Capolavori da collezioni italiane

31 OTTOBRE 2018

Capolavori da collezioni italiane

Asta, 0272
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 18:00
Esposizione
FIRENZE
26-30 ottobre 2018
orario 10–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   10000 € - 500000 €

Tutte le categorie

1 - 14  di 14
2

ASSORTIMENTO DI PIATTI DAL SERVIZIO DELLE VEDUTE DEL REGNO, DETTO DELL'OCA, NAPOLI, REAL FABBRICA FERDINANDEA, 1793-1795

Un piatto da portata con Veduta delle Coste di Pozzuoli. Sul retro reca il titolo delineato in rosso sovracoperta e marca N coronata in blu sottocoperta; diametro cm 42.

Due piatti da portata con veduta di: Monistero de Certosini e Castello di S. Elmo; Veduta della Villa Reale. Entrambi recano il titolo delineato in rosso sovracoperta, la marca “N coronata” in blu sottocoperta; diametro cm 30,2.

Quattro piatti da coltello con veduta di: Golfo di Mesina, delineato in rosso sovracoperta, privo di marca; Strada che conduce a Ponti – Rossi, delineato in rosso sovracoperta, “N coronata” sottocoperta e crocetta incisa nella pasta; Tempio di Pesto, delineato in rosso sovracoperta “N coronata” sottocoperta; Veduta della Costa di Posillipo delineato in rosso sovracoperta “N coronata” in blu sottocoperta, diametro cm 24

 

L’assortimento di piatti di porcellana mostra un decoro con vedute comprese in un medaglione centrale e circondate, sulla tesa, da ghirlande fiorite e da una bordura filettata in blu e rosso. La porcellana è tenera e mostra alcuni segni e qualche sofferenza d’uso: crettature, sbecchi e sottili felature. L’oro non sempre in perfetto stato di conservazione su tutti gli esemplari, mentre è inalterata la freschezza delle vedute al centro della composizione. Da segnalare alcuni dettagli visibili nei decori secondari realizzati in manifattura, quali la mancanza di alcune bacche nella ghirlanda del piatto con Veduta del Golfo di Messina, che inoltre mostra la veduta principale disassata rispetto alla scritta posteriore.

Il Servizio delle Vedute del Regno è considerato la massima espressione del genere “a vedute” della produzione della corte borbonica della fine del XVIII secolo. Al servizio fu erroneamente assegnato il titolo di Servizio dell’Oca, derivando la denominazione dalla forma della presa dei coperchi di alcune zuppiere, ove è raffigurato un bimbo che strozza un’oca (vedi fig. 1). L’immagine con Fanciullo che scherza con un cigno è in realtà accompagnata su altri coperchi dalla raffigurazione dell’Allegoria del Tempo, con un bimbo intento a coprirsi il volto con un’immagine di Sileno. Entrambe le figurine sono ispirate da copie romane di statue ellenistiche, oggi conservate nei Musei Capitolini a Roma.

Ciascun pezzo reca l’immagine di una diversa veduta del Regno: i monumenti, i siti archeologici e le bellezze naturali del Regno di Napoli, dall’Abruzzo alla Sicilia, sono raffigurati con eccezionale capacità pittorica e miniaturistica con l’intento propagandistico di mostrare agli ospiti della corte la magnificenza del Regno stesso.

I pezzi del servizio, ove marcati, recano la N coronata in blu.

La maggior parte del servizio è oggi conservata nel Museo Capodimonte (vedi fig. 2), mentre sono molto pochi i pezzi di questo servizio oggi in mani private (1).

In uno studio sistematico della documentazione di Corte, Angela Caròla Perrotti (2) ricostruisce la storia di questa commessa attraverso la fitta corrispondenza tra  il Vedore del Reale Ramaglietto, Luigi Perschie, per conto di Ferdinando IV, re delle Due Sicilie e poi re di Spagna (1751-1825), e il maggiordomo Maggiore, il Principe Di Belmonte Pignatelli, dalla quale si desume che ancora nel 1792 in occasione dei banchetti si chiedevano in prestito piatti della Real Fabbrica per sostituire il servizio esistente ormai ridotto ...Che avanzi dei piatti netti e spari e in mal ordine, ricordando che da quattro anni e lassi il Re domanda che venga fornito dalla fabbrica un servigio completo da servirlo allorchè S.M. pranza in pubblico. La lettera costituirebbe un importante terminus post quem, indicando per il servizio un inizio di datazione attorno al 1793: anche l’adozione della marca con la N coronata denota comunque una produzione posteriore alla messa a punto nella manifattura di pezzi di porcellana in pasta tenera (3).

Già sappiamo di ordinativi antecedenti da parte del Re di alcuni servizi elaborati in stile neoclassico, che presentava come doni: si ricordano in particolare il Servizio Etrusco (1785-87) per il re Giorgio III, tuttora conservato a Windsor, e il servizio di Ercolano (1782) per lo stesso Carlo III di Borbone.

Il servizio ora richiesto a Venuti si distaccava però dal gusto di quelli precedenti: lo stile neoclassico, spesso basato su forme e reperti di antichità classica, supera decisamente il rococò delle produzioni passate e l’opera che ne emerge è colta e ricercata e ha chiaramente l’intento di sottolineare visivamente lo splendore del Regno sotto Ferdinando IV, paragonando le ricchezze della corte attuale con le ricchezze dell’Antichità. Questa prospettiva veniva a combaciare pienamente con le direttive e l’impronta artistica che il Marchese Domenico Venturi aveva dato alla manifattura fin dalla sua nomina a direttore nel 1779 (4).

Il servizio “a vedute obbligate” (5) progettato da Venuti raffigura viste dettagliate di Napoli e delle aree circostanti del Regno, nonché immagini di famosi siti archeologici come Ercolano (1738) e Pompei (1740), scoperti durante il regno di Carlo III, e prende avvio da alcuni prototipi già predisposti per il servizio farnesiano nel 1785, anche se quelli erano ispirati nella totalità all’opera coeva dell’Abbé de Saint-Non (6).

Buona parte delle miniature del nuovo servizio sono tratte da incisioni di Cardon, dell’Hamilton e dell’Abbé de Saint-Non, nonché da disegni di Antonio Joli e Philipp Hackert. L’artefice delle miniature è in gran parte Giacomo Milani, direttore del laboratorio di pittura tra il 1790 ed il 1797, che oltre a riprodurre i paesaggi dalle fonti fu egli stesso autore di alcuni scorci (7). Oltre a queste immagini ben conosciute, ci sono anche molte scene dipinte dal vero dai pittori Berotti e Santucci durante il loro lavoro per il Servizio delle Vestiture del Regno.

Di grande importanza anche lo studio, a cura della stessa Angela Caròla-Perrotti, degli straordinari dessert a complemento del dipinto in miniatura sulla porcellana a opera del modellatore Filippo Tagliolini. Lo schema del dessert era assai complesso e prevedeva un dialogo serrato tra le bellezze delle vedute raffigurate nei piatti e le fedeli riproduzioni di statue dall’antico, filosofi, muse, divinità dell’Olimpo da porre al centro della tavola per un numero complessivo di 114 bisquit. Angela Caròla-Perrotti ritiene tuttavia che il dessert non fosse stato concepito appositamente per il Servizio delle Vedute del Regno bensì per quello precedentemente ordinato come replica del Servizio Ercolanese, disdetto in occasione del nuovo progetto, e ritiene che i modelli precedenti siano stati poi ampliati dal Tagliolini con nuove immagini, anche grazie alla creazione di una scuola proprio all’interno della manifattura. La formazione prevedeva l’invio degli artisti più dotati per copiare le opere archeologiche anche al di fuori dal Regno di Napoli: e ciò spiega la presenza di modelli di ispirazione non presenti nelle collezioni dei Borboni, tra le quali spiccano proprio le due immagini di fanciulli applicate ai coperchi delle zuppiere.

 

Bibliografia di confronto

A. Caròla Perrotti, La porcellana della Real Fabbrica Ferdinandea, Napoli 1978, pp. 158-160, nn. 135-139;

A. Caròla Perrotti, La porcellana dei Borbone di Napoli. Capodimonte e Real Fabbrica Ferdinandea 1743-1806, Napoli 1986, pp. 440-450, nn. 371-378;

Vedute di Napoli e della Campania nel “Servizio dell’Oca” del Museo di Capodimonte, Napoli 1995;

N. Spinosa (a cura di), Museo Nazionale di Capodimonte. Ceramiche, Napoli 2006, pp. 67-70;

A. Caròla-Perrotti, L’arte di imbandire la tavola e “il dessert per 60 coverti” dei Borbone di Napoli, Napoli 2010, p. 97

 

1) Il servizio è attualmente conservato nel museo di Capodimonte e annoverava ben 411 numeri di inventario. Da questo nucleo vennero tolti una zuppiera, un certo numero di piatti e alcune grandi tazze a bowl donati al costituendo Museo Artistico Industriale. Una parte di servizio è oggi conservato a Villa Cagnola Gazzada Varese (L. Melegatti in La collezione Cagnola. Le arti decorative, Varese 1999, p. 308, n. 374. Già citati in M.A. Mottola Molfino, L’arte della porcellana in Italia, II, Busto Arsizio 1977, fig. 280). Alcuni piatti sono recentemente transitati sul mercato (Bohnams, Londra 6 luglio 2010, lotti 72-75; Bohnams, Londra 7 dicembre 2017, lotto 90 due piatti).

2) A. Caròla Perrotti La porcellana della Real Fabbrica Ferdinandea, Napoli 1978, p.158

3) A. Caròla-Perrotti, L’arte di imbandire la tavola e “il dessert per 60 coverti” dei Borbone di Napoli, Napoli 2010, p. 97 nota 37.

4) Per approfondimenti si veda Vittore Cocchi Domenico Venuti e le porcellane di Capodimonte, Firenze 1982. Va sottolineato come Domenico Venuti, figlio di Marcello Venuti che aveva dato avvio agli scavi di Pompei al tempo di Carlo III, si dedicava contemporaneamente anche alla direzione Generale degli scavi del Regno.

5) Così definito in manifattura A. Caròla Perrotti in Nicola Spinosa (a cura di), Museo e Gallerie di Capodimonte, Napoli 2006 p. 70

6) Abbé de Saint-Non, Le Voyage Pittoresque, 1881-1885

7) A. Caròla Perrotti in Nicola Spinosa (a cura di), Museo e Gallerie di Capodimonte, Napoli 2006 p. 70

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
1

Bottega all'insegna del Trofeo, Venezia, secondo quarto secolo XVIII, argentiere probabilmente Andrea Fulici, saggiatore Zuanne Cottini

COPPIA DI CRATERI A CALICE

alt. cm 41,5; diam. cm 27, complessivi g 5830 (2)

 

I due crateri hanno le basi quadrate su cui poggiano i sostegni decorati a scanalature, il nodo decorato da foglie cesellate ed elementi a catena ed il sotto vaso ornato da baccellature. Ciascuno presenta due anse con le estremità realizzate come satiri con corone di edera sulla testa e la parte superiore ornata da foglie. Il corpo è decorato a sbalzo da cortei dionisiaci.

Nel primo vaso, sotto ad un tralcio di vite, è rappresentato l'incontro a Nasso fra Arianna e Dioniso. Il Dio è raffigurato nel mezzo del corteggio dionisiaco con menadi, satiri, pantere, armati e una figura femminile che suona una lira (Musa Tersicore?).

Nel secondo vaso, sempre sotto ad un tralcio di vite, si trova un'altra raffigurazione di un corteggio dionisiaco con satiri, menadi e pantere cui si associano altre figure mitologiche. In particolare un' Atena armata, un'Artemide che, come consueto, tiene in mano un capretto ed eccezionalmente tiene nella mano sinistra un vaso di frutta. Seguono tre figure femminili di cui due potrebbero essere identificate con Demetra e Persefone. Quest'ultima solleva con la mano un lembo del velo. Compare anche in questo caso una figura femminile che suona una lira (Musa Tersicore?).

Entrambi i vasi hanno una bordura profilata da una collana di elementi ovoidali e baccellati.

Oltre alla punzonatura veneziana del Settecento, i vasi recano il punzone di ingresso in Olanda, presente sulle opere in argento di manifattura estera, usato dal 1814 al 1953.

Le due opere, per forma e decorazione, riprendono i modelli dei vasi a cratere in marmo del periodo neoattico. Nella forma il riferimento più maestoso è senza dubbio il Vaso Medici, ma un altro grandioso riferimento è, senza dubbio, il Vaso Borghese in cui ritornano sia la forma del cratere che la decorazione con fregio di Menadi, figure mitologiche e pantere atte a danzare in un corteo dionisiaco.

I due mirabili vasi marmorei sopra citati sono esempi dell’arte scultorea neoattica (II a.C./II d.C.), un'arte simbolo del gusto della ricca clientela romana fra il II secolo a.C. e il II secolo d.C.

Oggi sono conservati rispettivamente alla Galleria degli Uffizi e al Museo del Louvre.

Il Vaso Medici, rinvenuto nel Cinquecento in mille pezzi sul colle romano dell’Esquilino, fu acquistato dai Medici per la loro villa romana alla fine del Cinquecento e giunse alla Galleria degli Uffizi nel 1780. Il fregio che decora l'elegante vaso narra una scena mitologica, probabilmente il convegno degli Achei a Delfi alla vigilia della guerra di Troia.

L’ammirazione per questa opera fece sì che, nel corso del Seicento e del Settecento, il dialogo con l’antico prendesse forma in numerose copie nei più vari materiali, dal marmo al bronzo. Il vaso fu riprodotto in numerose stampe e disegni che circolarono in tutta Europa e divennero, così, modelli da imitare secondo il gusto per l’aureo periodo dell’Impero romano. Fra i disegni più noti in questo senso dobbiamo citare quello di Stefano della Bella, Il Vaso Medici con Cosimo III, del 1656 (FIG. 1).

Il Vaso Borghese fu, a sua volta, modello significativo per gli argentieri che realizzarono i due crateri oggi proposti in asta. La forma a cratere ed i soggetti decorativi emulano il vaso oggi al Louvre: dal tralcio di viti sotto cui danzano i Satiri e le eleganti e sinuose Menadi a seguito di possenti e forti figure mitologiche, al sottovaso baccellato, fino ai satiri con corone di edera che trattengono le anse, tutto ci parla nei due vasi in argento di un gusto che guardò alla grande cultura dell’antica Roma. Anche per il vaso Borghese numerose furono infatti le riproduzioni create dal Cinquecento in poi, in vari materiali, secondo un unico filo di continuità che doveva tracciarsi fra la cultura antica e quella moderna.

Dunque possiamo asserire che la coppia di crateri in argento, proposta nell'asta di Capolavori da collezioni italiane, sia una delle tante manifestazioni di un gusto, diffuso in tutta Europa, indirizzato verso l’antico e verso quell’arte simbolo di un’epoca di splendore culturale e politico.

 

Provenienza

Collezione privata

                                                                          

Bibliografia di confronto:

P. Pazzi, I punzoni dell'argenteria veneta, Tomo I Venezia e Dogado, 1992, p. 138, n. 420, p. 145, n. 452

I Borghese e l'antico, catalogo della mostra, a cura di A. Coliva; M.L. Fabréga-Dubert; J.L. Martinez; M. Minozzi, 7 dicembre 2011-9 aprile 2012, Roma Galleria Borghese, Milano, dicembre 2011

Stima   € 30.000 / 40.000
9
COPPIA DI TORCERE MONUMENTALI, LONDRA, 1830 CIRCA
in bronzo dorato, pedana di forma triangolare sagomata sulla quale poggiano tre zampe ferine alate a sorreggere il sostegno tripode, ornato agli angoli da maschere leonine con lunghe corna di montone e cesellato ai lati a motivi vegetali ricorrenti, sul quale poggia la base, realizzata in foggia di grandi foglie di acanto che si aprono con andamento svasato verso il basso e strette in alto da un nodo ornato a baccellature; da qui si diparte il fusto rastremato e percorso da scanalature, scolpito alla base da lunghe foglie rivolte verso l’alto cui segue una fascia cesellata a fogliette lanceolate sovrapposte e ricorrenti e culminante in un capitello a lunghe foglie lanceolate; sullo stretto nodo sostenuto dal capitello poggia un piattello inciso a baccellature posto a sostenere un vaso a foglie di acanto svasate, dal quale si elevano quattordici bracci realizzati in foggia di volute e ornati da ramages vegetali disposti su due ordini a inquadrare un braccio centrale; cm 250x62x62
Provenienza:Livorno, Palazzo Larderel;Firenze, Collezione privata
Questa imponente coppia di torcere trova numerosi confronti nella produzione inglese del periodo Regency, momento nel quale si assiste a una vera e propria riscoperta degli esemplari antichi, spesso impiegati come modelli e come fonte di ispirazione per la produzione dell'epoca. In particolare, mentre in Francia spetta agli architetti Charles Percier e Pierre François Léonard Fontaine il merito di ravvivare, nel loro Recueil de Décorations Intérieures del 1801, l’interesse nei confronti delle forme dell’antica Roma, in Inghilterra nel 1814 Moses pubblica il repertorio Vases, Altars, Paterae, Tripods, Candelabra, Sarcophagi dove i modelli antichi, in molti casi marmi esposti al Louvre, sono studiati e illustrati. Ed è proprio questo il punto di partenza per una produzione proficua e ricca di successo le cui testimonianze sono ancora presenti in alcuni esemplari giunti fino a noi, confrontabili con le torcere proposte in questa sede. In particolare, è con la produzione di William Collins che le nostre torcere trovano precisi riscontri, tanto nell’impianto quanto nella scelta dei motivi decorativi. Attivo a Londra negli anni tra il 1808 e il 1852, Collins ebbe tra i suoi committenti più importanti il terzo Duca di Northumberland per il quale, dal 1822 al 1839, fornì tutta l'illuminazione, in bronzo sia dorato sia patinato, inclusi “5 Altar Pedestals with 5 Lamps for Grand Staircase” citati in una fattura del 23 marzo 1823 (C. Sykes, Private Palaces Life in the Great London Houses, New York 1986, p. 239) che condividono numerose caratteristiche con le nostre torcere. Un modello, questo, la cui produzione continuò anche nei decenni successivi al periodo Regency, dando vita anche a piccole variazioni come, e il nostro caso ne è un esempio, l’aggiunta dei bracci alle estremità superiori. 
Francesco Larderel (vedi foto 1) nacque a Vienne in Francia nel 1789 e si trasferì a Livorno in età napoleonica, dove era descritto negli almanacchi del 1814 come «chincagliere». Nel successivo quindicennio, sfruttando le risorse geologiche dei lagoni del Volterrano, promosse e sviluppò l’industria dell’acido borico, accumulando un cospicuo patrimonio. Nel 1818 infatti, insieme con Ana Gurliè e Francesco Prat dà vita all’impresa dell’acido borico. I legami con la Francia, in una prima fase stretti e giocati tramite i nuclei franco-livornesi soprattutto nella zona di origine, e poi, in una seconda fase a Parigi, capitale del mondo finanziario francese, si intrecciano con gli interessi inglesi in Toscana e si consolidano con l’inserimento nella società toscana. Nel 1830 l’acquisto a Livorno di due lotti lungo la via dei Condotti Nuovi per costruire un palazzo di quattro piani (vedi foto 2), terminato nel 1832 con la spesa di ben 70.000 lire toscane, rappresenta il consapevole inizio di un’ascesa sociale, momento questo che gli aprì le porte del notabilato cittadino e fece della sua residenza un centro della vita sociale e mondana della città. Arricchito di arredi e di una collezione d’arte antica e moderna, il palazzo pose il Larderel nel novero dei mecenati e dei benefattori cittadini. A tal proposito il 15 giugno 1858, dopo aver avuto notizia della morte di Francesco de Larderel, i concittadini livornesi scrivevano: “In una città tutta commerci, com’è Livorno, bello è vedere la galleria de Larderel pregiata per i quadri e statue dei nostri antenati più reputati” e “se tutti sentissero della patria nostra come il Benemerito Cittadino Livornese che manteneva del proprio a Firenze e a Roma i giovani ingegni perché si educassero alle scuole del bello, che raccoglieva, se si guarda alla brevità del tempo, ricca e preziosa galleria con intendimento di renderla pubblica; le arti sarebbero maggiormente in fiore”. La collezione dei Larderel, sistemata nel palazzo di Livorno, divenne presto, una delle attrazioni cittadine da segnalare anche ai forestieri, tanto è vero che le guide turistiche dell’Ottocento e del Novecento la indicano come una delle cose più pregevoli da vedere. L’identificazione con la città è opera già compiuta nel 1874, quando Riccardo Marzocchini pubblica quattro fotografie dei “Salotti e Gallerie” del palazzo de Larderel (vedi foto 3) nel volume intitolato Album di vedute antiche e moderne di Livorno e dei suoi contorni. Il palazzo e la collezione rispecchiano la carriera sociale di Francesco de Larderel: del 1837 infatti è l’editto sovrano che gli permise di assumere e usare il titolo di conte di Montecerboli, la località nella quale aveva «eretto i grandiosi stabilimenti di sal borace», e non a caso nello stemma nobiliare risalta l’immagine dei soffioni e delle fabbriche (vedi foto 4). Fregiato di tale titolo, poi riconosciuto come ereditario, di quello di cavaliere di San Giuseppe, onorato dell’ingresso al casino dei nobili di Firenze e della nomina del figlio Enrico a regio ciambellano (1851), il Larderel poté accedere alla corte granducale, con la conseguente opportunità di stringere legami matrimoniali con famiglie di grande prestigio e antica nobiltà, come i Rucellai e i Salviati, infine anche con i Savoia (nel 1872 la nipote Bianca sposerà il figlio morganatico del re d’Italia, il conte di Mirafiori Emanuele Alberto)

Bibliografia di riferimento
L. Frattarelli Fischer, M.T. Lazzarini (a cura di), Palazzo de Larderel a Livorno. La rappresentazione di un’ascesa sociale nella Toscana dell’Ottocento, Milano 1992
Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
12
Gio Ponti
(Milano 1891-1972)
TAVOLINO DA CAFFÈ PER LA RESIDENZA CONTINI BONACOSSI, VILLA VITTORIA, FIRENZE, 1932
noce, ottone dorato
Alt. cm 56, diam. cm 79,4
Targhetta in bronzo Gio Ponti su una gamba Perizia rilasciata da Gio Ponti Archives n. 18144/000 in data 10/09/2018 

Opera corredata di attestato di libera circolazione.

Provenienza
Residenza Contini Bonacossi, Villa Vittoria, Firenze;
Collezione privata per discendenza diretta, Firenze

VILLA VITTORIA. GLI AMBIENTI ED IL LORO ARREDO
Enrico Colle

Alessandro Contini Bonacossi, nato ad Ancona nel 1878, aveva iniziato insieme alla moglie Vittoria Galli la sua attività di collezionista e mercante di dipinti e sculture soprattutto di scuola italiana nel corso del suo soggiorno in Spagna durato fino al 1918, allorché si trasferì con la famiglia a Roma. Durante quegli anni il Contini intraprese diversi viaggi negli Stati Uniti dove incontrò numerosi collezionisti con i quali egli, oltre a concludere vantaggiosi affari che gli permisero di incrementare notevolmente la propria collezione, strinse anche rapporti di amicizia. Ed è proprio dalla frequentazione delle case dei magnati newyorkesi e dalle relazioni instaurate con l’industriale e collezionista piemontese Riccardo Gualino, attento estimatore delle tendenze dell’arte e dell’architettura contemporanea, che i Contini maturarono un proprio gusto anche per l’arredamento.
Trasferitisi a Firenze, la struttura solenne e nello stesso tempo funzionale della villa fatta costruire nella seconda metà dell’800 dal Marchese Massimiliano Strozzi in quella parte della città allora conosciuta col nome di Valfonda, incontrò subito il consenso di Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi, che avevano intravvisto nell’edificio, di recente costruzione ma di nobili origini, il luogo ideale per trasferirvi la propria collezione. Le ampie sale con le austere decorazioni neo-cinquecentesche ben si adattavano ad accogliere i capolavori della pittura e della scultura italiana del Rinascimento e del Barocco che i Contini avevano acquistato, al pari degli oggetti d’arte e dei mobili, a partire dai primi anni del Novecento, così come l’ultimo piano della villa poteva essere razionalmente ristrutturato per ricavarvi una comoda ed elegante abitazione. Acquistata nel 1931 la villa, che d’ora in avanti porterà il nome di Villa Vittoria in onore della moglie del Contini, fu ben presto riarredata seguendo un preciso criterio museale: al piano terreno e al primo piano fu esposta la collezione dei maestri antichi, mentre al secondo piano, dove risiedevano i proprietari, furono collocate le opere degli artisti contemporanei. Negli anni in cui la famiglia si trasferì a Firenze, le collezioni private che riscuotevano maggior interesse erano quelle di Frederick Stibbert, di Herbert Horne, di Stefano Bardini e di Elia Volpi. Tutte queste raccolte, che si erano formate tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, avevano un comune denominatore nella fantasiosa e originale disposizione dei pezzi nelle sale, ricche di oggetti e di opere d’arte fino all’inverosimile. In controtendenza il solo Bernard Berenson, che nella sua villa ai Tatti aveva collocato pitture e oggetti d’arte lungo le pareti ad una giusta distanza, affinché non entrassero in relazione tra loro. E proprio l’abitazione di Berenson fu presa a modello dai Contini, con un’esposizione che inseriva il pezzo d’epoca in un ambiente più sobrio e suggestivo, che puntava più sulla rarefazione che non sull’accumulo. D’altronde durante gli anni venti si era venuta maturando presso gli architetti e gli arredatori italiani una tendenza che portava ad escludere sempre più gli oggetti d’antiquariato disposti con profusione nelle stanze, a favore invece di un arredamento più funzionale dove anche l’opera d’arte antica trovava una sua precisa collocazione.Accanto alla celebre collezione d’arte antica i Contini avevano anche iniziato ad acquistare opere di artisti contemporanei, che furono collocate all’ultimo piano della villa dove la famiglia risiedeva abitualmente, e per cui fu creato un apposito allestimento con arredi disegnati dagli architetti emergenti Gio Ponti e Tommaso Buzzi di Milano e il romano Giulio Rosso. L'appartamento, completato entro il 1932 o al più tardi nell’inverno dell'anno seguente, fu oggetto di un articolo apparso sulla rivista Domus del novembre 1933 dove, oltre a pubblicare diverse immagini delle stanze, si metteva in evidenza come gli architetti fossero riusciti ad inserire armonicamente le opere d’arte contemporanea e gli arredi moderni da loro disegnati in un “ambiente prettamente classico fiorentino". Si trattava infatti di creare un arredamento che fosse funzionale alle esigenze della vita quotidiana dei padroni di casa e che valorizzasse allo stesso tempo la collezione superba di dipinti e sculture d‘artisti moderni italiani. La scelta quindi di due architetti appartenenti alla corrente neoclassica milanese, che si inseriva nella tradizione artigianale lombarda che aveva avuto in Albertolli e Maggiolini i suoi due maggiori esponenti, sanciva una volta di più quella direzione univoca contro l'eclettismo di marca dannunziana e umbertina portata avanti dalla coppia Contini Bonacossi. Nei mobili progettati per la “Camera da letto della Signora" o per la "Quadreria moderna” Buzzi e Ponti ripresero alcune idee dai disegni per interni presentati ad un concorso bandito nel 1926 dalla Rivista illustrata del popolo d'ltalia che aveva per tema l'arredamento di un'ambasciata d'Italia. In quell’occasione, come più tardi nei mobili Contini, essi avevano saputo fondere con "arte delicata e con sicuro intuito" le decorazioni parietali con gli arredi, ricollegandosi “alla tradizione italiana fra la fine del Settecento e il principio dell‘Ottocento” senza rimanerne succubi. I due architetti, si rilevava nelle pagine della rivista Architettura e Arti Decorative, erano riusciti ad evitare "il duplice pericolo d'una eccessiva aderenza alle forme degli stili antichi e d‘un facile orientamento verso forme indubbiamente nobili e moderne, ma non italiane”.

OMAGGIO A GIO PONTI, CATALOGO DELLA MOSTRA AL PALAZZO DELLA PERMANENTE, MILANO 1980
Rossana Bossaglia

Fra il 1930 e il 1931, come certificano le date apposte ai disegni preparati allo scopo, Gio Ponti incominciava a progettare una serie di mobili per il Palazzo dei Contini Bonacossi a Firenze, principiando da quelli destinati alla quadreria – panchette, sedili, un tavolo basso, consoles – L’impresa seguitava con l’arredo di vari altri ambienti della casa… Ponti disegnava ancora diversi mobili, e in particolare tutto un gruppo per il grande salotto-soggiorno…La sequenza di mobili dovuti a Ponti si presta egregiamente a una semplificazione del passaggio dallo stile decò – di cui lo stesso Ponti era stato campione nel primo decennio del dopoguerra - allo stile Novecento…L’occasione dell’arredo Contini è ghiotta occasione per ideare una suite che sia lussuosa ma non di parata, e non venga meno ai criteri di abitabilità: soprattutto per nei pezzi disegnati per il confortevole salotto, che vuole avere un piglio sciolto e una sua opulenza in sordina…Nel passaggio all’arredamento del salotto, l’ironia è caduta; di nuovo Ponti sceglie la sua ispirazione in un presunto arredamento romano, però alle sagome svelte, con tensioni lineari evidenti, si sostituiscono forme piene e solenni e insieme pacate; che non solo meglio corrispondono al più caldo concetto di un ambiente per conversazione e soggiorno, ma a un concetto di sostenuto decoro. Il giuoco intellettuale ha ceduto il passo a una riesumazione ideale: il benessere è sottolineato dall’apparenza pacificamente borghese dell’insieme, mentre all’ispirazione archeologica sono affidati lo scatto espressivo e la sottolineatura d’importanza.Per questo arredo, eseguito con tecnica elaboratissima da una ditta di qualità come quella di Mario Quarti, possiamo parlare di Novecento aulico: che interpreta cioè la lezione razionalista nel senso di negarsi a un decorativismo petulante, ma, riproponendo simbolici modelli antichi, si allinea più con l’architettura neoclassica che con quella di tipo funzionale.Che poi anche in questo momento della sua invenzione Ponti mantenga sotto sotto un sorriso sornione, è pure vero: l’artista non è mai serioso, il suo talento è nel segno della grazia. L’idea di un ambiente signorile che in chiave moderna faccia il verso all’antichità classica è un’idea, si è detto, non ironica, ma certo brillante; è la risposta di un uomo giusto alle impettite accademie archeologiche degli anni Trenta.

VILLA VITTORIA DA RESIDENZA SIGNORILE A PALAZZO DEI CONGRESSI IN FIRENZE, FIRENZE 1995, P. 9
Federico Zeri

Comunemente nota per le sue raccolte di Arte “antica”, Villa Vittoria era anche (nel secondo piano, dove risiedevano i proprietari) un capolavoro dell’arredamento italiano del Novecento. Non so dove si trovino oggi i mobili e gli altri arredi, disegnati da Tommaso Buzzi e da Gio Ponti, ed eseguiti da abilissimi ebanisti e bronzisti…Furono quelle scrivanie, quelle sedie, quelle porte, quelle librerie ad aprirmi gli occhi sulla eccezionale qualità di invenzione, di “stile”, e di esecuzione che ha caratterizzato l’architettura e l’artigianato italiano tra la fine degli anni ’20 e il decennio successivo.

GIO PONTI
Milano 1891-1972
Figura chiave delle vicende del design italiano, è l‘artefice più autorevole del rinnovamento delle arti decorative italiane negli anni Venti e Trenta. Si affaccia sulla scena in un periodo di grande incertezza stilistica. Accoglie il richiamo del “ritorno all'ordine” della classicità che serpeggia nel mondo artistico europeo, individuando nel recupero del classicismo la strada per superare la confusione, il cattivo gusto del neo-eclettismo imperante. Dotato di un’esuberanza creativa inesauribile, si dedica con pari impegno alla progettazione architettonica e a quella di oggetti e di arredi: in ogni occasione, con le parole, gli scritti, le mostre, le opere, si batte per la diffusione della propria concezione estetica e culturale.Soprattutto per quanto concerne gli arredi, e il disegno dei mobili in particolare, il gusto neoclassico di Ponti, ironico e garbato, idealmente derivato da quello lombardo dei primi dell’Ottocento, è così originale e incisivo da imporsi e fare da modello. Nella seconda metà degli anni Venti, seppure non istituzionalizzata, nasce attorno a Ponti e agli architetti a lui più strettamente legati, Buzzi, Lancia e Marelli, una “scuola milanese”. I suoi mobili, dalla sagoma leggera e aggraziata, di accurata fattura artigianale, realizzati in legni pregiati e rifiniti con guarnizioni metalliche - in bronzo dorato, argentato, verde - sono pezzi unici, di lusso, destinati alla ricca borghesia.

LA CASA ALL'ITALIANA
La casa all’italiana non è il rifugio, imbottito e guarnito, degli abitatori contro le durezze del clima, come è delle abitazioni d’oltralpe ove la vita cerca, per lunghi mesi, riparo dalla natura inclemente: la casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere in vita nostra, con lieta possessione, le bellezze che le nostre terre e i nostri cieli ci regalano in lunghe stagioni…La casa all’italiana è di fuori e di dentro senza complicazioni, accoglie suppellettili e belle opere d’arte e vuole ordine e spazio fra di esse e non folla o miscuglio. Giunge ad esser ricca con i modi della grandezza, non con quelli soli della preziosità.Il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto una “machine à habiter”. Il cosiddetto “comfort” non è nella casa all’italiana solo nella rispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita ed alla organizzazione dei servizi.Codesto suo “comfort” è in qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile, lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell’invito che la casa all’italiana offre al nostro spirito di ricrearsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste, nel pieno senso della bella parola italiana, il conforto.
Gio Ponti, in Domus, Gennaio 1928

MODERNO O NON MODERNO
Si disente e fervorosamente su questi termini. Vi son pochi argomenti anzi che più di questo facciano inferocire gli spiriti. Io vedo spesso brave, calme, educate persone congestionarsi perdere le staffe, perder lo stile appena pronunciano queste fatali parole: moderno, novecento. Non voglio certo attaccare polemiche: questa pianta fiorisce già da se nei giardini artistico-letterari d’Italia. Lasciamo andare anche le designazioni particolari che ha l’appellativo di novecento riferito a gruppi d’artisti, e badiamo invece al fenomeno. Lasciamo andare polemiche, definizioni, uomini, parti e fazioni e guardiamoci attorno considerando cose moderne o novecento quelle che sono del millenovecento.

Gio Ponti, in Domus, Novembre 1933
Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
8

COPPIA DI CASSETTONI, STATO PONTIFICIO, METÀ SECOLO XVIII

in legno di pioppo lastronato in radica di olmo e radica di noce con filettature in padouk e citronnier, applicazioni in legno e in bronzo dorato, cm 88x137,5x58

 

La ritmica alternanza di linee concave e convesse, ben sottolineate ed esaltate dalle cornici lastronate in legni chiari e scuri, inseriscono a pieno titolo questa coppia di cassettoni nella temperie artistica di metà Settecento quando, dal nord al sud della penisola italiana, le forme opulente e talvolta ostentate della tradizione barocca lasciano il posto al clima più aggraziato del Rococò, che traduce nel linguaggio dell’arte la naturale evoluzione della società verso una vita più leggera e meno legata alle formalità.

Quasi a contrastare la predilezione per il senso di simmetria che aveva caratterizzato il Seicento, con mobili che spesso richiamano nella composizione forme architettoniche, nel secolo dei Lumi le linee si volgono in movimenti veloci e spesso arditi, in un gioco continuo di pieni e di vuoti, di chiari e di scuri, talvolta esaltato dall’alternanza di legni diversi per tipologia e colori. Un movimento dove non c’è spazio per la linea retta, a meno che non si tratti di contrastare il gioco di una curva: è il caso dei piani dei cassettoni qui proposti, il cui dolce andamento ondulato trova una netta interruzione negli angoli scantonati, in un effetto rafforzato dai contrasti cromatici creati dalle due tipologie di radica intervallate da una profilatura in legno chiaro, il tutto racchiuso entro un profilo in legno dorato intagliato a motivi di ovoli alternati a bacchette oblique, a richiamare le profilature in bronzo.

E tuttavia non è tanto nel piano quanto nel fronte e nei lati che la nostra coppia di cassettoni testimonia la sua appartenenza all’epoca di Luigi XV. La sagoma, che dapprima si inarca in una stretta gola nella fascia subito sottostante il piano, inverte il suo andamento per aprirsi in un’improvvisa bombatura che interessa tanto il fronte quanto i lati, per poi ridiscendere fino al grembiale, dolcemente curvilineo, con un andamento concavo. A questo movimento sinuoso ben si adattano anche gli spigoli anteriori, realizzati in foggia di lesene che tuttavia abbandonano la classica rigidità geometrica aprendosi in un’ampia curva rivolta verso l’esterno, per ridiscendere in un movimento opposto fino alle zampe le quali, a loro volta, non mancano di assecondare il sinuoso andamento del mobile con un movimento lievemente svasato.

La stessa forma dei cassettoni, con i fianchi che sul retro si aprono consentendo, a una visione frontale, di apprezzare anche il profilo del fianco stesso, contribuisce ad accrescere il senso di ritmica sinuosità, in un gioco continuo di curve che dal fronte prosegue sui lati.

Tanto per la forma quanto per la presenza di applicazioni dorate in foggia di elementi vegetali ad impreziosire le bocchette, le maniglie e la parte alta degli spigoli, i nostri cassettoni trovano significativi confronti con la produzione romana di metà Settecento realizzata per importanti committenze. Confrontabili con il comò Boncompagni-Ludovisi (vedi fig. 1) sono le ricche applicazioni in legno e bronzo dorato che, unitamente all’impiego di diverse essenze di legno, conferiscono preziosità ai mobili, mentre la forma del piano, sebbene nel nostro caso realizzato in radica anziché in marmo, con la tipica profilatura a ovoli, insieme al profilo rigorosamente curvilineo a creare pieni e vuoti che dal fronte si muove lungo gli angoli e ancora alla linea sagomata dei cassetti che segue ed esalta l’andamento del corpo, avvicina i nostri esemplari a quello della Raccolta F. Tuena (vedi fig. 2).

 

Bibliografia di confronto

G. Lizzani, Il mobile romano, Milano 1970, pp. 119-120;

A. González Palacios (a cura di), Fasto romano - dipinti, sculture, arredi dai palazzi di Roma, catalogo mostra Roma, Palazzo Sacchetti, 15 maggio - 30 giugno 1991, Roma 1991

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

COPPA

URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DURANTINO, FIRMATO CON MONOGRAMMA AM, F.S., GIÀ BOTTEGA DI FRANCESCO DE SILVANO (?), 1542

Alt cm 6,2; diam. cm 27; diam. piede cm 13,8

Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo-arancio, blu, turchino, verde, bruno di manganese e bianco.

Sul fronte sotto la zampa del leone la sigla: monogramma AM sormontato da asterisco e che comprende le iniziali F.S.

Sul retro al centro del piede iscrizione dipinta in blu “1542 / Come San.ierronimo Cava. La / spina dalla zampa. al lione / Urbino. 

Sul retro etichetta a stampa della Galleria Pesaro di Milano con n. 237 ed etichetta Ufficio Esportazione.

 

Provenienza 

Torino, collezione Marchese D’Azeglio;

Milano, collezione A. Chiesa;

Milano, collezioni Agosti e Mendoza (vendita Galleria Pesaro, 1936, lotto 237);

Milano, collezione A. Rivolta;

Milano, Palazzo Ferrajoli (vendita Sotheby’s, 4 dicembre 1996, lotto 721);

Milano, collezione privata

 

Bibliografia 

W. Chaffers, The Collector's Hand Book of Marks and Monograms on Pottery & Porcelain of the Renaissance and Modern Periods, Londra 1906 (seconda edizione), p. 66;

L. De Mauri, L'amatore di maioliche e porcellane, Milano 1924 (terza edizione), p. 729 (il monogramma);

G. Botta, Le collezioni Agosti e Mendoza, Galleria Pesaro, Milano dicembre 1936, tav. XCIV, cat. 237;

A. Minghetti, Ceramisti. Artisti Botteghe Simboli dal Medioevo al Novecento, Milano 1939, pp. 386-387

 

Coppa con ampio cavetto, bordo rilevato e orlo dritto, arrotondato e listato in giallo, piede basso ad anello con base appena estroflessa e orlo arrotondato. Il decoro, disposto sull’intera superficie, si sviluppa su uno smalto bianco grigio ricco di inclusioni, ed è realizzato con colori marcati e ritocchi sottili a punta di pennello a sottolineare i lineamenti e i contorni delle figure. Il colore scuro è abbondantemente utilizzato per evidenziare le ombre e alcuni motivi paesaggistici, come ad esempio la grotta in cui dimora San Gerolamo, mentre i tratti somatici e gli elementi della muscolatura sono rimarcati con abbondante uso di bianco di stagno, e alcuni lievi tratti di stagno lumeggiano anche il paesaggio, sapientemente realizzato, nel quale prevalgono i colori freddi in contrasto con quelli caldi utilizzati nelle figure protagoniste della narrazione.

La scena riproduce un episodio leggendario della vita di San Girolamo, narrato da Jacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea (1), ma raffigurato nella nostra coppa secondo una versione differente: qui infatti il leone si presenta a San Gerolamo presso la sua grotta ed è il santo stesso, ai cui piedi spicca il cappello cardinalizio, a liberarlo dalla spina e a curarne la ferita, mentre il miracolo è accompagnato dall’apparizione in cielo di un amorino appena accennato, circondato da cinque stelle. La scena principale è occupata anche dai confratelli del santo, intenti a fuggire per lo spavento, rappresentati secondo le modalità iconografiche che riconosciamo in note opere rinascimentali come le Storie di San Gerolamo di Vittore Carpaccio (2) o l’affresco con la Crocefissione tra santi e Storie di san Girolamo dipinto da Benozzo Gozzoli nel 1452 nella Cappella di San Girolamo della Chiesa di San Francesco a Montefalco (3). L’iconografia del San Gerolamo al centro della scena è invece più comune e trova riscontro in opere dell’epoca, come ad esempio nell’incisione con San Girolamo e il leone di Giovanni Battista Palumba (1500-1516 circa) (4). Sullo sfondo una città turrita e altri due episodi della leggenda: il leone a guardia dell’asino e il leone che per punizione diventa bestia da soma.

Sul retro della coppa non compaiono decorazioni ma solo la scritta“1542 / Come San.ierronimo Cava. La / spina dalla zampa. Al lione / Urbino. 

L’iconografia di San Gerolamo (5) qui descritta è aderente alla visione più popolare del santo, ma in realtà la sua personalità è da collegare al diffondersi in Occidente dell’esegesi spirituale di Origene, all’incremento della scelta di vita ascetica della seconda metà del secolo IV e primo ventennio del V, e alla traduzione ed edizione latina definitiva della Bibbia detta “Vulgata”.

La coppa ha una storia collezionistica piuttosto articolata: la notizia più antica che abbiamo rintracciato risale al 1893 (6), ove la coppa viene descritta in relazione alla sigla con monogramma sormontato da un asterisco e, all’interno, le iniziali F e S, iscrizione che compare nell’esergo ai piedi del leone: tale sigla viene in quest’opera attribuita all’antica ceramica di Urbino e la coppa è indicata come precedentemente appartenuta alla collezione torinese del Marchese D’Azeglio. La stessa sigla ritorna pochi anni dopo nel compendio di De Mauri (7), dove compare unitamente a una sigla simile datata sotto il monogramma, entrambe ascritte alla maiolica antica di Urbino. La coppa riappare nelle collezioni Agosti e Mendoza, vendute alla Galleria Pesaro di Milano nel 1936 (8), nel cui catalogo di vendita il piatto, indicato come proveniente dalla collezione Chiesa, è attribuito a Francesco Xanto Avelli, cui viene riferito il monogramma, messo in relazione con il grande piatto con l’assalto alla città Goletta della flotta di Carlo V, datato 1541 e siglato “X” dal pittore rovigino, nel quale si legge In Urbino nella botteg. di Francesco de Silvano (9). Tre anni più tardi Aurelio Minghetti (10) pubblica la coppa descrivendola come “piatto di maiolica Francesco Silvano (?) Urbino 1542”, appartenente alla collezione A. Rivolta di Milano: qui l’autore ipotizza la lettura della sigla come Francesco Silvano, associandola ancora al già citato piatto con L’assalto alla città Goletta della flotta di Carlo V. Dopo quasi sessant’anni il piatto transita nuovamente sul mercato in un’asta dedicata nel 1996 da Sotheby’s (11) a Milano alle collezioni di Palazzo Ferrajoli, questa volta con l’attribuzione a Guido Fontana.

Tutte le ipotesi successive sono state ampiamente discusse e analizzata nello studio di John Mallet pubblicato nel 2003 (12), ripreso da Timothy Wilson l’anno successivo (13), che nell’occasione risolve tutte le ipotesi proposte.

 

 

 

1) Jacopo da Varazze, chiamato anche Jacopo da Varagine, raccolse le vite dei santi nella Legenda Aurea, cui lavorò a partire dal 1260 fino alla morte, avvenuta nel 1296. In essa al capitolo 146 affronta la vita di San Girolamo, narrando tra gli altri un episodio secondo il quale un giorno un leone ferito si sarebbe presentato zoppicando nel monastero ove risiedeva San Girolamo, e mentre i confratelli fuggivano spaventati il santo si avvicinò accogliendo l'animale ferito e ordinando ai confratelli di lavargli le zampe e curarle. Una volta guarito il leone rimase nel monastero, incaricato dai monaci di custodire l'asino del convento. Un giorno, mentre l'asino stava pascolando, il leone si addormentò permettendo il furto dell’asino da parte di alcuni mercanti di passaggio. Tornato solo al monastero, il leone fu accusato dai monaci di aver divorato l'asino, e per punizione gli furono affidate le mansioni dell’animale perduto. Un giorno il leone incontrò sul suo cammino la carovana dei mercanti e riconobbe nella carovana il medesimo asino. La fiera dopo aver messo in fuga i mercanti condusse l'asino e i cammelli, carichi di mercanzia, al convento. San Girolamo perdonò i mercanti, una volta che questi giunsero al convento per recuperare le loro merci, e al leone fu quindi restituita l’innocenza.

2) Le tele di Carpaccio con le storie di San Girolamo sono custodite alla Scuola Dalmata di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia.

3) Gli affreschi di Montefalco, riferibili al 1452, sono i primi lavori che il pittore esegue come maestro, commissionati probabilmente dal notabile montefalchese Girolamo di Ser Giovanni Battista de Filippis, ma gran parte della decorazione pittorica con le storie della vita di san Girolamo è andata perduta. È probabile invece la riproduzione degli affreschi in una o più incisioni coeve, al momento non identificate.

4) A. Bartsch, Le peintre graveur, Vienna 1803-1821, vol. XIII, p. 249 n. 1. Questa stampa è considerata il capolavoro xilografico dell'incisore identificato con G.B. Palumba.

5) La sua figura è riconducibile soprattutto a tre tipologie: come penitente vestito di pelli o cenci, inginocchiato davanti a un crocifisso nell’atto di battersi il petto con un sasso, con accanto la clessidra e il teschio, simboli del tempo che fugge e conduce alla morte; come erudito seduto nel suo studio, intento a scrivere o leggere, circondato dagli strumenti del sapere; come Dottore della Chiesa, raffigurato invece in piedi, con il vestito rosso da cardinale, titolo che all’epoca in realtà non esisteva ma che gli è attribuito in ricordo del suo lavoro presso il papa.

6) W. Chaffers, The Collector's Hand Book of Marks and Monograms on Pottery & Porcelain of the Renaissance and Modern Periods, Londra 1893

7) L. De Mauri, L'amatore di maioliche e porcellane, Milano 1899

8) G. Botta, Le collezioni Agosti e Mendoza, Galleria Pesaro, Milano dicembre 1936, tav. XCIV, cat. 237

9) Si veda J.V.G. Mallet, La biografia di Francesco Xanto Avelli alla luce dei suoi sonetti, in “FaenzaLXX, 1984, p. 399 e J.V.G. Mallet, con contributi di G. Hendel ed E.P. Sani, Xanto. Pottery-painter, Poet, Man of the Italian Renaissance, cat. della mostra, Wallace Collection, Londra 2007, pp. 37-38, fig. 26-27

10) A. Minghetti ,Enciclopedia Biografica e Bibliografica Italiana" il volume "Ceramisti - Artisti, Botteghe, Simboli dal Medioevo al Novecento" 1939, pp. 386-387

11) Sotheby’s, Importanti Mobili, Dipinti, Ceramiche, Argenti e Sculture, Collezioni d’arte da Palazzo Ferrajoli, Milano 4-5 dicembre 1996, lotto 721

12) J.V.G. Mallet, “One artist or two? The painter of the so-called `Della Rovere’ dishes and the painter of the Coalmine service”, in “FaenzaLXXXIX, nn. 1-6, 2003, pp. 50-74

13) T. Wilson, The Maiolica-Painter Francesco Durantino. Mobility and Collaboration in Urbino “istoriato”, in S. Glaser, Italienische Fayencen der Renaissance.Ihre Spurenininternationalen Museumssammlungen, Nürnberg 2004, pp. 111-144. A p. 118

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
14

Mosè Bianchi

(Monza 1840 - 1904)

VECCHIA MILANO

olio su cartone, cm 53,5x77

firmato in basso a destra

 

Esposizioni

Maestri dell'800 italiano, Galleria Sacerdoti, Milano, 20 novembre-22 dicembre 1971

 

Bibliografia

Maestri dell'800 italiano, catalogo della mostra (Galleria Sacerdoti, Milano, 20 novembre-22 dicembre 1971), Milano 1971, s.p.

 

Mosè Bianchi, pittore verista nel senso più stretto della parola, è da annoverarsi tra i più famosi artisti dell'800 italiano; una notorietà che lo accompagnò anche all’estero, grazie alla Maison Goupil, da cui passarono i più importanti pittori del tempo.

Il soggiorno parigino negli anni ’60 del XIX secolo donò alle opere del pittore monzese quella vitale inclinazione che gli permise di ampliare l'orizzonte del naturalismo lombardo, una tendenza anti-accademica che nasceva soprattutto dalla sentita esigenza di ristabilire un contatto con la realtà quotidiana.

L'adesione al vero, uno dei motivi dominanti della creazione pittorica dell'artista negli anni ‘80, è accentuata dalla gamma colorista, atta alla rappresentazione dell'atmosfera della città.

L'opera che qui si presenta si colloca proprio nella produzione di quegli anni, in coerente rapporto con altri suoi quadri che sviluppano il tema con ampio respiro. Si tratta di una delle vedute milanesi più specificatamente realista, dove l’artista rivela intenti impressionistici giovandosi di una pennellata vibrante e di una forte struttura compositiva. La neve è un soggetto particolarmente congeniale al pittore, come attesta egli stesso in alcune lettere ad amici, perché gli consente di cimentarsi nella raffigurazione di un momento di intensa unità atmosferica e cromatica.

L’alta qualità della rappresentazione di questo scorcio di vita cittadina si esprime anche nell’equilibrio della composizione, nel bilanciato rapporto tra pieni e vuoti, tra edifici e spazi aperti; l’architettura dello sfondo si fonde col grigio del cielo nevoso, mentre le figure che si affrettano sulla strada, sfidando il gelido vento invernale, appaiono come sagome colorate in un paesaggio urbano di cui sono parte integrante. Molto interessante è la presenza, sullo sfondo, di un tram giallo a cavalli, mezzo di trasporto introdotto in città solo da pochi anni: le prime tranvie urbane, a trazione animale, erano infatti state inaugurate a Milano l'11 aprile 1881, in occasione della grande Esposizione Industriale Nazionale. Le linee, gestite dalla Società Anonima degli Omnibus, avevano un andamento radiale, con capolinea centrale in piazza del Duomo, ed erano dirette verso le porte cittadine.

Il dipinto può essere felicemente confrontato con altre analoghe vedute del medesimo scorcio di Milano, databili tra il 1885 circa e la fine del nono decennio, su cui il pittore amò tornare più volte, grazie anche all’apporto della macchina fotografica. Tra queste possiamo ricordare Neve a Milano, in collezione privata, e Una nevicata a Milano, conservata alla Civica Galleria d’Arte Moderna di Milano (P. Biscottini, Mosè Bianchi. Catalogo ragionato, Milano 1996, pp. 285 n. 382, 352 n. 549), a cui rimanda anche l’improvvisa accensione rossa del cappuccio di una figurina di spalle sulla destra, seppure l’opera qui presentata risalti per maggiore ricchezza di figure e di spunti aneddotici.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
10

Osvaldo Borsani

(Varedo 1911 – Milano 1985)

Lucio Fontana

(Rosario de Santa Fè 1899 – Varese 1968)

CONSOLE, 1950

Manifattura Arredamenti Borsani Varedo

piano in ardesia nera con elemento scultoreo di supporto in legno scolpito, laccato e dorato

cm 92x250x49

Progetto n. 7234/2 del 1950 per Arredamenti Borsani Varedo

Certificato di autenticità dell’Archivio Osvaldo Borsani n. 47/2018 del 25 luglio 2018

Opera corredata di autocertificazione per l'esportazione.

 

Provenienza

Roma, collezione privata

 

Bibliografia

I. De Gutry - M.P. Maino, Il mobile italiano degli anni 40 e 50, Roma 2010, p. 112, n. 14;

G. Bosoni, Tecno. L’eleganza discreta della tecnica, Milano 2011, p. 24;

G. Bosoni, Osvaldo Borsani. Architetto, designer, imprenditore, Milano 2018, pp. 360-361, p. 566 n. 1950.7234

 

Bibliografia di confronto

G Gramigna - F. Irace, Osvaldo Borsani, Roma 1992, pp. 194-195;

N. Foster, T. Fantoni (a cura di), Osvaldo Borsani, cat. mostra Triennale di Milano (16 maggio – 16 settembre 2018), Milano 2018, p. 75 n. 093, p. 94

 

Nato a Varedo nel 1911, Osvaldo Borsani è figlio di Gaetano, costruttore di mobili nell’affermato “Atelier di Varedo”. Maturità artistica all’Accademia di Belle Arti per poi passare al Politecnico di Milano, dove si laurea in architettura nel 1937. Gli esordi lo vedono all’interno dell’Atelier di Varedo, ribattezzato negli anni Venti Arredamenti Borsani Varedo (ABV), i cui prodotti sono dominati dal “mobile in stile neorinascimentale” tipico della tradizione brianzola anche se, nella partecipazione dell’Atelier alle Biennali di Monza nel 1925 e 1927, si riscontra un avvicinamento a linee più essenziali e geometriche. L’esordio ufficiale è dell’inizio degli anni ’30 in occasione della IV Triennale di Monza. Alla V Triennale del 1933, per la prima volta a Milano, il giovane studente ventunenne Osvaldo dimostra maturità stilistica e la volontà di orientarsi verso i codici razionalisti, presentando la “Casa Minima”, progetto razionalista applicato allo spazio della vita quotidiana. In quegli anni l’Atelier ha commesse importanti che vengono realizzate in una nuova fabbrica e presentate nel negozio-studio di progettazione aperto nel 1932 in via Montenapoleone 6 a Milano, cercando di soddisfare le esigenze a volte nuove, altre volte più tradizionaliste, della propria clientela alto borghese. Rispetto a questo mondo in qualche modo divaricato fra innovazioni e resistenti consuetudini di gusto e di stile, Borsani gioca la sua carta nella manica: il contributo creativo e sperimentale di nuove generazioni di artisti d’avanguardia (Lucio Fontana, Agenore Fabbri, Arnaldo Pomodoro, Fausto Melotti, Roberto Crippa, Aligi Sassu, per citarne alcuni) con i quali crea spazi affascinanti dove s’incrociano e si contaminano tante ricerche, portate anche nel disegno dei singoli arredi.

Fondamentale comprimario di questa importante redifinizione ambientale degli interni è l’artista Lucio Fontana, che permea e plasma con il suo originale segno fluttuante, spazialista, con richiami “barocchi” i soffitti, le pareti e a volte anche gli arredi delle case allestite sotto la sapiente regia di Osvaldo Borsani.

Il primo dopoguerra è un periodo molto proficuo per l’atelier di Varedo: lo studio ha sempre più occasioni di progettare per importanti interventi privati e pubblici. La collaborazione con l’interessante cerchia di artisti già ricordati si intensifica e diventa un marchio che contraddistingue il lavoro dell’atelier. A partire da casa Gulinello a Milano (1947-1950), di cui Pandolfini Casa d’Aste tra il 2014 e il 2015 ha riscoperto e proposto in asta gran parte degli arredi originali, è possibile cogliere questa collaborazione e notare come gli apporti artistici, in questo caso di Lucio Fontana siano integrati con gli arredi dell’atelier. Non si tratta solo di impiegare disegni e sculture, ma parte degli arredi è integrata con l’opera stessa, come ad esempio il mobile bar, il tavolino da caffè, la mensola a parete. 

 

Osvaldo Borsani e Lucio Fontana

Lucio Fontana era di casa: Osvaldo lo chiamava spesso per interventi, soprattutto per decorazioni scultoree in ceramica: camini, soffitti, porte... Arte e architettura, nella grande Milano dei poeti, come Leonardo Sinisgalli, dei filosofi, come Enzo Paci, dei critici e storici dell'arte, come Gillo Dorfles e Guido Ballo. Osvaldo era un riferimento culturale costante.

Fontana, in quegli anni, era il maestro fondamentale per tutti gli artisti più giovani, in cerca anche di lavoro. La generosità di Osvaldo Borsani trovava in Fontana un sentimento comune. Da questo comune sentire nacquero idee, esperienze, possibilità concrete di intervenire come artisti nell’attività progettuale. Fontana, per questa ragione, era non solo un collaboratore dell’azienda; per Osvaldo rappresentava un amico a cui chiedere qualcosa di più personale. Ecco allora nascere l’idea di fargli eseguire ritratti scultorei dedicati ai familiari più vicini, come sua moglie: la straordinaria invenzione materica di Fontana trasforma la fisionomia delle persone in un segno artistico unico e indimenticabile.

Fontana passava spesso dal negozio di via Montenapoleone; entrava, parlava con l’architetto, dava appuntamenti ad altri artisti, scherzava con le figlie di Osvaldo, Donatella e Valeria. In quegli anni, a Milano, era l‘artista più avanzato e più generoso, soprattutto verso i giovani talenti: era sufficiente una parola, ma molto spesso la sua generosità andava oltre. Osvaldo Borsani e Lucio Fontana erano due personaggi fondamentali nella Milano degli anni sessanta. Il negozio ospitava frequentemente mostre di artisti, sia italiani che stranieri. Il rapporto tra arte e industria era quotidiano. Fontana disegnava supporti e decorazioni per tavoli, balconate; realizzava oggetti e decorazioni in ceramica; Fausto Melotti inventava decorazioni per bagni; Adriano di Spilimbergo disegnava pannelli per le porte, piastrelle; Arnaldo Pomodoro, decori e testate peri letti.

Era una vera e propria bottega rinascimentale...

 

A. Colonetti (a cura di), Frammenti e ricordi di un percorso progettuale, Milano 1996, p. 43

 

 

Stima   € 60.000 / 90.000
Aggiudicazione  Registrazione
7

Manifattura fiorentina, inizi secolo XVII

PIANO DI TAVOLO

commesso di pietre policrome, cm 101x120,5

Opera corredata di attestato di libera circolazione.

 

Il decoro del piano si compone di un tondo incluso in un cartiglio nel riquadro centrale, contornato da una fascia scandita da ottagoni e rombi alternati. La vivida policromia dell’assieme è ottenuta con l’impiego esclusivo di marmi e pietre di provenienza archeologica, a eccezione del marmo nero di Fiandra che fa da sfondo al centro e delinea le profilature nella fascia di rigiro.

Il tondo centrale e i rombi nella cornice sono di Verde antico, un marmo di provenienza greca largamente impiegato in età romana e molto apprezzato dal Rinascimento in poi. Le cave antiche si trovavano in più località della Tessaglia, e dalla varia provenienza dipendono le diversità di macchia e di tonalità che il Verde può presentare, e che si riscontrano anche nel nostro piano, fra i quattro rombi e il tondo centrale, verosimilmente ricavato dalla sezione di una colonna. Il tondo è profilato da un listello di Giallo antico, dalla Numidia, mentre il cartiglio che lo include è in larga parte formato da più sezioni di Broccatello di Spagna, pietra di notevole impatto decorativo per le screziature dorate e paonazze che la assimilano appunto a un broccato, ampiamente diffusa in età imperiale. Le quattro volute esterne del cartiglio sono di un raro tipo di alabastro, originario della regione dell’attuale Algeria, noto come Alabastro a pecorella, profilato di Rosso antico, dal promontorio del Tenaro in Grecia. Le quattro volute interne sono di Breccia d’Egitto, le cui cave furono molto sfruttate dai Romani. La fascia di rigiro è di Alabastro fiorito, anche questo di provenienza egiziana, mentre i quattro ottagoni angolari sono di Breccia d’Aleppo, dall’isola di Chios in Grecia, pietra questa specialmente ricercata nel riuso dei marmi archeologici (1).

                     In passato il piano era stato diviso a metà, operazione questa che veniva praticata non di rado (ad esempio era accaduto anche per il piano a fig.5), al fine di ricavare due consolles da un unico piano.

 

La tecnica esecutiva del piano è quella del “commesso”: sulla lastra di marmo bianco che funge da supporto, dello spessore di circa 5 centimetri, venivano applicate le diverse sezioni lapidee che compongono l’assieme, in precedenza tagliate con precisione a filo secondo i profili previsti dal disegno, e quindi limate lungo lo spessore in modo da garantire la loro perfetta coincidenza. L’incollaggio delle sezioni lapidee sul piano di supporto veniva ottenuto con un adesivo composto di cera e colofonia. Questa tecnica, conosciuta anche come “mosaico fiorentino” in quanto è a Firenze che fu perfezionata raggiungendo livelli di straordinario virtuosismo, discende dall’opus sectile messo a punto nell’ antica Roma, dove dai primi saggi a carattere geometrizzante si passò poi a più complesse composizioni figurative. Una evoluzione analoga si ebbe nella Firenze dei Granduchi medicei, dove le prime realizzazioni a commesso ebbero carattere aniconico, per evolvere poi nel corso del Seicento nelle sofisticate “pitture di pietra”, a tema naturalistico o narrativo, create nell’ esclusiva Galleria dei Lavori fondata da Ferdinando I nel 1588 (2).

                     Nel periodo iniziale, fra gli ultimi decenni del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo, i lavori fiorentini si ispirarono ai modelli in auge a Roma già dalla metà del Cinquecento, sia per i rivestimenti architettonici di pietre policrome, introdotti a Firenze da Giovanni Antonio Dosio (1533-1611) a partire dagli anni ’70, che per i piani di tavolo, che furono a lungo il più ambito genere di arredo lapideo. Non è sempre facile individuare con certezza l’origine fiorentina di tavoli che condividono con quelli romani l’impiego di marmi archeologici e il gusto per composizioni aniconiche, prossime alle tarsie architettoniche. Non è un caso che fra i primi autori di modelli per tavoli di questo genere, sia a Roma che a Firenze, si segnalarono architetti quali il Vignola e il Dosio, del quale restano al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi alcuni progetti per piani di tavolo.

 

Nel caso del nostro piano più elementi inducono a ritenerlo lavoro fiorentino, a partire dalla tecnica esecutiva, che esclude l’intarsio a favore del commesso. A Roma fu invece prevalente l’intarsio, tecnica anche questa di antica tradizione, che comporta di scalpellare la lastra di marmo bianco ricavandone le cavità, ovvero “casse”, dove inserire le sezioni di marmi policromi, delimitati dai listelli bianchi del marmo di fondo (“cigli”), lasciato a vista (fig.1). Anche la presenza del Nero di Fiandra nel piano riconduce alla precoce predilezione fiorentina per questo materiale, eletto a lastra centrale di uno fra i tavoli più antichi di Palazzo Pitti (fig.2), che condivide con il nostro piano anche l’ispirazione dalle tarsie architettoniche.

                     Per il tavolo di Pitti il modello sembra essere stato il rigore geometrizzante delle policromie parietali del Dosio, mentre il nostro piano denota un gusto un po’ più avanzato nell’articolato cartiglio centrale, che riecheggia quelli di Giovanni Caccini (1556-1613) sui pilastri e sulle arcate del ciborio di Santo Spirito a Firenze (fig.3), avviato nel 1599 e ultimato nel 1608 (3). Scultore e architetto, il Caccini fu discepolo del Dosio e contribuì a sua volta a diffondere nelle architetture fiorentine il gusto per le specchiature policrome. Nella Cappella Pucci della Santissima Annunziata, avviata dal Caccini nel 1605, ritorna il tema dei cartigli entro riquadrature (fig.4), come pure nelle due edicole con i SS. Pietro e Paolo nella tribuna della stessa basilica, da lui realizzate nel primo decennio del secolo. Attivo inoltre come scultore e restauratore di statuaria antica, in questa veste il Caccini fu in rapporto con Niccolò Gaddi, tra i primi e più raffinati collezionisti a Firenze di tavoli “di belle pietre” (4).

                     Un ulteriore elemento che allude a Firenze per la paternità del nostro piano è la fascia di rigiro con distanziate e simmetriche figure geometriche, strutturate analogamente in un piano di pietre dure (fig.5) in collezione privata, sicuramente fiorentino, e che ancora ritornanp a contorno di un piano ormai improntato al nuovo gusto naturalistico (fig.6), nel Museo dell’Opificio delle Pietre Dure.

 

Annamaria Giusti

 

 

Firenze 21.4.2018

 

 

 

 

 

1) Per le origini e caratteristiche della Breccia d’Aleppo si veda L. Lazzarini, La scoperta dell’origine chiota della breccia d’Aleppo, in Eternità e nobiltà di materia. Itinerario artistico fra le pietre policrome, a cura di A. Giusti, Firenze 1988, pp. 139-168. Per i marmi archeologici in generale, sono testi di riferimento R. Gnoli, Marmora romana, Roma 1988; Marmi antichi a cura di R. Borghini, Roma 1989; C. Napoleone, Delle pietre antiche. Il trattato sui marmi romani di Faustino Corsi, Roma 2001

2) Per la storia della manifattura granducale si veda A. Giusti, L’arte delle pietre dure da Firenze all’Europa, Firenze 2005, con bibliografia precedente

3) Per il complesso dell’altare e ciborio di Santo Spirito, che riecheggia l’illustre modello di quello per la Cappella dei Principi in lavorazione in quegli anni nella manifattura di Ferdinando I, si veda A. Giusti, Tesori di pietre dure a Firenze, Milano 1989, pp. 51-54

4) Del Gaddi e della sua passione per le policromie lapidee testimonia il contemporaneo Agostino del Riccio nella sua Istoria delle pietre, scritta a Firenze nel 1596 e dedicata a quanti si dilettano “delle belle e utili pietre”, si veda l’edizione curata da R. Gnoli, Torino 1996

 

Stima   € 60.000 / 90.000
Aggiudicazione  Registrazione
6

Giovanni Battista Piazzetta

(Venezia 1682–1754)

MADONNA COL BAMBINO

olio su tela, cm 77x61

Opera corredata di attestato di libera circolazione.

 

Provenienza

(Lodovico Campo, Rovigo?)

Mario Viezzoli, Genova; collezione privata

 

Bibliografia

(F. Bartoli, Le Pitture Sculture ed Architetture della Città di Rovigo: con Indici ed Illustrazioni, Venezia 1793, p. 101); R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946). Terza edizione, Firenze 1985, fig. 159 e p. 238 (nota alle tavole); R. Pallucchini, Piazzetta, Milano 1956, p. 39 e fig. 93; R. Pallucchini, Miscellanea piazzettesca, in “Arte Veneta” XXII, 1968, p. 123; U. Ruggeri, Francesco Capella detto Daggiù; dipinti e disegni, Bergamo 1977, p. 174; L. Jones, The Paintings of Giovan Battista Piazzetta. Ph. D. Diss., New York University, 1981, II, p. 74, n. 21; III, fig. 106; R. Pallucchini, L’opera completa del Piazzetta. Apparati critici e filologici di A. Mariuz, Milano, Rizzoli, 1982, 140

 

Referenze Fotografiche

Fondazione Giorgio Cini Onlus, Fondo Pallucchini, scheda 492166

 

Fig. 1 Giovan Battista Piazzetta, Ritratto del conte Gasparo Campo, Rovigo, Accademia dei Concordi

 

La bella tela qui offerta fu pubblicata per la prima volta da Roberto Longhi nel celebre commento alla mostra “Cinque secoli di pittura veneziana” organizzata a Venezia da Rodolfo Pallucchini subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale; oltre a rimandare ai dipinti in mostra, il saggio era illustrato da una selezione di opere significative degli artisti citati e per lo più inedite. Il nostro dipinto, allora in collezione privata a Genova, veniva descritto come proveniente dalla collezione Campo di Rovigo, dove Francesco Bartoli lo aveva potuto vedere alla fine del Settecento

In casa Campo alla SS. Trinità Bartoli (1793) ricorda appunto un quadro di Piazzetta raffigurante “Maria Vergine col suo Bambino sopra un povero letticello riposto”, eseguito per il nobile Lodovico Campo, e così celebre da essere replicato “per proprio diletto” dal “nobile Signore Giovanni Campanari” che ne possedeva la copia nel proprio palazzo (p. 186).

Come riferiscono documenti inediti citati da Franca Zava Boccazzi (Pittoni. L’opera completa, Venezia 1979, p. 158) una Madonna del Piazzetta è in effetti specificamente citata nel testamento di Lodovico Campo (1766). Accertati rapporti tra l’artista veneziano e il nobile rodigino, che alla metà degli anni Quaranta commise al Piazzetta il ritratto celebrativo del conte Gaspare Campo, fondatore dell’Accademia dei Concordi, destinato alla sede di quest’ultima, confermano una datazione del nostro dipinto poco dopo il 1743, come proposto da Rodolfo Pallucchini in base a considerazioni stilistiche.

Ripetutamente citato e riprodotto dalla letteratura specializzata, il nostro dipinto è stato talvolta confuso con una sua replica comparsa a un’asta di Sotheby’s a Londra (8 dicembre 1976, n. 93) con un’attribuzione a Francesco Capella che ne lasciava intuire la probabile esecuzione nella bottega del Piazzetta.

Sicuramente riferibile alla bottega è poi una terza versione di ubicazione ignota ma documentata da una fotografia presso la Fondazione Cini di Venezia, che differisce dalle altre due anche per la presenza di un numero di inventario, 86, dipinto a vernice chiara in basso a destra e, per il momento, privo di corrispondenza con inventari noti.

Situato da Pallucchini agli inizi di una nuova fase nella carriera del pittore veneziano, distinta da composizioni più misurate, volumi definiti da contorni precisi e un chiaroscuro più accentuato, il nostro dipinto è accostato dallo studioso ad altre invenzioni destinate alla devozione privata, quale il Sant’Antonio in adorazione del Bambino nella Galleria di Zagabria (Pallucchini, 1956, fig. 92) o la Madonna con San Giuseppe in adorazione del Bambino di raccolta privata (ibidem, fig. 94), unite alla nostra Madonna anche dalla dolcezza dei sentimenti espressi.

 

 

Note biografiche

Figlio di un intagliatore in legno, Giovan Battista Piazzetta nacque a Venezia nel 1682. Dopo una prima formazione nella bottega paterna e in quella del poco noto Silvestro Manaigo, passò nel 1697 alla scuola di Antonio Molinari. Fondamentale il viaggio a Bologna e il contatto con Giuseppe Maria Crespi avvenuto prima del 1711, anno in cui risulta iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani. Tra le prime tappe di una fortunata carriera pubblica, la pala per la Scuola dell’Angelo Custode, del 1717-18, seguita dall’Arresto di San Giacomo dipinto per la chiesa di San Stae, capolavoro giovanile dell’artista, e ancora dalla Gloria di San Domenico per quella dei SS. Giovanni e Paolo. Membro dell’Accademia Clementina di Bologna nel 1727 quale riconoscimento di una notorietà che varcava i confini della città natale, Piazzetta si distinse anche per la felice ed innovativa produzione di soggetto profano e di destinazione privata nella quale dopo il 1740 fu coadiuvato dagli allievi. Altrettanto notevole il corpus di disegni e incisioni, queste ultime legate al vivacissimo ambiente dell’editoria veneziana con cui collaborò fin dal 1724. Tra i principali clienti dell’artista è opportuno ricordare il Maresciallo Matthias von Schulenburgh, celebrato collezionista di cui Giovan Battista Piazzetta fu consulente artistico fra il 1738 e il 1745, oltre ad eseguire per lui non meno di tredici dipinti a olio e diciannove splendidi disegni. Nominato nel 1750 direttore della Scuola di Nudo dell’Accademia di Venezia, Piazzetta concluse la sua carriera con qualche difficoltà e morì a Venezia nel 1754.

 

Stima   € 80.000 / 120.000
11

Gio Ponti

(Milano 1891-1972)

COPPIA DI ANGOLIERE PER LA RESIDENZA CONTINI BONACOSSI, VILLA VITTORIA, FIRENZE, 1932

noce, ottone, cristallo

Realizzate dall’ebanisteria Quarti di Milano

alt. cm 256, prof. cm 55

Perizia rilasciata da Gio Ponti Archives n. 18145/000 in data 10/09/2018


Opera corredata di attestato di libera circolazione. 

Provenienza

Residenza Contini Bonacossi, Villa Vittoria, Firenze;

Collezione privata per discendenza diretta, Firenze

 

Bibliografia

Alcuni mobili di Tomaso Buzzi e di Gio Ponti nella dimora dei Conti C. in Firenze, “Domus”, n. 71, Novembre 1933, pp. 578-579;

U. La Pietra (a cura di), Gio Ponti, Milano 1995, p. 50 fig. 116;

E. Colle, A. Lazzeri, Villa Vittoria. Da residenza signorile a Palazzo dei Congressi di Firenze, Firenze 1995, p. 75;

I. de Guttry, M.P. Maino, Il mobile déco italiano. 1920-1940, Bari 2006, p. 214 fig. 16

 

VILLA VITTORIA. GLI AMBIENTI ED IL LORO ARREDO
Enrico Colle

Alessandro Contini Bonacossi, nato ad Ancona nel 1878, aveva iniziato insieme alla moglie Vittoria Galli la sua attività di collezionista e mercante di dipinti e sculture soprattutto di scuola italiana nel corso del suo soggiorno in Spagna durato fino al 1918, allorché si trasferì con la famiglia a Roma. Durante quegli anni il Contini intraprese diversi viaggi negli Stati Uniti dove incontrò numerosi collezionisti con i quali egli, oltre a concludere vantaggiosi affari che gli permisero di incrementare notevolmente la propria collezione, strinse anche rapporti di amicizia. Ed è proprio dalla frequentazione delle case dei magnati newyorkesi e dalle relazioni instaurate con l’industriale e collezionista piemontese Riccardo Gualino, attento estimatore delle tendenze dell’arte e dell’architettura contemporanea, che i Contini maturarono un proprio gusto anche per l’arredamento.
Trasferitisi a Firenze, la struttura solenne e nello stesso tempo funzionale della villa fatta costruire nella seconda metà dell’800 dal Marchese Massimiliano Strozzi in quella parte della città allora conosciuta col nome di Valfonda, incontrò subito il consenso di Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi, che avevano intravvisto nell’edificio, di recente costruzione ma di nobili origini, il luogo ideale per trasferirvi la propria collezione. Le ampie sale con le austere decorazioni neo-cinquecentesche ben si adattavano ad accogliere i capolavori della pittura e della scultura italiana del Rinascimento e del Barocco che i Contini avevano acquistato, al pari degli oggetti d’arte e dei mobili, a partire dai primi anni del Novecento, così come l’ultimo piano della villa poteva essere razionalmente ristrutturato per ricavarvi una comoda ed elegante abitazione. Acquistata nel 1931 la villa, che d’ora in avanti porterà il nome di Villa Vittoria in onore della moglie del Contini, fu ben presto riarredata seguendo un preciso criterio museale: al piano terreno e al primo piano fu esposta la collezione dei maestri antichi, mentre al secondo piano, dove risiedevano i proprietari, furono collocate le opere degli artisti contemporanei. Negli anni in cui la famiglia si trasferì a Firenze, le collezioni private che riscuotevano maggior interesse erano quelle di Frederick Stibbert, di Herbert Horne, di Stefano Bardini e di Elia Volpi. Tutte queste raccolte, che si erano formate tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, avevano un comune denominatore nella fantasiosa e originale disposizione dei pezzi nelle sale, ricche di oggetti e di opere d’arte fino all’inverosimile. In controtendenza il solo Bernard Berenson, che nella sua villa ai Tatti aveva collocato pitture e oggetti d’arte lungo le pareti ad una giusta distanza, affinché non entrassero in relazione tra loro. E proprio l’abitazione di Berenson fu presa a modello dai Contini, con un’esposizione che inseriva il pezzo d’epoca in un ambiente più sobrio e suggestivo, che puntava più sulla rarefazione che non sull’accumulo. D’altronde durante gli anni venti si era venuta maturando presso gli architetti e gli arredatori italiani una tendenza che portava ad escludere sempre più gli oggetti d’antiquariato disposti con profusione nelle stanze, a favore invece di un arredamento più funzionale dove anche l’opera d’arte antica trovava una sua precisa collocazione.Accanto alla celebre collezione d’arte antica i Contini avevano anche iniziato ad acquistare opere di artisti contemporanei, che furono collocate all’ultimo piano della villa dove la famiglia risiedeva abitualmente, e per cui fu creato un apposito allestimento con arredi disegnati dagli architetti emergenti Gio Ponti e Tommaso Buzzi di Milano e il romano Giulio Rosso. L'appartamento, completato entro il 1932 o al più tardi nell’inverno dell'anno seguente, fu oggetto di un articolo apparso sulla rivista Domus del novembre 1933 dove, oltre a pubblicare diverse immagini delle stanze, si metteva in evidenza come gli architetti fossero riusciti ad inserire armonicamente le opere d’arte contemporanea e gli arredi moderni da loro disegnati in un “ambiente prettamente classico fiorentino". Si trattava infatti di creare un arredamento che fosse funzionale alle esigenze della vita quotidiana dei padroni di casa e che valorizzasse allo stesso tempo la collezione superba di dipinti e sculture d‘artisti moderni italiani. La scelta quindi di due architetti appartenenti alla corrente neoclassica milanese, che si inseriva nella tradizione artigianale lombarda che aveva avuto in Albertolli e Maggiolini i suoi due maggiori esponenti, sanciva una volta di più quella direzione univoca contro l'eclettismo di marca dannunziana e umbertina portata avanti dalla coppia Contini Bonacossi. Nei mobili progettati per la “Camera da letto della Signora" o per la "Quadreria moderna” Buzzi e Ponti ripresero alcune idee dai disegni per interni presentati ad un concorso bandito nel 1926 dalla Rivista illustrata del popolo d'ltalia che aveva per tema l'arredamento di un'ambasciata d'Italia. In quell’occasione, come più tardi nei mobili Contini, essi avevano saputo fondere con "arte delicata e con sicuro intuito" le decorazioni parietali con gli arredi, ricollegandosi “alla tradizione italiana fra la fine del Settecento e il principio dell‘Ottocento” senza rimanerne succubi. I due architetti, si rilevava nelle pagine della rivista Architettura e Arti Decorative, erano riusciti ad evitare "il duplice pericolo d'una eccessiva aderenza alle forme degli stili antichi e d‘un facile orientamento verso forme indubbiamente nobili e moderne, ma non italiane”.

OMAGGIO A GIO PONTI, CATALOGO DELLA MOSTRA AL PALAZZO DELLA PERMANENTE, MILANO 1980
Rossana Bossaglia

Fra il 1930 e il 1931, come certificano le date apposte ai disegni preparati allo scopo, Gio Ponti incominciava a progettare una serie di mobili per il Palazzo dei Contini Bonacossi a Firenze, principiando da quelli destinati alla quadreria – panchette, sedili, un tavolo basso, consoles – L’impresa seguitava con l’arredo di vari altri ambienti della casa… Ponti disegnava ancora diversi mobili, e in particolare tutto un gruppo per il grande salotto-soggiorno…La sequenza di mobili dovuti a Ponti si presta egregiamente a una semplificazione del passaggio dallo stile decò – di cui lo stesso Ponti era stato campione nel primo decennio del dopoguerra - allo stile Novecento…L’occasione dell’arredo Contini è ghiotta occasione per ideare una suite che sia lussuosa ma non di parata, e non venga meno ai criteri di abitabilità: soprattutto per nei pezzi disegnati per il confortevole salotto, che vuole avere un piglio sciolto e una sua opulenza in sordina…Nel passaggio all’arredamento del salotto, l’ironia è caduta; di nuovo Ponti sceglie la sua ispirazione in un presunto arredamento romano, però alle sagome svelte, con tensioni lineari evidenti, si sostituiscono forme piene e solenni e insieme pacate; che non solo meglio corrispondono al più caldo concetto di un ambiente per conversazione e soggiorno, ma a un concetto di sostenuto decoro. Il giuoco intellettuale ha ceduto il passo a una riesumazione ideale: il benessere è sottolineato dall’apparenza pacificamente borghese dell’insieme, mentre all’ispirazione archeologica sono affidati lo scatto espressivo e la sottolineatura d’importanza.Per questo arredo, eseguito con tecnica elaboratissima da una ditta di qualità come quella di Mario Quarti, possiamo parlare di Novecento aulico: che interpreta cioè la lezione razionalista nel senso di negarsi a un decorativismo petulante, ma, riproponendo simbolici modelli antichi, si allinea più con l’architettura neoclassica che con quella di tipo funzionale.Che poi anche in questo momento della sua invenzione Ponti mantenga sotto sotto un sorriso sornione, è pure vero: l’artista non è mai serioso, il suo talento è nel segno della grazia. L’idea di un ambiente signorile che in chiave moderna faccia il verso all’antichità classica è un’idea, si è detto, non ironica, ma certo brillante; è la risposta di un uomo giusto alle impettite accademie archeologiche degli anni Trenta.

VILLA VITTORIA DA RESIDENZA SIGNORILE A PALAZZO DEI CONGRESSI IN FIRENZE, FIRENZE 1995, P. 9
Federico Zeri

Comunemente nota per le sue raccolte di Arte “antica”, Villa Vittoria era anche (nel secondo piano, dove risiedevano i proprietari) un capolavoro dell’arredamento italiano del Novecento. Non so dove si trovino oggi i mobili e gli altri arredi, disegnati da Tommaso Buzzi e da Gio Ponti, ed eseguiti da abilissimi ebanisti e bronzisti…Furono quelle scrivanie, quelle sedie, quelle porte, quelle librerie ad aprirmi gli occhi sulla eccezionale qualità di invenzione, di “stile”, e di esecuzione che ha caratterizzato l’architettura e l’artigianato italiano tra la fine degli anni ’20 e il decennio successivo.

GIO PONTI
Milano 1891-1972
Figura chiave delle vicende del design italiano, è l‘artefice più autorevole del rinnovamento delle arti decorative italiane negli anni Venti e Trenta. Si affaccia sulla scena in un periodo di grande incertezza stilistica. Accoglie il richiamo del “ritorno all'ordine” della classicità che serpeggia nel mondo artistico europeo, individuando nel recupero del classicismo la strada per superare la confusione, il cattivo gusto del neo-eclettismo imperante. Dotato di un’esuberanza creativa inesauribile, si dedica con pari impegno alla progettazione architettonica e a quella di oggetti e di arredi: in ogni occasione, con le parole, gli scritti, le mostre, le opere, si batte per la diffusione della propria concezione estetica e culturale.Soprattutto per quanto concerne gli arredi, e il disegno dei mobili in particolare, il gusto neoclassico di Ponti, ironico e garbato, idealmente derivato da quello lombardo dei primi dell’Ottocento, è così originale e incisivo da imporsi e fare da modello. Nella seconda metà degli anni Venti, seppure non istituzionalizzata, nasce attorno a Ponti e agli architetti a lui più strettamente legati, Buzzi, Lancia e Marelli, una “scuola milanese”. I suoi mobili, dalla sagoma leggera e aggraziata, di accurata fattura artigianale, realizzati in legni pregiati e rifiniti con guarnizioni metalliche - in bronzo dorato, argentato, verde - sono pezzi unici, di lusso, destinati alla ricca borghesia.

LA CASA ALL'ITALIANA
La casa all’italiana non è il rifugio, imbottito e guarnito, degli abitatori contro le durezze del clima, come è delle abitazioni d’oltralpe ove la vita cerca, per lunghi mesi, riparo dalla natura inclemente: la casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere in vita nostra, con lieta possessione, le bellezze che le nostre terre e i nostri cieli ci regalano in lunghe stagioni…La casa all’italiana è di fuori e di dentro senza complicazioni, accoglie suppellettili e belle opere d’arte e vuole ordine e spazio fra di esse e non folla o miscuglio. Giunge ad esser ricca con i modi della grandezza, non con quelli soli della preziosità.Il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto una “machine à habiter”. Il cosiddetto “comfort” non è nella casa all’italiana solo nella rispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita ed alla organizzazione dei servizi.Codesto suo “comfort” è in qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile, lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell’invito che la casa all’italiana offre al nostro spirito di ricrearsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste, nel pieno senso della bella parola italiana, il conforto.
Gio Ponti, in Domus, Gennaio 1928

MODERNO O NON MODERNO
Si disente e fervorosamente su questi termini. Vi son pochi argomenti anzi che più di questo facciano inferocire gli spiriti. Io vedo spesso brave, calme, educate persone congestionarsi perdere le staffe, perder lo stile appena pronunciano queste fatali parole: moderno, novecento. Non voglio certo attaccare polemiche: questa pianta fiorisce già da se nei giardini artistico-letterari d’Italia. Lasciamo andare anche le designazioni particolari che ha l’appellativo di novecento riferito a gruppi d’artisti, e badiamo invece al fenomeno. Lasciamo andare polemiche, definizioni, uomini, parti e fazioni e guardiamoci attorno considerando cose moderne o novecento quelle che sono del millenovecento.

Gio Ponti, in Domus, Novembre 1933

VILLA VITTORIA. GLI AMBIENTI ED IL LORO ARREDO

Enrico Colle

 

Alessandro Contini Bonacossi, nato ad Ancona nel 1878, aveva iniziato insieme alla moglie Vittoria Galli la sua attività di collezionista e mercante di dipinti e sculture soprattutto di scuola italiana nel corso del suo soggiorno in Spagna durato fino al 1918, allorché si trasferì con la famiglia a Roma. Durante quegli anni il Contini intraprese diversi viaggi negli Stati Uniti dove incontrò numerosi collezionisti con i quali egli, oltre a concludere vantaggiosi affari che gli permisero di incrementare notevolmente la propria collezione, strinse anche rapporti di amicizia. Ed è proprio dalla frequentazione delle case dei magnati newyorkesi e dalle relazioni instaurate con l’industriale e collezionista piemontese Riccardo Gualino, attento estimatore delle tendenze dell’arte e dell’architettura contemporanea, che i Contini maturarono un proprio gusto anche per l’arredamento.

Trasferitisi a Firenze, la struttura solenne e nello stesso tempo funzionale della villa fatta costruire nella seconda metà dell’800 dal Marchese Massimiliano Strozzi in quella parte della città allora conosciuta col nome di Valfonda, incontrò subito il consenso di Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi, che avevano intravvisto nell’edificio, di recente costruzione ma di nobili origini, il luogo ideale per trasferirvi la propria collezione. Le ampie sale con le austere decorazioni neo-cinquecentesche ben si adattavano ad accogliere i capolavori della pittura e della scultura italiana del Rinascimento e del Barocco che i Contini avevano acquistato, al pari degli oggetti d’arte e dei mobili, a partire dai primi anni del Novecento, così come l’ultimo piano della villa poteva essere razionalmente ristrutturato per ricavarvi una comoda ed elegante abitazione. Acquistata nel 1931 la villa, che d’ora in avanti porterà il nome di Villa Vittoria in onore della moglie del Contini, fu ben presto riarredata seguendo un preciso criterio museale: al piano terreno e al primo piano fu esposta la collezione dei maestri antichi, mentre al secondo piano, dove risiedevano i proprietari, furono collocate le opere degli artisti contemporanei.

Negli anni in cui la famiglia si trasferì a Firenze, le collezioni private che riscuotevano maggior interesse erano quelle di Frederick Stibbert, di Herbert Horne, di Stefano Bardini e di Elia Volpi. Tutte queste raccolte, che si erano formate tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, avevano un comune denominatore nella fantasiosa e originale disposizione dei pezzi nelle sale, ricche di oggetti e di opere d’arte fino all’inverosimile. In controtendenza il solo Bernard Berenson, che nella sua villa ai Tatti aveva collocato pitture e oggetti d’arte lungo le pareti ad una giusta distanza, affinché non entrassero in relazione tra loro. E proprio l’abitazione di Berenson fu presa a modello dai Contini, con un’esposizione che inseriva il pezzo d’epoca in un ambiente più sobrio e suggestivo, che puntava più sulla rarefazione che non sull’accumulo. D’altronde durante gli anni venti si era venuta maturando presso gli architetti e gli arredatori italiani una tendenza che portava ad escludere sempre più gli oggetti d’antiquariato disposti con profusione nelle stanze, a favore invece di un arredamento più funzionale dove anche l’opera d’arte antica trovava una sua precisa collocazione.

Accanto alla celebre collezione d’arte antica i Contini avevano anche iniziato ad acquistare opere di artisti contemporanei, che furono collocate all’ultimo piano della villa dove la famiglia risiedeva abitualmente, e per cui fu creato un apposito allestimento con arredi disegnati dagli architetti emergenti Gio Ponti e Tommaso Buzzi di Milano e il romano Giulio Rosso. L'appartamento, completato entro il 1932 o al più tardi nell’inverno dell'anno seguente, fu oggetto di un articolo apparso sulla rivista Domus del novembre 1933 dove, oltre a pubblicare diverse immagini delle stanze, si metteva in evidenza come gli architetti fossero riusciti ad inserire armonicamente le opere d’arte contemporanea e gli arredi moderni da loro disegnati in un “ambiente prettamente classico fiorentino". Si trattava infatti di creare un arredamento che fosse funzionale alle esigenze della vita quotidiana dei padroni di casa e che valorizzasse allo stesso tempo la collezione superba di dipinti e sculture d‘artisti moderni italiani. La scelta quindi di due architetti appartenenti alla corrente neoclassica milanese, che si inseriva nella tradizione artigianale lombarda che aveva avuto in Albertolli e Maggiolini i suoi due maggiori esponenti, sanciva una volta di più quella direzione univoca contro l'eclettismo di marca dannunziana e umbertina portata avanti dalla coppia Contini Bonacossi. Nei mobili progettati per la “Camera da letto della Signora" o per la "Quadreria moderna” Buzzi e Ponti ripresero alcune idee dai disegni per interni presentati ad un concorso bandito nel 1926 dalla Rivista illustrata del popolo d'ltalia che aveva per tema l'arredamento di un'ambasciata d'Italia. In quell’occasione, come più tardi nei mobili Contini, essi avevano saputo fondere con "arte delicata e con sicuro intuito" le decorazioni parietali con gli arredi, ricollegandosi “alla tradizione italiana fra la fine del Settecento e il principio dell‘Ottocento” senza rimanerne succubi. I due architetti, si rilevava nelle pagine della rivista Architettura e Arti Decorative, erano riusciti ad evitare "il duplice pericolo d'una eccessiva aderenza alle forme degli stili antichi e d‘un facile orientamento verso forme indubbiamente nobili e moderne, ma non italiane”.

 

E. Colle, A. Lazzeri, Villa Vittoria, da residenza signorile a Palazzo dei Congressi di Firenze, Firenze 1995, pp 25-38

 

 

OMAGGIO A GIO PONTI

Rossana Bossaglia

 

Fra il 1930 e il 1931, come certificano le date apposte ai disegni preparati allo scopo, Gio Ponti incominciava a progettare una serie di mobili per il Palazzo dei Contini Bonacossi a Firenze, principiando da quelli destinati alla quadreria – panchette, sedili, un tavolo basso, consoles – L’impresa seguitava con l’arredo di vari altri ambienti della casa… Ponti disegnava ancora diversi mobili, e in particolare tutto un gruppo per il grande salotto-soggiorno…

La sequenza di mobili dovuti a Ponti si presta egregiamente a una semplificazione del passaggio dallo stile decò – di cui lo stesso Ponti era stato campione nel primo decennio del dopoguerra - allo stile Novecento…

L’occasione dell’arredo Contini è ghiotta occasione per ideare una suite che sia lussuosa ma non di parata, e non venga meno ai criteri di abitabilità: soprattutto per nei pezzi disegnati per il confortevole salotto, che vuole avere un piglio sciolto e una sua opulenza in sordina…

Nel passaggio all’arredamento del salotto, l’ironia è caduta; di nuovo Ponti sceglie la sua ispirazione in un presunto arredamento romano, però alle sagome svelte, con tensioni lineari evidenti, si sostituiscono forme piene e solenni e insieme pacate; che non solo meglio corrispondono al più caldo concetto di un ambiente per conversazione e soggiorno, ma a un concetto di sostenuto decoro. Il giuoco intellettuale ha ceduto il passo a una riesumazione ideale: il benessere è sottolineato dall’apparenza pacificamente borghese dell’insieme, mentre all’ispirazione archeologica sono affidati lo scatto espressivo e la sottolineatura d’importanza.

Per questo arredo, eseguito con tecnica elaboratissima da una ditta di qualità come quella di Mario Quarti, possiamo parlare di Novecento aulico: che interpreta cioè la lezione razionalista nel senso di negarsi a un decorativismo petulante, ma, riproponendo simbolici modelli antichi, si allinea più con l’architettura neoclassica che con quella di tipo funzionale.

Che poi anche in questo momento della sua invenzione Ponti mantenga sotto sotto un sorriso sornione, è pure vero: l’artista non è mai serioso, il suo talento è nel segno della grazia. L’idea di un ambiente signorile che in chiave moderna faccia il verso all’antichità classica è un’idea, si è detto, non ironica, ma certo brillante; è la risposta di un uomo giusto alle impettite accademie archeologiche degli anni Trenta.

 

R. Bossaglia, Omaggio a Gio Ponti, catalogo della mostra, Palazzo della Permanente, Milano, 1980

 

 

VILLA VITTORIA, UN CAPOLAVORO DELL’ARREDAMENTO ITALIANO DEL NOVECENTO

Federico Zeri

 

Comunemente nota per le sue raccolte di Arte “antica”, Villa Vittoria era anche (nel secondo piano, dove risiedevano i proprietari) un capolavoro dell’arredamento italiano del Novecento. Non so dove si trovino oggi i mobili e gli altri arredi, disegnati da Tommaso Buzzi e da Gio Ponti, ed eseguiti da abilissimi ebanisti e bronzisti…

Furono quelle scrivanie, quelle sedie, quelle porte, quelle librerie ad aprirmi gli occhi sulla eccezionale qualità di invenzione, di “stile”, e di esecuzione che ha caratterizzato l’architettura e l’artigianato italiano tra la fine degli anni ’20 e il decennio successivo.

 

F. Zeri, in E. Colle, A. Lazzeri, Villa Vittoria, da residenza signorile a Palazzo dei Congressi di Firenze, Firenze, 1955, p. 9

 

 

 

GIO PONTI

Milano 1891-1972

Figura chiave delle vicende del design italiano, è l‘artefice più autorevole del rinnovamento delle arti decorative italiane negli anni Venti e Trenta. Si affaccia sulla scena in un periodo di grande incertezza stilistica. Accoglie il richiamo del “ritorno all'ordine” della classicità che serpeggia nel mondo artistico europeo, individuando nel recupero del classicismo la strada per superare la confusione, il cattivo gusto del neo-eclettismo imperante. Dotato di un’esuberanza creativa inesauribile, si dedica con pari impegno alla progettazione architettonica e a quella di oggetti e di arredi: in ogni occasione, con le parole, gli scritti, le mostre, le opere, si batte per la diffusione della propria concezione estetica e culturale.

Soprattutto per quanto concerne gli arredi, e il disegno dei mobili in particolare, il gusto neoclassico di Ponti, ironico e garbato, idealmente derivato da quello lombardo dei primi dell’Ottocento, è così originale e incisivo da imporsi e fare da modello. Nella seconda metà degli anni Venti, seppure non istituzionalizzata, nasce attorno a Ponti e agli architetti a lui più strettamente legati, Buzzi, Lancia e Marelli, una “scuola milanese”. I suoi mobili, dalla sagoma leggera e aggraziata, di accurata fattura artigianale, realizzati in legni pregiati e rifiniti con guarnizioni metalliche - in bronzo dorato, argentato, verde - sono pezzi unici, di lusso, destinati alla ricca borghesia.

Stima   € 90.000 / 120.000
Aggiudicazione  Registrazione
13

Henri-Jean-Guillaume Martin

(Tolosa 1860 - La Bastide-du-Vert 1943)

A CHACUN SA CHIMÈRE

olio su tela, cm 82,5x151

firmato in basso a destra

Opera corredata di attestato di libera circolazione.

 

L'opera è accompagnata da autentica di Cyrille Martin e dall'Avis d'insertion dans les archives destinées au Catalogue Raisonné d'Henri Martin, preparato da Marie-Anne Destrebecq-Martin.

 


Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia

Inedito

 

L’opera, inedita, che abbiamo il privilegio di presentare in questa vendita è lo studio preparatorio per il grande dipinto di Henri Martin A chacun sa chimère, oggi conservato al Musée des Beaux-Arts de Bordeaux, una delle opere simboliste più significative del pittore francese. Questa fu presentata al Salon de la Société des Artistes Français nel 1891. Al termine dell’esposizione fu acquistata dallo stato francese, che la inviò a Bordeaux a decorazione dell’Auditorium della Facoltà di Lettere, in Rue Pasteur, l’attuale sede del Musée d’Aquitaine. Nove anni dopo la grande tela fu trasferita nel museo della città, dove è tuttora conservata.

 

Durante l’esposizione del 1891 l’iconografia del dipinto catturò l’attenzione dei critici, suscitando numerosi commenti. Riportiamo la recensione di Maurice Demaison, pubblicata nella rivista parigina l’Artiste nel maggio 1891:

 

«Henri Martin ha tratto dai poemi in prosa di Baudelaire l'idea del suo bel quadro intitolato A ciascuno la sua chimera: nel deserto di una landa piatta e senza orizzonte, sotto un sole ardente che rende accecante il biancore della sabbia, dove si seccano gracili steli erbosi, avanza un lungo corteo che personifica tutte le vane illusioni dell'umanità. Tutti questi esseri umani portano sulle spalle la loro chimera e sotto questo fardello marciano malinconici, prostrati ma senza rivolta, rassegnati come persone "condannate a sperare sempre".

In testa al corteo un giovane tiene in mano una Vittoria di bronzo, e la gloria guerriera gli impedisce di ascoltare la Giovinezza che, sotto la figura di una donna nuda e alata, gli presenta una rosa con le sue dita affusolate.

Accanto procede, perduto nel suo sogno estatico, gli occhi rivolti al cielo, i piedi e le mani forati da stigmate divine, un frate vestito con un saio, simile a San Francesco d'Assisi, e sulle sue spalle si libra una bella figura della Fede, in lunghe vesti bianche, con ali rosate, le mani giunte in un gesto di ardente preghiera.

Poi un voluttuoso cammina schiacciato sotto la sua pesante chimera, una cortigiana dalla maschera bestiale, che lo incatena di fiori, pesa su di lui e si prende gioco della sua stanchezza.

Più in là c'è l'illusione della felicità familiare: l’infelice che ha accarezzato questo sogno appare il più miserabile fra tutti, perché trascina i figli affamati reggendo il peso di una donna troppo feconda che tiene un neonato alla mammella.

Si distingue ancora la chimera della scienza, quella dell'orgoglio sotto forma di pavone, quella dell'invidia, una bestia immonda, una sorta di drago la cui gola aperta ricopre, come un orrido elmo, la testa dell'invidioso.

E il corteo si prolunga, i segni divengono meno distinti e irriconoscibili. Occorre peraltro un po' di attenzione per districare il senso delle differenti chimere che accompagnano l'umanità nella sua marcia faticosa e che non sono state tutte comprese.

La Fede, ad esempio, occupa così esattamente il centro della composizione e domina così dall'alto tutto il gruppo che le si attribuisce un significato più generale, e alcuni critici vi hanno visto il simbolo dell'illusione. Si potrebbero dunque criticare alcune oscurità nei dettagli simbolici di quest'opera, ma il suo senso generale è semplice e lucido, e questo mi pare sia sufficiente».

 

Ringraziamo il Musée des Beaux-Arts di Bordeaux per le informazioni sul grande dipinto ivi conservato.

Stima   € 100.000 / 150.000
4

Gerrit van Honthorst, detto Gherardo delle Notti

(Utrecht 1590-1656)

RAGAZZO CHE SOFFIA SU UN TIZZONE

olio su tela, cm 97x71

 
Opera corredata di attestato di libera circolazione.

Provenienza

Roma, collezione Zingone

 

Esposizioni

Paris Tableau, Parigi, Palais de la Bourse, 7-12 novembre 2012, II; Gherardo delle Notti. Quadri bizzarrissimi e cene allegre. A cura di Gianni Papi.  Firenze, Galleria degli Uffizi, 10 febbraio – 24 maggio 2015, n. 12.

 

Bibliografia

G. Papi, in Tommaso Megna (a cura di), Fabio Massimo Megna. Paris Tableau. Catalogo della mostra, Roma 2012, pp. 10-15, II; G. Papi, Gherardo delle Notti. Quadri bizzarrissimi e cene allegre. Catalogo della mostra, Firenze 2015, pp. 150-151, n. 12.

 

Riconosciuto a Gerrit van Honthorst da Giuliano Briganti e da Erich Schleier in comunicazioni private alla proprietà, il dipinto è stato oggetto di uno studio circostanziato da parte di Gianni Papi in occasione delle mostre che hanno reso nota l’opera a un più ampio pubblico di collezionisti e studiosi e, nel caso dell’esposizione fiorentina, hanno consentito il confronto diretto e inequivocabile con il corpus documentato del pittore neerlandese.

Secondo quanto emerso in quell’occasione, il nostro Ragazzo che soffia su un tizzone deve anzi ritenersi la più antica versione di un soggetto destinato ad amplissima fortuna presso i caravaggisti di Utrecht, e una delle più antiche sperimentazioni di quelle scene notturne al lume artificiale così emblematiche della produzione di Honthorst da meritargli il soprannome di Gherardo delle Notti, con cui il pittore olandese fu noto presso i contemporanei e fino ai nostri giorni.

E’ verosimile che questa invenzione, estranea ai soggetti strettamente caravaggeschi, avesse un autorevole modello nel celebre dipinto di Domenico Theotokopoulos, El Greco (legato a sua volta a un’opera di Jacopo e Francesco Bassano) il Ragazzo che accende una candela soffiando su un tizzone ora nel museo di Capodimonte dalla collezione Farnese, noto per una replica firmata e diverse copie antiche che ne testimoniano la fortuna. Curiosamente, anche l’esemplare farnesiano, ricco di riferimenti eruditi alle pitture della Grecia classica descritte da Plinio il Vecchio, risulta attribuito a Gherardo delle Notti negli inventari del primo Ottocento.

E’ questa altresì la probabile fonte per un’altra composizione di Honthorst, ora di ignota ubicazione, dove un giovane dal cappello piumato accende una candela con un tizzone ardente, a sua volta precedente per un dipinto di Hendrick Ter Bruggen nel museo di Eger, Ragazzo che accende la pipa accostandola a una candela (1623) oltre che per altre varianti praticate dagli artisti di Utrecht, da Jan Lievens a Mathias Stomer.

Per il nostro dipinto Papi propone una datazione relativamente precoce, intorno alla metà del secondo decennio del secolo e dunque verosimilmente a metà del soggiorno romano di Honthorst, che si ritiene avvenuto tra il 1610/11 e l’estate del 1620. I confronti proposti dallo studioso rimandano a noti dipinti del pittore olandese, importanti anche per la loro probabile committenza da parte dei principali collezionisti della Roma seicentesca: il Concerto a tre figure, ora alla National Gallery di Dublino, forse dalla raccolta del cardinal Del Monte, e la Liberazione di San Pietro (Berlino, Staatliche Museen) dalla collezione Giustiniani.

 

Note biografiche

Nato a Utrecht nel 1590, Gerrit van Honthorst si formò nella bottega di Abraham Bloemaert, secondo quanto riferito dalle fonti biografiche. Per il suo arrivo a Roma, non documentato, è stata proposta una data intorno al 1610-11. Il suo studio sui modelli caravaggeschi è confermato da un disegno datato 1616 che riproduce la Crocefissione di San Pietro nella cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. La prima opera pubblica certificata da documenti risale all’anno successivo: si tratta della pala raffigurante S. Paolo rapito al terzo cielo commessagli dall’ordine Carmelitano per la chiesa di San Paolo a Termini e ora conservata nella chiesa di S. Maria della Vittoria. Seguono altre pale per i Cappuccini di Albano e per la chiesa di Santa Maria della Scala, e opere sacre e profane per committenti privati tra cui Vincenzo Giustiniani. Tra l’autunno del 1619 e la primavera del 1620, su committenza della famiglia Guicciardini, dipinge la pala per l’altare maggiore della chiesa di Santa Felicita a Firenze, poi agli Uffizi, gravemente devastata nel 1993, preludio ad altre commissioni fiorentine. Nel 1620 ritorna a Utrecht, dove avvia una carriera di enorme successo anche al servizio della corte d'Inghilterra, e abbandonando progressivamente i temi e lo stile della sua gioventù caravaggesca. Muore a Utrecht nel 1656.

 

 

Stima   € 300.000 / 500.000
Aggiudicazione  Registrazione
5

Gaspar van Wittel, detto Gaspare Vanvitelli

(Amersfoort (Utrecht) 1652/53 – Roma 1736)

VEDUTA DEL TEVERE CON CASTEL SANT’ANGELO E SAN PIETRO SULLO SFONDO

olio su tela, cm 49x98,5

Opera corredata di attestato di libera circolazione. 

Provenienza

Sua Altezza Reale la Principessa Reale Louise di Sassonia-Coburgo-Gotha, Duchessa di Fife (1867-1931); Londra, Christie’s, 18 dicembre 1931; collezione privata, Roma.

 

Bibliografia

Catalogue of Ancient and Modern Pictures the property of H.R.H the late Princess Royal removed from 15, Portman Square, W1. Now sold by direction of Lady Maud Carnegie. Christie’s, Londra, 18 dicembre 1931, p. 23, n. 134: “a view of Rome from the Tiber”; G. Briganti, Gaspar van Wittel. Nuova edizione a cura di Laura Laureati e Ludovica Trezzani, Milano 1996, p. 181, n. 133.

 

Referenze Fotografiche

Fototeca Federico Zeri, Bologna, scheda 62615

 

Vera e propria icona della Città Eterna ideata da Gaspar van Wittel per i viaggiatori del Grand Tour, la splendida veduta qui offerta unisce i documenti architettonici più imponenti e significativi della Roma classica e cristiana agli aspetti più quotidiani e feriali della vita dei suoi abitanti sulle rive del Tevere.

Presa dalla riva sinistra del fiume, e più precisamente da un punto elevato nei pressi di Tor di Nona, la veduta ha il suo punto focale nella mole circolare di Castel Sant’Angelo, la fortezza pontificia cresciuta sul nucleo centrale del mausoleo di Adriano e arricchita dei bastioni e cammini di ronda a picco sull’acqua. Alle vestigia del potere imperiale risponde, sullo sfondo della veduta, la basilica vaticana con i palazzi pontifici, mentre al centro ponte Sant’Angelo, ornato dalle statue eseguite tra il 1669 e il 1671 da Gian Lorenzo Bernini e dai suoi allievi, collega le due rive sostituendo l’antico ponte Aelius voluto da Adriano.

Non meno interessante il tessuto urbano minore, in parte distrutto alla fine dell’Ottocento per quel che riguarda gli edifici sulla riva sinistra del Tevere: tra questi si riconosce palazzo Altoviti, la cui facciata prospetta sulla piazza di ingresso al ponte. Più indietro, il complesso della chiesa e dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia, di cui si riconosce il caratteristico campanile esagonale; a destra, il tessuto minuto dei borghi, distrutti negli anni Trenta del secolo scorso per dar luogo a via della Conciliazione. Di probabile invenzione appare invece la terrazza in primo piano a sinistra, parte di un edificio troppo imponente e raffinato per inserirsi nel contesto popolare di Tor di Nona: ripetuta in tutte le versioni dipinte di questa veduta e presente anche nel suo disegno preparatorio, di cui si dirà, si tratta certo di un espediente prospettico immaginato da Vanvitelli per ancorare sul primo piano la fuga di edifici minori.

Sulla spiaggia in corrispondenza dell’arco di Parma sulla riva sinistra e sui prati di Castello su quella opposta, pescatori, bagnanti e sfaccendati affollano le rive del Tevere, solcato da piccole imbarcazioni; dalla terrazza in primo piano, due dame si sporgono per osservare la vita della città sul fiume.

Non è certo sorprendente che questa veduta, certo la più felice tra quelle che Gaspar van Wittel dedicò al corso del Tevere e al tessuto urbano antico e moderno lungo le sue rive, sia stata la più richiesta da parte dei collezionisti del pittore olandese così come dai viaggiatori stranieri che alla partenza da Roma desideravano riportare in patria un ricordo del proprio soggiorno o, più verosimilmente, un’immagine altamente simbolica della città visitata, allora la più ambita in Europa.

Conosciamo infatti undici redazioni di questa veduta (cfr. Gaspar van Wittel. Nuova edizione a cura di Laura Laureati e Ludovica Trezzani, Milano 1996, pp. 178-181, nn. 126-136), a cui se ne aggiungono altre due ancora inedite. La loro esecuzione si scala lungo l’intera attività del pittore olandese, con date che vanno dal 1682 al 1722. La versione più antica è infatti la tempera ora nella Pinacoteca Capitolina, dalla collezione dei marchesi Sacchetti, primi protettori di Gaspar van Wittel. Segue, l’anno successivo, la tempera ora alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, parte di una serie di quattro nella collezione di Livio Odescalchi, come documentato dal suo inventario del 1713. Come le altre della stessa serie, presenta al retro una scritta autografa in lingua olandese, che Van Wittel sempre utilizzò per le sue note personali. Una terza versione a tempera del 1689, infine, proviene verosimilmente da casa Colonna dove è tuttora conservata la tempera datata del 1722.

Seguono, negli anni Novanta e nel nuovo secolo, le redazioni a olio su tela e di formato più ampio, di cui la più grande ora nel Musée des Beaux Arts di Rouen, tutte fra loro corrispondenti nei tratti fondamentali ma più sviluppate sul lato destro della veduta che viene a includere così un tratto maggiore dei Prati di Castello. (Per tutte si veda il catalogo della mostra Gaspare Vanvitelli e le origini del vedutismo, Roma 2002, pp. 128-131, nn. 28 e 29). A questo secondo gruppo appartiene il dipinto qui offerto, verosimilmente eseguito nel primo decennio del Settecento.

Tutte derivano, come si è detto, dal grande disegno preparatorio (mm 237x480) ora presso la Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele a Roma (Disegni 3, III, 18) parte dell’importante fondo di studi preparatori vanvitelliani relativi alle sue vedute di Roma, Firenze, Napoli e Venezia. Usato ripetutamente per realizzare dipinti a tempera e a olio, il foglio presenta uno stato conservativo meno buono rispetto agli studi per soggetti di minore successo presso il pubblico di viaggiatori e collezionisti, e quindi utilizzati con minor frequenza se non addirittura un’unica volta. Meno popolare della nostra, ad esempio, la veduta del Tevere sotto i bastioni di Castel Sant’Angelo o quella, incantevole, con la chiesa di san Giovanni dei Fiorentini, appena oltre la nostra sul corso del fiume.

Proposto per la prima volta da Gaspar van Wittel, il soggetto della nostra veduta sarà ripetuto con la stessa inquadratura in numerosissime vedute incise e dipinte, tra cui quelle di Giuseppe Vasi e di Antonio Joli, per limitarci al XVIII secolo.

Proveniente dalla collezione privata della Principessa Reale Louise, figlia del re Edoardo VII, e venduto in asta dopo la sua morta per disposizione della figlia, Lady Maud Carnegie, come opera di Gaspare Vanvitelli, il dipinto qui offerto è stato confermato al pittore olandese da Giuliano Briganti in una comunicazione scritta alla proprietà, e successivamente pubblicato nel catalogo generale curato nel 1996 da Laura Laureati e Ludovica Trezzani.

 

Note Biografiche

Formatosi nella città natale nella bottega di Matthias Withoos, Gaspar van Wittel è documentato a Roma per la prima volta nel gennaio del 1675. Dopo una prima attività di disegnatore topografico per l’ingegnere olandese Cornelis Meyer, nel 1680 comincia la sua attività di vedutista con disegni destinati all’incisione e una piccola tempera raffigurante piazza del Popolo. Negli anni immediatamente successivi elabora la maggior parte dei suoi soggetti romani, con vedute dedicate al tessuto architettonico della città moderna più che alle sue antiche rovine, ai suoi palazzi di destinazione sacra e profana e alle piazze recentemente sistemate, così come al corso del Tevere. Il suo primo viaggio in Lombardia, documentato da una veduta delle isole Borromee sul lago Maggiore, risale al 1690, mentre nel 1694-95 un viaggio più lungo lo conduce a Venezia, dopo una sosta di alcuni mesi a Firenze a servizio della corte medicea. Nel 1699 si trasferisce a Napoli al servizio del vicerè spagnolo, il duca di Medinaceli, già ambasciatore a Roma e cognato del principe Filippo II Colonna, il più importante committente del pittore olandese. Torna a Roma nel 1702, avendo dipinto le prime vedute moderne di Napoli e in particolare quella della Darsena vicereale, in assoluto il suo soggetto più replicato e richiesto.

Le vedute italiane di Van Wittel e i suoi paesaggi di invenzione nel gusto di Claude Lorrain erano ricercati dai più illustri viaggiatori stranieri, per lo più inglesi e francesi. Tra i suoi primi clienti inglesi sono da ricordare Thomas Coke (1697-1759), poi primo conte di Leicester, e Richard Boyle (1694-1753), Lord Burlington: il primo acquistò durante il suo Grand Tour e in anni successivi non meno di quindici opere di Van Wittel, a olio, a tempera e all’acquarello, alcune delle quali direttamente dall’artista nel 1716-17; il secondo comprò nel 1714 dodici disegni a inchiostro e acquarello, mentre dipinti a olio entrarono nella sua collezione nel 1720 grazie al pittore e mercante Andrew Hay.

La committenza dei viaggiatori del Grand Tour e dei collezionisti stranieri impose a Van Wittel di selezionare, tra i molti soggetti documentati dai suoi disegni preparatori, le vedute più iconiche della Roma antica e moderna, di Venezia e di Napoli, lasciando da parte quelle dedicate a luoghi minori e meno visitati, che pure oggi ci colpiscono per la loro inconsueta modernità.

Stima   € 500.000 / 800.000
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