DIPINTI ANTICHI

15 MAGGIO 2018

DIPINTI ANTICHI

Asta, 0250
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15:30
Esposizione

FIRENZE
11 - 14 Maggio 2018
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   2000 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 58
58

Agostino Ciampelli

(Firenze 1565- Roma 1630)

MADONNA CON IL BAMBINO E SAN GIOVANNINO

olio su rame, cm 22x16,8

 

 

Agostino Ciampelli rientra tra i pittori fiorentini la cui formazione giovanile si svolse nell'ambito della riforma antimanieristica di Santi di Tito che mirava a una semplificazione formale dei soggetti e a una maggior aderenza alla realtà nei suoi aspetti più teneri e quotidiani.

Nel 1589 Ciampelli lavorò all'interno della bottega del maestro per gli apparati decorativi in occasione delle nozze di Ferdinando I dei Medici e Cristina di Lorena eseguendo su un arco di trionfo provvisorio al canto dei Carnesecchi la scena con il Duca di Guisa che assale Calias. Dopo aver eseguito a Palazzo Corsi, intorno al 1593, un ciclo di affreschi con Storie di Caino e Abele e di Ester ed Assuero, ottenne l'apprezzamento del cardinale Alessandro de' Medici (futuro papa Leone XI), che divenne suo protettore; si trasferì quindi a Roma dove rimase fino alla morte nel 1630.

Il delizioso olio su rame qui presentato, raffigurante la Madonna con il Bambino e San Giovannino, rientra nella produzione tipica di Ciampelli le cui opere si distinguono per la pennellata corposa e densa e per la forte carica devozionale dovuta alla vicinanza agli stilemi della Controriforma. Dolce è il gesto di Maria che mostra a San Giovannino Gesù bambino addormentato alzando il velo del lenzuolo ricoperto di fiori. Si tratta di un delicato espediente dell'artista per prefigurare la tragedia della morte di Gesù.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
16

λ

Francesco Vanni

(Siena, 1563 –1610)

LA VERGINE INCORONATA DA GESU' BAMBINO

olio su rame, cm 28,5x21

 

Esposizioni

Federico Barocci (1535-1612). L'incanto del colore. Una lezione per due secoli, Siena, Complesso Museale di Santa Maria della Scala, 11 ottobre 2009 - 10 gennaio 2010

 

Bibliografia

Federico Barocci (1535-1612). L’incanto del colore. Una lezione per due secoli, a cura di A. Giannotti e C. Pizzorusso, Cinisello Balsamo, Milano, 2009, pp. 294-295, n. 25

 

Il raffinato olio su rame qui presentato è opera del pittore Francesco Vanni, uno dei più importanti maestri della scuola senese del tardo manierismo. Vanni fu un pittore prolifico e un fervente cattolico appartenente alla congregazione dei Sacri Chiodi, confraternita che ebbe un grande rilievo nella diffusione dei dettami del Concilio di Trento a Siena nella seconda metà del Cinquecento.

L'artista si formò dapprima nella sua Siena avendo come maestro il patrigno Arcangelo Salimbeni che aveva sposato la madre e come fratellastro Ventura Salimbeni; dopo i primi rudimenti si trasferì a Bologna per ampliare gli orizzonti culturali e studiare sulle opere dei Carracci.

Tornato negli anni Novanta del Cinquecento a Siena, realizzò dipinti d'arte sacra, permeati dei nuovi canoni stilistici della Controriforma, come la pala per l'altare di Sant'Ansano nel duomo di Siena e per l'altare maggiore nella chiesa di San Niccolò in Sasso.

A Roma tra 1600 e 1604 Vanni lavorò per la basilica di San Pietro seguendo l'esempio dei manieristi romani ed entrando ben presto a contatto con la magistrale lezione di Federico Barocci. Da questo straordinario pittore ereditò una pittura intensamente devota, soprattutto nelle composizioni eleganti e ricche di dolcezza.

Il delizioso dipinto su rame qui offerto, dove il piccolo Gesù incorona la madre mentre incede con la luna sotto i piedi, di apocalittica memoria, portando con sè uno stuolo dorato di vaporose nuvole e teneri cherubini, sopra un terso sfondo paesistico toscano, è una testimonianza evidente della sua pittura che si contraddistingue per la forza di colorito di derivazione baroccesca e il vibrante sentimento religioso.

Attesta infine che la composizione fu ideata dall'artista senese un'incisione eseguita da Cornelis Galle nella quale in basso a sinistra compare la dicitura "Franciscus Vannius invent." (Hollstein VII.55.115): viene qui riporodotto come confronto l'esemplare in controparte conservato presso il British Museum (fig. 1).

 

 

 

DIDASCALIA PER FOTO DI CONFRONTO:

fig. 1 Cornelis Galle I, da Francesco Vanni, La Vergine incoronata da Gesù Bambino, Londra, British Museum (inv. V,3.42)

 

 

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
18

λ

Pier Francesco di Jacopo Foschi

(Firenze 1502–1567)

MADONNA CON BAMBINO E SAN GIOVANNINO

olio su tavola, cm 121x95,5 entro cornice riccamente intagliata e dorata

Iscritto al retro della tavola, in senso opposto, “n. 4”.

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

A. Pinelli, Pier Francesco di Jacopo Foschi, in “Gazette des beaux-arts”, 69, 1967, pp. 87-108;

A. Nave, Una proposta di identificazione per il Giallo Fiorentino: Pier Francesco di Jacopo Foschi, in “Venezia arti”, 15/16, 2001/02(2005), pp. 55-66.

 

Importante inedito di Pier Francesco Foschi, il dipinto qui offerto arricchisce in maniera significativa il corpus del pittore fiorentino, riunito per la prima volta da Antonio Pinelli nel 1967 in uno studio pioneristico seguito alle aperture del Giglioli e del Gamba nella prima metà del secolo e alle ricerche erudite del Milanesi, parziale risarcimento del silenzio quasi totale delle Vite vasariane, dove le scarse notizie sul pittore si ricavano dalle biografie dei suoi contemporanei.

Allievo di Andrea del Sarto e verosimilmente attivo nella sua bottega fino agli anni estremi di Andrea alla fine del terzo decennio del Cinquecento, Foschi risulta iscritto all’Accademia di San Luca a partire dal 1535, data a cui si può ragionevolmente far risalire la sua attività giovanile, in attesa della produzione documentata tra il 1540 e il 1550.

Strettamente legato all’esempio di Andrea, pur in assenza di un modello specifico, il gruppo dei sacri personaggi nel nostro dipinto lo interpreta tuttavia alla luce di declinazioni più aggiornate della Maniera fiorentina, dove principale riferimento è la plastica michelangiolesca. Sebbene infatti il volto del Bambino ripeta tipi consueti di Andrea, e la Vergine si ispiri palesemente, nell’ovale del volto incorniciato dalle pieghe rigide del manto, alla Madonna della pala di Gambassi alla Palatina, il modello d’insieme per la posa dei personaggi nel nostro dipinto e per le loro relazioni va piuttosto ricercato in una tavola di uguale soggetto di Jacopino del Conte (fig. 1), pubblicata per la prima volta da Federico Zeri e recentemente analizzata da Andrea Donati, che ne propone una datazione alla metà del quarto decennio del Cinquecento (A. Donati, Michelangelo Buonarroti, Jacopino del Conte, Daniele Ricciarelli. Ritratto e figura nel Manierismo a Roma, San Marino 2010, pp. 127, nota 62)..

Una data che l’estrema sapienza formale del nostro dipinto e, per l’appunto, la qualità scultorea dei suoi protagonisti consiglierà forse di posticipare alla metà degli anni Quaranta, non lontano dagli affreschi documentati nell’oratorio della villa Franceschi (già Rosselli del Turco) a Ponte a Ema. Una certa stilizzazione del panneggio della Vergine, dove le pieghe rosate della veste trovano un esatto richiamo in quelle verdi del manto, fanno infatti presagire analoghe soluzioni nella Trasfigurazione di Santo Spirito, tra il 1545 e il 1550.

Sebbene il tipo della Vergine e del Bambino ritorni in opere più tarde quali la Madonna col Bambino nel museo di Chambéry riferita al Foschi dalla Gregori e datata da Pinelli intorno al 1550, la ricchezza cromatica della nostra tavola precede di certo la qualità “esangue” che, per molta parte della critica, distingue la produzione tarda dell’artista fiorentino.

Interprete di un sentimento religioso austero e devoto, Foschi arricchisce la nostra composizione con un motivo inedito o quanto meno raro, il ramo spinoso che trattiene il perizoma del Battista: un’allusione alla semplicità del Precursore che sembra esortare alla pratica del cilicio.

 

DIDASCALIA PER IMMAGINE DI CONFRONTO

Fig. 1 Jacopino del Conte, Madonna col Bambino e San Giovannino, collezione privata

Riproduzione fotografica, Fototeca Zeri, Bologna, scheda 16297

 

 

 

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
52

λ

Christian Berentz

(Amburgo 1658-Roma 1722)

PESCHE E UVA SU UN PIANO DI PIETRA CON FIORI DI GELSOMINO

olio su tela, cm 42,7x52,3

siglato e datato a destra tra le foglie “C. B. 1717”

 

Provenienza

Londra, Sotheby’s, 1993; collezione privata

 

Bibliografia

G. Bocchi – U. Bocchi, Pittori di natura morta a Roma. Artisti stranieri 1630-1750, Viadana 2005, p. 287 e 289, fig. CB 5.

 

Raffinatissimo esempio della produzione romana di Christian Berentz, il dipinto propone una composizione già sperimentata con alcune varianti dall’artista amburghese in un dipinto di minori dimensioni che differisce dal nostro per i fiori in primo piano – in quel caso uno solo – e per lievi varianti nelle fratture della lastra di pietra, oltre che per l’assenza di sigla e data.

Quest’ultima consente di riferire il dipinto a un’epoca molto avanzata dell’artista, e lo rende quasi coevo di una composizione di identiche dimensioni ma arricchita da un cesto di prugne datata del 1716 (Bocchi, citato, p. 289, fig. CB 4) e addirittura coincidente per data con il cosiddetto “Spuntino elegante”, forse il più celebre tra il gruppo di nature morte di Berentz a Roma nella Galleria Corsini.

E’ questo, peraltro, il modello iconografico e compositivo ripreso dal suo unico allievo identificabile con certezza, Maximilian Pfeiler, attivo a Roma almeno fino al 1721 e, diversamente dal maestro, a capo di una numerosa bottega che diffuse con esiti alterni i modelli raffinati e curatissimi del pittore di Amburgo.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

λ

Francesco Furini

(Firenze, 1603-1646)

BACCANTE

olio su tela, cm 76,5x72,4

 

Provenienza

collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

Pitture fiorentine del Seicento, Firenze 1987, pp. 72-74, scheda 24

Un’altra bellezza. Francesco Furini, a cura di M. Gregori e R. Maffeis, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, 22 dicembre 2007-27 aprile 2008, Firenze 2007, p. 250, scheda 52

G. Cantelli, Francesco Furini e i furiniani, Firenze 2010, tavole 4, 4a, 4b, 35, 35A, 36

 

L’inedito dipinto qui offerto, raffigurante una giovane donna in atto di porgere una coppa, si può ricondurre con certezza alla mano del pittore Francesco Furini.

La recente pulitura del quadro ha reso evidente le caratteristiche tipiche di questo importante maestro fiorentino: il viso tenero della modella con i particolari occhi allungati, i capelli di seta che ricadono in delicate ciocche sulla spalla, il candore della pelle che rifulge dal fondo scuro, e il brano di natura morta costituito dalla coppa e dalla raffinata brocca d’argento lavorata a sbalzo e istoriata con una scena mitologica. Questi elementi di oreficeria ritornano in molte celebri opere dell’artista dal Parto di Rachele (Staatsgalerie im Neuen Schloss Schleißheim) alla Temperanza del Museo de Arte di Ponce, fino alla Circe della Pinacoteca di Lucca, per citarne solo alcune.

La nostra affascinante fanciulla può essere accostata, per affinità stilistiche e formali, al bel dipinto raffigurante l’Allegoria della Poesia Lirica, immagine di copertina della monografia su Furini scritta da Giuseppe Cantelli nel 2010.

Le due tele presentano molti punti di contatto: i lineamenti del volto delle protagoniste, la posizione del busto e delle mani, il panneggio che lascia scoperti la spalla e il seno sinistro e, non ultime, le dimensioni.

La composizione di entrambi i dipinti deriva con buona probabilità dai celebri disegni conservati al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.

Il primo (G.D.S.U. n. 922 E) rappresenta una testa di donna coronata di alloro, il secondo (G.D.S.U. n 9702 F) uno studio per una mano che sorregge una coppa.

La testa femminile laureata è ritenuta dagli studiosi preparatoria per l’Allegoria della Poesia della National Gallery of Scotland di Edimburgo, quadro che faceva parte della collezione del marchese Gerini, intenditore e cliente della bottega del pittore.

Questa felice invenzione pittorica è stata però replicata dal Furini divenendo una sorta di “marchio di fabbrica” tale da renderlo celebre e molto richiesto dalla committenza fiorentina, sedotta dalle sue enigmatiche figure.

La datazione che possiamo ipotizzare per il nostro quadro si aggira intorno alla fine degli anni Trenta del Seicento sia per la differenza stilistica con le opere giovanili del 1628-30 sia per la convincente derivazione dai disegni degli Uffizi che vanno accostati ai fogli preparatori per gli affreschi nel Salone degli Argenti e quindi agli anni 1639-42.

Il restauro del quadro ha permesso anche di chiarire il soggetto rappresentato; infatti, prima della pulitura, la figura appariva con una grande corona di alloro dietro la testa che non aveva però pertinenza iconografica con il resto degli attributi (la brocca e la coppa). Adesso invece, rimosse le ridipinture, si scorgono nitidamente le foglie di vite intrecciate ai capelli che ci inducono a identificare la donna come una baccante piuttosto che come un’allegoria della Poesia.

Del resto la giovane tiene nelle mani gli strumenti per la libagione e sembra offrirci la stessa bevanda che le ha imporporato le guance e annebbiato lo sguardo che si perde in un timido invito al piacere.

 

Si ringrazia il professor Giuseppe Cantelli per aver confermato l’attribuzione dopo un esame dal vero del dipinto.

 

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
27

λ

Domenico di Bartolomeo degli Ubaldini, detto Domenico Puligo

(Firenze 1492-1527)

MADONNA CON BAMBINO E SAN GIOVANNI BATTISTA IN UN PAESAGGIO

olio su tavola, cm 76x60,6

 

Questo inedito dipinto destinato alla devozione privata rielabora un modello compositivo più volte sperimentato da Domenico Puligo negli anni della sua prima attività indipendente, intorno al 1515.

Il confronto immediato è infatti con la nota tavola della Galleria Borghese, la cui tradizionale attribuzione all’artista fiorentino è stata recentemente confermata da Elena Capretti: il gruppo principale della Vergine col Bambino, tratto dallo stesso modello, vi risalta su uno sfondo di paesaggio che, diversamente dal nostro, presenta tuttavia solo piccolissime figure.

Il dipinto della Borghese rielabora a sua volta una versione lievemente più antica venduta a Londra da Sotheby’s nel 1953 e forse proveniente dalle collezioni medicee (G.A. Gardner, The Paintings of Domenico Puligo. Ph. D. Diss. Ann Arbor (MI) 1987, n. 8, fig. 13). Una variante della stessa composizione, infine, è conservata a Montpellier, Musée Fabre (Gardner, 1987, n. 10, fig. 15): vi compare a destra nel paesaggio un’immagine del Battista virtualmente sovrapponibile a quella che nel nostro dipinto è raffigurata a sinistra.

L’opera qui presentata si distingue appunto per la raffigurazione, intorno al motivo centrale della Madonna dell’Umiltà, di una serie di episodi neo-testamentari sapientemente distribuiti nel paesaggio: procedendo in senso antiorario, riconosciamo infatti in lontananza, sulla cima del monte, l’annuncio ai pastori; su un piano intermedio, il giovane Battista indica Cristo; a destra, Cristo risorto appare alla Maddalena, concludendo il ciclo salvifico dell’Incarnazione. Un’eccezione a questa sequenza narrativa è la figura femminile nimbata, forse Sant’Apollonia, alle spalle della Maddalena: oggetto di specifica devozione, essa allude forse alla committenza della nostra tavola, mentre appaiono privi di un significato specifico i personaggi presso la città sullo sfondo.

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
37

λ

Thomas van der Wilt

(Delft, 1659-1733)

RITRATTO DI FAMIGLIA

olio su tela, cm 152,5x123

firmato e datato 1708 in basso a destra sul gradino

 

Provenienza

Colonia, Lempertz, 12 marzo 1938

Londra, Christie, 11 dicembre 1987

New York, Sotheby, 1 giugno 1990

 

Referenze fotografiche

Rijksbureau voor Kunsthistorische Documentatie (RKD), n. 95633

 

L’opera è corredata di perizia scritta di Eduard A. Safarick, datata 13 febbraio 1995.

 

L’autore di questo articolato Ritratto di famiglia è il pittore e incisore Thomas Van Der Wilt, attivo fra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento a Delft, dove fu allievo di Jan Verkolje, noto ritrattista e pittore di genere.

Offre uno stringente confronto con la nostra, un’altra sua tela firmata raffigurante una Coppia al tavolo da gioco, conservata presso la Gemäldegalerie di Berlino, citata da Safarick nella perizia che accompagna l’opera.

Il ritratto di gruppo qui offerto veicola non solo le effigi dei componenti della famiglia, purtroppo anonima, e del loro elevato stato sociale ma, nella migliore tradizione della pittura olandese, un preciso messaggio etico e morale, legato all’educazione dei bambini, qui in posa insieme ai genitori nel giardino della loro dimora.

Allude alla crescita dei figli, il nido con quattro uccellini che tiene in mano la bimba sulla carrozzella trainata da una capretta, simbolo del vizio che deve essere domato, contrapposto alla presenza, dalla parte opposta, del virtuoso agnello.

In secondo piano spicca un grande vaso con un bassorilievo raffigurante una scena bacchica, un’immagine di dissolutezza contrastata da un emblema del saldo legame matrimoniale quale il putto in volo che regge la nappa del tendaggio rosso e un anello.

 

Stima   € 7.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
41

λ

Bottega di Claude Joseph Vernet, sec. XVIII                                           

LE CASCATE DI TIVOLI (LA JEUNE NAPOLITAINE A LA PECHE)                     

olio su tela, cm 44x61                                                    

firmato J. Vernet in basso a sinistra                                     

                                                                          

Provenienza                                                               

Londra, Knoedler; collezione privata                                      

                                                                          

Questa scena campestre di gusto arcadico e ambientazione italianizzante è 

nota con titoli diversi tra cui, più noto e diffuso nel Settecento grazie 

all'incisione in controparte trattane da Le Veau e così intitolata, La jeune

napolitaine à la pèche.                                                      

Nel catalogo delle opere dell'artista francese, ancor oggi l'unico esistente

anche se inevitabilmente superato, Florence Ingersoll-Smouse riproduce    

l'incisione collegandola alla menzione di un dipinto eseguito da Vernet nel

1755 per Monsieur Vitali ed esposto al Salon nel 1757 insieme al pendant, 

Temps orageux nell'accostamento, caro al pittore e ai suoi committenti, di 

situazioni opposte tra loro per situazione atmosferica e sentimentale (F. 

Ingersoll Smouse, Joseph Vernet, Paris 1926, I, n. 657; II, LXV, sotto il 

numero 146).                                                              

Il dipinto documentato del 1755 non è a tutt'oggi identificato e la versione

qui offerta, che i dati stilistici consigliano di posticipare ad anni più 

avanzati nell'itinerario dell'artista, ne è comunque una delle migliori     

repliche eseguite nella bottega, a differenza di altre passate sul mercato

antiquario e con ogni evidenza dipendenti dall'incisione, che riproducono il dipinto in controparte.

Stima   € 20.000 / 25.000
45

λ

Scuola Veneziana, fine del sec. XVIII 

IL BUCINTORO A SAN NICOLO' DI LIDO

olio su tela, cm 67x100

 

Proveniente da una raccolta veneziana, l’inedito dipinto qui presentato riproduce con pressoché assoluta fedeltà e con identiche dimensioni la nota veduta di Francesco Guardi ora al museo del Louvre, parte della celebre serie dedicata alle cerimonie dogali composta da dodici tele ora divise tra il Louvre e altri musei della Francia e del Belgio.

I numerosi interventi sulla serie da parte dei principali specialisti di Settecento veneziano sono stati riassunti da Margherita Azzi Visentini in occasione della mostra organizzata nel 1993 dalla Fondazione Cini di Venezia a cura di Sandro Bettagno (Francesco Guardi. Vedute Capricci Feste. Venezia, Isola di San Giorgio Maggiore, 28 agosto – 21 novembre 1993) a cui fu esposta anche la tela del Louvre da cui la nostra deriva (si veda il catalogo, Venezia 1993, pp. 177-180 e 186-87, dove il dipinto è tuttavia riprodotto al contrario).

Come ormai accertato, il ciclo delle cerimonie dogali dipinto da Francesco Guardi tra il settimo e l’ottavo decennio del Settecento si pone in stretta relazione con la serie di incisioni pubblicate a Venezia nel 1766 da Francesco Furlanetto ed eseguite da Giovan Battista Brustolon su invenzione del Canaletto. Poiché le tavole recano l’iscrizione “Antonius Canal pinxit” si è anzi pensato che esistesse una sua serie dipinta – in realtà mai rintracciata – o che fosse sua quella di cui il nostro soggetto fa parte, riconosciuta invece a Francesco Guardi in maniera definitiva a partire dagli studi di Giuseppe Fiocco nel 1923.

Di Antonio Canal si conoscono invece dieci disegni, “belli quanto quadri” secondo il parere di un testimone settecentesco, acquistati a Venezia nel 1789 da sir Richard Colt Hoare; dispersi a una vendita Christie’s nel 1883, sono stati eccezionalmente riuniti a Venezia cent’anni dopo, di nuovo ad opera della Fondazione Cini (Canaletto. Disegni. Dipinti. Incisioni, Venezia 1982. Catalogo a cura di A. Bettagno, pp. 51-52, nn. 64-72). Il confronto tra disegni, incisioni e dipinti stabilisce peraltro la derivazione della serie dipinta da quella incisa, stabilendone l’ante quem nel 1766. Unico riferimento a una possibile committenza del ciclo è il dogato di Alvise IV Mocenigo (1763-1778), di cui compare in alcune tavole il ritratto e lo stemma.

Eseguite nel corso di un decennio a partire dal 1766, le tele di Francesco Guardi rimasero a Venezia per un tempo assai breve, se già nel 1793 erano sequestrate dal governo rivoluzionario francese al collezionista belga, il barone de Pestre de Seneffe, che da un tempo imprecisato le possedeva a Parigi.

Insieme all’episodio che lo precede – la partenza del Bucintoro dal Molo - e che si riferisce anch’esso alla Sensa, la festa del Redentore, il Ritorno del Bucintoro da San Nicolò oggi al Louvre è anzi considerato per motivi stilistici una delle ultime scene del ciclo ad essere stata dipinta, un dato che restringe in maniera considerevole il lasso di tempo in cui la nostra tela poté essere eseguita, nella stretta cerchia di Francesco Guardi e forse proprio nella sua bottega.

La tela raffigura, come si è detto, il corteo dogale che dopo il ricevimento presso il convento di San Nicolò attraverso un passaggio coperto effimero si imbarca nuovamente sul Bucintoro per tornare a Venezia. Protagonista della scena è però la laguna veneta solcata da imbarcazioni di ogni tipo per questa celebrazione della Serenissima ormai in declino.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
48

λ

Domenico Corvi

(Viterbo 1721 – Roma 1803)

AMORE E PSICHE

olio su tela, cm 99x73

 

Nel dar conto della propria visita allo studio romano di Domenico Corvi nel 1785, il conte Bernardino di Campello ricordava, tra i numerosi dipinti finiti e pronti per la consegna “un altro quadro di mezzana grandezza (...) Psiche che a lume di una lucerna sta osservando Amore che dorme” (cfr. V. Curzi, in Domenico Corvi. Catalogo della mostra, Roma 1998, p. 43 e p. 49, note 41-43).

Non si trattava del nostro dipinto ma, verosimilmente, della versione “in grande” (cm 172x121) commessa al pittore viterbese dal principe Nicolaj Borisovich Jusupov nell’agosto del 1784. Il dipinto qui offerto è infatti un secondo esemplare di dimensioni ridotte della tela ora all’Ermitage di San Pietroburgo dipinta per il principe, inviato dello zar a Torino dal 1783 al 1789, grande mecenate e leggendario collezionista d’arte che negli anni della sua permanenza in Italia fu più volte a Roma. Il tema erotico di Amore e Psiche doveva essere particolarmente caro al diplomatico russo, consulente artistico di Caterina II e dal 1797 direttore dell’Ermitage Imperiale, visto che fu lui a commissionare ad Antonio Canova la seconda versione di Amore e Psiche che si abbracciano oggi all’Ermitage (1794-1796).

Tratto distintivo di Domenico Corvi secondo il conte di Campello, la capacità “nel dipingere a lume di notte”, una caratteristica che il giovane aristocratico potè apprezzare in molte altre opere dell’artista viterbese ammirate nella stessa occasione: il celebre Funerale di Ettore e la tragica fine dii Leandro “colorito a lume di notte vicino allo spuntare dell’Alba”. Caratteri che ammiriamo nel nostro dipinto, così aggiornato al gusto e alla sensibilità del tardo Settecento sospeso tra Classico e Romantico.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
43

Andrea Belvedere

(Napoli 1652 - 1732)

COMPOSIZIONE FLOREALE CON VASI ISTORIATI E SCIMMIA

olio su tela, cm 122x183,5

 

Esposizioni

Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli. A cura di Nicola Spinosa. Napoli, Museo di Capodimonte, 12 dicembre 2009 – 11 aprile 2010, n. 1.252

 

Bibliografia

R. Nauclerio, in Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli. Catalogo della mostra, Napoli 2009, I, p. 427, n. 1,252.

 

Come osservato da Rosanna Nauclerio in occasione della mostra napoletana in cui il dipinto fu esposto, la tela qui offerta si iscrive nell’ultima attività di Andrea Belevedere al ritorno dalla corte di Madrid nel 1700. Una datazione non troppo lontana da quell’anno è poi suggerita dal noto passo di Bernardo De Dominici, che aveva certo conoscenza diretta dell’artista, secondo il quale negli ultimi trent’anni della sua esistenza Andrea Belvedere abbandonò l’attività di pittore per dedicarsi esclusivamente al teatro. E’ comunque al suo periodo più tardo che appartengono le tele di imponente formato dove composizioni di fiori all’aperto si accompagnano a frammenti architettonici e a rilievi scolpiti, e spesso ad animali, per lo più volatili: queste infatti le soluzioni proposte nei dipinti, da tempo noti, nella Galleria Palatina e nel Museo Stibbert a Firenze, e nel Museo Correale di Terranova a Sorrento dove è riunita la maggior parte delle opere pubbliche dell’artista.

Come è noto, si tratta di soluzioni compositive largamente debitrici dell’esempio della scuola romana, trasmessa a Napoli da Abraham Brueghel dopo il 1670 e rinnovata, nell’ultimo decennio del secolo, dalla declinazione più aggiornata e aperta all’Europa proposta da Karel van Vogelaer e Franz Werner Tamm. Da qui, gli esiti di seguaci del Belvedere che, come Lopez e Casissa, ripeteranno questi modelli nel corso della prima metà del Settecento variandoli tuttavia con il loro personalissimo stile.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
44

Antonio Amorosi

(Comunanza 1660 – Roma 1738)

LA TENTAZIONE DI SAN BENEDETTO

LA TENTAZIONE DI SANT'ANTONIO

coppia di dipinti a olio su tela, cm 45x58,5

(2)

 

Provenienza

Londra, Heim Gallery (1969); Roma, Finarte, 16 maggio 1974; Roma, collezione Fabrizio Lemme e Fiammetta Luly Lemme; Roma, collezione privata

 

Esposizioni

Antonio Mercurio Amorosi 1660-1738. La cultura figurativa del 700 tra le Marche e Roma. Comunanza, Museo di Arte Sacra, 13 agosto – 8 ottobre 2016.

 

Bibliografia

G. Sestieri, Repertorio della pittura romana della fine del Seicento e del Settecento, Torino 1994, I, p. 14; II, figg. 17-18; C. Maggini, Antonio Mercurio Amorosi pittore (1660-1738). Catalogo generale, Rimini 1996, pp. 126-27, nn. 33 a-b; M.R. Valazzi in Antonio Mercurio Amorosi 1660-1738. La cultura figurativa del 700 tra le Marche e Roma. Catalogo della mostra, Roma 2016, pp. 48-49.

 

Da tempo noti agli studi sul Settecento romano e a lungo assenti, invece, dal mercato dell’arte, i dipinti qui presentati costituiscono una delle prove più raffinate della produzione di Antonio Amorosi, e addirittura un episodio del tutto eccezionale in una carriera dedicata, come si sa, alla scena di genere di piccolo formato, settore in cui l’artista marchigiano non ebbe rivali nella Roma tra Sei e Settecento.

Rare e di scarsa fortuna le opere di destinazione pubblica commesse ad Amorosi nei primi anni del secolo, tali comunque da confermarlo nella scelta di dedicarsi a un genere che, sebbene minore agli occhi della cultura accademica, riscuoteva comunque un discreto successo presso i collezionisti privati e, dopo le prove dei Bamboccianti alla metà del Seicento, aveva conosciuto nella seconda metà del secolo una variante di grande fortuna ad opera di Eberhard Keil, il Monsù Bernardo con cui a lungo Amorosi fu appunto confuso.

Nelle scene qui offerte persiste in effetti il gusto aneddotico e descrittivo che caratterizza la produzione più nota di Antonio Amorosi e che possiamo riconoscere anche nella cura dedicata agli oggetti, accessori di scena che nella Tentazione di San Giacomo sono raffigurati con la cura di uno specialista in natura morta.

Particolarmente raffinata, ed esaltata da un perfetto stato conservativo, la scelta cromatica che, in entrambe le scene, declina in diverse sfumature il bianco, il rosa e il marrone, in una ricerca di grazia elegante – assolutamente riuscita e in questo caso – del tutto conforme agli ideali dell’Arcadia.

Anche negli sfondi paesistici Amorosi si mostra perfettamente aggiornato su quanto a Roma, negli stessi anni, veniva proposto con universale successo da Jan Frans van Bloemen e dai suoi seguaci.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
23

Artista Caravaggesco attivo a Roma, primo quarto del sec. XVII

SANT’AGATA VISITATA IN CARCERE DA SAN PIETRO E DA UN ANGELO

Olio su tela, cm 103,5x144

 

Del tutto ignoto agli studi storico-artistici come peraltro al mercato, il dipinto che qui presentiamo si inserisce con ogni evidenza nel panorama variegato del caravaggismo romano nel terzo decennio del Seicento e, più verosimilmente, nella sua variante proposta dai pittori oltremontani.

La storia della miracolosa guarigione della giovane martire cristiana ad opera di un imbarazzato San Pietro, come riportata dalla Bibliotheca Sanctorum, è qui raffigurata in un quadro “da stanza”, poco più grande di una tela “d’imperatore”, e messa in scena da personaggi a tre quarti di figura e a grandezza naturale, colti all’interno di uno spazio appena suggerito nei suoi elementi essenziali emergenti dall’ombra. Una soluzione che, sebbene applicata a una scena sacra, non può non ricordare la manfrediana methodus generalmente vòlta a temi quotidiani e talora licenziosi o violenti.

Possibile precedente per il nostro dipinto, la tela di uguale soggetto dipinta intorno al 1614 da Giovanni Lanfranco, ora nella Galleria Nazionale di Parma: un dipinto dove nonostante la grazia “lombarda” i violenti contrasti di lume e i gesti serrati dei protagonisti rimandano al mondo caravaggesco. Più disteso e declamatorio il clima del nostro dipinto, già attento a quella retorica degli “affetti” che solo più tardi sarà compiutamente teorizzata ma ben presto, nel quarto decennio del secolo, troverà espressione nella pittura barocca: vediamo qui all’opera, insomma, un artista che sebbene formato sui modelli caravaggeschi si sforza di uscire da quella sorta di impasse rappresentata dalla “istoria… senza attione” che Giovanni Pietro Bellori avrebbe rimproverato al Merisi e per estensione ai suoi primi seguaci.

Vari elementi suggeriscono di ricondurre il nostro dipinto all’ambito di Simon Vouet e di accostarlo alla produzione romana dei primi anni Venti del maestro francese.

Non a caso, due versioni di questo soggetto, forse non autografe ma verosimilmente semplice riflesso di un’opera non ancora identificata, lo presentano in modi non lontani dalla nostra tela (cfr. B. Nicolson, Caravaggism in Europe, II edizione, Torino 1989, II, figure 727 e 729). Ancora più pertinenti, tuttavia, i confronti con opere documentate del suo ultimo tempo romano, la Circoncisione un tempo nella chiesa napoletana di Sant’Angelo a Segno, in deposito al museo di Capodimonte, firmata e datata da Roma nel 1622, e alcuni passaggi delle storie mariane nella cappella Alaleona a San Lorenzo in Lucina, dipinte a fresco tra l’autunno del 1623 e i primi mesi del 1624. Nella pala napoletana, e in particolare nelle figura della Vergine e della donna in primo piano ritroviamo infatti il modello per la nostra Sant’Agata dal profilo appuntito e i capelli raccolti, e i veli trasparenti che celano e esaltano le carni morbide, su cui non restano tracce del crudele martirio. Anche l’angelo adolescente dai rossi capelli arruffati trova i suoi affini sul soffitto e i pennacchi della cappella Alaleona, che costituiscono un riferimento cronologico e stilistico per il dipinto qui offerto.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
28

Bartolomeo Bimbi

(Settignano 1648 – Firenze 1729)

VASO DI FIORI IN UN PAESAGGIO CON FRUTTA, UN SERPENTE E UN VOLATILE

VASO DI FIORI IN UN PAESAGGIO CON FRUTTA E UNA TARTARUGA

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 88x117

(2)

 

Provenienza

Volterra, collezione Inghirami

 

Riconosciuta da Mina Gregori come opera di Bartolomeo Bimbi, questa splendida coppia di composizioni floreali all’aperto, eccezionalmente in prima tela e prive di ritocchi significativi, si iscrive nel tempo estremo del pittore fiorentino, nel terzo decennio del Settecento.

Immediato è infatti il confronto tra il secondo dipinto qui presentato e la tela, minore per dimensioni ma pressoché identica negli elementi che la compongono, firmata per esteso dal pittore fiorentino e datata del 1720, per lui il settantaduesimo, come precisa con un tocco di civetteria. Passato in asta da Sotheby’s a New York il 14 gennaio 1994 (lotto 192), il dipinto citato è stato pubblicato da Gianluca e Ulisse Bocchi (Naturaliter. Nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, p. 514, fig. 648).

Il dipinto si situa dunque in immediata prossimità con quello, datato del 1721, venduto in queste sale nel novembre 2015. Sebbene maggiori per dimensioni e diversamente articolate nell’ambiente paesistico, anche le nostre composizioni evidenziano la relazione con i modelli romani di Paolo Porpora, il primo a introdurre animali – rettili e tartarughe – nelle sontuose composizioni di fiori all’aperto dipinte per il cardinale Flavio Chigi e per altri committenti romani: c’è da chiedersi se Bimbi ne avesse vista qualcuna quando appena ventenne, nel 1669, aveva trascorso qualche mese a Roma frequentando tra l’altro anche Mario dei Fiori, ormai molto anziano.

Sebbene il suo intento naturalistico e fondamentalmente descrittivo, così tipico della scuola fiorentina, diverga profondamente dall’impetuosa fantasia dell’artista napoletano, non c’è dubbio che proprio a quest’ultimo si debba una contaminazione di soggetti, all’interno del genere della natura morta, ripreso anche da Bartolomeo Bimbi in altre due tele minuziosamente descritte dal Baldinucci che le dice eseguite dall’artista per se stesso e per proprio piacere (ma forse, diremmo noi, per mostrare a possibili clienti futuri l’ampiezza e la varietà del suo registro espressivo): “… due gran vasi d’oro in tela di due braccia e mezzo circa posati in terre erbose e alla campagna, con ogni specie di fiori….” completati da uccelletti che volano, grilli, una serpe e una tartaruga. In tutto corrispondenti ai nostri dipinti ma generalmente identificate in due tele passate sul mercato antiquario e oggi di ignota ubicazione (Bartolomeo Bimbi. Un pittore di piante e animali alla corte dei Medici, Firenze 1998,  pp. 102-103, nn. 39-40) i dipinti citati, datati rispettivamente del 1716 e del 1718, tradiscono l’adesione dell’artista ai modelli romani e in particolare a quelli di Paolo Porpora.

Non lontano cronologicamente dalle tele citate, il nostro dipinto conferma altresì il passo del Baldinucci che sottolinea come il Bimbi continuasse a dipingere in età molto tarda senza mai smarrire la vista acuta e il polso fermo dei suoi anni giovanili, licenziando dunque opere per nulla inferiori a quelle che a cavallo del secolo e nel primo decennio del Settecento avevano visto il suo trionfo alla corte dei Medici.

 

 

 

 

 

Stima   € 60.000 / 80.000
15

Bernardo Strozzi

(Genova 1581 – Venezia 1644)

NATURA MORTA CON FIORI, MELE, PERE E ARANCE SU UN TAVOLO

Olio su tela, cm 38x50,5

 

Provenienza

Volterra, collezione Inghirami

 

Attribuito a Bernardo Strozzi da Mina Gregori in una comunicazione privata alla proprietà, questo inedito dipinto costituisce un’importante aggiunta al catalogo del maestro genovese tra terzo e quarto decennio del Seicento collocandosi, verosimilmente, verso il termine cronologico più alto. Tra i possibili confronti, infatti, la composizione di fiori e frutta caratterizzata dalle boules-de-neige disposte in un vaso centrale, oggi nel Museo della Natura Morta di Poggio a Caiano databile, secondo Camillo Manzitti, tra il 1620 e il 1625 (Bernardo Strozzi, Torino 2013, p. 242, n. 386).

Come nel nostro dipinto, la natura morta spicca sul fondo scuro più spesso abbandonato dal pittore a favore di quello, unito ma di colorazione tra il grigio e il verde che, secondo alcuni studiosi, richiamerebbe quello della Canestra di frutta caravaggesca all’Ambrosiana. Nella tela fiorentina compare poi a destra la stessa coppa in ceramica con fiori a stelo corto che nel quadro qui offerto vediamo sul lato opposto; la ritroviamo peraltro con la stessa funzione a destra nella tela un tempo presso Wildenstein e ora in collezione privata a New York, esposta a Monaco e a Firenze nel 2003 (Natura morta italiana tra Cinquecento e Settecento, a cura di Mina Gregori, riprodotta in catalogo a pagina 312). Insieme al dipinto pendant, la natura morta ex Wildenstein è stata al centro di una serie di ipotesi alternativamente a favore di Bernardo Strozzi o di Simone del Tintore, che proprio la mostra fiorentina sembra aver risolto per il pittore genovese. A quest’ultimo è poi attribuita un’altra composizione di frutta e ortaggi su fondo scuro dove spicca in primo piano un arancio in parte sbucciato confrontabile a quello, bellissimo, in primo piano nel nostro dipinto (fig. 1; cfr. G. e U. Bocchi, Naturalia. Nature morte in collezioni pubbliche e private, Torino 1992, p. 68, riprodotto a colori). Lo stesso motivo, peraltro assai raro, compare anche nella composizione con fiori in vasi di ceramica e piatto con frutta della Fondazione Terruzzi, dalla galleria Pardo (Naturalia, cit., 1992, p. 65, fig. 24; Fascino del Bello. Opere d’arte dalla Collezione Terruzzi. Catalogo a cura di Annalisa Scarpa e Michelangelo Lupo, Milano 2007, p. 195, III.6).

Allo Strozzi veneziano della nota Allegoria della primavera e dell’Estate a Dublino rimanda poi la materia pittorica liquida e spumeggiante dei fiori raccolti qui in un vaso di rame, come del resto l’intonazione fredda dei frutti in primo piano.

 

DIDASCALIA FOTO DI CONFRONTO

fig. 1 Bernardo Strozzi, Natura morta con frutta e ortaggi, collezione privata

Riproduzione fotografica, Fondazione Federico Zeri, scheda 88382

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
6

Bottega di Orazio Samacchini, sec. XVI

SAN GIOVANNINO PORTATO IN CIELO DAGLI ANGELI, SANTA CATERINA E SANTO MONACO

Olio su tela, cm 84x68

 

Provenienza

Firenze, Pandolfini, 10 dicembre 1987;

collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

U. Bazzotti, Laureti e Samacchini: due tele nel Palazzo Ducale di Mantova, in “Paragone” 39.1988, pp. 75-80;

J. Winkelmann, Orazio Samacchini in Pittura bolognese del 500, 2, Bologna 1986, pp. 631-682

 

Il dipinto è corredato di parere scritto di Mina Gregori che lo ritiene autografo del Samacchini.

 

La dinamica composizione riprende con qualche variante quella dipinta in una piccola pala conservata nei depositi del Palazzo Ducale di Mantova (olio su tela, cm 115x95, inv. 12218). Riconosciuta e pubblicata come opera di Orazio Samacchini in un articolo della rivista Paragone nel 1988, la tela di Mantova veniva riferita agli ultimi anni di attività del pittore per via della disposizione piramidale delle figure arricchita di inedite suggestioni spaziali, ravvisabili anche negli affreschi eseguiti nella chiesa di sant’Abbondio a Cremona tra il 1575 e il 1577.

Le dimensioni contenute hanno fatto supporre una destinazione privata per quest’opera e assai probabilmente anche quella qui offerta, di formato ancora più ridotto, fu destinata al culto privato: il San Silverio papa in primo piano sulla tela mantovana, identificabile grazie a una scritta che corre sul risvolto del manto papale, è stato, proprio per la differente destinazione, trasformato in un santo monaco.

I solidi e nitidi volumi, i tratti fisionomici, i panneggi geometricamente rilevati e l’eloquenza gestuale dei personaggi, nonché la chiara intelaiatura spaziale, permettono senz’altro di avvicinare anche il nostro dipinto al fare pittorico del Samacchini, ma certe soluzioni più sintetiche nella resa delle figure, soprattutto ravvisabili negli angeli che reggono i simboli delle virtù, nel san Giovannino e nel Dio padre tra le nuvole, conducono più prudentemente a considerarlo valida opera della sua bottega.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
32

Da Guido Reni, sec. XVII

MADDALENA PENITENTE

olio su tela, cm 219x146,5

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

D. S. Pepper, Guido Reni. A complete Catalogue of his Works with an introductory Text, Oxford 1984, p. 267, n. 137, tav. 165

L. Mochi Onori, R. Vodret, Galleria Nazionale d’Arte Antica Palazzo Barberini. I dipinti, catalogo sistematico, Roma 2008, p. 324.

 

Il dipinto replica, senza varianti, la Maddalena di Guido Reni conservata presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di palazzo Barberini a Roma. Portata a termine, probabilmente entro il 1633, per il cardinale Antonio Santacroce, entrò dopo la morte di questi nella collezione Barberini dove è citata frequentemente dalle guide del XVIII e XIX secolo e dove rimase fino al 1812, anno in cui passò al ramo Colonna di Sciarra per poi essere venduta ai Corsini di Firenze e dopo alterne vicende diventare di proprietà statale.

L’immagine della peccatrice che si pente dei propri peccati conobbe grande fortuna tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo, nel clima di aspra polemica contro i protestanti, per accreditare la necessità del sacramento della penitenza, e lo stesso Reni si cimentò nell’esecuzione di questo soggetto in diverse prove, molto apprezzate dalla committenza, che ne faceva continua richiesta.

Una serie di copie, più o meno fedeli, testimoniano l’apprezzamento riscosso in particolare dalla classica monumentalità della Maddalena oggi a palazzo Barberini, splendido esempio dello stile maturo di Guido Reni, caratterizzato dalla tipica luce argentata delle sue opere degli anni trenta.

La tela qui offerta viene dunque ad arricchire questo corpus di repliche, ponendosi accanto ad altri esemplari antichi, tra i quali si ricordano la tela della Walters Art Gallery di Baltimora e quella conservata presso l’ Alte Pinakothek di Monaco.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
30

Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro

(Napoli c. 1609 – 1675)

MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO

MARTIRIO DI SANT’ANDREA

coppia di dipinti a olio su tela, cm 68x104

(2)

firmati con monogramma DG in basso a destra

 

Sconosciuti agli studi storico-artistici come peraltro al mercato, gli inediti dipinti qui presentati costituiscono un’aggiunta interessante al pur nutrito catalogo di Micco Spadaro, analizzato da Giancarlo Sestieri e Brigitte Daprà (1994) nella monografia dedicata al pittore napoletano, cui fece seguito la mostra organizzata alla Certosa di San Martino, che conserva peraltro gli straordinari affreschi dell’artista e molte delle sue tele più emblematiche dedicate ai drammatici eventi patiti dalla città, tra l’eruzione del Vesuvio e la peste del 1656.

I nostri dipinti si accostano ad altri di analogo soggetto e simile formato, per lo più eseguiti nei primi anni Quaranta, che ne condividono l’impaginazione e varie soluzioni compositive. Mentre però il San Bartolomeo, di cui non conosciamo altre versioni, non presenta confronti specifici con altre tele di Micco Spadaro, numerose sono le relazioni tra il Sant’Andrea e opere da tempo acquisite al suo catalogo. Il dipinto è infatti una variante della tela di uguale soggetto, siglata, già a Londra presso Colnaghi in pendant con una diversa scena di martirio, forse di San Gennaro (G. Sestieri – B. Daprà, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro paesaggista e “cronista” napoletano, Milano 1994, pp. 180-181, nn. 79-70). La parte destra della composizione citata è infatti ripetuta nei suoi elementi essenziali nel nostro dipinto, che in primo piano a sinistra riprende invece il soldato romano su un cavallo bianco già visto in un altro Martirio di San Gennaro (Sestieri – Daprà, 1994, p. 169, n. 62).

Numerosi sono comunque i motivi inediti, a conferma della prodigiosa inventiva dell’artista napoletano.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
39
Jacob de Heusch 
(Utrecht, 1656 – Amsterdam, 1701)
PAESAGGIO COSTIERO CON ROVINE ANTICHEMARINA CON BARCHE E FIGURE
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 60,5x97,5 
(2)
Il primo firmato “Heusch” in basso a destra

 Provenienza
Collezione Serristori, Firenze;Sotheby’s, Asta Serristori, Firenze, maggio 1977, n. 36

Queste raffinate vedute costiere, notevoli anche per l’ottimo stato conservativo, costituiscono un esempio tipico della produzione di Jacob de Heusch, documentata da numerose opere firmate in parte eseguite a Roma, dove l’artista neerlandese fu attivo quasi per un ventennio, o recanti date successive al ritorno in patria ma sempre ispirate al soggiorno italiano.Documentato a Roma per la prima volta nel gennaio del 1675, De Heusch risulta presente in città nel corso degli anni Ottanta e di nuovo nel 1692, prima del ritorno in Olanda dove operò per quasi un decennio.Formatosi come pittore di paesaggio nella bottega dello zio Willem de Heusch, a Roma Jacob fu attratto dalle soluzioni che nella prima metà del secolo avevano imposto Gaspard Dughet e Salvator Rosa e che i loro epigoni, da Crescenzio Onofri a Pietro Montanini, tuttora praticavano con successo. Sofisticato interprete di quei modelli, e in particolare di quelli rosiani, Jacob de Heusch ne fu in effetti il tramite più efficace per i pittori di paesaggio della prima metà del Settecento, da Adrien Manglard a Andrea Locatelli.Autore di numerosi disegni di veduta dedicati alle antichità romane, De Heusch inserisce motivi dal vero nei suoi paesaggi ideati e nelle sue vedute fluviali; ne è un tipico esempio la prima composizione qui offerta, in cui una scena costiera di fantasia è limitata a sinistra dalle rovine del Palatino, così come apparivano nel prospetto su via dei Cerchi. Le ritroviamo in controparte in due composizioni firmate dell’artista dove inquadrano composizioni fluviali di invenzione, una delle quali eseguita a pendant di una veduta di Ripa Grande (A. Busiri Vici, Jacob de Heusch (1656-1701). Un pittore olandese a Roma detto il “copia”. A cura di Cinzia Martini, Roma 1997, numeri 9 e 13). La veduta costiera nel secondo dipinto è invece desunta con ogni evidenza da soluzioni compositive proposte nella prima metà del secolo da Salvator Rosa, costante riferimento di Jacob de Heusch anche per le figurine di soldati e bagnanti che anche qui vediamo.
Stima   € 30.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
14

Ferraù Fenzoni

(Faenza 1562-1645)

SACRA  FAMIGLIA CON SAN GIOVANNINO E SANTA CATERINA DA SIENA,

olio su rame, cm 24,5x19   

 

Il dipinto è corredato da parere scritto di Alessandra Giannotti di cui riportiamo i passaggi salienti:

 

"Una magnifica cornice a cartouche con teste di cherubini di gusto quasi neoquattrocentesco inquadra una scena descritta con toni di sciolta naiveté. Due teneri bambini stretti in un morbido abbraccio si accoccolano su una cesta da cucito da cui debordano panni immacolati. Alle loro spalle la giovane madre veglia protettiva sui giochi degli infanti, mentre di fronte a lei una monaca domenicana le offre devotamente il proprio cuore. (...) Se non fosse per gli esili nimbi che denunciano in questi personaggi i protagonisti di un evento sacro (...) si potrebbe quasi pensare ad un brano domestico di vita cortese. (...) È il primissimo piano che (...) qualifica il tutto: una croce di canna con cartiglio, come prefigurazione del sacrificio di Cristo, e il giglio ed il libro, che segnalano in uno dei bambini San Giovannino, e nella figura di monaca Santa Caterina da Siena. Sciolti gli ultimi dubbi non sarà difficile riconoscere l'immagine di una Sacra famiglia.

Dismessi i raffinati stilismi sistini di cui pure riaggiorna qualche traccia nelle rubizze teste angeliche della cornice, esemplate sulle piene morfologie arpinati, andrà imputato agli struggenti umori nordici che caricano il paesaggio, l'indizio per una pista romana di questo prezioso rametto. tuttavia s'impone, rispetto alla 'fiammata espressionista' che aveva animato i cicli promossi da Sisto V, l'osservazione da parte del nostro autore, di un aggiornamento su nuove esigenze formali improntate ad un certo classicismo dal pacato contenuto narrativo. È possibile dunque osservare, pur nei toni di una glaciale eleganza, appena trattenuta, e di un sottile grafismo alla nordica, la tendenza a superare le più comuni astrazioni manieristiche. Proprio questa disposizione che volge verso un quadro di maggio naturalismo suggerisce di cercare il nostro artefice nella nutrita schiera di quei maestri che, approdati a Roma nel vivo dei cantieri sistini, volsero il loro felice decorativismo al servizio della nuova chiesa riformata.

Ciò è quanto occorse al faentino, naturalizzato romano, Ferraù Fenzoni che come rubrica puntualmente Giovanni Baglione fu chiamato a dipingere importanti cicli decorativi nella Biblioteca Vaticana e nella Scala Santa, ma anche in Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano e in Santa Maria in Trastevere.

Fu proprio la rete di conoscenze messa a punto nella capitale che gli valse la frequentazione con la famiglia Cesi, certamente conosciuta durante l'opera prestata nella Chiesa Nuova.

Da questa occasione sarebbe nata la salda comunione artistica e spirituale con il vescovo Angelo Cesi che lo volle per quasi un decennio a Todi quale interprete figurativo della nuova missione pastorale della Chiesa riformata. (…) L'artista fu nella città tuderte dal 1593 al 1599, dove licenziò i suoi principali cicli decorativi, quali quelli per il Palazzo Vescovile e la Cattedrale (…). È proprio da opere di questo periodo quali Cristo, la Vergine ed i Santi con le anime del purgatorio (Todi, Pinacoteca Comunale) (…) che giungono alcuni dei confronti più puntuali col nostro rametto. Del tutto simile appare per esempio la tendenza, comune ance alla nostra Vergine, a costruire volti perfettamente ovali, in cui l'artista scava dalla pienezza delle gote profonde orbite oculari dalle ombreggiature quasi bluastre, cui s'affiancano patetiche espressioni d'affetti capaci persino di sciogliere la sodezza delle forme, come avviene per esempio all'esile Santa Caterina. (…)  Sono queste le scelte stilistiche che avrebbero improntato anche la sua più tarda attività faentina, seguita alla partenza da Todi. Ciò almeno è quanto attestano le decorazioni del Duomo cittadino e le tele dello stesso complesso dedicate alla Vita di San Carlo Borromeo. Qui l'artista avrebbe definitivamente smagliato la serrata trama grafica degli anni giovanili cedendo ad una più tenera orchestrazione fatta di chiaroscuri. Sebbene lo stile deponga dunque per un Fenzoni maturo, la ricercata eleganza dell'insieme ed il caratteristico impianto teatrale dagli ampi cortinaggi (…) dichiarano un artista ancora disposto a rileggere forti suggestioni romane.

Il prezioso rametto, che disporremo dunque sullo scadere del soggiorno umbro del Fenzoni, ed a stretto ridosso del suo rientro romagnolo, aggiunge oggi una preziosa testimonianza alla produzione di piccolo formato del pittore faentino noto prevalentemente per la sua attività di grande decoratore".     

                         

Stima   € 8.000 / 12.000
40

Giandomenico Cignaroli

(Verona, 1724-1793)

CRISTO RISORTO APPARE A SAN FRANCESCO DI SALES E SAN GAETANO DI THIENE CON ANGELI E ANIME PURGANTI

olio su tela, cm 65x43,5

 

Bibliografia di riferimento

F. Benuzzi, Appunti per il catalogo di Giandomenico Cignaroli, in “Arte Documento”, 32, 2016, pp. 224-229;

F. Magnani (a cura di), Il Settecento a Verona: Tiepolo, Cignaroli, Rotari; la nobiltà della pittura, catalogo della mostra (Verona, Palazzo della Gran Guardia, 26 novembre 2011 - 9 aprile 2012), Cinisello Balsamo 2011.

 

Il catalogo pittorico di Giandomenico Cignaroli è stato arricchito grazie a recenti studi che ne hanno maggiormente messo a fuoco l' originale fisionomia artistica, e lo hanno distinto dal più noto fratello Giambettino, indiscusso protagonista del panorama artistico veronese settecentesco, riconosciuto dalla critica come suo unico maestro.

Si riconosce nella teletta qui offerta il bozzetto preparatorio per la pala eseguita da Giandomenico per la chiesa della Santissima Trinità e ora conservata presso il museo civico di Crema (fig. 1): all’interno di una maestosa ambientazione caratterizzata da un classicheggiante arco a tutto sesto, spesso utilizzata nelle opere di entrambi i Cignaroli, le figure sono disposte secondo un tradizionale schema piramidale alla cui sommità è collocato il Cristo. Rispetto alla redazione definitiva, il nostro bozzetto mostra alcune varianti nella presenza della croce che accompagna l’apparizione del Risorto e nella disposizione dei santi ma già è messa a punto l’insistito partito chiaroscurale su cui si fonda il linguaggio pittorico del Cignaroli.

Ricchi di fascino sono i panneggi increspati in fitte piegature costruite grazie al contrasto tra mosse pennellate intrise di bagliori di luce e zone dai toni più scure dove si annidano le ombre.

 

 

DIDASCALIA IMMAGINE DI RIFERIMENTO

 

fig. 1 Giandomenico Cignaroli, Cristo appare a San Francesco di Sales e San Gaetano di Thiene con angeli e anime purganti, Crema, Museo Civico

 

 

Stima   € 6.000 / 8.000
36

Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio

(Genova 1639 – Roma 1709)

RITRATTO DI GIOVINETTO DI CASA MATTEI

olio su tela ovale, cm 64,5x48,5

 

Iscritto al retro della tela antica "RITRATTO DAL PENNELLO DEL SIG/GIO: BATTA GAULLI, DETTO, BACICCIA/L'ANNO 1681 D'APRILE”

Incollato al retro della tela, un cartellino ottocentesco di collezione iscritto a inchiostro “Ritratto di Personaggio di casa Mattei lavoro del Baciccia”.

 

Provenienza

Roma, collezione privata.

 

Bibliografia

F. Petrucci, Baciccio. Giovan Battista Gaulli 1639 – 1709, Roma 2009, p. 161, fig. 204 (riprodotto a colori); pp. 434-35, A 67.

 

Reso noto da Francesco Petrucci nella sua monografia sul pittore genovese, il dipinto qui offerto si caratterizza innanzi tutto per l’importante provenienza documentata dalla scritta al retro, così precisa nel ricordarne l’esecuzione nel mese di aprile del 1681 da non potersi ritenere di molto successiva a quella data.

È poi il cartiglio ottocentesco a indicare nonostante il silenzio degli inventari l’identità del ritrattato nell’ambito di quell’antica famiglia romana, nota innanzi tutto per la ricchissima collezione di antichità, la committenza di opere al Caravaggio e ai suoi primi seguaci, e la protezione accordata al giovanissimo Pietro da Cortona.

In considerazione dell’età dell’effigiato alla data del 1681 Francesco Petrucci suggerisce trattarsi del duca Alessandro Mattei, ancora minore all’epoca della scomparsa del padre, Girolamo Mattei marchese di Giove, nel 1676.

Il giovane aristocratico è qui ritratto in maniera del tutto informale, i lunghi capelli inanellati sciolti sulle spalle ed esaltati dalla seta dorata della veste da camera ricamata, lo scollo aperto con negligenza sulla camicia bordata di trine.

Una presentazione inusuale, nella ritrattistica del Gaulli per lo più dedicata, peraltro, ai più eminenti personaggi della curia romana. L’intimità con cui il nostro giovanetto si propone appare invece sensibile alle suggestioni di modelli internazionali proposti a Roma dal fiammingo Ferdinand Voet e destinati a grande attualità nel Secolo dei Lumi quando anche negli ambienti delle corti europee si tenderà a preferire immagini improntate alla più informale spontaneità.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 58