Importanti maioliche rinascimentali

17 APRILE 2019

Importanti maioliche rinascimentali

Asta, 0294
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 11.00
Esposizione
FIRENZE
12 - 15 aprile 2019
orario 10-18 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   1000 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 65
17

PIATTO, CASTELDURANTE O URBINO, 1520-1530 CIRCA

in maiolica dipinta a gran fuoco in blu cobalto, giallo antimonio, bistro e bruno di manganese; alt. cm 5,5, diam. cm 31,8, diam. piede cm 13

 

A PLATE, CASTELDURANTE OR URBINO, CIRCA 1520-1530

 

Provenienza

Parigi, Asta Druot-Richelieu, 4 maggio 1993, lotto 55;

Torino, collezione privata

 

Bibliografia di confronto

J. Rasmussen, Italian Majolica in the Robert Leheman Collection, New York 1989, pp. 100-101 n. 62;

F.A. Dreirer, J. Mallet, The Hockemeyer collection. Maiolica and Glass, 1998, pp. 230-231;

D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics. A catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, pp. 370-371 n. 217

 

 

Il piatto piano a tagliere, privo di cavetto, poggia su base apoda appena accennata, lo smalto è bianco crema e ricopre l’intera superficie. Il decoro a candelabra, con scudi, elmi e loriche collegati tra loro tramite nastri svolazzanti, è realizzato a risparmio, poi ombreggiato con mezzatinta grigia su fondo steso a pennellate parallele blu cobalto. Partendo dal basso, si notano due larghi elementi a cartiglio a forma di riccioli contrapposti, centrati da un elemento sferico, più in alto due grottesche dalle orecchie appuntite, le cui code si arricciano al centro aprendosi poi ai lati in cornucopie piene di frutta, incorniciando al centro un emblema con un’aquila monocipite su fondo giallo; nella parte superiore un mascherone con barba. Collane di perle cingono il collo delle grottesche collegandole alle cornucopie, mentre elementi fogliati e decori secondari completano l’ornato. Una sottile linea gialla marca l’orlo, mentre il retro non è decorato.

Una coppa conservata al Museo di Pesaro e databile al 1548, corredata dalla presenza di spartiti musicali (M. Moretti in P. Dal Poggetto, I Della Rovere: Piero della Francesca, Raffaello, Tiziano, Milano 2004, p. 485 scheda XV.28), si avvicina molto al nostro esemplare e ci fornisce un buon confronto, ma si presta ad una più approfondita chiave di lettura data la presenza di musica, mentre per il nostro esemplare è il motivo araldico-militare che sembra essere più importante. Una via di mezzo tra le due scelte decorative è rappresentata da una coppa con candelabra, trofei, stemma e spartiti musicali al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. n. C2224-1910) (D. Chambers, J. Martineau, Splendours of the Gonzaga, London 1981, scheda n.198. J. Mallet attribuisce l’opera a Casteldurante o Urbino): l’emblema Gonzaga, con le aquile coronate su fondo argento, troneggia al centro della composizione, al di sopra di uno spartito musicale e circondato da grottesche: tale coppa, probabilmente urbinate, è databile al 1525.

Una recente ipotesi fa pensare che questo tipo di opere fosse prodotto anche nella città di Venezia, basandosi sul fatto che Cipriano Piccolpasso nel concludere "il terzo libro dell'arte del vasaio", lascia intendere che il decoro a candelabra avesse un suo buon mercato nella città veneta, dove erano comunque soliti operare emigrati da Casteldurante e Pesaro. Piccolpasso stesso peraltro, nel citare i trofei, ci dice che "si fano più per il Stato di Urbino che in altro luogo": il tema militare era infatti caro ai Montefeltro e ai Della Rovere.

Per questa tipologia di opere sono fondamentali gli studi di John Mallet, che stila un elenco di piatti che recano il medesimo stile decorativo (F.A. Dreirer, J. Mallet, The Hockemeyer collection. Maiolica and Glass, 1998, pp. 230-231), mentre per un’attribuzione a bottega urbinate, forse di Nicola da Urbino, si veda quanto detto da Rasmussen (J. Rasmussen, Italian Majolica in the Robert Leheman Collection, New York 1989, pp. 100-101 n. 62) e da Wilson e Thornton negli studi più recenti (T. Wilson, D. Thornton, Italian Renaissance Ceramics. A catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, pp. 370-371 n. 217).

Il piatto è transitato sul mercato nel 1993 con attribuzione a Casteldurante e riferimento all’analisi della termoluminescenza (Oxford 481 U73), di cui conserva traccia sul retro del piede. Nella scheda si proponeva una lettura dell’emblema come attribuibile al Montefeltro oppure, in base a un emblema simile, al Museo del Louvre, come emblema della Famiglia Sabatini di Rimini.

L’aquila mantiene le caratteristiche morfologiche di quella presente nell’emblema Montefeltro su campo oro: l'aquila araldica trasmette il significato di maestà, vittoria, potere sovrano. Una certa affinità con la monetazione, nella quale può comparire un’aquila singola, ci indirizza verso un campo di ricerca tutto da approfondire: interessante anche la suggestione che deriva dal fatto che nell’emblema dello stemma di Valente Valenti Gonzaga di Mantova e la moglie Violante Gambara di Brescia troneggino due aquile su fondo oro ad adornare, per concessione dei Marchesi Gonzaga nel 1518, il capo dello scudo, mutando cioè il campo di fondo da argento a oro (T. Wilson in R. Ausenda (a cura di), Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche, I, Milano 2000, pp. 182-184 n. 193).

Interessante il confronto con un boccale del museo di Urbania datato 1558 con lo stesso emblema, a conferma dell’uso del decoro con l’aquila nel ducato di Urbino e in particolare a Casteldurante (C. Leonardi, La ceramica rinascimentale metaurense, Roma 1982, p. 68 fig. 51). E d’altra parte l’aquila su campo oro compare variamente associata in più emblemi araldici, non ultimo in quello di Guidobaldo II della Rovere (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 326-329 n. 142) o nell’emblema della Famiglia Mazza (T. Wilson, op. cit. pp. 366-368 n. 163). Va comunque e più semplicemente considerato che l’emblema con l’aquila è presente già nella romanità come simbolo di comando e forse in questo caso l’aquila potrebbe essere letta in associazione con i trofei (G. Gerola, L’aquila bizantina e l’aquila imperiale a due teste, in “Felix Ravenna”, 1934, fasc. I, XLIII, pp. 7-39).

Stima   € 60.000 / 90.000
10

Giovanni della Robbia

(Firenze 1469 - 1529/30)

MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNINO, 1520 CIRCA

Statuetta in terracotta parzialmente invetriata policroma

cm 63x30x19

 

MADONNA WITH CHILD AND YOUNG JOHN THE BAPTIST, CIRCA 1520

A terracotta sculpture, partly glazed and polychromed 

63x30x19 cm

 

Bibliografia di riferimento

A. Marquand, Giovanni della Robbia, Princeton 1920;

G. Gentilini, I Della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, vol. II, Firenze 1992;

I Della Robbia e l’“arte nuova” della scultura invetriata, catalogo della mostra (Fiesole, Basilica di Sant’Alessandro, 29 maggio - 1 novembre 1998) a cura di G. Gentilini, Firenze 1998;

I Della Robbia. Il dialogo tra le Arti nel Rinascimento, catalogo della mostra (Arezzo, Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna, 21 febbraio - 7 giugno 2009) a cura di G. Gentilini, Milano 2009;

M. Bormand, Da David a san Girolamo: identità civica e devozione religiosa nella piccola statuaria robbiana, ivi, pp. 118-127

 

 

L’elegante, briosa statuetta raffigura la Madonna in atto di offrire alla venerazione dei fedeli il Gesù Bambino, che, seduto tra le braccia della madre con una disinvolta posa sgambettante e ben poggiato al seno col braccio flesso ad angolo, stringe nella mano destra un uccellino - suo ricorrente attributo allusivo alla Passione, come il gesto di Maria che ne solletica un piede -, mentre a fianco della Vergine entra in scena il Battista fanciullo, proteso a osservare il cuginetto con modi reverenti recando il consueto cartiglio col profetico annuncio del sacrificio di Cristo, “ECCE.AGN(US.DEI)”.

La Madonna indossa un ampio, regale mantello azzurro foderato di verde, chiuso sul petto da un prezioso maspillo cruciforme costituito da quattro perle incastonate attorno a un rubino, sopra una tunica purpurea - il rosso, assente nella tavolozza robbiana, è surrogato dal manganese - cinta da una fusciacca e bordata lungo lo scollo e ai polsi in giallo oro. I capelli sono raccolti sotto il candido velo da una tenia, con un sofisticato gusto ‘all’antica’ che si rivela ancor più esplicito nella foggia romana dei calzari, simili ai sandali del San Giovannino, che veste la tradizionale, rustica tunica di pelle di cammello, allusiva alla sua vita eremitica, intorno alla quale si avvolge il manto rosso. La regalità di Maria e quella di Gesù viene qui ulteriormente enfatizzata dalle raffinate coroncine polilobate e cesellate; inoltre possiamo ritenere che lo spiccato valore devozionale dell’immagine fosse in origine esplicitato da un’iscrizione mariana tracciata in oro ‘a mordente’ sopra la fascia azzurra dell’alta base color porfido.

Di tali finiture “a freddo” l’opera conserva tracce significative negli incarnati privi d’invetriatura, dove una policromia naturalistica a olio o tempera doveva coniugarsi con i fulgidi smalti ceramici delle vesti e degli ornamenti, secondo una tecnica ben attestata nell’attività dei Della Robbia di primo Cinquecento, anche attraverso i documenti, della quale sopravvivono esigue testimonianze integre.

Nella folta e variegata produzione plastica robbiana simili statuette e piccoli gruppi plastici di soggetto sacro o allegorico, destinate perlopiù alla devozione privata e all’arredo delle dimore signorili, caratterizzate come in questo caso da un’arguta, giocosa naïveté, da un’esuberante vena decorativa e dalle sgargianti tonalità dell’invetriatura, contraddistinguono la fantasiosa attività di Giovanni della Robbia (Gentilini 1992, pp. 308-309, 325-326; I Della Robbia 2008, pp. 261-270; I Della Robbia 2009, pp. 251-253, 272-275, 350-351, 359-360; Bormand 2009): il più conosciuto, prolifico e autonomo tra i cinque figli di Andrea che, dopo aver a lungo collaborato col padre, ne ereditarono il magistero ceramico e la rinomata bottega di via Guelfa (Marquand 1920; Idem 1928, pp. 181-192; Gentilini 1992, pp. 279-328). In particolare, sono ben note e piuttosto numerose quelle che rappresentano Giuditta con la testa di Oloferne (Firenze, Museo Bardini e Galleria Bellini; Boston, Museum of Fine Arts; etc.), dove ritroviamo puntualmente il fermaglio cruciforme - frequentissimo nei lavori di Giovanni -, i sandali ‘alla romana’ e gli altri decori che impreziosiscono le vesti della nostra Madonna; oppure la Dovizia (Minneapolis, Institute of Arts; Firenze, Museo Bardini; etc.), spesso accompagnata da un putto in posizione incedente come qui il piccolo Battista, figure che talora si ergono su di un’analoga base di forma ellittica; oppure le statuette dedicate proprio all’Infanzia eremitica di San Giovanni Battista (Ecouen, Musée National de la Renaissance; Fiesole, Museo Bandini; etc.), caratterizzato da simili fattezze pingui e tenere, anche in compagnia del Cristo fanciullo cui si rivolge con fare accorato (Firenze, Museo del Bargello; Cento, collezione Grimaldi Fava; etc.).

In questa nutrita compagine di accattivanti statuette, perlopiù già censite dalla critica concorde nel riferirle a Giovanni della Robbia intorno al secondo decennio del Cinquecento, sino ad oggi trovava posto una sola immagine della Madonna col Bambino e San Giovannino, conservata nella chiesa di Sant’Alessandro Papa a Vergiano presso Monghidoro (Gentilini 1992, pp. 308, 325, 328 nota 22) (fig. 1), strettamente imparentata con quella inedita che qui si presenta da cui distingue nella posa del Bambino benedicente con entrambe le braccia sollevate, nei calzari a pantofola di Maria, nella forma ad urna della base e nell’uso dell’invetriatura anche per gli incarnati. Un’invetriatura parziale fu invece adottata anche per una versione di questa stessa tipologia confluita nella collezione Stanley Mortimer a Roslyn (New York) ora dispersa, descritta, ma non riprodotta, da Allan Marquand nel suo fondamentale volume del 1920 dedicato Giovanni della Robbia (p. 110, n. 112), che per alcune varianti iconografiche, quali il Bambino benedicente o la Madonna recante una melagrana, non sembra identificabile con la nostra statuetta.

Tra i molti altri riscontri compositivi e stilistici che potremmo richiamare a conferma dell’attribuzione qui proposta è quantomeno opportuno segnalare le evidenti concordanze con la Carità del Musée du Louvre a Parigi (M. Bormand, in I Della Robbia, pp. 273, 359-360, n. 101) (fig. 2), pure solo parzialmente invetriata, dove il putto in braccio alla Virtù ha una complessa postura sovrapponibile a quella qui assunta dal Gesù Bambino, mentre il fanciullo recante un cestino di frutta sulla sinistra della figura mostra esattamente le medesime fattezze del piccolo San Giovanni.

 

Giancarlo Gentilini

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
4

PIATTO DA POMPA, DERUTA, 1480 CIRCA

in maiolica decorata in blu di cobalto e giallo ocra, verde ramina e bruno di manganese nei toni del viola; alt. cm 7, diam. cm 40,5, diam. piede cm 13,5

 

A LARGE DISH, DERUTA, CIRCA 1480

 

Provenienza

Parigi, Collezione Adda;

Firenze, Collezione privata

 

Bibliografia

B. Rackham, Islamic Pottery and Italian Maiolica. Illustrated Catalogue of a Private Collection, Londra 1959, p. 268 n. 274, tav. 113

 

 

L’esemplare ha un cavetto profondo e largo, la tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato, e poggia su un piede ad anello forato in origine a crudo, mentre il verso presenta invetriatura che ricopre l’intera superficie; caratteristiche tutte comunemente in uso nelle botteghe derutesi.

Al centro del cavetto una raffigurazione istoriata con il mito di Diana e Atteone, qui in una versione mutuata liberamente dalle raffigurazioni canoniche tratte probabilmente dalle incisioni. La divinità sola, senza le compagne, si copre con la lunga chioma mentre il cacciatore Atteone, con il corno da caccia e l’arco ancora in mano, che già si muta in cervo, è inseguito dai propri cani che poi lo sbraneranno. La scena vede la fonte al centro di una vasta pianura interrotta all’orizzonte da una città turrita al di sopra della quale nel cielo, in una riserva, è dipinto un complesso motivo a foglia gotica. Una marcata linea arancio filettata di blu suddivide il cavetto dalla tesa, sulla quale si distende un motivo a foglie arricciate, dipinte in blu, giallo arancio e verde su un fondo puntinato. Una linea giallo arancio sottolinea poi il bordo esterno.

La fonte diretta del soggetto è riconoscibile nella volgarizzazione di Ovidio fatta da Giovanni Bonsignori negli anni 1375-1377, oltre alle allegorie composte a uso didattico nel 1322 da Giovanni del Virgilio. Da qui le divergenze rispetto al testo ovidiano, come la presenza di due soli cani anziché la moltitudine di cui parla, o la figura di Diana, presentata qui quasi fuori contesto, lontana dalla grotta (si veda al proposito C. Cieri Via, L’arte delle metamorfosi. Decorazioni mitologiche nel Cinquecento, Roma 2003).

Ci pare invece di riscontrare una certa somiglianza nella definizione del paesaggio con le prime incisioni, ancora della seconda metà del XV secolo, come ad esempio le opere di Baccio Baldini, dove ritroviamo specchi d’acqua e vegetazione erbosa realizzati con tratti marcati e incisivi, oppure alcuni dettagli delle incisioni della Metamorfosi di Bonsignori, però databili alla seconda metà del XV secolo.

Questa tipologia di piatti fu per lungo tempo attribuita a manifattura faentina, anche se la coincidenza del loro retro con la tipica morfologia derutese ha sempre destato dei dubbi in merito, tanto che le opere affini vantano una consistente mole di studi. Alcuni esemplari con bordura decorata secondo un motivo analogo, ma decoro centrale molto differente, costituiscono un valido raffronto. Il primo confronto ci deriva dal piatto da parata del British Museum, con giovane gradiente con bastone e falce in una riserva circondato da motivi a fiore di briona, uno dei piatti più antichi con decoro mutuato da un’incisione (D. Thornton, T. Wilson, Italian Renaissance Ceramics. A Catalogue of the British Museum Collection, Londra 2009, p. 77 n. 45). Nell’elenco di opere con tipologia decorativa ancora vicina al nostro esemplare, possiamo ricordare anche Il piatto del Victoria and Albert Museum con fanciulli che si arrampicano su un albero con il motto E NON SE PO MANGIARE SENZA FATICA, ma anche il piatto, ancora del VAM (inv. 1806-1855), con allegoria dell’amore crudele, nel quale la scelta dei decori secondari nel cavetto contempla un motivo a foglia gotica (D. Thornton in A. Bayer, S. Cartwright, Art and Love in Renaissance Italy, New Haven 2009, pp. 89-90 n. 22). Numerosi inoltre i frammenti coerenti con queste opere conservati nel Museo Regionale di Deruta.

Anche l’opera in esame era nota come opera della manifattura di Faenza, databile attorno al 1475, pubblicata da Berbard Rackham nel volume dedicato all’importante collezione Adda, ove era conservato probabilmente ancora intatto e senza integrazioni pittoriche che ne appiattiscono un poco il decoro.

Stima   € 40.000 / 60.000
20

PIATTO, URBINO, CERCHIA DI FRANCESCO XANTO AVELLI, PROBABILMENTE GIULIO DA URBINO, 1534 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con verderame, verde oliva, giallo, giallo arancio, blu di cobalto, bruno di manganese nella tonalità del nero e del marrone, bianco di stagno; alt. cm 3, diam. cm 28,2, diam. piede cm 10

 

A PLATE, URBINO, CIRCLE OF FRANCESCO XANTO AVELLI, PROBABLY GIULIO DA URBINO, CIRCA 1534

 

Bibliografia di confronto

J.V.G. Mallet, Xanto: i suoi compagni e seguaci, in “Francesco Xanto Avelli da Rovigo. Atti del Convegno Internazionale di Studi 1980”, Rovigo 1988, pp. 78-79;

T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 262-265 n. 114

 

 

Il piatto ha un ampio e largo cavetto, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello abbastanza rilevato. Il verso non è decorato. Sul recto si legge una scena istoriata: al centro del cavetto, in un’ansa di un fiume ai piedi di un’alta roccia, una figura maschile anziana, con lunga barba, esce dall’acqua afferrando con una mano la veste di una giovane donna sull’argine, mentre con l’altra sorregge il tridente, vestito unicamente di un mantello gonfiato dal vento, oltre ai calzari con alti parastinchi; ai suoi piedi emerge dalle acque la testa di un orso con le fauci spalancate. Sulla sinistra la fanciulla, con una lunga veste, che cerca di fuggire sorreggendosi alla mano di una compagna. Sulla tesa opposta una donna con arco e faretra corre verso la foresta. Intorno sullo sfondo si apre un paesaggio lacustre con città dagli alti edifici, torri e alcune montagne dal profilo squadrato.

In assenza di indicazioni fornite sul retro del piatto pensiamo che la scena si possa interpretare come Il ratto di Proserpina: Ade, qui raffigurato senza il carro, rapisce la figlia di Demetra che coglieva fiori sull’argine del fiume insieme a Ecate e Ciane, la stessa Ecate nel frattempo fugge per avvisare la madre di Proserpina. La figura dell’orso, dipinta ai piedi del Dio degli Inferi, si può interpretare in vario modo: a indicare la ferocia del ratto, a simboleggiare Cerbero, oppure in una chiave simbolica ancora da interpretare, come ed esempio ad indicare la morte di un membro della famiglia Orsini (il cardinale Fanciotto Orsini che aveva vissuto la caduta di Roma e la cui morte era avvenuta nel 1534?).

La scena raffigura comunque la narrazione del mito con una certa sincronia temporale: è il momento del rapimento di Proserpina, cui segue la morte e trasformazione in sposa del dio degli Inferi Ade, e la possibilità, solo in seguito, e grazie all’intervento della madre Demetra, di tornare per sei mesi l’anno in superficie generando la primavera e l’estate. Lo specchio d’acqua rappresenta il lago Averno, ingresso dell’Ade, che secondo la versione ovidiana delle Metamorfosi si spalanca colpito dal tridente del dio. Di un certo interesse anche la lettura di Ecate, qui in veste di Diana, secondo una versione romana che associa le due divinità nella loro veste lunare, ma anche accomunate da una lettura più antica, italica, nella quale la Diana/Ecate sovrintende alla nascita, alla crescita e alla morte. Presente in Dante, sia nel Purgatorio sia nell’Inferno in varie accezioni, la divinità è talvolta sovrapposta anche a Persefone stessa (qui gli abiti sono simili, ma non identici), ma ci pare che la sovrapposizione Diana /Ecate /Luna sia quella più comune: si pensi a Farinata che accenna “alla donna che qui regge”, cioè Luna-Proserpina, e quindi Diana (in Inferno, X, 80).

La rappresentazione dei personaggi è probabilmente mutuata da incisioni di più autori, secondo una tecnica particolarmente utilizzata da Francesco Xanto Avelli e seguaci nella prima metà del XVI secolo. Tra le figure ci pare di riconoscere il corpo di Marte dalla serie delle figure in nicchia di Jacopo Carraglio, al quale il pittore ha qui unito il capo di un vecchio e mutato la posizione delle braccia. L’immagine di Diana trae forse spunto da incisioni di Marcantonio Raimondi come la Giustizia o la Temperanza, mentre ci pare invece che la figura di Proserpina possa derivare dalla figura femminile in fuga, posta sulla destra dell’incisione di Giulio Bonasone con il mito di Giasone e Medea, oppure da una delle Esperidi e Ninfe dell’incisione, sempre di Bonasone, con Ercole che guida la mandria di Gerione.

A nostro parere l’ambiente è quello di Francesco Xanto Avelli, e probabilmente si dovrebbe trattare di una collaborazione tra il maestro e uno dei suoi seguaci. Nel confronto con opere degli anni attorno al 1534 si riconoscono molte caratteristiche stilistiche tipiche di quel periodo. Ad esempio i profili con il naso largo, sottolineati in bruno, e gli occhi piccoli lumeggiati di bianco con un piccolo puntino coincidono con un’opera firmata da Giulio da Urbino datata 1534 e conservata al British Museum (inv. PGE1997,4-I,1), altrettanto non possiamo dire per le muscolature potenti lumeggiate di bianco, nel nostro piatto con fattezze allungate rispetto ai muscoli brevilinei e massicci del piatto di confronto.

Nel piatto in esame l’invenzione è complessa come, pure la disposizione dei personaggi; la presenza della roccia alta e scura e certi dettagli del paesaggio, oltre all’uso abbondante del verde scuro e una certa perizia tecnica, farebbero pensare a Xanto Avelli, tuttavia le figure non interessate dal restauro hanno caratteristiche somatiche che ci conducono alla mano di Giulio di Urbino o di Lu.Ur.

Anche nel piatto di recente pubblicazione raffigurante La follia di Orlando attribuito a Giulio di Urbino (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 262-265 n. 114) riconosciamo alcune caratteristiche fisionomiche che ci fanno pensare alla mano di Giulio, soprattutto nella figura di Diana/Ecate del nostro piatto. Il piatto di confronto reca anch’esso la data 1534. Tuttavia il modo di lumeggiare la muscolatura, di realizzare i piedi delle figure, ad esclusione di Ecate, di dare contrasti di luce nelle vesti, nei volti e in alcuni elementi del paesaggio ci sembrano ancora molto vicine all’opera di Xanto, ed anche la rapidità nella creazione della raffigurazione, così colta e che gioca sulla conoscenza dei modelli incisori, ci sembra del maestro. Rimaniamo pertanto incerti nell’attribuzione tra il maestro e i membri della sua cerchia, a sottolineare l’importanza dell’opera nel panorama complessivo degli studi della materia. Negli anni di realizzazione del nostro piatto infatti Xanto Avelli era ormai pittore affermato e avrebbe potuto occupare una posizione tale da permettergli di utilizzare assistenti (J.V.G. Mallet, Xanto: i suoi compagni e seguaci, in “Francesco Xanto Avelli da Rovigo. Atti del Convegno Internazionale di Studi 1980”, Rovigo 1988, pp. 78-79).

Stima   € 40.000 / 60.000
38

BOCCIA, VENEZIA, DOMENICO DE’ BETTI DETTO MASTRO DOMENICO E COLLABORATORI, TERZO QUARTO SECOLO XVI

in maiolica dipinta a policromia su rivestimento a smalto spesso e brillante; alt. cm 36, diam. bocca cm 16, diam. piede cm 17

 

A BULBOUS JAR, VENICE, DOMENICO DE’ BETTI CALLED MASTRO DOMENICO AND COWORKERS, THIRD QUARTER 16TH CENTURY

 

Bibliografia

A. Alverà Bortolotto, Maioliche veneziane del Cinquecento da collezioni private. Paolo Canelli, Milano 1990, n. 20

 

 

Il contenitore farmaceutico ha corpo globulare di grandi dimensioni e orlo “gittato”, noto comunemente come ‘boccia’, interamente decorato con una veduta con personaggi. Il paesaggio si sviluppa attorno al corpo del vaso con quinte costituite da alberi o rocce entro le quali si intravvedono larghi scorci lacustri con alte montagne, un soldato in abiti da antico romano che cavalca brandendo una lancia, ed una città turrita con edifici porticati e alte torri appuntite. Sul collo del contenitore una corona robbiana con fioretti multipetali e piccoli frutti.

L’opera, di grande impatto decorativo è attribuibile all’attività di Domenico da Venezia e della sua bottega tra il 1550 e il 1580. I suoi vasi, dall’inconfondibile policromia caratterizzata da smalti lucenti in cui dominano i gialli, le ocre, gli azzurri e i verdi, recano solitamente cartouches entro le quali campeggiano figure di santi e teste di fantasia, mediati probabilmente da fonti incisorie.

Domenico de’ Betti, che aveva sposato la figlia del vasaro Jacomo da Pesaro, lavora a Venezia presso la contrada di San Polo e la produzione della sua bottega raggiunge grande fama alla fine del Cinquecento.

La più grande raccolta di questa tipologia di vasi farmaceutici, in tutte le declinazioni del repertorio morfologico e decorativo, è conservata presso la Fondazione Cini all’isola di San Giorgio (M. Vitali, Omaggio a Venezia. Le ceramiche della Fondazione Cini. I, Faenza 1998). Ma anche tra i vasi della donazione Fanfani al MIC di Faenza, uno con figure di santi e ampio paesaggio costituisce un valido confronto per morfologia e decoro, ornato con un paesaggio con architetture, rocce e specchi lacustri che molto richiamano quello del nostro vaso (C. Ravanelli Guidotti, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La Donazione Angiolo Fanfani. Ceramiche dal Medioevo al XX secolo, Faenza 1990, pp. 310-311 n. 152). Suggestivo il raffronto con opere veneziane presenti nella spezieria di Messina di cui però ancor poco si sa riguardo a un’eventuale committenza direttamente a Venezia o se il corredo si sia formato per donazioni in più tempi.

Il soldato romano e il paesaggio trovano evidenti riscontri nei piatti o nelle forme aperte prodotte dalla bottega veneziana di cui sono noti alcuni esemplari firmati. La figurina del cavaliere così sottile e allungata ha riscontro sia nei piatti di Mastro Domenico, sia nelle figurette di santi presenti nei vasi generalmente in medaglioni con cartouches (si veda al riguardo J. Lessman, Italienische Majolica Aus Goethes besitz, Weimar 2015, p. 212 n. 80 e p. 244 n. 95, dove la roccia del nostro vaso trova riscontro nell’arco del sepolcro di Gesù).

Stima   € 30.000 / 40.000
39

BOCCIA, VENEZIA, DOMENICO DE’ BETTI DETTO MASTRO DOMENICO E COLLABORATORI, TERZO QUARTO SECOLO XVI

in maiolica dipinta a policromia su rivestimento a smalto spesso e brillante; alt. cm 37, diam. bocca cm 16, diam. piede cm 16

 

A BULBOUS JAR, VENICE, DOMENICO DE’ BETTI CALLED MASTRO DOMENICO AND COWORKERS, THIRD QUARTER 16TH CENTURY

 

 

Il contenitore farmaceutico ha corpo globulare di grandi dimensioni e orlo “gittato”, noto comunemente come ‘boccia’, interamente decorato con una veduta con personaggi.

Il paesaggio si sviluppa attorno al corpo del vaso con quinte costituite da alberi o rocce, entro le quali si intravvedono larghi scorci lacustri con montagne dal profilo arrotondato che si poggiano su una penisola con piccoli paesini, un giovane appoggiato ad un bastone che ammira la veduta all’ombra di un albero, un viandante seduto su una roccia con una città turrita con edifici antichi in rovina e palazzi dai tetti cuspidati dall’altro lato, ed infine una città con ampi edifici e porticati che fa da sfondo a un paesaggio aperto nel quale corre un piccolo cane.

La consueta corona robbiana con fioretti multipetalo e piccoli frutti adorna il collo anche di quest’opera.

Per il vaso inedito vale quanto detto per l’esemplare che precede, ma con un raffronto nella mostra della Galleria Canelli in un vaso con modalità pittoriche simili, molto rapide e meno calligrafiche (A. Alverà Bortolotto, Maioliche veneziane del Cinquecento da collezioni private, Milano 1990, n. 19).

Stima   € 30.000 / 40.000
32

PIATTO, URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DURANTINO, 1550-1570 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, giallo arancio, verde ramina, bruno di manganese. Sul retro iscrizione: Joseph’ messo ne’l pozzo e poi / ue’duto seguita da sigla sormontata da croce; alt. cm 5,8, diam. cm 31,4, diam. piede cm 10,2

 

A DISH, URBINO, WORKSHOP OF GUIDO DURANTINO, CIRCA 1550-1570

 

 

Il grande piatto ha profondo cavetto e larga tesa obliqua con orlo arrotondato, il retro poggia su un basso piede ad anello appena accennato, al centro del quale si legge l’iscrizione in corsivo in blu di cobalto Joseph’ messo ne’l pozzo e poi / ue’duto seguita da sigla sormontata da croce; il retro è listato di giallo a segnare le forme. Sul fronte una ricca e complessa decorazione, con il giovane Giuseppe calato nel pozzo dai fratelli, nascosto per far credere al padre che fosse morto, e cederlo poi ai mercanti che lo porteranno in Egitto.

Tutta la scena è tratta con poche varianti per la forma e le libertà del pittore dall’incisione Giuseppe calato nella cisterna del Monogrammista HS, Sebald Hans Beham, post 1533 (Bartsch VIII, p. 230).

Il piatto trova riscontro in altre opere con scene bibliche, ma anche nei piatti del Servizio con Stemma Salviati a paesi, nei quali si riconoscono le medesime sottili linee giallo ocra usate a sottolineare i cambi di pendenza delle balze e delle rocce, i piccoli paesi in prospettiva tratti anch’essi da incisioni nord europee, le balze rocciose o i plinti architettonici in primo piano. Tale servizio fu iniziato attorno al 1558.

Questo modo di dipingere un po’ calligrafico, che dà forza incisiva alle immagini, è quello tipico della bottega di Guido Durantino.

Il rinfrescabottiglie del MET di New York, con il trionfo di Bacco, costituisce a nostro avviso un valido confronto stilistico. Il pittore interpreta liberamente il tema, trasformando il trionfo marino di Nettuno nel trionfo di Bacco, che compare in piedi sul carro trainato da leoni accompagnato da tutto il campionario tipico di naiadi e tritoni, più consoni a una scena marina. Il paesaggio di fondo è abitato da palazzi e case di derivazione dalle incisioni nordiche, lo stile pittorico delle figure è veloce, nervoso e un poco rigido, ma di lettura immediata (T. Wilson, Maiolica. Italian Renaissance ceramics in the Metropolitan Museum of Art, London 2016, p. 278 n. 98). Altro interessante confronto ci deriva da un piatto di 23 cm della bottega Fontana databile agli anni Settanta del XVI secolo, conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana (BAV inv. 2244), raffigurante Achab, re di Giudea, che sacrifica ai falsi Dei. I due sacerdoti sulla sinistra hanno molte affinità stilistiche con le figure dei mercanti sulla sinistra del nostro piatto e così pure molti dettagli del paesaggio (C. Ravanelli Guidotti, L’Istoriato. Libri a stampa e maioliche italiane del Cinquecento, catalogo della mostra, Faenza 1993, p. 244 n. 4). Va detto però che la grafia della scritta sul retro non coincide con le opere in confronto.

Stima   € 25.000 / 35.000
18

COPPA SU BASSO PIEDE, FRANCESCO DURANTINO (ATTR.), URBINO O DUCATO DI URBINO, 1530 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con verde, giallo antimonio, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero, nero-marrone, rosso ferraccia, tocchi di bianco di stagno. Su smalto spesso, ma poco aderente, con molta vetrina; alt. cm 4, diam. cm 23,3, diam. piede cm 13

 

A BOWL ON LOW FOOT-RING, FRANCESCO DURANTINO (ATTR.), URBINO OR DUCHY OF URBINO, CIRCA 1530

 

Bibliografia di riferimento

B. Rackham, Victoria and Albert Museum. Catalogue of Italian Maiolica, Londra (ripubblicato con le aggiunte di J.V.G. Mallet, 1977), p. 285 n. 856 e p. 288 n. 861;

J. Lessmann, Herzog Anton Ulrich-Museum Braunschweig. Italienische Majolika, Katalog der Sammlung, Brunswick 1979, p. 185 n. 163 e p. 188 n. 170

 

 

La coppa poggia su un piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La decorazione istoriata interessa l’intera superficie del cavetto. La scena raffigurata mostra un personaggio seduto sotto una roccia con il corpo coperto solo da un drappo azzurro, appoggiato su una spalla e su una gamba, mentre indica in basso verso uno specchio di acqua. Sulla tesa opposta un personaggio ignudo, con il corpo parzialmente coperto da un drappo giallo, sembra alzarsi dallo specchio d’acqua e indicare con una mano il cielo. Al centro della composizione un terzo personaggio, in abito da cacciatore, corre brandendo la lancia. Sullo sfondo, al di là della roccia e degli alberi che fanno da sfondo alla scena, si legge un paesaggio con città che si specchiano in un lago circondate da montagne alte con il profilo squadrato.

Sul verso del piatto non compare alcuna scritta didascalica, ma la scena può essere interpretata come la morte di Narciso, raffigurato prima al centro della scena quando, secondo la versione classica, è un giovane talmente bello e ammirato che tutti se ne innamorano, ma egli non se ne cura e passa il suo tempo cacciando in solitudine, e poi, dopo aver rifiutato la ninfa Eco, si trasforma e passa il suo tempo ad ammirare la propria immagine, quindi muore struggendosi d’amore, il suo corpo trasformato nel giallo e splendido fiore di primavera che porta il suo nome. La decorazione sembra quindi descrivere tre momenti del Mito, incentrata esclusivamente sull’immagine di Narciso.

Lo stesso mito è stato variamente raffigurato in maiolica, e non è trascurabile il cambio di lettura derivato dall’interpretazione che nel Medioevo muta il giudizio positivo della figura di eroe tragico della classicità alla versione in negativo negativa di colui che ammira l’effimero.

Le caratteristiche stilistiche e la sintassi decorativa ci portano a orientare la nostra ricerca tra le botteghe di Urbino o del Ducato nella prima metà del Cinquecento, pensando alla mano di Francesco Durantino per quest’opera che presenta molte problematiche di cottura. La rapidità della stesura e alcuni particolari ci suggeriscono infatti la paternità di Francesco, come ad esempio il personaggio disegnato di schiena, che compare spesso nelle sue opere, oppure la dinamicità nell’impostare le figure dei personaggi. Un piatto attribuito al pittore durantino con Glauco e Scilla del Victoria and Albert Museum datato 1545 (inv. n. 1777-1855, n. 861) costituisce un valido confronto: nelle figure dei personaggi, nell’uso del rosso nelle capigliature del personaggio, nella scena che riproduce tre differenti momenti della narrazione e in alcuni dettagli del paesaggio. Ed anche la presenza di piante con fogliame realizzato in vario modo con spruzzature di giallo e di ciuffi d’erba a piantine separate, nella nostra coppa accennate con tratto blu, si riscontra in altre opere di quest’autore, come ad esempio sempre dal Victoria and Albert nel piatto con Psiche, anch’esso databile al 1545 circa, con un cespuglio al centro della composizione, (inv. C2257-1910, n. 856).

Inoltre in un piatto firmato e datato 1543 dell’Austrian Museum of Applied Arts / Contemporary Art (KE 6699) con la raffigurazione della Guerra tra i Titani firmato e datato 1543, ritroviamo molti elementi del nostro piatto, ad esempio nei corpi nudi dipinti di schiena, uno sulla tesa a destra raffigurato seduto, un altro in piedi in fondo al cavetto che porta un blocco di pietra, ma anche nei volti con le guance leggermente lumeggiate di rosso, o nel modo di delineare le pieghe delle vesti con tocchi di stagno. Altri indizi che ci riportano all’opera del Durantino sono la posizione un poco rannicchiata con una gamba appoggiata in alto, che si ritrova ad esempio nella figura femminile del piatto con la nascita di Adone (J. Lessmann, Herzog Anton Ulrich-Museum Braunschweig. Italienische Majolika, Katalog der Sammlung, Brunswick 1979, p. 185 n. 163), e ancora le rocce e gli alberi del piatto con Giunone che scopre Io e Giove (op. cit., p. 188 n. 170), o le montagne e la dinamicità della figurina al centro del piatto con Cadmo che uccide il Drago (op. cit., p. 188 n. 169).

Stima   € 25.000 / 35.000
36

BOCCIA, VENEZIA, DOMENICO DE’ BETTI DETTO MASTRO DOMENICO E COLLABORATORI, TERZO QUARTO SECOLO XVI

in maiolica dipinta a policromia su rivestimento a smalto spesso e brillante; alt. cm 29, diam. bocca cm 13, diam. piede cm 13,5

 

A BULBOUS JAR, VENICE, DOMENICO DE’ BETTI CALLED MASTRO DOMENICO AND COWORKERS, THIRD QUARTER 16TH CENTURY

 

Bibliografia di confronto

A. Alverà Bortolotto (a cura di), Maioliche veneziane del Cinquecento da collezioni private, Galleria Canelli, Milano 1990, n. 20

 

 

Il vaso ha corpo globulare e orlo “gittato”, secondo la tipica forma nota comunemente come ‘boccia’.

La superficie è interamente decorata con le tipiche vedute e figure. Qui il paesaggio si sviluppa attorno al corpo del vaso con quinte costituite da tronchi di alberi o rocce, tra le quali si intravvedono larghi scorci con una città turrita formata da edifici, palazzi, portici e alti campanili a forma di piramide da un lato, mentre dall’altro un cane insegue una lepre di fronte a una città turrita.

La consueta corona robbiana è qui sostituita da un tralcio fogliato con piccoli frutti, detto a serto di ulivo, che richiama decori di tipo adriatico-pesarese. Una decorazione del tutto simile si ritrova in una boccia con decoro a girali fogliati, ma con al centro una figurina di Venere su delfino (J. Lessman, Italienische Majolica Aus Goethes besitz, Weimar 2015, p. 220 n. 884).

Il vaso, inedito, seppur di dimensioni minori condivide con i due esemplari presentati ai lotti 38 e 39 di questo catalogo l’analisi critica e i confronti, condividendone la grande qualità tecnica e formale.

Stima   € 20.000 / 30.000
3

ALBARELLO BIANSATO, DERUTA, 1460-1490

in maiolica decorata in policromia con blu e arancio; alt. cm 21,5, diam. bocca cm 11,7, diam. piede cm 11

 

A TWO-HANDLED JAR (ALBARELLO), DERUTA, 1460-1490

 

 

Il vaso elettuario ha bocca larga con orlo piano estroflesso tagliato a stecca, che scende su un collo cilindrico basso e si congiunge alla spalla carenata dal profilo angolato. Il corpo è cilindrico, appena rastremato al centro, con calice angolato ma con profilo arrotondato, e scende obliquamente fino al piede piano e con orlo appena estroflesso. Due anse tortili si dipartono dalla spalla per scendere fino quasi al bordo del calice, dove si attaccano “a pizzico”.

Il decoro del collo mostra una serie continua di tratti di color arancio ed è replicato anche lungo il piede, ma con tratti più allungati e di colore blu. La spalla è decorata da una serie di “fiamme” intervallate da un ornato a tratti paralleli sottili e disposti a formare un triangolo. Il corpo, suddiviso in due metope principali separate da fasce verticali con decori a trattini obliqui, presenta su un lato una lettera gotica S, affiancata da motivi fogliati e puntinature e cerchietti, sull’altro una lettera gotica I, affiancata dai medesimi ornati secondari. Le anse sono dipinte con tratti orizzontali in blu.

Il vaso è raro, e questa tipologia è stata per lungo tempo al centro di discussioni attributive. Un confronto morfologicamente puntuale è con un esemplare della raccolta della Cassa di Risparmio di Perugia (T. Wilson, E.P. Sani, Le maioliche rinascimentali nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, II, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, p. 76 n. 90) o ancor più con l’albarello araldico recentemente pubblicato da Elisa Sani in occasione della mostra di Deruta (C. Leprice, J. Racanello (a cura di), Back to Deruta, Sacred and Profane Beauty, Deruta Renaissance Maiolica, Parigi 2018, p. 50-53 n. 1). Molto prossimo al nostro esemplare anche l’albarello conservato al MIC di Faenza (C. Ravanelli Guidotti, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La Donazione Angiolo Fanfani. Ceramiche dal Medioevo al XX secolo, Faenza 1990, p. 154 n. 87), con il quale condivide la morfologia e la tipologia dei decori minori, e di conseguenza l’albarello, già collezione Pringsheim e ora nella collezione Leheman al Met di New York, ancora attribuito alla Toscana (J. Rasmussen, The Robert Lehman Collection. 10. Italian Majolica, New York 1998, pp. 12-13 n. 6), alla cui scheda rimandiamo per l’elenco di opere di confronto, di cui alcune caratterizzate dalla presenza della lettera gotica.

La tipologia, che mostra un decoro ancora gotico, è stata per lungo tempo attribuita variamente alle manifatture faentine o toscane (J. Chompret, Répertoire de la majolique italienne, Parigi 1949, vol. II, p. 50 nn. 372-374, con anse a torciglione), per essere in seguito ricondotta alla manifattura originaria anche grazie allo studio attento di numerosi frammenti (G. Busti, F. Cocchi, Prime considerazioni su alcuni frammenti da scavo in Deruta, Faenza 1987, pp. 14-16 tav. V; C. Fiocco, G. Gherardi, L. Sfeir-Fakhri, Majoliques italiennes du Musée des Arts Décoratifs de Lyon. Collection Gillet, Lione 2001, n. 46 nota 2). La produzione di questi albarelli dovette essere cospicua, per varietà di forme e decori: gli scavi a Deruta hanno infatti restituito frammenti relativi a esemplari con anse simili a quelle dell’opera in esame, ma prevalentemente a oggetti con anse a torciglione.

Stima   € 18.000 / 25.000
21

TAGLIERE, URBINO, BOTTEGA FONTANA, 1540 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, verde, blu, bianco e bruno di manganese nel tono del nero su fondo smaltato; alt. cm 5, diam. cm 26,7 (mancante di piede)

 

A TRENCHER, URBINO, WORKSHOP OF FONTANA, CIRCA 1540

 

Provenienza

Sotheby’s, Importanti maioliche italiane, Firenze, 19 ottobre 1970, lotto 97;

Firenze, Collezione privata

 

 

La maiolica, parte di un antico servizio da puerpera, ha forma sagomata con più piani a scalare, bordo rilevato arrotondato e estroflesso. L’oggetto è interamente smaltato e decorato.

Il decoro in piena policromia interessa l’intera superficie: al centro la raffigurazione dell’Annunciazione in un portico coperto, dove Maria seduta a leggere in una nicchia architettonica, che pare ispirarsi a certe icone ortodosse, indica con un dito verso l’alto dove la colomba dello Spirito Santo appare avvolta in una piccola nube. L’angelo, realizzato secondo i dettami classici delle incisioni, si avvicina a Maria reggendo in una mano il giglio bianco simbolo di purezza, mentre un paesaggio montuoso compare oltre il fornice della finestra. L’orlo a rilievo è decorato con una fitta ghirlanda fogliata con piccoli frutti e legacci intrecciati.

Il verso della coppa è anch’esso decorato con un motivo azzurro quasi evanescente, dove la prima cornice, sagomata a rilievo, riporta un motivo a baccellature seguito da una fascia azzurra decorata con rabesche blu, che termina in un’ultima cornice poco rilevata. Resta un foro al centro, probabilmente di giunzione, che però non sembra coevo.

Jacquelin Marie Musacchio nella scheda di una coppa da puerpera del Walters Museum di Baltimora (inv. n 48.1333.a.b, A. Bayer, Art and Love in Renaissance Italy, New York 2008, pp. 166-167 nn. 78a e 78b) attribuita a Casteldurante, presenta una scutella con tagliere, seppur con qualche perplessità sul fatto che possano appartenere allo stesso servizio, utile a comprendere appieno la funzione della nostra maiolica, che appoggiata all’interno della coppa avrebbe costituito un valido appoggio alle vivande, mantenendole calde, appoggio nel nostro caso garantito dal duplice anello a scalare. Anche la minor cura dedicata alla decorazione dell’esterno ci conferma come quella parte dovesse essere inserita all’interno di un altro contenitore, quello del brodo. Il bordo rilevato costituiva un valido fermo per l’ongaresca superiore.

L’alta qualità complessiva del decoro ci porta a pensare che si tratti di un’opera prodotta nella bottega Fontana attorno al 1540 circa, e quindi ancora nell’ambito di Guido Durantino.

Stima   € 18.000 / 25.000
8

COPPA CON PROFILO VIRILE, MONTELUPO, 1500-1515

in maiolica dipinta in arancio, verde ramina e blu; alt. cm 19,2, diam. cm 27, diam. piede cm 15,2

 

A BOWL WITH A MALE PROFILE, MONTELUPO, 1500-1515

 

Provenienza

Trapani, Collezione Barresi;

Torino, Collezione privata;

Bologna, Collezione privata

 

Bibliografia

Raccolta appartenuta al Dott. Bartolomeo Barresi di Trapani Maioliche italiane ispano-moresche dal XV al XVIII secolo, Galleria S. A. L. G. A., Roma 1960 (ripr. in copertina e scheda n. 104)

 

 

L’opera presenta un’ampia conca a profilo campaniforme, poggiante su alto piede svasato, secondo la tipica morfologia montelupina denominata “alzata su alto piede” (F. Berti, Storia della ceramica di Montelupo, Montelupo Fiorentino, vol. II, 1998, n. 88 del repertorio di forme). All’interno del cavetto è dipinto un medaglione nel quale campeggia il busto di un uomo, col capo coperto da un berretto con falda a punta anteriore; il busto, posto di profilo, è affiancato da due alberelli stilizzati. Attorno al medaglione, entro larga fascia a fondo bianco, sono tracciate sette roselline equidistanti, mentre la restante superficie è occupata fino al bordo da un’altra fascia, entro cui si dispone una ghirlanda composta di foglie e bulbi stilizzati in blu e bianco realizzato a risparmio su fondo arancio. La stessa fascia è ripresa anche all’esterno della coppa ed è profilata da due strette fasce con brevi tratti disposti a mo’ di treccia, mentre il piede è interamente decorato da baccellature e filettature perimetrali.

La coppa, per morfologia e stile pittorico, fa parte a pieno titolo della produzione montelupina dei primi del ‘500. A confronto va riportata la coppa coeva, con soggetto nuziale, delle raccolte del MIC di Faenza, già collezione Galeazzo Cora, vicina per la foggia e per la presenza della decorazione complementare sia nel recto sia sul verso (G.C. Bojani, C. Ravanelli Guidotti, A. Fanfani, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. La donazione Galeazzo Cora. Ceramiche dal Medioevo al XIX secolo, Milano 1985, p. 206 n. 514 e C. Ravanelli Guidotti, Maioliche “figurate” di Montelupo, Firenze 2012, pp. 56-58). Il profilo poi trova riscontro in molte opere montelupine con ritratti maschili o femminili, come ad esempio il ritratto muliebre sul boccale amatorio databile al 1480 (F. Berti, Il museo della ceramica di Montelupo, Firenze 2008, p. 264 n. 19).

Stima   € 14.000 / 18.000
33

ALBARELLO, CASTELLI D’ABRUZZO, 1555–1565 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, verde rame, giallo, giallo arancio, bruno di manganese e bianco di stagno; alt. cm 21,7, diam. bocca cm 9,8, diam. piede cm 9,6

 

A PHARMACY JAR (ALBARELLO), CASTELLI D’ABRUZZO, CIRCA 1555-1565

 

Esposizioni

Capolavori della Maiolica Castellana dal Cinquecento al terzo fuoco. La collezione Matricardi, Pinacoteca Civica di Teramo, 2 aprile - 31 ottobre 2012;

Tre secoli di maiolica di Castelli. 1500-1700, Museo di "Civiltà Preclassiche della Murgia meridionale", Ostuni, agosto 2015

 

Bibliografia

C. Fiocco, G. Gherardi, G. Matricardi, Capolavori della maiolica castellana dal Cinquecento al terzo fuoco. La Collezione Matricardi, Torino 2012, p. 50 n. 17

 

 

Il vaso ha una bocca larga con orlo estroflesso, un collo corto che scende in una spalla obliqua, breve e dal profilo appena arrotondato. Il corpo è cilindrico con base alta e carenata che termina in un piede basso dal profilo svasato con base piana.

Il decoro, realizzato in piena policromia, mostra nella parte anteriore, racchiuso in una metopa delimitata da due fasce con motivo a corona fogliata gialla, il busto di uomo con barba raffigurato di profilo con indosso una camiciola dall’ampio colletto e maniche a sbuffo, e sullo sfondo un paesaggio con colli arrotondati. Subito sotto si legge il cartiglio farmaceutico che recita “Elet Elescof” in lettere gotiche. Sulla spalla corre un motivo a foglie lanceolate che convergono tra loro a formare triangoli in blu su fondo arancio. La base mostra invece una corona fitomorfa sottile delineata in blu su fondo giallo. Il verso ha motivi decorativi blu delineati con tratti corrivi. Il ritratto è tracciato in blu di cobalto con tratti marcati e ampie ombreggiature nello stesso colore. Gli abiti e il paesaggio mostrano anch’essi una buona perizia nella stesura dei colori.

Il vaso appartiene a una serie di contenitori prodotti a Castelli d’Abruzzo per la quale è stata dimostratala la partecipazione di più e più mani nella realizzazione del corredo, con una produzione da collocare prevalentemente nel secondo terzo del XVI secolo. La bottega o le botteghe interessate nella produzione di queste opere mostrano una perizia tecnica esemplare per l’epoca: i decori e il repertorio morfologico, spesso assai complesso, non sono di uso comune, ma in linea con un mercato che richiedeva sempre di più opere di qualità medio-alta.

Stima   € 12.000 / 18.000
23

PIATTO, CASTELDURANTE O PESARO, PRIMA METÀ SECOLO XVI

in maiolica decorata in giallo arancio, giallo antimonio, blu di cobalto, verde ramina, bruno di manganese; alt. cm 4,5, diam. cm 26,2, diam. piede cm 9,4

 

A DISH, CASTELDURANTE OR PESARO, FIRST HALF 16TH CENTURY

 

 

Il piatto ha cavetto piano e larga tesa inclinata con orlo assottigliato poggiante su piede a disco appena rilevato. L’ornato del cavetto mostra al centro, su un paesaggio erboso delimitato da alberelli e da uno steccato, un putto legato a un albero con gli occhi bendati secondo la simbologia dell’Amore cieco. La tesa, separata da una sottile fascia con un motivo corrivo a formare una catenella, mostra un decoro a trofei, ombreggiati a tinte aranciate e lumeggiati a bianchetto, con nastri graffiti su fondo blu, e la sigla S.P.Q.R. entro un cartiglio, mentre l’orlo è sottolineato da una linea gialla filettata di arancio. Il retro invece non presenta decori, ed è ricoperto da uno spesso strato di smalto con sfumature verdastre.

Gli studi più recenti oscillano nell’attribuzione di questa tipologia di opere tra Pesaro e Casteldurante. Il motivo decorativo centrato da un amorino è utilizzato in molti centri intorno al 1500, spesso in associazione con vari decori oltre a quello a trofei, che il Piccolpasso considerava tipicamente metaurense: “Vero è che gli trofei si fanno più per lo Stato di Urbino che in altro luogo”. A Casteldurante questo tipo di decorazione è molto variabile, alternandosi nei toni del grigio o dell’ocra. Secondo alcuni studiosi la discriminante dalla produzione durantino-urbinate pare essere l’uso quasi esclusivo di tonalità cromatiche basate sul giallo-ferraccia. In questo esemplare è notevole la qualità esecutiva, che nella tesa è quasi miniaturistica, e fa pensare a un esemplare ancora cinquecentesco. Spesso i manufatti con motivo a "trofei" sono arricchiti da un cartiglio con l’anno di esecuzione del pezzo, per cui è facile la datazione dei diversi esemplari, che testimoniano una produzione che si protrae fino ai primi decenni del ‘600 (P. Berardi, L'antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze 1984, p.191). Confronti puntuali sono presenti nella Collezione Gillet di Lione, attribuiti a Casteldurante con riferimento a opere databili attorno al 1559, (L.S. Fakhri, C. Fiocco, G. Gherardi, Majoliques italiennes de la renaissance. Collection Paul Gillet, Touloise 2015, pp. 190-191 n. 60). Anche un piatto conservato al Museo di Pesaro con un amorino gradiente su fondo giallo mostra molte affinità con la nostra opera, costituendo un valido aggancio cronologico: reca infatti la data 1579 (A. Del Vita, Le maioliche di Casteldurante nel Museo di Pesaro, Pesaro 1930, p. 379). Ancor più vicino stilisticamente il piatto, sempre al Museo di Pesaro, attribuito a Casteldurante con Amore con arco e faretra, ma con variante di colore grigio nella stesura dei trofei (L. Fontebuoni, Raccolta D. Mazza. Ceramiche rinascimentali, vol. IV, 1985–1986, scheda cat. n. 88).

Stima   € 10.000 / 15.000
9

Benedetto Buglioni

(Firenze 1459-1521)

MADONNA DELLA MISERICORDIA, 1490 CIRCA

lunetta in maiolica dipinta in policromia. Sul retro vecchia etichetta della “Christie, Manson & Woods”; cm 62x114x14

 

THE VIRGIN OF MERCY, CIRCA 1490

a polychrome painted maiolica lunette. On the reverse: old label “Christie, Manson & Woods”; 62x114x14 cm

 

Bibliografia di confronto

A. Marquand, Benedetto and Santi Buglioni. The brothers of Giovanni della Robbia, New York 1972, pp. 20-21 nn. 18-22;

G. Gentilini, I Della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, Firenze 1992, pp. 390-400

 

 

La lunetta in terracotta invetriata raffigura al centro Maria con un manto azzurro che le cinge le spalle e che apre allargando le braccia nella posizione dell’orante; ai lati due angeli reggono i lembi esterni del manto chiudendovi all’interno alcuni penitenti in preghiera.

L’iconografia è quella della Madonna della Misericordia, che si diffonde nel cristianesimo fin dal XIII secolo. Nel Medioevo il manto protettore indicava la figliolanza legittimata, ed infatti i figli nati prima del matrimonio erano legittimati se tenuti sotto il mantello della madre durante le nozze; un perseguitato che si fosse rifugiato sotto un manto regale aveva diritto alla grazia, essendo il mantello simbolo di dignità, di protezione e di amore caritatevole. Le origini immediate del tipo iconografico risiedono nell’effige La Vierge au Manteau impressa sui primi sigilli dei Cistercensi. Il tipo iconografico ebbe la sua massima fioritura nei secoli XIV-XV, e con il diffondersi della peste il significato devozionale della tutela concessa dal caritatevole mantello di Maria al genere umano ha dato origine ad una delle più affascinanti e fortunate iconografie mariane dell’arte medievale, la Madonna della Misericordia, cosiddetta Madonna delle Frecce, dove il manto protegge dai dardi punitivi che giungono dal Giudice Celeste: ella ha un ruolo di mediazione per la salvezza umana. E la proporzione della figura di Maria risponde alla speranza di protezione che i devoti ripongono in lei, devoti a loro volta di dimensioni differenti a significare l’intera e diversificata umanità.

L’opera in esame è attribuita per modalità esecutiva e per tecnica all’opera di Benedetto Buglioni. L’artista, probabilmente apprendista nell’arte della modellazione dell’argilla nella famosa bottega di Andrea del Verrocchio verso la fine degli anni settanta del quattrocento, conosciuto e stimato anche per i suoi lavori in marmo, deve aver affinato la sua tecnica nello studio di Andrea della Robbia, dove diviene un collaboratore di fiducia e impara quindi i segreti della scultura invetriata. A partire dagli anni ottanta del secolo XV è già lanciato nella produzione della maiolica, mettendosi in concorrenza con lo stesso Andrea e guadagnandosi l’apprezzamento di un numero sempre maggiore di committenti, sia privati che ecclesiastici, tra i quali ad esempio figura importante è il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e futuro Papa Leone X. E proprio agli anni intorno al 1490, periodo in cui lavora per il Santuario di Santa Cristina a Bolsena proprio su commissione di Giovanni de’ Medici, è ascrivibile il nostro rilievo, probabilmente destinato ad ornare la lunetta sopra l’ingresso di una confraternita.

Una certa vicinanza stilistica nei volti dei santi e dell’angelo si trova con una lunetta smembrata, databile al periodo attorno al 1480-90, nella quale in particolare l’angelo inginocchiato trova molti riscontri con l’angelo sulla destra del nostro rilievo: si notino in particolare il volto e la forma dell’ala e del manto arricciato vicino al braccio.

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
50

VASSOIO OVALE FONDO, URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, FINE SECOLO XVI-INIZIO SECOLO XVII

in maiolica dipinta in policromia con giallo arancio, giallo antimonio, blu di cobalto, bruno di manganese, verde ramina; alt. cm 5,5, cm 38,5x29

 

A DEEP OVAL DISH, URBINO, WORKSHOP OF PATANAZZI, LATE 16TH-EARLY 17TH CENTURY

 

 

Il vassoio ovale concavo con tesa orizzontale poggia su un sottile piede a cercine. La trama decorativa è distribuita su tre fasce concentriche. Al centro in una cornice ovale sottile decorata a piccole baccellature una figura di Baccante, con lorica annodata alla spalla, gradiente in un paesaggio campestre con in mano grandi grappoli d’uva e con una corona di grappoli e pampini sul capo.

Il secondo ordine interessa la balza e la tesa con una decorazione a motivo di grottesche fantastiche centrato nei punti cardinali da piccoli camei con ritratti incorniciati di forma quadrata o ovale, mentre in alto, seduti sulla cornice centrale, due putti alati sorreggono delle cornucopie. L’orlo esterno infine è decorato da una finta baccellatura. Il verso è bianco fatta eccezione per due linee gialle concentriche a rimarcare l’orlo.

Il vassoio trova riscontro nella produzione della bottega urbinate dei Patanazzi, ed in particolare è stringente la somiglianza di alcuni elementi decorativi, nelle grottesche e nella stessa figura centrale, con i vassoi ovali del servizio Contarini conservati nelle raccolte di arti Applicate del Museo del Castello Sforzesco di Milano (T. Wilson, in R. Ausenda (a cura di). Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche, vol. I, Milano 2000, pp. 232-235 nn. 239-242), nonché l’uso attestato nella bottega urbinate di putti di foggia analoga ai nostri e di piccoli o grandi camei a grisaille come ad esempio nel servizio “Amor Ardet” (C. Ravanelli Guidotti in F. Trevisani, Le ceramiche dei duchi d’Este. Dalla Guardaroba al Collezionismo, catalogo della mostra, Milano 2000, pp. 30-53) ci confortano nell’attribuzione.

Lo schema decorativo con grottesche è ampiamente condiviso in tutte le botteghe urbinati della fine del XVI secolo, ed i Patanazzi mutuano il decoro dalla bottega Fontana interpretandolo con uno stile caratteristico. Per la datazione facciamo riferimento al Servizio Contarini, ma molte sono le analogie con un piatto firmato da Alfonso Patanazzi del Victoria and Albert Museum datato 1608, con cui pare condividere una certa grossolanità nel tratto pittorico (F. Negroni, Una famiglia di ceramisti urbinati: i Patanazzi, Faenza 84, 1998, pp. 104-115). Ed è quindi questo l’arco temporale cui ci pare corretto collocare l’opera in esame.

Stima   € 10.000 / 15.000
47

PIATTO, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

in maiolica ricoperta di smalto blu di cobalto, con decoro in oro e bianco di stagno; alt. cm 5,5, diam. cm 31,8, diam. piede cm 13

 

A DISH, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

 

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo con tesa obliqua, poggia su un piede ad anello appena accennato ed è interamente ricoperto da smalto blu intenso. Al centro del cavetto compare lo stemma del Cardinale Farnese con i sei gigli blu in campo oro, sormontato dal cappello cardinalizio con sei nappe e racchiuso in una cornice dipinta in bianco di stagno; intorno, il caratteristico motivo a fiori quadrangolari accompagnati da un decoro a racemi entro riserve in oro. Sulla tesa il motivo a fiori quadrangolari si ripete in una ghirlanda continua particolarmente ricca.

L’opera in oggetto mostra al centro lo stemma del cardinale realizzato probabilmente per sottrazione o utilizzando una mascherina al momento dell’applicazione dell’oro, in modo da ottenere i gigli di colore blu su campo oro come richiesto dall’araldica. Un piatto di recente pubblicazione è coerente per stile e decoro (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a private collection, Torino 2018, p. 472 n. 216), mentre il confronto più vicino per qualità e resa stilistica si ritrova in un piatto molto simile al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 127-1892) e in uno, con stemma differente, databile ai primi anni del XVII secolo e pubblicato nel catalogo sulle ceramiche di Castelli (C. de Pompeis, C. Ravanelli Guidotti, M. Ricci, Le maioliche cinquecentesche di Castelli. Una grande stagione artistica ritrovata, Pescara 1989, p. C166 n. 543), che ci porterebbe ad una datazione vicina agli anni novanta del XVI secolo.

 

Il servizio Farnese fu eseguito in più riprese tra il 1574 e il 1589, anno della scomparsa del Cardinale. L’attribuzione alle officine di Castelli (C. de Pompeis, C. Ravanelli Guidotti, M. Ricci, Le maioliche cinquecentesche di Castelli. Una grande stagione artistica ritrovata, Pescara 1989, pp. 126-140) si basa sul confronto con frammenti emersi dagli scavi condotti nella città abruzzese e trova riscontro in due opere del Museo di Capodimonte in cui compare una sigla interpretabile come Castellorum (L. Arbace, La maiolica italiana. Museo della ceramica Duca di Martina, Napoli 1996, p. 369). Le varianti morfologiche e stilistiche tra le opere in “turchina” lasciano però aperti alcuni interrogativi riguardo alla definizione delle botteghe castellane autrici della fornitura e alla cronologia delle varianti esistenti, come dimostra la chiara differenza anche tra i due piatti presentati in questo stesso catalogo.

Come già indicato da Carmen Ravanelli Guidotti la raffinata tecnica di produzione di questi prodotti “compendiari” sembra, attraverso l’analisi dei frammenti, caratterizzata da una pesante invetriatura monocroma, più che dall’applicazione di un vero e proprio smalto come nelle opere faentine (op. cit., p. 127.) Ma la tecnica più sorprendente è quella dell’uso del terzo fuoco per la stesura dell’oro, che doveva essere causa di un gran numero di rotture dei manufatti durante e dopo la cottura. Luciana Arbace analizzando opere simili del servizio elencato tra gli arredi del Palazzo Farnese a Caprarola nel 1626, ricorda anche un servizio da credenza di maiolica turchina miniata d’oro con l’arme del Cardinale Farnese ancora presente nella Loggia del Palazzo Farnese di Roma nel 1644, nel 1653 e qualche anno più tardi. Di queste opere tra il 1728 e il 1734 se ne conservavano 72, poi trasferite presso il Museo di Capodimonte nel 1760, mentre altre furono disperse (L. Arbace, in I Farnese. Arte e Collezionismo, Milano 1995, p. 368 e bibliografia relativa).

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
54

COPPIA DI ALBARELLI, PESARO, BOTTEGA DI ROCCO BENTIVOGLIO RONDININI, 1550-1565

in maiolica dipinta in policromia. Sul fondo sigla della bottega. Montati con applicazioni in bronzo alla base e sullorlo; alt. cm 22,5, diam. bocca cm 12, diam. piede cm 13 (compresa la montatura)

 

A PAIR OF PHARMACY JARS (ALBARELLI), PESARO, WORKSHOP OF ROCCO BENTIVOGLIO RONDININI, 1550-1565

 

 

Limboccatura larga doveva avere orlo estroflesso e arrotondato, probabilmente conservato sotto la montatura. Il collo è breve e scende su una spalla arrotondata, mentre il corpo cilindrico e rigonfio si conclude in un calice arrotondato. Il piede basso ha base concava sotto al quale è dipinta la sigla della bottega, con le iniziali RB unite da un segno a V rovesciata. Il decoro a policromia occupa tutta la superficie dei vasi con un motivo a palmetta persiana policroma, a circondare nella fascia superiore un medaglione con un toro. I cartigli sono redatti in lettere gotiche in nero di manganese.

I due vasi appartenevano a un noto e importante corredo farmaceutico e annoverano esemplari di confronto in musei e collezioni private, studiato approfonditamente (R. Gresta, Una produzione pesarese cinquecentesca di boccali, coppe amatorie e albarelli da farmacia, in CeramicAntica, VII, N. 9-75, Ottobre 1997, pp. 32-36; C. Paolinelli, Magnifica ceramica di una collezione privata, Pesaro 2011, figg. 23 e segg.). Si tratta di produzione pesarese con forti influssi veneziani, presente soprattutto nella decorazione a grossi frutti e fogliami. Il corredo apotecario eÌ caratterizzato dal medaglione con lemblema del toro, che alcuni associano allarma degli Hondedei di Pesaro. Le opere della farmacia recano sotto la base le iniziali sopradescritte R e B, riconducibili al vasaio Rocco Bentivoglio Rondinini di Siena, operante per molti anni a Pesaro. Per un approfondimento sui decori che interessano tutta la fascia adriatica, con scambi fino a Venezia, rimandiamo allo studio di Riccardo Gresta (Magnifica ceramica da una collezione privata. Maioliche rinascimentali e ceramiche classiche, Recensione, in Faenza, XCVIII (2012), N. 1, pp. 98 e segg).

Stima   € 8.000 / 12.000
41

COPPA, URBINO, BOTTEGA DI ORAZIO FONTANA, 1560 CIRCA

in maiolica dipinta a policromia con colori arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, bistro e bianco di stagno. Sul retro iscrizione Abram; alt. cm 6, diam. cm 27,4, diam. piede cm 14

 

A SHALLOW BOWL, WORKSHOP OF ORAZIO FONTANA, CIRCA 1560

 

 

La coppa presenta cavetto concavo con tesa alta terminante in orlo arrotondato e larga tesa appena inclinata. Poggia su alto piede rifinito a stecca.

La scena figurata occupa tutto il cavetto e raffigura la vicenda biblica di Abramo e il sacrificio di Isacco. La scena, che si svolge su più piani prospettici, mostra due momenti dell’episodio: al centro Abramo che si volta verso i servitori, mentre il giovinetto Isacco si accinge alla scalata del monte reggendo sulle spalle le fascine di legna per il sacrificio; sullo sfondo a destra il momento in cui l’angelo, scendendo da una nuvola in cielo, ferma la mano del vecchio mentre sul monte sta per sacrificare il figlio. Sullo sfondo un paesaggio lacustre con piccoli villaggi dai tetti rossi e montagne dalla punta squadrata. Tale raffigurazione sembra trarre spunto direttamente dall’incisione di Ugo da Carpi realizzata intorno al 1515 e raffigurante appunto Il sacrificio del Patriarca Abraham.

I confronti ci portano a collocare l’opera nell’ambito della bottega Fontana, come ad esempio il piatto con la Morte di Orfeo (C. Ravanelli Guidotti, Maioliche italiane. Collezione Chigi Saracini del Monte dei Paschi di Siena, catalogo della mostra, Faenza 1992, p. 135 n. 18) con la quale condivide alcuni tratti del paesaggio e alcuni elementi delle figure, in particolare nella raffigurazione del movimento. Tuttavia lo stile pittorico è alto, attento ai dettagli e con pieno dominio del tratto pittorico, confermato ad esempio dalle velature di colore e dai tratteggi nel definire le ombre e i tratti fisiognomici nel volto di Abramo, oppure dai tocchi di bianco di stagno nei volti dei giovani, come dal modo di definire le pieghe degli abiti e la muscolatura delle gambe. Ma l’opera che ci pare più prossima alla nostra è un piatto del Metropolitan Museum of Art di New York raffigurante Il sogno di Giacobbe (inv. n. 32.100.382), con il quale condivide lo stile pittorico, certe rigidità nel delineare le rocce e il paesaggio, la stessa disposizione dei villaggi che si specchiano nel lago e alcune caratteristiche stilistiche e tecniche nel sapiente uso del colore, come ad esempio sottili pennellate di arancio ocra nelle rocce o nella nuvola: tale piatto è attribuito alla Bottega Fontana attorno alla metà del secolo XVI.

Stima   € 8.000 / 12.000
43

BROCCA DA FARMACIA, URBINO, BOTTEGA DI ORAZIO FONTANA, 1565 CIRCA

in maiolica dipinta in arancio, blu, bruno nei toni del nero, verde, viola; alt. cm 22,4, diam. bocca cm 11,8, diam. piede cm 10,5

 

A PHARMACY JUG, URBINO, WORKSHOP OF ORAZIO FONTANA, CIRCA 1565

 

Bibliografia di confronto

C. Ravanelli Guidotti, Monte dei Paschi di Siena. Collezione Chigi Saracini: Maioliche Italiane, catalogo della mostra, Firenze/Siena 1992, pp.117-126;

T. Wilson, E.P. Sani, Le maioliche rinascimentali nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, vol. I, Perugia 2006, pp. 166-170 n. 55

 

 

La brocca mostra un’ampia imboccatura circolare con orlo estroflesso, che si apre in un collo breve e cilindrico poggiante su una larga spalla che continua su un corpo ovale. Sul fronte un versatore a cannello, sul retro un’ansa ad anello con estremità serpentiformi che sovrastano un mascherone a rilievo con testa di sileno. Il piede è basso e poggia su una base piana.

Il decoro istoriato occupa l’intera superficie del vaso ed è dominato da una figura femminile con corona e scettro seduta su una poltrona a stecche, sotto la quale si allarga un cartiglio sostenuto da due amorini con scritta farmaceutica a caratteri capitali “O.DI.RUTA”; intorno si estende un vasto paesaggio lacustre abitato da villaggi e montagne, alte scogliere e alberi dal tronco sinuoso.

Il vaso, che mostra alcuni difetti di conservazione e alcuni difetti di cottura con una ampia sbavatura al centro, conteneva l’olio di ruta, pianta che veniva utilizzata dalla medicina popolare solo esternamente come olio essenziale per trattare dolori articolari, nevralgie e crampi, mentre l'infuso era utilizzato per trattare mestruazioni dolorose, per lenire le coliche intestinali flatulenti e stimolare la digestione. Per la sua azione antispasmodica veniva anche utilizzata per trattare l’ipertensione, l'epilessia e le coliche.

 

Il vaso, insieme con i lotti che seguono, appartiene ad una vasta “farmacia” che per stile e tecnica è molto prossima al primo nucleo della Farmacia della Santa Casa di Loreto, attribuito alla bottega di Orazio Fontana, databili per confronto con opere firmate del periodo urbinate attorno al 1565-1570, periodo in cui il maestro vasaro attende per commissione del Duca di Savoia prima e di Guidobaldo II alla creazione della Farmacia del Palazzo Ducale di Urbino, probabilmente donata in seguito da Francesco Maria II alla Santa Casa di Loreto, ove compare in inventario nel 1608. La farmacia, che annovera oggi ben 348 pezzi, era dotata di un notevole nucleo di ceramiche, alcune delle quali furono disperse. Per un’attenta analisi e narrazione di questo corredo farmaceutico rinviamo allo studio di Floriano Grimaldi (Le ceramiche da farmacia della Santa Casa di Loreto, Roma 1979, p. 66 e segg.), mentre per opere simili si rinvia alla schedatura di Carmen Ravanelli Guidotti relativa a due opere analoghe della collezione Chigi Saracini, elencando anche alcuni esemplari di confronto conservati in vari musei e raccolte private, a cui si aggiungono gli esemplari di confronto indicati nella scheda di una brocca coerente conservata nella raccolta della cassa di Risparmio di Perugia.

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
31

PIATTO, URBINO, 1560 CIRCA

in maiolica decorata in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, giallo arancio, verde ramina, bruno di manganese. Sul retro iscrizione Susanna tentata dallj vecc/hi nel giardino; alt. cm 4,5, diam. cm 27,2, diam. piede cm 9,8

 

A MAIOLICA PLATE, URBINO, CIRCA 1560

 

 

Il piatto ha profondo cavetto e larga tesa obliqua con orlo arrotondato, il retro poggia su un basso piede ad anello appena accennato, al centro del quale è delineato in corsivo in blu di cobalto la scritta Susanna tentata dallj vecc/hi nel giardino, ed è listato di giallo a segnare l’orlo e il piede.

Sul fronte una scena istoriata con al centro Susanna mentre si lava nella fonte del giardino del marito Joachim, un giardino recintato che lascia scorgere sullo sfondo un vasto paesaggio lacustre; ai lati i due vecchi ambasciatori che si erano entrambi invaghiti della giovane donna, e che rifiutati la accuseranno di adulterio, accusa dalla quale riuscirà a salvarsi solo grazie all’intervento di Davide, che porterà i due vecchi in contraddizione tra loro.

Di sorprendente capacità pittorica la resa prospettica del giardino e i dettagli curati, non solo nella resa dei personaggi, con incarnati e masse muscolari realizzati con una perizia minuziosa, ma anche nei dettagli del paesaggio, nella quinta formata dagli alberi e nella profondità data dalla spaccatura del terreno all’esergo del piatto. I personaggi sono tipici del mondo di Marcantonio Raimondi. Esemplari di confronto nella bottega Fontana ci sembrano pertinenti con il periodo attorno agli anni sessanta del cinquecento, come ad esempio nei piatti del servizio Scheuffelin (J. Lessman, Italienische Majolica Aus Goethes besitz, Weimar 2015, pp. 102-107 nn. 27-29).

Stima   € 8.000 / 12.000
5

PIATTO, FAENZA, FINE SECOLO XV-INIZI XVI

in maiolica decorata con blu di cobalto, giallo, giallo arancio e verde ramina; alt. cm 4,5, diam. cm 27,5, diam. piede cm 9,5.

 

Bibliografia di confronto

R. Casadio, Maioliche faentine dall’Arcaico al Rinascimento, Faenza 1985, pp. 48-49;

C. Ravanelli Guidotti, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza, Faenza 1988, pp. 236-250;

C. Ravanelli Guidotti, Delle gentili donne di Faenza. Studio sul “ritratto” sulla ceramica faentina del Rinascimento, Faenza 2000, p. 353 n. 30

 

Il piatto presenta la caratteristica forma con ampia svasatura e cavetto profondo separato dalla tesa da un gradino smussato, la tesa orizzontale e terminante in un orlo arrotondato. Il retro, privo di piede, ha un appoggio appena incavato. Sul fronte e sul retro sono evidenti gli appoggi dei distanziatori di cottura. Al centro della composizione un giovane paggio è ritratto di profilo, rivolto a sinistra, con i capelli lunghi ricadenti sulle spalle e trattenute da una fascia, vestito di un giustacuore ricamato; il profilo ombreggiato e inserito in un medaglione riempito da puntinature. Tutto intorno si sviluppa un ornato a cornici concentriche decorate da motivi a embricazioni, a crocette, spirali concentriche, perlinature, ornati a nodo e a dente di lupo con campiture riempite da puntinature.

Il piatto costituisce un valido esempio della produzione tardo quattrocentesca a Faenza e ben s’inserisce nella vasta famiglia delle “Belle” che, talvolta propone, al centro della composizione, un ritratto maschile. La ricchezza del decoro, la finezza e nella decorazione e la presenza di motivi già rinascimentali ci fa ritenere quest’opera come precoce rispetto alle produzioni più note. Il retro è decorato con filettature concentriche, note comunemente come motivo “a calza” nei colori giallo ocra e blu. Un esemplare simile, sebbene più semplificato nella scelta del decoro con aggiunta di palmetta persiana nella tesa, mostra un’impostazione vicina a quella della nostra opera, ugualmente con profilo maschile, ma con l’aggiunta di due ali, è stato pubblicato nel 1985 da Rino Casadio. Anche i frammenti presenti sul territorio faentino, alcune analogie con decori pavimentali e la raffinatezza pittorica ci fanno pensare al periodo di transizione tra i due secoli. Inoltre, al di là dei ritratti delle Belle o di paggi, questo tipo di decoro vede protagonisti anche simboli amorosi, come nel piatto con coniglio, gamelio d’amore, presentato da Carmen Ravanelli Guidotti nella monografia sul ritratto sulla ceramica faentina del Rinascimento.

Stima   € 8.000 / 12.000
25

PIATTO DA POMPA, DERUTA O VITERBO (?), 1560

in maiolica dipinta in policromia su smalto stannifero con blu, azzurro, verde rame, blu di cobalto, giallo antimonio; alt. cm 9, diam. cm 37,5, diam. piede cm 13

 

A LARGE DISH, DERUTA OR VITERBO (?), 1560

 

 

L’esemplare ha un cavetto profondo e largo con tesa ampia che termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato, e poggia su un piede ad anello anch’esso appena rilevato e forato in origine, prima della cottura avvenuta con tecnica mista in due tempi: prima a gran fuoco con blu a due toni, poi in riduzione per l’ottenimento del lustro; retro con invetriatura color bistro che ricopre l’intera superficie.

La forma, comunemente destinata ad accogliere i ritratti, è qui utilizzata per una scena istoriata interpretata con un originalissimo stile pittorico. Al centro del cavetto due personaggi delineati rapidamente con tocchi di blu e dipinti in grigio diluito sono intenti in una lotta, entro un paesaggio chiuso all’orizzonte da una città turrita, posta dietro una serie di avvallamenti dal profilo arrotondato dal quale emerge un fiore multipetalo colorato. Il paesaggio è realizzato con larghe pennellate orizzontali e una tavolozza limitata al blu, giallo e verde, mentre nella tesa compaiono tocchi di rosso ferraccia evanescenti, quasi a testimoniare una cottura non del tutto riuscita, con un ornato a formelle con decoro a embricazioni alternate a un fiore dalla corolla allargata e a una foglia lanceolata, separate da larghe fasce blu e bianche, tipico delle produzioni derutesi attorno alla metà del secolo XVI.

La scena rappresenta la lotta tra Ercole e Anteo, variamente raffigurata nella maiolica antica, che trova una delle sue migliori interpretazioni in un piatto derutese a lustro con modalità stilistiche invero ben diverse, di recente pubblicazione (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 88-91 n. 33), che ci fornisce un repertorio significativo dell’ispirazione più elevata del piatto in esame. Il nostro piatto trae spunto probabilmente da una delle incisioni presenti in bottega, e a tal proposito la posizione delle braccia di Anteo nel nostro piatto sembra far riferimento all’ottava incisione con Ercole e Anteo ed Ercole che uccide il drago della serie Le gesta di Ercole, eseguita nel 1550 da Heinrich Aldegrever.

L’eventuale attribuzione a bottega viterbese della seconda metà del XVI secolo si basa sull’affinità stilistica nei decori minori, le foglie del fioretto di sfondo e alcune scelte tecniche, che fanno pensare ad una somiglianza con il piatto pubblicato come viterbese della collezione del Banco di Sicilia, alla cui scheda rimandiamo per confronto. Del resto la presenza a Viterbo di artigiani confluiti da più botteghe dei dintorni a seguito della peste si registra già alla metà del secolo precedente (R. Luzi, L. Pesante, in R. Ausenda (a cura di), Le collezioni della fondazione Banco di Sicilia. Le maioliche, Milano 2010, pp. 178-179 n. 64).

Stima   € 7.000 / 10.000
22

CRESPINA, CASTELDURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA

in maiolica, dipinta a policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno; alt. cm 3,6, diam. cm 26, diam. piede cm 9,6

 

A MOULDED BOWL (CRESPINA), CASTELDURANTE, WORKSHOP OF LUDOVICO AND ANGELO PICCHI, CIRCA 1550-1560

 

 

La crespina è formata a stampo con umbone centrale rilevato, orlo mosso e corpo sbalzato. La decorazione è dipinta su uno smalto ricco con una vetrina brillante e lucida, sia sul fronte sia sul retro, dove le baccellature della forma sono sottolineate da un decoro a linee blu. Alcuni difetti di cottura sotto il piede, tagliato per inserire l’opera in una cornice.

Al centro dell'umbone Apollo suona tra due personaggi in un paesaggio. Intorno, lungo la tesa, quattro figure maschili con mantello rosso si alternano a rami di ulivo a loro volta intervallati lungo il bordo da quattro cervi bianchi. La figura di Apollo ebbe grande successo durante il Rinascimento e fu spesso raffigurato su supporto ceramico in varie versioni: qui i personaggi e gli animali paiono incantati dal canto della divinità, che è raffigurata con la corona d’alloro, ma con in mano uno strumento rinascimentale al posto della lira.

Lo stile pittorico è caratteristico: volti piccoli e racchiusi, arrotondati, le capigliature arricciate, le bocche piccole un poco imbronciate, le gambe muscolose, un poco tozze, ombreggiate con sottili tratti arancio e lumeggiate con bianco di stagno. La decorazione della tesa invece ha pochi riscontri, ed è una delle più belle di quelle realizzate dalla bottega Picchi nel periodo durantino. Un riscontro di questa stessa disposizione decorativa lo troviamo nella crespina baccellata conservata nel Museo Nazionale delle Marche, raffigurante al centro l’episodio di Piramo e Tisbe (M.G. Dupré Dal Poggetto, Urbino e le Marche prima e dopo Raffaello, catalogo della mostra, Urbino 2003, p. 347 n. 488), circondato dalla stessa partitura in riserve con personaggi alternati a figure di leoni, ma sempre incorniciati da rami di ulivo. Lo stesso decoro con i leoni si ritrova in un’altra coppa con al centro la storia di Diana e Atteone mutato in cervo, però con foggia differente (Palazzo Madama, inv. C 2743) e ancora in una coppa Contini Bonacossi degli Uffizi (M. Marini, in La collezione Contini Bonacossi degli Gallerie degli Uffizi, Firenze 2018, pp. 256-257). Ricordiamo infine due coppe in collezione privata, anch’esse mancanti di piede, con personaggi con fiaccola alternati a figure di leoni con scena del suicidio di Lucrezia e una con arcieri alternati a lune alate con l’episodio di Muzio Scevola, recentemente pubblicate (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a Private collection, Torino 2018, pp. 349-350 nn. 152-153).

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
42

TRE ALBARELLI, URBINO, BOTTEGA DI ORAZIO FONTANA, 1565-1570 CIRCA

in maiolica dipinta in arancio, blu, bruno nei toni del nero, verde, viola

 

THREE PHARMACY JARS (ALBARELLI), WORKSHOP OF ORAZIO FONTANA, CIRCA 1565-1570

 

 

I vasi a rocchetto mostrano un’ampia imboccatura circolare con orlo estroflesso, un collo breve e cilindrico poggiante su una larga spalla, corpo cilindrico che si apre nel calice e scende in un piede di media altezza su base ad orlo estroflesso. Il decoro istoriato occupa l’intera superficie del vaso ed è dominato da una figura femminile con corona e scettro seduta su una poltrona a stecche posta su un basamento al di sotto del quale si allarga un cartiglio sostenuto da due amorini con scritta farmaceutica a caratteri capitali, intorno alla quale si estende un vasto paesaggio lacustre abitato da villaggi e montagne, alte scogliere e alberi dal tronco sinuoso.

A. Il decoro, con stile più corrivo, presenta figure più grandi e massicce, minor cura nella realizzazione del paesaggio e presenza di piccole barche in nero di manganese su lago, a causa forse di rimpiazzo poco più tardo. Il cartiglio “MITRLDATI FINA” indica un antidoto antiveleno, principio primario dell’antica Farmacia: racconta Galeno che tale antidoto fu fatto preparare da Mitridate per paura di essere avvelenato, e se ne serviva quotidianamente. La leggenda racconta che, dopo 57 anni di regno e all’età di 79 anni, Mitridate dovette arrendersi a Pompeo che lo vinse in battaglia. Per non cadere nelle mani del Re romano, Mitridate cercò la morte con il veleno che bevve con le figlie, ma mentre esse morirono all’istante, lui dovette farsi uccidere da Bithio, il suo soldato, poiché assuefatto ad ogni veleno. Pompeo trovò poi la formula dell’antidoto e la portò come bottino di guerra a Roma dove il medico di Nerone, Andromaco Cretense, trasse le indicazioni per la preparazione della sua Teriaca; alt. cm 21,5, diam. bocca cm 10,4, diam. piede cm 9,8;

B. Il decoro è molto prossimo a quello degli esemplari migliori della bottega di Orazio Fontana. Il cartiglio “U.D.VIRNICE” indica probabilmente un unguento di canfora che serviva per proteggere le ferite dal contatto con l’aria; alt. cm 23, diam. bocca cm 11,6, diam. piede cm 10,2;

C. Ancora di buona qualità, ma più corrivo del precedente e con figure più marcate, conteneva il “FILONIO.ROMANO”, elettuario composto dei semi di prezzemolo, papavero bianco, d’apio finocchio, oppio, cassia lignea, castorio, costo arabo, cannella, dauco di Creta, di Nardo indico, di piretro, di zafferano di miele; alt. cm 23, diam. bocca cm 10,4, diam. piede cm 10,2.

Stima   € 6.000 / 8.000
48

PIATTO, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

in maiolica ricoperta di smalto blu di cobalto, con decoro in oro, poco brillante e bianco di stagno; alt. cm 3,6, diam. cm 23, diam. piede cm 7,5

 

A DISH, CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-1589

 

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo con tesa obliqua, poggia su un piede ad anello appena accennato ed è interamente ricoperto da smalto blu intenso. Al centro del cavetto compare lo stemma del Cardinale Farnese con i sei gigli blu in campo oro, sormontato dal cappello cardinalizio con sei nappe e racchiuso in una cornice dipinta in bianco di stagno; intorno, il caratteristico motivo a fiori quadrangolari accompagnati da un decoro a racemi in bianco di stagno. Sulla tesa il motivo a fiori quadrangolari si ripete in una ghirlanda continua.

Anche l’opera in oggetto mostra al centro lo stemma del cardinale realizzato probabilmente per sottrazione o utilizzando una mascherina al momento dell’applicazione dell’oro, in modo da ottenere i gigli di colore blu su campo oro come richiesto dall’araldica secondo una precisa tecnica che ritroviamo in molti esemplari. Il decoro è più semplificato rispetto all’esemplare che precede, mostra una minore attenzione esecutiva e trova riscontro nel piatto recentemente transitato in questa sede (Pandolfini, 1 Ottobre 2015, lotto 57) e nel piatto con verso privo di decorazione, conservato nel Württemberg Landes Museum di Stoccarda (C. De Pompeis, C. Ravanelli Guidotti, M. Ricci, Le maioliche cinquecentesche di Castelli. Una grande stagione artistica ritrovata, Pescara 1989, n. 538).

Stima   € 6.000 / 8.000
52

CALAMAIO, URBINO, FINE XVI - INIZIO XVII SECOLO

in maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, bruno di manganese, verde ramina e bianco di stagno; cm 33x22x15

 

AN INKWELL, URBINO, LATE 16TH - EARLY 17TH CENTURY

 

 

Il calamaio raffigura Ercole che uccide il Toro di Creta. L’eroe, con indosso la pelle del leone nemeo, stringe tra le mani le corna del toro che abbatterà per poi ucciderlo, salvando dal terrore la popolazione di creta: è questa la settima fatica di Ercole. Ai piedi del gruppetto è collocato il contenitore per l’inchiostro, dipinto con pennellate che lo rendono marmorizzato.

La plastica è interamente dipinta in colori realistici con prevalenza del giallo arancio, utilizzato per sottolineare la pelle dell’animale e le forme dei muscoli. I capelli di Ercole sono bianchi brizzolati come la barba. L’opera segue i dettami quasi caricaturali, nel nostro caso la grandezza del toro che lo rende poco spaventoso, tipici di questa produzione a opera della bottega Patanazzi ad Urbino, che ne hanno nel tempo decretato il successo.

Per confronto si veda un calamaio con cassettino del Museo Fitzwilliam di Cambridge (C 229 e A 1991) (J.E. Poole, Italian maiolica and incised slipware in the Fitzwilliam Museum, Cambridge 1995, pp. 185-186 n. 260), che condivide con il nostro le caratteristiche fisiognomiche del personaggio maschile e la scelta decorativa del vasetto porta inchiostro. Il confronto con esemplari simili, anch’essi plasmati con personaggi di genere, ci conforta nell’attribuzione. Si vedano ad esempio il suonatore di organo, con tratti fisiognomici del volto molto vicini al nostro esemplare, raffigurato sul calamaio del Victoria and Albert Museum recante un cartiglio con la scritta “Urbino (B. Rackham, Victoria and Albert Museum. Catalogue of Italian Maiolica, Londra 1977, p. 283 n. 852, inv. 8400-1863); il Bacco ubriaco dello stesso museo che, in forma di fontana, riproduce lo stile e il gusto dei calamai urbinati (inv. C.665-1920), oppure le belle plastiche presentate in una mostra sulle maioliche rinascimentali nello stato di Urbino nel 1987, in particolare il San Matteo della Cassa di Risparmio di Rimini (G. Gardelli, “A gran fuoco”. Mostra di maioliche rinascimentali dello stato di Urbino da collezioni private, Urbino 1987, p. 99 n. 152) ed infine il personaggio con un motto ironico trascritto in un libro che reca tra le mani, di recente pubblicazione (T. Wilson, The Golden Age of Italian Maiolica Painting. Catalogue of a private collection, Torino 2018). Interessante a tal proposito l’elenco di fogge tipiche, cui rimandiamo per approfondimenti (F. Sangiorgi, Documenti urbinati. Inventari del Palazzo Ducale (1582-1631), Urbino 1976).

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Aggiudicazione  Registrazione
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COPPIA DI ORCIOLI, AREA METAURENSE, PESARO, 1580 CIRCA

in maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, giallo arancio, giallo antimonio, bianco stagno, verde ramina; alt. cm 21,8 e 20,8, diam. bocca cm 10,2 e 10, diam. piede cm 10,8 10,2

 

A PAIR OF SPOUTED PHARMACY JARS, PESARO, CIRCA 1580

 

 

I due vasi farmaceutici hanno corpo piriforme largo al centro e fortemente rastremato verso il basso, che termina in un piede alto a calice con base a disco piana. Il collo troncoconico, largo, si apre in un’imboccatura con orlo arrotondato appena estroflesso. Sul fronte si apre un beccuccio a cannello molto alto e sul retro è collocata un’ansa a nastro larga che si fonde in basso nella pancia del vaso. L’intera superficie dei vasi è interessata da un decoro a Trofei, sul collo con scudi e armi in giallo arancio delineato in blu adagiati su un fondo giallo, sul corpo distribuito in due fasce orizzontali che interessano anche l’ansa e il cannello nei medesimi toni di colore ma su fondo blu cobalto. Il piede è decorato da una corona continua di foglie e piccoli fruttini, mentre sotto l’ansa corre un cartiglio farmaceutico largo e lumeggiato in blu che termina sul fronte in due larghe pieghe dipinte in giallo e verde ramina.

Il grande numero di frammenti di opere con decoro a Trofei, specialmente redatti in colore ocra, e la morfologia dei vasi ci fanno propendere verso una probabile produzione pesarese. Un confronto con decoro ancora gotico e con piede più cilindrico ci deriva da due vasi del Fitzwilliam di Cambridge (C.2B-1932. P. Berardi, L'antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze 1984, p. 259 fig. 39). Il dettaglio del decoro che corre lungo il piede trova inoltre un preciso riscontro in un piatto in collezione privata con decorazione cosiddetta a serto di ulivo, databile alla seconda metà del secolo XVI, cui si affianca un piatto datato 1580 con decoro a trofei ocracei del Museo di Pesaro (P. Berardi, op. cit., pp. 312-313 nn. 109-110).

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