranno di adulterio, accusa dalla quale riuscirà a salvarsi solo grazie all’intervento di Davide, che porterà i due vecchi in contraddizione tra loro.

Di sorprendente capacità pittorica la resa prospettica del giardino e i dettagli curati, non solo nella resa dei personaggi, con incarnati e masse muscolari realizzati con una perizia minuziosa, ma anche nei dettagli del paesaggio, nella quinta formata dagli alberi e nella profondità data dalla spaccatura del terreno all’esergo del piatto. I personaggi sono tipici del mondo di Marcantonio Raimondi. Esemplari di confronto nella bottega Fontana ci sembrano pertinenti con il periodo attorno agli anni sessanta del cinquecento, come ad esempio nei piatti del servizio Scheuffelin (J. Lessman, Italienische Majolica Aus Goethes besitz, Weimar 2015, pp. 102-107 nn. 27-29).

Stima   € 8.000 / 12.000
25

PIATTO DA POMPA, DERUTA O VITERBO (?), 1560

in maiolica dipinta in policromia su smalto stannifero con blu, azzurro, verde rame, blu di cobalto, giallo antimonio; alt. cm 9, diam. cm 37,5, diam. piede cm 13

 

A LARGE DISH, DERUTA OR VITERBO (?), 1560

 

 

L’esemplare ha un cavetto profondo e largo con tesa ampia che termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato, e poggia su un piede ad anello anch’esso appena rilevato e forato in origine, prima della cottura avvenuta con tecnica mista in due tempi: prima a gran fuoco con blu a due toni, poi in riduzione per l’ottenimento del lustro; retro con invetriatura color bistro che ricopre l’intera superficie.

La forma, comunemente destinata ad accogliere i ritratti, è qui utilizzata per una scena istoriata interpretata con un originalissimo stile pittorico. Al centro del cavetto due personaggi delineati rapidamente con tocchi di blu e dipinti in grigio diluito sono intenti in una lotta, entro un paesaggio chiuso all’orizzonte da una città turrita, posta dietro una serie di avvallamenti dal profilo arrotondato dal quale emerge un fiore multipetalo colorato. Il paesaggio è realizzato con larghe pennellate orizzontali e una tavolozza limitata al blu, giallo e verde, mentre nella tesa compaiono tocchi di rosso ferraccia evanescenti, quasi a testimoniare una cottura non del tutto riuscita, con un ornato a formelle con decoro a embricazioni alternate a un fiore dalla corolla allargata e a una foglia lanceolata, separate da larghe fasce blu e bianche, tipico delle produzioni derutesi attorno alla metà del secolo XVI.

La scena rappresenta la lotta tra Ercole e Anteo, variamente raffigurata nella maiolica antica, che trova una delle sue migliori interpretazioni in un piatto derutese a lustro con modalità stilistiche invero ben diverse, di recente pubblicazione (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 88-91 n. 33), che ci fornisce un repertorio significativo dell’ispirazione più elevata del piatto in esame. Il nostro piatto trae spunto probabilmente da una delle incisioni presenti in bottega, e a tal proposito la posizione delle braccia di Anteo nel nostro piatto sembra far riferimento all’ottava incisione con Ercole e Anteo ed Ercole che uccide il drago della serie Le gesta di Ercole, eseguita nel 1550 da Heinrich Aldegrever.

L’eventuale attribuzione a bottega viterbese della seconda metà del XVI secolo si basa sull’affinità stilistica nei decori minori, le foglie del fioretto di sfondo e alcune scelte tecniche, che fanno pensare ad una somiglianza con il piatto pubblicato come viterbese della collezione del Banco di Sicilia, alla cui scheda rimandiamo per confronto. Del resto la presenza a Viterbo di artigiani confluiti da più botteghe dei dintorni a seguito della peste si registra già alla metà del secolo precedente (R. Luzi, L. Pesante, in R. Ausenda (a cura di), Le collezioni della fondazione Banco di Sicilia. Le maioliche, Milano 2010, pp. 178-179 n. 64).

Stima   € 7.000 / 10.000
4

PIATTO DA POMPA, DERUTA, 1480 CIRCA

in maiolica decorata in blu di cobalto e giallo ocra, verde ramina e bruno di manganese nei toni del viola; alt. cm 7, diam. cm 40,5, diam. piede cm 13,5

 

A LARGE DISH, DERUTA, CIRCA 1480

 

Provenienza

Parigi, Collezione Adda;

Firenze, Collezione privata

 

Bibliografia

B. Rackham, Islamic Pottery and Italian Maiolica. Illustrated Catalogue of a Private Collection, Londra 1959, p. 268 n. 274, tav. 113

 

 

L’esemplare ha un cavetto profondo e largo, la tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato, e poggia su un piede ad anello forato in origine a crudo, mentre il verso presenta invetriatura che ricopre l’intera superficie; caratteristiche tutte comunemente in uso nelle botteghe derutesi.

Al centro del cavetto una raffigurazione istoriata con il mito di Diana e Atteone, qui in una versione mutuata liberamente dalle raffigurazioni canoniche tratte probabilmente dalle incisioni. La divinità sola, senza le compagne, si copre con la lunga chioma mentre il cacciatore Atteone, con il corno da caccia e l’arco ancora in mano, che già si muta in cervo, è inseguito dai propri cani che poi lo sbraneranno. La scena vede la fonte al centro di una vasta pianura interrotta all’orizzonte da una città turrita al di sopra della quale nel cielo, in una riserva, è dipinto un complesso motivo a foglia gotica. Una marcata linea arancio filettata di blu suddivide il cavetto dalla tesa, sulla quale si distende un motivo a foglie arricciate, dipinte in blu, giallo arancio e verde su un fondo puntinato. Una linea giallo arancio sottolinea poi il bordo esterno.

La fonte diretta del soggetto è riconoscibile nella volgarizzazione di Ovidio fatta da Giovanni Bonsignori negli anni 1375-1377, oltre alle allegorie composte a uso didattico nel 1322 da Giovanni del Virgilio. Da qui le divergenze rispetto al testo ovidiano, come la presenza di due soli cani anziché la moltitudine di cui parla, o la figura di Diana, presentata qui quasi fuori contesto, lontana dalla grotta (si veda al proposito C. Cieri Via, L’arte delle metamorfosi. Decorazioni mitologiche nel Cinquecento, Roma 2003).

Ci pare invece di riscontrare una certa somiglianza nella definizione del paesaggio con le prime incisioni, ancora della seconda metà del XV secolo, come ad esempio le opere di Baccio Baldini, dove ritroviamo specchi d’acqua e vegetazione erbosa realizzati con tratti marcati e incisivi, oppure alcuni dettagli delle incisioni della Metamorfosi di Bonsignori, però databili alla seconda metà del XV secolo.

Questa tipologia di piatti fu per lungo tempo attribuita a manifattura faentina, anche se la coincidenza del loro retro con la tipica morfologia derutese ha sempre destato dei dubbi in merito, tanto che le opere affini vantano una consistente mole di studi. Alcuni esemplari con bordura decorata secondo un motivo analogo, ma decoro centrale molto differente, costituiscono un valido raffronto. Il primo confronto ci deriva dal piatto da parata del British Museum, con giovane gradiente con bastone e falce in una riserva circondato da motivi a fiore di briona, uno dei piatti più antichi con decoro mutuato da un’incisione (D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics. A Catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, p. 77 n. 45). Nell’elenco di opere con tipologia decorativa ancora vicina al nostro esemplare, possiamo ricordare anche Il piatto del Victoria and Albert Museum con fanciulli che si arrampicano su un albero con il motto E NON SE PO MANGIARE SENZA FATICA, ma anche il piatto, ancora del VAM (inv. 1806-1855), con allegoria dell’amore crudele, nel quale la scelta dei decori secondari nel cavetto contempla un motivo a foglia gotica (D. Thornton in A. Bayer, S. Cartwright, Art and Love in Renaissance Italy, New Haven 2009, pp. 89-90 n. 22). Numerosi inoltre i frammenti coerenti con queste opere conservati nel Museo Regionale di Deruta.

Anche l’opera in esame era nota come opera della manifattura di Faenza, databile attorno al 1475, pubblicata da Berbard Rackham nel volume dedicato all’importante collezione Adda, ove era conservato probabilmente ancora intatto e senza integrazioni pittoriche che ne appiattiscono un poco il decoro.

Stima   € 40.000 / 60.000
48

PIATTO, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

in maiolica ricoperta di smalto blu di cobalto, con decoro in oro, poco brillante e bianco di stagno; alt. cm 3,6, diam. cm 23, diam. piede cm 7,5

 

A DISH, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

 

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo con tesa obliqua, poggia su un piede ad anello appena accennato ed è interamente ricoperto da smalto blu intenso. Al centro del cavetto compare lo stemma del Cardinale Farnese con i sei gigli blu in campo oro, sormontato dal cappello cardinalizio con sei nappe e racchiuso in una cornice dipinta in bianco di stagno; intorno, il caratteristico motivo a fiori quadrangolari accompagnati da un decoro a racemi in bianco di stagno. Sulla tesa il motivo a fiori quadrangolari si ripete in una ghirlanda continua.

Anche l’opera in oggetto mostra al centro lo stemma del cardinale realizzato probabilmente per sottrazione o utilizzando una mascherina al momento dell’applicazione dell’oro, in modo da ottenere i gigli di colore blu su campo oro come richiesto dall’araldica secondo una precisa tecnica che ritroviamo in molti esemplari. Il decoro è più semplificato rispetto all’esemplare che precede, mostra una minore attenzione esecutiva e trova riscontro nel piatto recentemente transitato in questa sede (Pandolfini, 1 Ottobre 2015, lotto 57) e nel piatto con verso privo di decorazione, conservato nel Württemberg Landes Museum di Stoccarda (C. De Pompeis, C. Ravanelli Guidotti, M. Ricci, Le maioliche cinquecentesche di Castelli. Una grande stagione artistica ritrovata, Pescara 1989, n. 538).

Stima   € 6.000 / 8.000
47

PIATTO, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

in maiolica ricoperta di smalto blu di cobalto, con decoro in oro e bianco di stagno; alt. cm 5,5, diam. cm 31,8, diam. piede cm 13

 

A DISH, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

 

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo con tesa obliqua, poggia su un piede ad anello appena accennato ed è interamente ricoperto da smalto blu intenso. Al centro del cavetto compare lo stemma del Cardinale Farnese con i sei gigli blu in campo oro, sormontato dal cappello cardinalizio con sei nappe e racchiuso in una cornice dipinta in bianco di stagno; intorno, il caratteristico motivo a fiori quadrangolari accompagnati da un decoro a racemi entro riserve in oro. Sulla tesa il motivo a fiori quadrangolari si ripete in una ghirlanda continua particolarmente ricca.

L’opera in oggetto mostra al centro lo stemma del cardinale realizzato probabilmente per sottrazione o utilizzando una mascherina al momento dell’applicazione dell’oro, in modo da ottenere i gigli di colore blu su campo oro come richiesto dall’araldica. Un piatto di recente pubblicazione è coerente per stile e decoro (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a private collection, Torino 2018, p. 472 n. 216), mentre il confronto più vicino per qualità e resa stilistica si ritrova in un piatto molto simile al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 127-1892) e in uno, con stemma differente, databile ai primi anni del XVII secolo e pubblicato nel catalogo sulle ceramiche di Castelli (C. de Pompeis, C. Ravanelli Guidotti, M. Ricci, Le maioliche cinquecentesche di Castelli. Una grande stagione artistica ritrovata, Pescara 1989, p. C166 n. 543), che ci porterebbe ad una datazione vicina agli anni novanta del XVI secolo.

 

Il servizio Farnese fu eseguito in più riprese tra il 1574 e il 1589, anno della scomparsa del Cardinale. L’attribuzione alle officine di Castelli (C. de Pompeis, C. Ravanelli Guidotti, M. Ricci, Le maioliche cinquecentesche di Castelli. Una grande stagione artistica ritrovata, Pescara 1989, pp. 126-140) si basa sul confronto con frammenti emersi dagli scavi condotti nella città abruzzese e trova riscontro in due opere del Museo di Capodimonte in cui compare una sigla interpretabile come Castellorum (L. Arbace, La maiolica italiana. Museo della ceramica Duca di Martina, Napoli 1996, p. 369). Le varianti morfologiche e stilistiche tra le opere in “turchina” lasciano però aperti alcuni interrogativi riguardo alla definizione delle botteghe castellane autrici della fornitura e alla cronologia delle varianti esistenti, come dimostra la chiara differenza anche tra i due piatti presentati in questo stesso catalogo.

Come già indicato da Carmen Ravanelli Guidotti la raffinata tecnica di produzione di questi prodotti “compendiari” sembra, attraverso l’analisi dei frammenti, caratterizzata da una pesante invetriatura monocroma, più che dall’applicazione di un vero e proprio smalto come nelle opere faentine (op. cit., p. 127.) Ma la tecnica più sorprendente è quella dell’uso del terzo fuoco per la stesura dell’oro, che doveva essere causa di un gran numero di rotture dei manufatti durante e dopo la cottura. Luciana Arbace analizzando opere simili del servizio elencato tra gli arredi del Palazzo Farnese a Caprarola nel 1626, ricorda anche un servizio da credenza di maiolica turchina miniata d’oro con l’arme del Cardinale Farnese ancora presente nella Loggia del Palazzo Farnese di Roma nel 1644, nel 1653 e qualche anno più tardi. Di queste opere tra il 1728 e il 1734 se ne conservavano 72, poi trasferite presso il Museo di Capodimonte nel 1760, mentre altre furono disperse (L. Arbace, in I Farnese. Arte e Collezionismo, Milano 1995, p. 368 e bibliografia relativa).

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
17

PIATTO, CASTELDURANTE O URBINO, 1520-1530 CIRCA

in maiolica dipinta a gran fuoco in blu cobalto, giallo antimonio, bistro e bruno di manganese; alt. cm 5,5, diam. cm 31,8, diam. piede cm 13

 

A PLATE, CASTELDURANTE OR URBINO, CIRCA 1520-1530

 

Provenienza

Parigi, Asta Druot-Richelieu, 4 maggio 1993, lotto 55;

Torino, collezione privata

 

Bibliografia di confronto

J. Rasmussen, Italian Majolica in the Robert Leheman Collection, New York 1989, pp. 100-101 n. 62;

F.A. Dreirer, J. Mallet, The Hockemeyer collection. Maiolica and Glass, 1998, pp. 230-231;

D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics. A catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, pp. 370-371 n. 217

 

 

Il piatto piano a tagliere, privo di cavetto, poggia su base apoda appena accennata, lo smalto è bianco crema e ricopre l’intera superficie. Il decoro a candelabra, con scudi, elmi e loriche collegati tra loro tramite nastri svolazzanti, è realizzato a risparmio, poi ombreggiato con mezzatinta grigia su fondo steso a pennellate parallele blu cobalto. Partendo dal basso, si notano due larghi elementi a cartiglio a forma di riccioli contrapposti, centrati da un elemento sferico, più in alto due grottesche dalle orecchie appuntite, le cui code si arricciano al centro aprendosi poi ai lati in cornucopie piene di frutta, incorniciando al centro un emblema con un’aquila monocipite su fondo giallo; nella parte superiore un mascherone con barba. Collane di perle cingono il collo delle grottesche collegandole alle cornucopie, mentre elementi fogliati e decori secondari completano l’ornato. Una sottile linea gialla marca l’orlo, mentre il retro non è decorato.

Una coppa conservata al Museo di Pesaro e databile al 1548, corredata dalla presenza di spartiti musicali (M. Moretti in P. Dal Poggetto, I Della Rovere: Piero della Francesca, Raffaello, Tiziano, Milano 2004, p. 485 scheda XV.28), si avvicina molto al nostro esemplare e ci fornisce un buon confronto, ma si presta ad una più approfondita chiave di lettura data la presenza di musica, mentre per il nostro esemplare è il motivo araldico-militare che sembra essere più importante. Una via di mezzo tra le due scelte decorative è rappresentata da una coppa con candelabra, trofei, stemma e spartiti musicali al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. n. C2224-1910) (D. Chambers, J. Martineau, Splendours of the Gonzaga, London 1981, scheda n.198. J. Mallet attribuisce l’opera a Casteldurante o Urbino): l’emblema Gonzaga, con le aquile coronate su fondo argento, troneggia al centro della composizione, al di sopra di uno spartito musicale e circondato da grottesche: tale coppa, probabilmente urbinate, è databile al 1525.

Una recente ipotesi fa pensare che questo tipo di opere fosse prodotto anche nella città di Venezia, basandosi sul fatto che Cipriano Piccolpasso nel concludere "il terzo libro dell'arte del vasaio", lascia intendere che il decoro a candelabra avesse un suo buon mercato nella città veneta, dove erano comunque soliti operare emigrati da Casteldurante e Pesaro. Piccolpasso stesso peraltro, nel citare i trofei, ci dice che "si fano più per il Stato di Urbino che in altro luogo": il tema militare era infatti caro ai Montefeltro e ai Della Rovere.

Per questa tipologia di opere sono fondamentali gli studi di John Mallet, che stila un elenco di piatti che recano il medesimo stile decorativo (F.A. Dreirer, J. Mallet, The Hockemeyer collection. Maiolica and Glass, 1998, pp. 230-231), mentre per un’attribuzione a bottega urbinate, forse di Nicola da Urbino, si veda quanto detto da Rasmussen (J. Rasmussen, Italian Majolica in the Robert Leheman Collection, New York 1989, pp. 100-101 n. 62) e da Wilson e Thornton negli studi più recenti (T. Wilson, D. Thornton, Italian Renaissance Ceramics. A catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, pp. 370-371 n. 217).

Il piatto è transitato sul mercato nel 1993 con attribuzione a Casteldurante e riferimento all’analisi della termoluminescenza (Oxford 481 U73), di cui conserva traccia sul retro del piede. Nella scheda si proponeva una lettura dell’emblema come attribuibile al Montefeltro oppure, in base a un emblema simile, al Museo del Louvre, come emblema della Famiglia Sabatini di Rimini.

L’aquila mantiene le caratteristiche morfologiche di quella presente nell’emblema Montefeltro su campo oro: l'aquila araldica trasmette il significato di maestà, vittoria, potere sovrano. Una certa affinità con la monetazione, nella quale può comparire un’aquila singola, ci indirizza verso un campo di ricerca tutto da approfondire: interessante anche la suggestione che deriva dal fatto che nell’emblema dello stemma di Valente Valenti Gonzaga di Mantova e la moglie Violante Gambara di Brescia troneggino due aquile su fondo oro ad adornare, per concessione dei Marchesi Gonzaga nel 1518, il capo dello scudo, mutando cioè il campo di fondo da argento a oro (T. Wilson in R. Ausenda (a cura di), Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche, I, Milano 2000, pp. 182-184 n. 193).

Interessante il confronto con un boccale del museo di Urbania datato 1558 con lo stesso emblema, a conferma dell’uso del decoro con l’aquila nel ducato di Urbino e in particolare a Casteldurante (C. Leonardi, La ceramica rinascimentale metaurense, Roma 1982, p. 68 fig. 51). E d’altra parte l’aquila su campo oro compare variamente associata in più emblemi araldici, non ultimo in quello di Guidobaldo II della Rovere (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 326-329 n. 142) o nell’emblema della Famiglia Mazza (T. Wilson, op. cit. pp. 366-368 n. 163). Va comunque e più semplicemente considerato che l’emblema con l’aquila è presente già nella romanità come simbolo di comando e forse in questo caso l’aquila potrebbe essere letta in associazione con i trofei (G. Gerola, L’aquila bizantina e l’aquila imperiale a due teste, in “Felix Ravenna”, 1934, fasc. I, XLIII, pp. 7-39).

Stima   € 60.000 / 90.000
23

PIATTO, CASTELDURANTE O PESARO, PRIMA METÀ SECOLO XVI

in maiolica decorata in giallo arancio, giallo antimonio, blu di cobalto, verde ramina, bruno di manganese; alt. cm 4,5, diam. cm 26,2, diam. piede cm 9,4

 

A DISH, CASTELDURANTE OR PESARO, FIRST HALF 16TH CENTURY

 

 

Il piatto ha cavetto piano e larga tesa inclinata con orlo assottigliato poggiante su piede a disco appena rilevato. L’ornato del cavetto mostra al centro, su un paesaggio erboso delimitato da alberelli e da uno steccato, un putto legato a un albero con gli occhi bendati secondo la simbologia dell’Amore cieco. La tesa, separata da una sottile fascia con un motivo corrivo a formare una catenella, mostra un decoro a trofei, ombreggiati a tinte aranciate e lumeggiati a bianchetto, con nastri graffiti su fondo blu, e la sigla S.P.Q.R. entro un cartiglio, mentre l’orlo è sottolineato da una linea gialla filettata di arancio. Il retro invece non presenta decori, ed è ricoperto da uno spesso strato di smalto con sfumature verdastre.

Gli studi più recenti oscillano nell’attribuzione di questa tipologia di opere tra Pesaro e Casteldurante. Il motivo decorativo centrato da un amorino è utilizzato in molti centri intorno al 1500, spesso in associazione con vari decori oltre a quello a trofei, che il Piccolpasso considerava tipicamente metaurense: “Vero è che gli trofei si fanno più per lo Stato di Urbino che in altro luogo”. A Casteldurante questo tipo di decorazione è molto variabile, alternandosi nei toni del grigio o dell’ocra. Secondo alcuni studiosi la discriminante dalla produzione durantino-urbinate pare essere l’uso quasi esclusivo di tonalità cromatiche basate sul giallo-ferraccia. In questo esemplare è notevole la qualità esecutiva, che nella tesa è quasi miniaturistica, e fa pensare a un esemplare ancora cinquecentesco. Spesso i manufatti con motivo a "trofei" sono arricchiti da un cartiglio con l’anno di esecuzione del pezzo, per cui è facile la datazione dei diversi esemplari, che testimoniano una produzione che si protrae fino ai primi decenni del ‘600 (P. Berardi, L'antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze 1984, p.191). Confronti puntuali sono presenti nella Collezione Gillet di Lione, attribuiti a Casteldurante con riferimento a opere databili attorno al 1559, (L.S. Fakhri, C. Fiocco, G. Gherardi, Majoliques italiennes de la renaissance. Collection Paul Gillet, Touloise 2015, pp. 190-191 n. 60). Anche un piatto conservato al Museo di Pesaro con un amorino gradiente su fondo giallo mostra molte affinità con la nostra opera, costituendo un valido aggancio cronologico: reca infatti la data 1579 (A. Del Vita, Le maioliche di Casteldurante nel Museo di Pesaro, Pesaro 1930, p. 379). Ancor più vicino stilisticamente il piatto, sempre al Museo di Pesaro, attribuito a Casteldurante con Amore con arco e faretra, ma con variante di colore grigio nella stesura dei trofei (L. Fontebuoni, Raccolta D. Mazza. Ceramiche rinascimentali, vol. IV, 1985–1986, scheda cat. n. 88).

Stima   € 10.000 / 15.000
46

ORCIOLO, ROMA, 1573

in maiolica dipinta in policromia a fondo azzurro con blu e giallo antimonio. Datato sul retro sotto l’ansa 1573; alt. cm 32,5, diam. bocca cm 10,8, diam. piede cm 15

 

A SPOUTED PHARMACY JAR, ROME, 1573

 

 

Il vaso ha forma ovoidale su stretto piede piano ed espanso, e collo breve che termina in una bocca con orlo estroflesso. L'ansa, a nastro, che parte appena sotto la bocca e scende fino al punto di massima espansione del corpo è di ricostruzione. Il corto beccuccio è a cannello cilindrico.

La decorazione ricopre l'intera superficie del vaso con motivo a larghe foglie su smalto azzurro berettino. Sul fronte, appena sotto il beccuccio compare uno stemma in cornice accartocciata d’azzurro al lambello di sei pendenti d’argento accompagnato da due falci lunari rovesciate in capo e crescenti in punta. Più sotto un largo cartiglio terminante con ampie volute arricciate e ripiegate ai lati, recante la scritta in caratteri gotici “salvie”, sotto il quale campeggia un mascherone femminile. Lungo il piede corre un decoro concatenato a piccole foglie, mentre il resto della superficie è occupato da un impianto decorativo fitomorfo a foglia bipartita, usato in prevalenza per corredi apotecari in monocromia cobalto su fondo azzurrato, comune a vari centri di produzione italiana tra la fine del XVI e gli inizi del XVIII secolo.

I reperti recuperati in scavi a Roma e i corredi di alcune farmacie proprio romane rafforzerebbero l’attribuzione di vasellami di questa tipologia decorativa a un’officina laziale, forse romana. Ma il raffronto con opere di produzione laziale, come i vasi apotecari della farmacia di Montefiascone non ci sembra pertinente. In quest’opera inoltre la forma del manico, seppur di ricostruzione, non sembra riportare traccia delle anse a doppio cordolo desinenti a ricciolo, tipiche della produzione dell’Italia centrale. Tuttavia il confronto con un’opera da collezione privata fiorentina, ancora attribuita a Venezia e datata 1586, ma dotata delle anse secondo la morfologia sopradescritta e con un mascherone del tutto analogo a quello raffigurato sul nostro vaso costituisce un valido confronto. Il cartiglio termina con ricciolo ripiegato con medesime caratteristiche e la decorazione sopra il piede nonché quella distribuita sul corpo del vaso coincidono (P. Casati Migliorini, L. Colapinto, R. Magnani, Vasi di farmacia del Rinascimento italiano da collezioni private, Ferrara 2002, pp. 272-273 n. 127). Del resto la produzione di vasi farmaceutici “alla veneziana” è attestata da documenti di archivio a Roma fin dal 1550 e da scarti di fornace di una bottega di vasai da Casteldurante a Roma (O. Mazzuccato, Le ceramiche da farmacia a Roma tra '400 e '600", Viterbo 1990, p. 81).

Infine il confronto con alcuni orcioli caratterizzati da un emblema a forma di elefante e con decori alla veneziana, stilisticamente affini al nostro, ci fa propendere per una produzione romana tra le più raffinate (R. Luzi, L. Pesante, in R. Ausenda, Le collezioni della fondazione Banco di Sicilia. Le maioliche, Milano 2010, p. 184 n. 67). Un confronto con un orciolo che per forma, tipologia dell’ansa e decoro è vicino al vaso in esame, appartenente già alla Farmacia dell’ospedale di San Salvatore a Roma e attribuito a fabbriche romane, ci conforta nell’attribuzione (C. Pedrazzini, La Farmacia storica ed artistica italiana, Milano 1934, p. 92).

Stima   € 4.000 / 6.000
55

ORCIOLO, PESARO, BOTTEGA DI GIROLAMO E LANFRANCO DALLE GABICCE, 1579

in maiolica dipinta in policromia con giallo arancio, blu di cobalto, giallo antimonio, bianco di stagno, bruno di manganese. Il vaso elettuario ha corpo ovale rastremato verso il basso, piede medio che si apre in una base a disco, collo troncoconico che si apre in una bocca larga con orlo estroflesso; sul fronte un versatoio a cannello e sul retro un’ansa a nastro che porta il decoro con l’emblema della Fortuna, raffigurata come una figura femminile nuda in piedi su un delfino, sospinta da una vela. Al di sotto dell’emblema un cartiglio farmaceutico con scritta in blu in caratteri capitali “FARFARA”. Tutto intorno un decoro a trofei, tra i quali spicca un cartiglio con la data 1579; alt. cm 21,8, diam. bocca cm 9,8, diam. piede cm 9,6

 

A SPOUTED PHARMACY JAR, PESARO, WORKSHOP OF GIROLAMO AND LANFRANCO DALLE GABICCE, 1579

 

 

Questo straordinario insieme di vasi appartiene alla produzione pesarese del famoso corredo farmaceutico che ha come emblema l’immagine della Fortuna: un corredo vasto, presente in collezioni pubbliche e private, tra le quali ricordiamo qui i vasi recentemente pubblicati da Timothy Wilson e conservati al MET di New York, alla cui scheda rimandiamo per confronto (T. Wilson, Maiolica. Italian Renaissance ceramics in the Metropolitan Museum of Art, London, pp. 284-285 n. 101A-C).

Tutti i vasi sono accomunati dalla medesima decorazione e caratterizzati dall’immagine di una divinità femminile nuda che si lascia trasportare da un delfino reggendo una vela: l’impersonificazione della Fortuna.

I vasi di questa importante Spezieria sono databili tra il 1579 e il 1580, e nonostante la tradizionale attribuzione dei decori a trofei alle botteghe di Casteldurante e la possibilità che altre botteghe del Ducato di Urbino abbiano potuto produrre questo decoro, i recenti ritrovamenti di Pesaro fanno ormai propendere per un’ attribuzione di questo corredo alla stessa città marchigiana, ed in particolare alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce (R. Gresta, La maiolica istoriata a Pesaro. Il pittore della Fortuna Marina, in “Accademia Raffaello. Atti e studi”, 2005 nuova serie 1, pp. 57-76).

Altri esemplari di confronto in: Museo Internazionale delle Ceramiche (G. Liverani, Il museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza 1958, tav. 60); Collezione Bayer (G. Biscontini Ugolini, I vasi da farmacia nella collezione Bayer, Milano 1997, p. 86 n. 21); Museo di Palazzo Venezia (O. Mazzucato, Le ceramiche da farmacia a Roma tra '400 e ‘600, Viterbo 1990, p. 79); Museo del Louvre (J. Giacomotti, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Paris 1974, pp. 320-21 nn. 982-3, 990).

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
16
Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
10

Giovanni della Robbia

(Firenze 1469 - 1529/30)

MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNINO, 1520 CIRCA

Statuetta in terracotta parzialmente invetriata policroma

cm 63x30x19

 

MADONNA WITH CHILD AND YOUNG JOHN THE BAPTIST, CIRCA 1520

A terracotta sculpture, partly glazed and polychromed 

63x30x19 cm

 

Bibliografia di riferimento

A. Marquand, Giovanni della Robbia, Princeton 1920;

G. Gentilini, I Della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, vol. II, Firenze 1992;

I Della Robbia e l’“arte nuova” della scultura invetriata, catalogo della mostra (Fiesole, Basilica di Sant’Alessandro, 29 maggio - 1 novembre 1998) a cura di G. Gentilini, Firenze 1998;

I Della Robbia. Il dialogo tra le Arti nel Rinascimento, catalogo della mostra (Arezzo, Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna, 21 febbraio - 7 giugno 2009) a cura di G. Gentilini, Milano 2009;

M. Bormand, Da David a san Girolamo: identità civica e devozione religiosa nella piccola statuaria robbiana, ivi, pp. 118-127

 

 

L’elegante, briosa statuetta raffigura la Madonna in atto di offrire alla venerazione dei fedeli il Gesù Bambino, che, seduto tra le braccia della madre con una disinvolta posa sgambettante e ben poggiato al seno col braccio flesso ad angolo, stringe nella mano destra un uccellino - suo ricorrente attributo allusivo alla Passione, come il gesto di Maria che ne solletica un piede -, mentre a fianco della Vergine entra in scena il Battista fanciullo, proteso a osservare il cuginetto con modi reverenti recando il consueto cartiglio col profetico annuncio del sacrificio di Cristo, “ECCE.AGN(US.DEI)”.

La Madonna indossa un ampio, regale mantello azzurro foderato di verde, chiuso sul petto da un prezioso maspillo cruciforme costituito da quattro perle incastonate attorno a un rubino, sopra una tunica purpurea - il rosso, assente nella tavolozza robbiana, è surrogato dal manganese - cinta da una fusciacca e bordata lungo lo scollo e ai polsi in giallo oro. I capelli sono raccolti sotto il candido velo da una tenia, con un sofisticato gusto ‘all’antica’ che si rivela ancor più esplicito nella foggia romana dei calzari, simili ai sandali del San Giovannino, che veste la tradizionale, rustica tunica di pelle di cammello, allusiva alla sua vita eremitica, intorno alla quale si avvolge il manto rosso. La regalità di Maria e quella di Gesù viene qui ulteriormente enfatizzata dalle raffinate coroncine polilobate e cesellate; inoltre possiamo ritenere che lo spiccato valore devozionale dell’immagine fosse in origine esplicitato da un’iscrizione mariana tracciata in oro ‘a mordente’ sopra la fascia azzurra dell’alta base color porfido.

Di tali finiture “a freddo” l’opera conserva tracce significative negli incarnati privi d’invetriatura, dove una policromia naturalistica a olio o tempera doveva coniugarsi con i fulgidi smalti ceramici delle vesti e degli ornamenti, secondo una tecnica ben attestata nell’attività dei Della Robbia di primo Cinquecento, anche attraverso i documenti, della quale sopravvivono esigue testimonianze integre.

Nella folta e variegata produzione plastica robbiana simili statuette e piccoli gruppi plastici di soggetto sacro o allegorico, destinate perlopiù alla devozione privata e all’arredo delle dimore signorili, caratterizzate come in questo caso da un’arguta, giocosa naïveté, da un’esuberante vena decorativa e dalle sgargianti tonalità dell’invetriatura, contraddistinguono la fantasiosa attività di Giovanni della Robbia (Gentilini 1992, pp. 308-309, 325-326; I Della Robbia 2008, pp. 261-270; I Della Robbia 2009, pp. 251-253, 272-275, 350-351, 359-360; Bormand 2009): il più conosciuto, prolifico e autonomo tra i cinque figli di Andrea che, dopo aver a lungo collaborato col padre, ne ereditarono il magistero ceramico e la rinomata bottega di via Guelfa (Marquand 1920; Idem 1928, pp. 181-192; Gentilini 1992, pp. 279-328). In particolare, sono ben note e piuttosto numerose quelle che rappresentano Giuditta con la testa di Oloferne (Firenze, Museo Bardini e Galleria Bellini; Boston, Museum of Fine Arts; etc.), dove ritroviamo puntualmente il fermaglio cruciforme - frequentissimo nei lavori di Giovanni -, i sandali ‘alla romana’ e gli altri decori che impreziosiscono le vesti della nostra Madonna; oppure la Dovizia (Minneapolis, Institute of Arts; Firenze, Museo Bardini; etc.), spesso accompagnata da un putto in posizione incedente come qui il piccolo Battista, figure che talora si ergono su di un’analoga base di forma ellittica; oppure le statuette dedicate proprio all’Infanzia eremitica di San Giovanni Battista (Ecouen, Musée National de la Renaissance; Fiesole, Museo Bandini; etc.), caratterizzato da simili fattezze pingui e tenere, anche in compagnia del Cristo fanciullo cui si rivolge con fare accorato (Firenze, Museo del Bargello; Cento, collezione Grimaldi Fava; etc.).

In questa nutrita compagine di accattivanti statuette, perlopiù già censite dalla critica concorde nel riferirle a Giovanni della Robbia intorno al secondo decennio del Cinquecento, sino ad oggi trovava posto una sola immagine della Madonna col Bambino e San Giovannino, conservata nella chiesa di Sant’Alessandro Papa a Vergiano presso Monghidoro (Gentilini 1992, pp. 308, 325, 328 nota 22) (fig. 1), strettamente imparentata con quella inedita che qui si presenta da cui distingue nella posa del Bambino benedicente con entrambe le braccia sollevate, nei calzari a pantofola di Maria, nella forma ad urna della base e nell’uso dell’invetriatura anche per gli incarnati. Un’invetriatura parziale fu invece adottata anche per una versione di questa stessa tipologia confluita nella collezione Stanley Mortimer a Roslyn (New York) ora dispersa, descritta, ma non riprodotta, da Allan Marquand nel suo fondamentale volume del 1920 dedicato Giovanni della Robbia (p. 110, n. 112), che per alcune varianti iconografiche, quali il Bambino benedicente o la Madonna recante una melagrana, non sembra identificabile con la nostra statuetta.

Tra i molti altri riscontri compositivi e stilistici che potremmo richiamare a conferma dell’attribuzione qui proposta è quantomeno opportuno segnalare le evidenti concordanze con la Carità del Musée du Louvre a Parigi (M. Bormand, in I Della Robbia, pp. 273, 359-360, n. 101) (fig. 2), pure solo parzialmente invetriata, dove il putto in braccio alla Virtù ha una complessa postura sovrapponibile a quella qui assunta dal Gesù Bambino, mentre il fanciullo recante un cestino di frutta sulla sinistra della figura mostra esattamente le medesime fattezze del piccolo San Giovanni.

 

Giancarlo Gentilini

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

CRESPINA, CASTELDURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA

in maiolica, dipinta a policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno; alt. cm 3,6, diam. cm 26, diam. piede cm 9,6

 

A MOULDED BOWL (CRESPINA), CASTELDURANTE, WORKSHOP OF LUDOVICO AND ANGELO PICCHI, CIRCA 1550-1560

 

 

La crespina è formata a stampo con umbone centrale rilevato, orlo mosso e corpo sbalzato. La decorazione è dipinta su uno smalto ricco con una vetrina brillante e lucida, sia sul fronte sia sul retro, dove le baccellature della forma sono sottolineate da un decoro a linee blu. Alcuni difetti di cottura sotto il piede, tagliato per inserire l’opera in una cornice.

Al centro dell'umbone Apollo suona tra due personaggi in un paesaggio. Intorno, lungo la tesa, quattro figure maschili con mantello rosso si alternano a rami di ulivo a loro volta intervallati lungo il bordo da quattro cervi bianchi. La figura di Apollo ebbe grande successo durante il Rinascimento e fu spesso raffigurato su supporto ceramico in varie versioni: qui i personaggi e gli animali paiono incantati dal canto della divinità, che è raffigurata con la corona d’alloro, ma con in mano uno strumento rinascimentale al posto della lira.

Lo stile pittorico è caratteristico: volti piccoli e racchiusi, arrotondati, le capigliature arricciate, le bocche piccole un poco imbronciate, le gambe muscolose, un poco tozze, ombreggiate con sottili tratti arancio e lumeggiate con bianco di stagno. La decorazione della tesa invece ha pochi riscontri, ed è una delle più belle di quelle realizzate dalla bottega Picchi nel periodo durantino. Un riscontro di questa stessa disposizione decorativa lo troviamo nella crespina baccellata conservata nel Museo Nazionale delle Marche, raffigurante al centro l’episodio di Piramo e Tisbe (M.G. Dupré Dal Poggetto, Urbino e le Marche prima e dopo Raffaello, catalogo della mostra, Urbino 2003, p. 347 n. 488), circondato dalla stessa partitura in riserve con personaggi alternati a figure di leoni, ma sempre incorniciati da rami di ulivo. Lo stesso decoro con i leoni si ritrova in un’altra coppa con al centro la storia di Diana e Atteone mutato in cervo, però con foggia differente (Palazzo Madama, inv. C 2743) e ancora in una coppa Contini Bonacossi degli Uffizi (M. Marini, in La collezione Contini Bonacossi degli Gallerie degli Uffizi, Firenze 2018, pp. 256-257). Ricordiamo infine due coppe in collezione privata, anch’esse mancanti di piede, con personaggi con fiaccola alternati a figure di leoni con scena del suicidio di Lucrezia e una con arcieri alternati a lune alate con l’episodio di Muzio Scevola, recentemente pubblicate (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 349-350 nn. 152-153).

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
35
Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
61

COPPIA DI ORCIOLI, AREA METAURENSE, PESARO, 1580 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, giallo arancio, giallo antimonio, bianco stagno, verde ramina; alt. cm 21,8 e 20,8, diam. bocca cm 10,2 e 10, diam. piede cm 10,8 10,2

 

A PAIR OF SPOUTED PHARMACY JARS, PESARO, CIRCA 1580

 

 

I due vasi farmaceutici hanno corpo piriforme largo al centro e fortemente rastremato verso il basso, che termina in un piede alto a calice con base a disco piana. Il collo troncoconico, largo, si apre in un’imboccatura con orlo arrotondato appena estroflesso. Sul fronte si apre un beccuccio a cannello molto alto e sul retro è collocata un’ansa a nastro larga che si fonde in basso nella pancia del vaso. L’intera superficie dei vasi è interessata da un decoro a Trofei, sul collo con scudi e armi in giallo arancio delineato in blu adagiati su un fondo giallo, sul corpo distribuito in due fasce orizzontali che interessano anche l’ansa e il cannello nei medesimi toni di colore ma su fondo blu cobalto. Il piede è decorato da una corona continua di foglie e piccoli fruttini, mentre sotto l’ansa corre un cartiglio farmaceutico largo e lumeggiato in blu che termina sul fronte in due larghe pieghe dipinte in giallo e verde ramina.

Il grande numero di frammenti di opere con decoro a Trofei, specialmente redatti in colore ocra, e la morfologia dei vasi ci fanno propendere verso una probabile produzione pesarese. Un confronto con decoro ancora gotico e con piede più cilindrico ci deriva da due vasi del Fitzwilliam di Cambridge (C.2B-1932. P. Berardi, L'antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze 1984, p. 259 fig. 39). Il dettaglio del decoro che corre lungo il piede trova inoltre un preciso riscontro in un piatto in collezione privata con decorazione cosiddetta a serto di ulivo, databile alla seconda metà del secolo XVI, cui si affianca un piatto datato 1580 con decoro a trofei ocracei del Museo di Pesaro (P. Berardi, op. cit., pp. 312-313 nn. 109-110).

Stima   € 6.000 / 8.000
62

COPPIA DI ORCIOLI, AREA METAURENSE, CASTELDURANTE (?), 1618

in maiolica dipinta in policromia con giallo arancio, blu cobalto, giallo antimonio, bianco stagno e bruno di manganese. Uno datato 1618; alt. cm 24,6, diam. bocca cm 9,8 e 11,2, diam. piede cm 10,2 e 10,8

 

A PAIR OF SPOUTED PHARMACY JARS, AREA OF THE METAURO, CASTELDURANTE (?), 1618

 

 

I due vasi farmaceutici hanno corpo piriforme fortemente rastremato verso il basso e terminano in un piede a disco a base piana. Il collo cilindrico si apre in un’imboccatura con orlo estroflesso, sul fronte si apre un beccuccio a cannello e sul retro è collocata un’ansa a nastro larga e rilevata ai bordi.

L’intera superficie dei vasi è interessata da un decoro a trofei con strumenti musicali e conchiglie. Sopra l’ansa, decorata di giallo con un motivo che va ad interessare una larga porzione del corpo del vaso, è dipinto un angelo che tiene in mano la croce e un globo, simbolo del mondo, ai cui piedi corre il cartiglio farmaceutico, redatto in blu con scritte in caratteri capitali e ombreggiato in arancio. Nella parte inferiore, tra il cartiglio e il piede, un emblema cuoriforme con le lettere C.R.D. tracciate in azzurro. In uno dei due orcioli sotto l’emblema della farmacia in un cartiglio si legge la data 1618.

I vasi appartengono ad un’importante Farmacia che annovera molti esemplari custoditi in Musei e collezioni private, tra i quali si ricordano l’orciolo della collezione Cora e due nella collezione Strozzi Sacrati. La tradizionale attribuzione alle botteghe di Casteldurante si apre verso una possibile produzione pesarese, anche se, come già indicato per frammenti presenti anche negli sterri di Urbania e come si dirà nella scheda relativa al lotto successivo, una più larga attribuzione all’area del ducato di Urbino ci pare ancora adeguata.

Stima   € 4.000 / 6.000
65

COPPIA DI BOTTIGLIE, PALERMO, ANDREA PANTALEO, BOTTEGA DI PAOLO LAZZARO, PRIMO QUARTO SECOLO XVII

in maiolica decorata in blu di cobalto, giallo antimonio, verde ramina; alt. cm 22,5 e 23,5, diam. bocca cm 5,5 e 6, diam. piede cm 10,5 e 11,5

 

A PAIR OF BOTTLES, PALERMO, ANDREA PANTALEO, WORKSHOP OF PAOLO LAZZARO, FIRST QUARTER 17TH CENTURY

 

Bibliografia di confronto

G. Croazzo, in R. Ausenda (a cura di), Le collezioni della fondazione Banco di Sicilia. Le maioliche, Milano 2010, pp. 36-37 n. 3

 

 

Le due bottiglie hanno corpo globulare appena schiacciato verso il piede, che è basso e a disco; il collo troncoconico alto termina in un’imboccatura rotonda con labbro fortemente estroflesso.

Il decoro occupa l’intera superficie dei vasi con la raffigurazione di due profili maschili con i baffi e con indosso una lorica e una clamide annodato sulla spalla sinistra, uno dei quali indossa una coroncina di alloro. Il decoro minore è speculare sul collo dei due vasi: perlinatura seguita da foglie d’acanto in riserve verticali, fascia con teoria di foglie d’acanto bianche su fondo arancio che si ripete sul piede, nel primo vaso, mentre nel secondo la teoria di foglie si scorge appena sotto il bordo e sulla spalla è sostituito dalla perlinatura. Il resto delle bottiglie è interessato da un complesso e caratteristico decoro a trofei. In uno dei vasi si legge il cartiglio SPQP (Senatus Populisque Panormitanum), ad indicare il luogo di produzione.

Il confronto con opere morfologicamente analoghe, peraltro piuttosto rare, e soprattutto con esemplari datati e firmati, come la boccia della collezione del Banco di Sicilia a Palermo, ci conferma l’attribuzione a bottega palermitana. Lo stile e la qualità del decoro confermano gli stilemi tipici del pittore siciliano, con numerosi confronti in opere prodotte per la bottega Lazzaro tra il 1608 e il 1620.

Stima   € 4.000 / 6.000
1 - 30  di 65