DIPINTI ANTICHI

13 NOVEMBRE 2018

DIPINTI ANTICHI

Asta, 0274

FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26


ore 15:30
Esposizione

FIRENZE
9-12 novembre 2018
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   2500 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 49
18

Alessandro Turchi, detto l’Orbetto

(Verona, 1578 – Roma, 1649)

SANSONE E DALILA

olio su tela, cm 132x158

 

SAMSON AND DELILAH

oil on canvas, cm 132x158

 

Sul telaio, etichetta della mostra “Cinquant’anni di pittura veronese”

 

Esposizioni

Cinquant’anni di pittura veronese, a cura di Licisco Magagnato, Verona, Palazzo della Gran Guardia, 3 agosto – 4 novembre 1974, n. 100.

 

Bibliografia

R. Longhi, Presenze alla sala Regia, in “Paragone” 1959, 117, p. 38 e fig. 23; C. Donzelli – G.M. Pilo, I pittori del Seicento Veneto, Firenze 1967, p. 401; N. Barbanti Grimaldi, Il Guercino, Gian Francesco Barbieri 1591-1666, n. 109; D. Kelescian Scaglietti, Alessandro Turchi, detto l’Orbetto, in Cinquant’anni di pittura veronese, catalogo della mostra, Venezia 1974, p. 124, n. 100, fig. 121.

 

L’opera sarà inclusa nella monografia a cura di Daniela Scaglietti Kelescian in preparazione per Scripta Edizioni, Verona.

 

“Nella galleria Gherardini (…) ho trovato bellissime cose dell’Orbetto (…) Mi piace lodare il concetto di un quadro. Non si tratta che di due mezze figure: Sansone nel punto in cui si è addormentato in grembo a Dalila. Costei tende lievemente la mano sopra il capo di lui per afferrare le forbici che stan sul tavolo accanto alla lampada. L’esecuzione è di gran valore”.

Così nel settembre 1786 Goethe annotava nel suo giornale a proposito della tappa veronese del viaggio in Italia che lo aveva condotto presso i discendenti di quel marchese Gherardini che, dopo la partenza per Roma dell’Orbetto, si era fatto promotore delle sue opere presso la committenza laica ed ecclesiastica della città. Sebbene lontano, Alessandro Turchi aveva ornato delle sue tele anche la galleria del suo protettore, tanto che nel 1719 Bartolomeo Dal Pozzo la descriveva come molto ricca in composizioni dell’Orbetto; tra queste, per l’appunto un “Sansone in braccio a Dalila”.

Fu Roberto Longhi a citare il passo del Viaggio in Italia a proposito del nostro dipinto, da lui rintracciato in una collezione bolognese: una proposta suggestiva ma da accogliere con qualche riserva, considerata l’esistenza di altre versioni di questo soggetto e, viceversa, la mancanza di documentazione circa la provenienza originaria del dipinto qui offerto.

Che si trattasse di un soggetto molto richiesto e che l’Orbetto lo avesse proposto in composizioni diverse anche per numero di figure e momento della “attione” lo si deduce innanzi tutto da citazioni inventariali tra Sei e Settecento: la più antica si riferisce alla collezione veronese di Giovanni Pietro Curtoni, dove nel 1656 sono censiti sei quadri del Turchi, tra cui per l’appunto un Sansone e Dalila le cui tracce si perdono a Venezia nel 1729, secondo quanto ricostruito da Tomaso Montanari e più recentemente da Davide Dossi.

A Roma, il cardinal Flavio Chigi possedeva un quadro di uguale soggetto in tela d’imperatore, come recita l’inventario del 1692, e dunque più piccolo del nostro; anche il cardinale Pietro Millini aveva un “Sansone e Dalila con le forbici” insieme ad altri sei quadri dell’Orbetto, ma la descrizione inventariale rimanda a una scena con molte figure.

In effetti, anche i cataloghi delle vendite tenute a Parigi e a Londra nella seconda metà del Settecento e nel primo Ottocento testimoniano del passaggio sul mercato europeo di due modelli diversi per questo soggetto, replicati anche su pietra di paragone oltre che su tela.

Attualmente, conosciamo altre due versioni della composizione qui offerta: una copia antica nella galleria di Stoccarda e una replica di bottega venduta a Londra da Sotheby’s il 15 febbraio 1989 (n. 70). Più numerose e variate tra loro nel numero delle figure le redazioni in cui Dalila fa cenno ai Filistei di entrare nella stanza dove Sansone giace addormentato e ormai inoffensivo (cfr. Alessandro Turchi detto l’Orbetto. 1578-1649. Catalogo della mostra a cura di Daniela Scaglietti Kelescian, Milano 1989, n. 34, p. 140). Ancora mancanti all’appello sono invece le versioni su pietra, apparentemente corrispondenti a questa seconda composizione (The Getty Provenance Index).

Splendido esempio di quel naturalismo temperato dall’esempio dei pittori bolognesi, cifra costante di Alessandro Turchi nel periodo della sua maturità a partire dal terzo decennio del secolo, il dipinto qui offerto si iscrive senza dubbio tra i capolavori dell’artista veronese nella riduzione dell’evento drammatico alle sole figure dei suoi protagonisti. Una formula molto adatta alle sue qualità espressive, già sperimentata dall’artista nel più antico Giuseppe e la moglie di Putifarre (Alessandro Turchi…. 1999, p. 32, fig. 36) e che troverà il suo esito più felice nel bellissimo Adone morente, forse l’opera più celebrata del Turchi. Ne è un documento prezioso anche lo splendido e ancora inedito Bacco e Arianna venduto in questa sede nel novembre 2017.

 

Stima   € 70.000 / 90.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

Bartolomeo Biscaino

(Genova 1632 – 1657)

TRIONFO DI DAVID

olio su tela, cm 120x188

 

THE TRIUMPH OF DAVID

oil on canvas, cm 120x188

 

Provenienza

Genova, Rubinacci Antichità; Genova, collezione privata

 

Bibliografia

M. Bonzi, Il Biscaino, Savona 1940, pp. 8 e 17, illustrato a p. 9; Rubinacci Antichità, Dipinti del XVII e XVIII secolo, catalogo della mostra, Genova s.d. (ma 1968), n. 7; C. Manzitti, Per Bartolomeo Biscaino, in “Paragone” 1971, 253, pp. 37-38, fig. 22; La pittura del ‘600 a Genova, a cura di P. Pagano e M. C. Galassi, Milano 1988, ill. tav. 85; F. Lamera, Miti allegorie e tematiche letterarie per la committenza privata, in E. Gavazza, F. Lamera, L, Magnani, La Pittura in Liguria. Il secondo Seicento, Genova 1990, p. 188 e fig. 231; F. Affronti, Biscaino e Castello. Due artisti a confronto, in “La Casana” s.d., p. 46; ill. a p. 45.

 

Reso noto per la prima volta da Mario Bonzi nella sua pionieristica ricognizione dell’artista genovese, il dipinto qui offerto è stato in breve riconosciuto un vero e proprio caposaldo della prima attività di Bartolomeo Biscaino, intorno al 1650. Un’attività così breve, considerando la sua giovane età all’ingresso nella bottega di Valerio Castello intorno al 1649, e la morte precoce nella peste del 1657, da rendere pressoché superflue ipotesi di datazione più precise.

Giustamente Bonzi richiamava i modelli di Pellegro Piola per le figure, plastiche nella loro arrotondata fisicità ma insieme stilizzate nella cifra della Maniera, che accompagnano la scena di trionfo, e riconosceva l’ascendente di Valerio Castello nei colori acidi e squillanti, anch’essi un retaggio del tardo Cinquecento tra Genova e Milano.

Rispetto al maestro, Biscaino mostra stesure maggiormente studiate che restituiscono alla ritmata scansione delle figure una cadenza più pacata oltre che la più marcata consistenza plastica a cui si è appena accennato. I volti mostrano poi la tipica dolcezza che caratterizza sia il suo corpus pittorico che quello di disegni e incisioni.

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
9

Donato Mascagni, poi frate Arsenio

(Firenze, 1579 – Firenze, 10 marzo 1637)

GIOBBE SUL LETAMAIO

olio su tela, cm 117x236

 

JOB ON THE DUNGHILL

oil on canvas, cm 117x236

 

 

Il soggetto, piuttosto raro nella storia dell’arte, raffigura un episodio dell’Antico Testamento tratto dal Libro di Giobbe. Giobbe, uomo integro e timorato di Dio, onorato di numerosa famiglia, greggi e beni, è messo alla prova e portato alla rovina. Dopo aver subito la perdita di tutte le proprietà e dei suoi stessi figli, accetta umilmente la propria sorte, senza imprecare contro il Signore. Satana lo tenta nuovamente, colpendolo con una malattia purulenta, una sorta di lebbra, dalla punta dei piedi alla cima del capo.

La scena ritratta riguarda i versetti 2, 7-12. Giobbe, seduto sul letamaio (il testo biblico parla in verità di cenere), cerca di sopportare la propria condizione, mentre la moglie lo schernisce: “Rimani ancora fermo nella tua probità? Impreca a Dio e muori!”. Tre amici, raffigurati sulla sinistra, vengono frattanto a fargli visita, per compiangerlo e consolarlo. Tra questi e Giobbe seguiranno discorsi e dispute, sfoghi e domande rivolte al Creatore, fino all’intervento divino, a conclusione della prova, che reintegrerà Giobbe nella sua fortuna. Il disegno del Signore è imperscrutabile, e il dolore va accolto umilmente, al pari del bene, e con paziente sopportazione: questo il senso del testo sacro e il monito che il dipinto comunica. Giobbe incarnando un ideale di suprema pazienza, china il capo al volere divino e si conferma uomo pio e giusto.

L’opera è da ricondursi su base stilistica alla mano del pittore fiorentino Donato Mascagni (c. 1570 - 1637). Formatosi presso la bottega di Jacopo Ligozzi, ove fu posto da fanciullo, collaborò alla decorazione della Tribuna degli Uffizi (1584) e agli incarichi per l’ingresso in Firenze della granduchessa Cristina di Lorena (1588-89), oltre che alla pittura dei quadroni in lavagna del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio raffiguranti l’Ambasceria di Bonifacio VIII e l’Incoronazione di Cosimo I granduca di Toscana. Al 1593 risale l’iscrizione all’iscrizione all’Accademia del Disegno, che contraddistingue l’avvio di una autonoma attività artistica. Il primo incarico di rilievo a lui affidato riguarda l’esecuzione dei dipinti per il monastero camaldolese di Volterra, commissionatigli tra il 1595 ed il 1599 dall’abate Crisostomo Ticci. Questi includono il ciclo di affreschi con storie di santi del refettorio, che ospitava anche la grande tela con le Nozze di Cana adesso ubicata nella sala del consiglio comunale; la Natività della Vergine del 1599, oggi presso la Pinacoteca di Volterra; e un Giobbe sul letamaio, datato 1595, ricordato da Filippo Baldinucci e dal Cinci come “un miracolo dell’arte”. Il dipinto, attualmente conservato presso il Palazzo dei Priori, fu eseguito per il quartiere dell’abate Ticci.

La presente tela si dimostra significativamente vicina a questa importante opera, nella scelta compositiva e stilistica. I personaggi e la scena ritratti sono gli stessi, con la differenza che a Volterra la scena si allarga sulla destra a raffigurare la rovina di Giobbe, e qui due astanti. Analoga la fisionomia e l’incedere incalzante della moglie, che richiama i tipi del Ligozzi, mentre diversa è la posa del protagonista, che nel nostro dipinto stringe le braccia e i pugni nello sforzo di sostenere il dolore e di accettarlo, un gesto inconsueto che Mascagni rappresentò anche in un’altra sua opera, la celebre Storia del conte Ugolino. I caratteri dello stile sono tipici dell’artista, con il disegno un po’ geometrizzante delle vesti, la tavolozza squillante dei rossi e dei gialli, i toni del violetto.

Rispetto al dipinto volterrano di analogo soggetto il nuovo quadro appare più maturo, per l’emergere di un gusto neomanierista, più sintetico e concentrato sulla rappresentazione dei protagonisti, rispetto ai modi più descrittivi dell’opera destinata all’abate Ticci.

Il percorso dell’artista, del tutto originale e per certi versi “contrario ai tempi”, sarà proprio contraddistinto dalla evoluzione verso una pittura “anti-naturalistica” e protocinquecentesca, dal disegno schematizzante e dalle accese gamme cromatiche.

Il dipinto è da ricondursi ad una committenza illustre, dichiarata dallo stemma effigiato al centro dell’opera.

Evidente è la connotazione fortemente religiosa dell’opera, che non lascia dubbi circa l’impegno e la devozione di chi lo richiese. Profilo che contraddistinse lo stesso artista, che successivamente alle frequentazioni camaldolesi, a Volterra e a Firenze (qui affrescò nel 1600 alcune lunette presso il monastero di Santa Maria degli Angeli) maturò una vera e propria vocazione, al punto che nel 1605 pronunziò i voti presso la chiesa fiorentina della Santissima Annunziata, ritirandosi a vita eremitica come servita presso il convento di Monte Senario. Divenendo frate non abbandonò la professione, che riprese e mantenne, a gloria della sua stessa congregazione. Proprio alla Santissima Annunziata subentrò a Bernardino Poccetti attorno al 1612 nella dipintura del chiostro, e realizzò varie numerose altre opere, fino alla chiamata in Austria, dove riscosse uno straordinario successo, come pittore dei principi vescovi di Salisburgo. Qui decorò la residenza di Hellbrunn (1616-1619) e il Duomo cittadino, sviluppando una pittura in chiaro fortemente visionaria e di grande eleganza, di gusto tardo manierista. Rientrato definitivamente a Firenze attorno al 1630, vi morì nel 1637.

Personalità singolare ed intrigante, per i percorsi di vita e per la duplice vocazione professionale e religiosa, Donato Mascagni è un artista di qualità, la cui indagine può ancora riservare interessanti scoperte.

 

Lucilla Conigliello

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
27

Giovanni Andrea De Ferrari

(Genova, 1589 circa – 1669 circa)

REBECCA AL POZZO

olio su tela, cm 188x238

 

REBECCA AT THE WELL

oil on canvas, cm 188x238

 

Provenienza

Genova, collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

G. V. Castelnovi, La pittura nella prima metà del Seicento: dall’Ansaldo a Orazio De Ferrari, in La pittura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, Genova1971, ed. consultata Genova 1987, II, pp. 90-96; F. R. Pesenti, La pittura in Liguria. Artisti del primo Seicento, Genova 1986, pp. 307-369; A. Acordon in Genova nell’Età Barocca, catalogo della mostra di Genova a cura di E. Gavazza, G. Rotondi Terminiello, Bologna 1992, pp. 157-163.

 

Inedita alla letteratura artistica e al mercato, questa grande tela rivela l’uso personalissimo della materia pittorica a cui giunge in età matura Giovanni Andrea De Ferrari, apostrofato da Roberto Longhi come “l’ignaro Velasco di Genova” per le assonanze, successivamente notate da molti, con la pittura spagnola di Velasquez e di Murillo (R. Longhi, Gentileschi padre e figlia, in “L’Arte” 1916, pp. 245-314).

Giovanni Andrea aveva iniziato il suo apprendistato con Bernardo Castello per poi entrare nella bottega di Bernardo Strozzi, pittore a cui le sue prime prove note sono senza dubbio debitrici.

Dopo una serie di pale d’altare e dipinti da stanza realizzati a partire dagli anni Trenta, datati e documentati, dove forte si avverte la vicinanza al collega genovese Domenico Fiasella, nella sua opera inizia a splendere soprattutto la lezione di Van Dyck, ravvisabile nella morbidezza e graduazione dei passaggi e delle penombre.

Le sue figure emergono dalla sottile preparazione della tela attraverso diafane velature di colore su colore, che ne restituiscono la particolare delicatezza e una sorta di effetto vibrato dato dalla riflessione della luce sulle differenti stesure.

Di grande suggestione risultano essere soprattutto gli incarnati dei volti, come è possibile notare anche nella tela qui offerta, caratterizzati anche da una particolare espressività, resa ancor più evocativa proprio grazie alla tessitura sottile della trama coloristica. Analogamente identificative dei modi dell’artista genovese sono le liquide pennellate che movimentano le vesti, quasi sempre dalle tonalità calde, quali il rosso spento dell’abito della nostra Rebecca o i bruni aranciati e i bianchi ribassati di quelli delle sue ancelle e di Eleazaro a cui sta offrendo da bere.

Il soggetto, tratto dall’Antico Testamento, a cui si rifanno moltissime delle storie messe dal De Ferrari in pittura, incontrò grande fortuna in età controriformata, alla luce del significato di prefigurazione del Nuovo Testamento di cui vengono rivestiti alcuni importanti episodi veterotestamentari e, in ambito genovese, per il culto rivolto alla Vergine, proclamata ufficialmente protettrice di Genova nel 1637 e rivestita di insegne regali: Rebecca - e così Sara (moglie di Abramo) e Rachele - diventa infatti oggetto di venerazione in quanto, come Maria, prescelta dal Signore per portare in grembo importanti eredi.

Le liquide e frante pennellate accostano questa importante versione della Rebecca al pozzo alle opere appartenenti all’ultima fase del pittore - quali il Giuseppe rifiuta i doni dei fratelli, di collezione privata genovese, ma ampiamente pubblicata nella letteratura di settore, o La famiglia di Giacobbe conservata presso la pinacoteca dell’ Accademia Ligustica di Genova - dove si assiste a un progressivo disfacimento della materia pittorica e a un costruire le forme grazie al raffinatissimo impasto di luce e colore oltre che alla predilezione per il formato orizzontale, maggiormente adatto alla contenuta teatralità delle sue scene sacre dove spesso è in grado di inserire brani di sapore velasqueziani.

 

Stima   € 100.000 / 150.000
11

Guglielmo Courtois, il Borgognone

(Saint-Hippolyte, 1628 – Roma, 1679)

ENEA E LA SIBILLA CUMANA SULLE RIVE DELLO STIGE

olio su tela, cm 51,5x67

 

AENEAS AND THE CUMEAN SYBIL ON THE BANKS OF THE RIVER STYX

oil on canvas, cm 51,5x67

 

Provenienza

Germania, collezione privata; Londra, Whitfield Fine Arts

 

Attribuito oralmente a Guglielmo Courtois da Erich Schleier e poi da Simonetta Prosperi Valenti in una comunicazione scritta alla proprietà, questo inedito e raffinato dipinto propone un soggetto davvero inconsueto nella pittura seicentesca, il viaggio di Enea agli Inferi narrato da Virgilio nel sesto libro dell’Eneide (VI, v. 123 e ss.). La scena raffigura più esattamente il prologo a quel viaggio, il momento cioè in cui l’eroe troiano, guidato dalla Sibilla che gli ha rivelato il modo di accedere all’Oltretomba, attende sulle rive dello Stige la barca di Caronte che lo traghetterà, unico vivente, nel regno di Ade: lì Enea incontrerà le ombre dei defunti e, motivo primo del poema, avrà visione anticipata della propria discendenza fino alla dinastia giulio-claudia. Come disposto, egli reca in mano il ramo d’oro da offrire in dono a Proserpina, ed è questo uno degli elementi (l’altro è la figura di Cerbero sullo sfondo) che consente di identificare con sicurezza la scena raffigurata.

Contrariamente a quanto descritto nel poema virgiliano, la scena è ambientata in un ameno paesaggio boscoso concluso sullo sfondo da archi rocciosi: una citazione, come indica Simonetta Prosperi, dell’affresco del I secolo rinvenuto a Roma nel 1627 in occasione dei lavori di sterro per la costruzione di palazzo Barberini, noto alla cerchia degli eruditi seicenteschi come “Ninfeo Barberini”. Distrutto non molto tempo dopo il suo ritrovamento, è documentato da incisioni eseguite nella dotta cerchia di Cassiano dal Pozzo, e da un disegno di Claude Lorrain, forse tratto da una di esse: insieme alla rarità del soggetto, quest’ultimo elemento suggerisce per il nostro dipinto una committenza colta e sofisticata, forse rintracciabile nella cerchia della famiglia Pamphilj, che appunto a Enea faceva risalire la propria ascendenza mitica, e per la quale l’artista borgognone fu attivo fin dai primi anni Cinquanta.

Soggetti tratti dal poema virgiliano furono comunque raffigurati da Courtois con soluzioni compositive non troppo diverse dalla nostra se pure meno originali: ci riferiamo ai due dipinti già a Roma nella collezione di Fabrizio e Fiammetta Lemme (Venere dona le armi a Enea; Enea e Didone sorpresi dalla tempesta; cfr. S. Prosperi Valenti Rodinò, in Il Seicento e Settecento romano nella collezione Lemme. Catalogo della mostra, Roma 1998, pp. 130-31, nn. 45-46). Come i dipinti citati, anche il nostro certifica la capacità raggiunta da Guglielmo Cortese nella pittura di paesaggio, probabilmente in virtù della stretta frequentazione di Gaspar Dughet, con cui collaborò e comunque fu in contatto nei primi anni Cinquanta, ancora una volta per i Pamphilj.

 

 

 

Stima   € 25.000 / 30.000
30

Jacopo Fabris

(Venezia, 1689 – Charlottenborg, 1761)

VEDUTA IDEATA CON L’ARCO DI GIANO

olio su tela, cm 73x99

 

VIEW WITH THE ARCH OF JANUS

oil on canvas, cm 73,99

 

Il dipinto qui offerto riunisce, quasi in un capriccio di rovine, monumenti diversi nell’area del Velabro alle pendici del Palatino. Elemento principale è l’arco quadrifronte detto di Giano, che la collegava al Foro Boario segnandone il limite; è raffigurato completo della copertura in laterizi demolita nell’Ottocento ma documentata da vedute incise o dipinte. A sinistra, il portico della chiesa di San Giorgio al Velabro, mentre resta invisibile l’arco degli Argentari, sullo stesso lato. Di invenzione è invece il lato destro della veduta, con la facciata di una chiesa che forse richiama la non lontana Santa Maria della Consolazione.

La stessa zona è protagonista di una veduta dominata invece dall’arco degli Argentari, firmata per esteso da Jacopo Fabris e completata, come tutte le tele dell’artista veneziano, da “macchiette” nel gusto di Bernardo Canal e molto vicine alle nostre. Analoghe caratteristiche ritornano nella veduta del Foro Romano con il tempio di Antonino e Faustina, il tempio detto di Romolo e la torre delle Milizie, anch’essa firmata per esteso (cfr. R. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, Milano 1996, II, fig. 456), probabilmente il suo capolavoro. Derivata da un’incisione di Aegidius Sadeler, altre volte ripresa da artisti nordici, la veduta citata è, come la nostra, esemplificativa dei metodi di lavoro di Jacopo Fabris, vedutista veneziano e autore di scenografie per corti nord-europee, che probabilmente non visitò mai Roma.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
46

Johann Heinrich Schmidt

(Ottweiler 1740 o 1757-Darmstadt 1821 o 1828)

SAFFO CHE SI GETTA DALLA RUPE DI LEUCADE

olio su tela, cm 100x123,5

firmato e datato “H. Schmidt 1811” in basso a sinistra 

 

SAPPHO JUMPING FROM THE LEUCADE CLIFF

oil on canvas, cm 100x123,5

signed and dated "H. Schmidt 1811" lower left

 

 

Sebbene la letteratura artistica riporti date diverse per quanto riguarda gli estremi biografici del pittore, tutti gli autori concordano nel ricordare la sua presenza a Roma, documentata nel 1787 e accertata dagli “Stati d’Anime” nei primi anni Novanta. Nel 1811 l’artista tedesco risulta presente a Napoli dove lavorerà fino al 1814 per la corte di Gioacchino Murat, di cui in quell’anno dipinge il ritratto, ricevendo commissioni anche per la reggia di Caserta; ne resta forse memoria in un dipinto ora a Parigi, Musée Marmottan, rievocante la conquista di Capri nel 1808.

Ancora più copiosa la sua produzione per committenti privati, tra cui il principe di Fondi e Giovanni Andrea de Marinis. A questo secondo aspetto della sua attività appartiene il dipinto qui offerto. La data del 1811 e il soggetto inconsueto suggeriscono trattarsi della tela ispirata a un testo di Alessandro Verri pubblicato a Roma nel 1791 e dedicato appunto alla poetessa che, secondo quanto riporta il “Monitore delle Due Sicilie” dell’8 agosto 1811, il pittore aveva esposto al pubblico nel proprio studio, riscuotendo giudizi diversi e non sempre favorevoli. Lo stesso Schmidt intervenne infatti sulle pagine della stessa rivista (12 settembre 1811) per rispondere ai suoi detrattori, secondo quanto ricostruito da Ornella Scognamiglio (Le riviste napoletane nel decennio francese. In Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’800 e 900. Atti del Colloquio, 2006. Milano, 2007, pp. 13-16).

Considerato perduto da quanti si sono occupati dell’artista tedesco (vedi anche Ingrid Settel Bernardini, Johann Heinrich Schmidt, gennant Fornaro (1757-1828) in Rom und Neapel, in “Kunst in Hessen und am Mittelrhein” 2008, pp. 53-68, in particolare pp. 60-61) il dipinto riemerge oggi in maniera imprevista da una raccolta privata milanese.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
13

Luca Giordano

(Napoli, 1634 – 1705)

VENERE NELLA FUCINA DI VULCANO

olio su tela, cm 119x175

 

VENUS AT THE FORGE OF VULCAN

oil on canvas, cm 119x175

 

Inedito e non replicato, il dipinto qui offerto propone un tema decisamente inconsueto nella ricchissima produzione di Luca Giordano. Trova infatti riscontro – e solo parzialmente – nel dipinto già presso Marco Voena esposto a Napoli in occasione della monografica dedicata all’artista nel 2001 (cfr. Luca Giordano 1634 – 1705. Catalogo della mostra, Napoli 2001, pp. 134-35, n. 29) e in quello, già noto, nella Galleria Nazionale di Dublino, dalla collezione Denis Mahon (O. Ferrari – G. Scavizzi, Luca Giordano, Napoli 1992, I, A 90; II, fig. 163) peraltro simile al nostro anche nelle dimensioni. Le tele citate differiscono tuttavia dalla nostra versione sotto il profilo strettamente iconografico: entrambe presentano infatti in primo piano gli amori di Venere e Marte cui fa da sfondo la fucina di Vulcano, mentre la nostra versione, in cui la dea richiede con gesto imperioso le armi per Enea, appare più aderente al testo virgiliano e costituisce, probabilmente, una più antica redazione del tema.

Vicine alla nostra sotto il profilo stilistico e nel sapiente recupero di stilemi neo-veneti e rubensiani, le tele citate restano ancora di incerta datazione, sebbene comunque posteriori ai primi anni Sessanta. Interessante, a questo proposito, osservare come la nostra versione sia stata eseguita su una tela tramata a spina di pesce, generalmente in uso a Venezia, un dato che suggerirebbe di agganciare il nostro dipinto a uno dei soggiorni veneziani di Luca Giordano, e forse all’unico documentato nella primavera-estate del 1664.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
23

Luca Giordano

(Napoli 1634-1705)

PRESENTAZIONE DELLA VERGINE AL TEMPIO

olio su tela, cm 106,6x134,6

 

THE PRESENTATION OF THE VIRGIN

oil on canvas, cm 106,6X134,6

 

Provenienza

Londra, Christie’s, 5 luglio 1985, n. 72; Londra, Christie’s, 26 ottobre 1990;

Napoli, collezione privata.

 

Bibliografia

O. Ferrari – G. Scavizzi, Luca Giordano. Nuove ricerche e inediti, Napoli 2003, p. 82, AO 224; ill. p. 108; M. Hermoso Cuesta, Las Pinturas de Lucas Jordàn en las colecciones españolas. Ph. D. Diss., Ann Arbor (MI), 2007, III, pp. 1483-84, P 271.

 

Databile negli anni del soggiorno di Luca Giordano alla corte di Madrid a partire dal 1692, il dipinto qui offerto è senza dubbio il bozzetto relativo a un’opera oggi non identificata o forse non realizzata, se non variata in corso d’esecuzione.

Numerose sono del resto le tele dedicate dall’artista napoletano alla vita della Vergine, in particolare durante il periodo spagnolo. Tra queste, l’importante ciclo probabilmente eseguito nel 1696-97 per Mariana d’Austria e documentato a Vienna nella collezione dell’imperatore Carlo VI nel 1716, ora al Kunsthistorisches Museum. In quella serie di grandi dimensioni e di formato verticale, la scena della Presentazione al Tempio (a cui si riferisce un disegno al museo del Prado) è in controparte rispetto alla nostra e, come le altre, immaginata dal basso, con le figure in primo piano disposte lungo la scalinata secondo il modello della pittura veneziana. Più vicina alla nostra, sebbene in formato verticale, una tela di uguale soggetto in collezione privata a Roma (O. Ferrari – G. Scavizzi, Luca Giordano, Napoli 1992, I, A 585; II, p. 777, fig. 741) ripete in parte le nostre figure in una composizione più serrata.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
1 - 30  di 49