Oggetti d'arte e Scultura, Porcellana e Maiolica

31 MAGGIO 2018

Oggetti d'arte e Scultura, Porcellana e Maiolica

Asta, 0255
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15.00
Esposizione

FIRENZE
25 - 29 Maggio 2018
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   300 € - 30000 €

Tutte le categorie

31 - 60  di 124
31

Attribuito a Alceo Dossena

(Cremona 1878 – Roma 1937)

MADONNA COL BAMBINO

bassorilievo in marmo, diametro cm 77, spessore cm 8

 

Sulle eccezionali doti di scultore e imitatore degli stili del passato di Alceo Dossena il giudizio della critica è sempre stato pressoché unanime: Otto Kurz affermava infatti come il Dossena fosse stato in grado di “afferrare i fatti fondamentali dello stile personale di un artista, unendoli a un’espressione corretta” (cfr. O. Kurz, Falsi e falsari, Venezia 1961, pp. 140-146), e Carlo Ludovico Ragghianti lo stigmatizzava quale “vero artista” (C. Ludovico Ragghianti, I falsi artistici, in “Critica d’Arte”, VIII, 65, 1961, pp. 1-27).

Il suo profilo di scultore è stato quindi tratteggiato non solo descrivendo la sua duttilità tecnica che gli consentiva di riprodurre lo stile di ogni epoca, ma facendo emergere il suo personalissimo “tocco”, mai subordinato all’autore imitato (L. Azzolini, Alceo Dossena.  L’arte di un grande “falsario”, Cremona 2004, con bibliografia precedente).

Grazie agli studi che si sono susseguiti negli ultimi decenni è possibile dunque riconoscere le peculiari caratteristiche del suo fare artistico così legato ai moduli espressivi dei secoli passati, anche all’interno della sua documentata produzione di veri e propri falsi; produzione che è possibile circoscrivere soprattutto tra il 1818 e il 1828, anno quest’ultimo in cui il Dossena ruppe i suoi accordi con gli antiquari responsabili della circolazione di questi manufatti.

La bravura nel lavorare il marmo, restituendo un morbido plasticismo alle figure, contraddistingue il tondo qui offerto entro il quale è circoscritta la Sacra Famiglia, dove emerge chiaramente la personalità del Dossena nella definizione delle parti anatomiche e nella scioltezza con cui riesce a rendere le pieghe del manto e del velo sul capo della Madonna. Quel mosso chiaroscuro che incornicia il suo volto caratterizza altre realizzazioni dello scultore quale un rilievo firmato, passato in asta nel 2004 alla Finarte a Milano, in questo caso chiaramente ispirato a un modello donatelliano (cfr.  L. Azzolini, Alceo Dossena. L’arte di un grande “falsario”, Cremona 2004, p. 75).

 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Attribuito a Alceo Dossena

(Cremona 1878 – Roma 1937)

ANNUNCIAZIONE

tabernacolo in marmo, cm 85,5x90,5x17  

 

 

Il bassorilievo qui offerto rientra nella produzione scultorea di Alceo Dossena, intrinsecamente legata a moduli espressivi rinascimentali ma contraddistinta da alcune personali caratteristiche ben individuabili.

Il tabernacolo marmoreo che fa da cornice alle elegantissime figure della Madonna e dell’Angelo annunciante richiama infatti il naturalismo classicheggiante della scultura della seconda metà del Quattrocento fiorentino ma negli occhi oblunghi, nei nasi diritti e nelle bocche leggermente tumide e appena schiuse in un sorriso che rimane solo abbozzato, si riconosce facilmente la firma del Dossena. Gli stessi lineamenti luminosi si ritrovano per esempio negli angeli porta candelabro della tomba di Caterina Sabelli, oggi in ubicazione sconosciuta, ma le cui vicende e passaggi di proprietà sono stati ampiamente tratteggiati a partire dalla vendita della parte centrale da parte dell’antiquario Elia Volpi al Boston Museum of Fine Art nel 1924, con l’attribuzione a Mino da Fiesole, e in seguito rispedito al mittente in quanto scoperto il nome del vero autore (L. Azzolini, Alceo Dossena. L’arte di un grande “falsario”, Cremona 2004, p. 68).

                      

                                                                          

                                                                          

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
41

Bottega di Isaia da Pisa, Roma, seconda metà secolo XV

FIGURA FEMMINILE PANNEGGIATA ALL’ANTICA

scultura in marmo, cm 83x28

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

F. Caglioti, Precisazioni sulla Madonna di Isaia da Pisa nelle Grotte Vaticane, in “Prospettiva”, 47, 1986, pp. 58-64

F. Caglioti, Su Isaia da Pisa. Due Angeli reggicandelabro in Santa Sabina all’Aventino e l’altare eucaristico del Cardinal d’Estouville per Santa Maria Maggiore, in “Prospettiva”, nn. 89-90, ottobre 1998, pp. 125-160

 

 

L’interessante scultura qui presentata mostra una figura femminile vestita con una lunga tunica legata in vita e un mantello ampiamente panneggiato che dalle spalle passa davanti alle gambe e si appoggia al braccio sinistro. La capigliatura si dispone lungo il volto in due grossi boccoli laterali ricavati con un esteso lavoro di trapano.

L’opera, che proviene da un’importante collezione romana, è una rara testimonianza della bottega di Isaia da Pisa, scultore principe a Roma prima dell’avvento dei maestri moderni toscani come Mino da Fiesole e i Rossellino, o adriatici come Giovanni Dalmata.

I confronti più stringenti con Isaia da Pisa si possono fare con la lunetta del tabernacolo del corpo di Sant’Andrea nell’antica basilica di San Pietro a Roma, ora conservata nelle Grotte Vaticane. Il modo di panneggiare è analogo e l’ovale del volto quasi sovrapponibile con gli occhi sgranati (con cornea e pupilla incisa), i capelli pettinati in una forma regolare quasi astrattamente decorativa, la bocca e il naso piccoli.

La data di quell’altare, che fu rinnovato tra il 1463-64, è utile per collocare anche la scultura qui offerta che probabilmente apparteneva ad un complesso funerario o a un altare di difficile identificazione dopo che la scultura ha perso l’attributo iconografico che aveva nelle mani.

La fisionomia della figura si avvicina molto a quella delle virtù teologali per la tomba del cardinale Antonio Martinez de Chavez (1448-1450) in San Giovanni in Laterano, rimontate poi da Francesco Borromini nel Seicento.

Alcuni punti di contatto per quanto riguarda lo stile antiquario dei panneggi si trovano anche con l’altare di Eugenio IV e Pietro Bembo (altare degli Orsini) sempre nelle grotte Vaticane, del 1451, dove le pieghe del manto di San Paolo sono affini a quelle della nostra scultura.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
43

SCULTURA, ITALIA ADRIATICA, SECOLI XIII-XIV

in pietra raffigurante la manticora, cm 47x87x35

 

Nei bestiari medievali la manticora è raffigurata come una sorta di leone con la coda di scorpione e un grottesco volto umano. Già nel III secolo d. C. lo scrittore e filosofo Eliano attesta nel suo De Natura animalium l’esistenza in Asia di un animale che chiama Marticoras o Manticoras, ovvero “colui che divora gli uomini”. Alla fine del XIII secolo Brunetto Latini descrive lo spaventoso animale come “una bestia di quel paese [India], che ha faccia d’uomo e colore del sangue, ed occhi gialli, corpo di leone coda di scorpione, e corre così forte che nessuna bestia gli può sfuggire. Mangia soprattutto carni e ama la carne d’uomo” (Li Livres dou trésor, lib. 1, CXCV).

Parallelamente alla diffusione, a partire dal XII secolo, delle raccolte di descrizioni di animali favolosi e leggendari rivestiti di significati religiosi e morali, i bestiari appunto, anche i portali e le facciate delle chiese si popolarono di tali creature. 

Appollaiata su una mensola sporgente all’esterno di un edificio religioso, quasi in atto di spiccare un balzo, doveva trovarsi la manticora qui presentata, posta nel mondo medievale in antitesi al leone cristico che resuscita i suoi piccoli, essendo al contrario una terribile devastatrice.

La tipologia della scultura può trovare collocazione nell’area adriatica tra il XIII e il XIV secolo, assai aperta alla cultura e all’immaginario orientale.

 

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
51

Scuola toscana, secolo XVIII

CARAMOGI

quattro sculture in terracotta, alt. cm 75 circa

 

Nella terza edizione del Vocabolario dell’Accademia della Crusca (1691, vol. 2, p. 287, consultabile on-line: www.lessicografia.it) alla voce Caramogio si legge: “Dicesi di persona piccola e contraffatta”. Si tratta infatti di un’accezione tutta toscana del genere della caricatura nella quale si distinse, nei decenni centrali del XVII secolo, il fiorentino Baccio del Bianco con le sue scenette giocose di nani impegnati a bere, a suonare strumenti musicali o a darsi battaglia a colpi di ciambelle, quelle “storie de’ caramogi” che secondo Filippo Baldinucci, “fece egli [Baccio] in atti e gesti sì nuovi, e sì bizzarri, che non è chi abbia veduto ancora cosa simile” (F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno (1681- 1728), edizione a cura di F. Ranalli, Firenze 1847, vol. V, pp. 33-34).

Pur inserendosi all’interno di una tradizione che potrebbe essere fatta risalire alla poesia satirica e burlesca toscana che ebbe come protagonista all’inizio del Cinquecento Francesco Berni, è nella produzione grafica di Jacques Callot, e in particolare nella serie di acqueforti intitolata Varie figure di gobbi, venti tavole disegnate a Firenze nel 1616 ma pubblicate poco dopo il rientro dell’artista francese a Nancy, tra il 1621 e il 1625 - come indica il frontespizio -, che secondo la critica si inaugura in Toscana la moda delle figure caricate e dei caramogi (cfr. D. Ternois, Jacques Callot. Catalogue complet de son oeuvre dessiné, Paris 1962-1999, vol. I, pp. 40-41).

Lo stesso Callot e conseguentemente il già menzionato Baccio del Bianco e il più noto Stefano della Bella, nel mettere in scena goffi cavalieri e maldestre coppie che ballano dalle proporzioni deformate, oltre che ridotte, poterono senz’altro alimentare la loro fantasia dalla documentata presenza di nani alla corte dei Medici, protagonisti di spettacoli teatrali e, durante il carnevale, impegnati per esempio in singolari competizioni a cavallo di tartarughe (S. Cheng, Parodies of Life: Baccio del Bianco’s Drawing of Dwarf, in Parody and Festivity in Early Modern Art. Essay on Comedy and Social Vision, a cura di David R. Smith, Farnham 2012, pp. 127-141). Se la presenza di nani non è cosa inusuale nemmeno in altre corti europee, i Medici furono una delle prime famiglie a includerli nei manufatti artistici da loro commissionati: celebre è il nano Morgante la cui buffa figura, scolpita da Valerio Cioli nel 1560, andò a decorare, per volere di Cosimo I, una delle fontane del giardino di Boboli di Palazzo Pitti.

Concepiti per l’arredo di un giardino furono senz’altro anche i quattro allegri caramogi qui presentati, due abbigliati come giullari di corte mentre gli altri come gentiluomini.

Interessante e significativo è il confronto con i nani in terracotta che tutt’oggi decorano i pilastri e alcune panche all’interno del giardino del Casino Guadagni a Firenze, oggi meglio conosciuto come Palazzo San Clemente, sede della facoltà di Architettura (via Micheli 2, angolo via Gino Capponi). Si tratta di due contadine e due villani, intenti l’uno a mangiare e l’altro a bere, unici superstiti del cospicuo nucleo di statue di soggetto villereccio e venatorio, realizzate per lo più da uno dei principali scultori fiorentini di metà del Seicento, Domenico Pieratti, a partire dal quinto decennio del Seicento. La loro ideazione è stata accostata proprio alle bizzarre invenzioni di Baccio del Bianco, attivo all’interno del Casino Guadagni negli affreschi di alcune sale (cfr. R. Spinelli, Indagini sulle decorazioni secentesche del Casino Guadagni “di San Clemente” a Firenze, in “Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te”, 1996, pp. 63-64).

I nostri caramogi, forse un’allegoria dell’autunno, per i grappoli d’uva che tengono trionfalmente nelle loro mani, possono essere collocati nella seconda metà del XVIII secolo.

 

 

Stima   € 12.000 / 15.000
59
Scultore attivo a Brescia (Antonio Mangiacavalli?)
DIO PADRE BENEDICENTE,1510 CIRCA
bassorilievo in marmo, cm 70 x 14

Il rilievo raffigurante Dio padre benedicente inserito entro un tondo molto probabilmente doveva essere una chiave di volta.
Il modo con cui sono state definite le pieghe, rigide pur senza raggiungere le spigolosità che vediamo nelle sculture di Amadeo, suggerisce che l'autore del nostro rilievo guardasse già ad opere della fine del Quattrocento o del primo Cinquecento. Tra quelle di tale periodo il volto di questo tondo mostra una certa affinità con il ritratto di Niccolò Orsini per il  proprio monumento funebre, attualmente nel Museo di Santa Giulia a Brescia, attribuito ad Antonio Mangiacavalli, scultore di origine comasca documentato nel 1501 per aver fornito otto colonne per la residenza bresciana di Giacomo Paolo Rovati, ricordato l'anno successivo in una iscrizione sul portale della chiesa di San Lorenzo a Carzago, e identificabile con quell'Antonio da Como che tra 1506 e 1509 realizza con Gaspare Cairano il portale del Duomo di Salò. Il viso di questo Dio padre benedicente richiama quello di Niccolò Orsini per la sua conformazione, per il modo con cui la capigliatura attorno il volto è incisa profondamente mentre la peluria della barba è appena scavata, invece è diversa nei due volti la resa dei capelli sulla fronte (estremamente ferma e regolare per il Dio padre, piuttosto mossa e libera nel ritratto dell'Orsini). Questa differenza trova la sua spiegazione proprio nel fatto che capelli così fatti servono a caratterizzare il ritratto funebre dell'Orsini. 
L'autore di questo Dio padre benedicente sembra aver tenuto conto per la sua realizzazione anche di alcune sculture importanti di epoca tardogotica, ad esempio quella di medesimo soggetto, attribuita a Filippino da Modena, che si trova sul finestrone absidale del Duomo di Milano ed è databile tra 1400 e 1405. In queste due opere infatti è simile l'andamento fluente della capigliatura e della barba e il modo con cui le quattro ciocche si separano: due si posano sopra le spalle e le altre scendono lungo il petto. Un altro elemento di questo Dio padre benedicente sembra attestare la conoscenza di opere milanesi: il gesto di benedizione, nel quale le quattro dita che si oppongono al pollice sono poste in  una maniera che ricorda un'opera di ambito milanese attribuita a Marco d'Oggiono, ovvero Salvator Mundi  della Galleria Borghese di Roma, databile agli inizi el XVI secolo.
Rimane da appurare se questo Antonio fosse parente dei tre fratelli lapicidi comaschi, di nome Vincenzo, Stefano e Francesco e di cognome Mangiacavalli, attivi tra la fine del XV secolo e l'inizio del successivo tra Vicenza, Cremona, Rezzato, Milano e Pavia. 
Stima   € 20.000 / 30.000
31 - 60  di 124