DIPINTI ANTICHI

15 MAGGIO 2018

DIPINTI ANTICHI

Asta, 0250
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15:30
Esposizione

FIRENZE
11 - 14 Maggio 2018
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   2000 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 58
58

Agostino Ciampelli

(Firenze 1565- Roma 1630)

MADONNA CON IL BAMBINO E SAN GIOVANNINO

olio su rame, cm 22x16,8

 

 

Agostino Ciampelli rientra tra i pittori fiorentini la cui formazione giovanile si svolse nell'ambito della riforma antimanieristica di Santi di Tito che mirava a una semplificazione formale dei soggetti e a una maggior aderenza alla realtà nei suoi aspetti più teneri e quotidiani.

Nel 1589 Ciampelli lavorò all'interno della bottega del maestro per gli apparati decorativi in occasione delle nozze di Ferdinando I dei Medici e Cristina di Lorena eseguendo su un arco di trionfo provvisorio al canto dei Carnesecchi la scena con il Duca di Guisa che assale Calias. Dopo aver eseguito a Palazzo Corsi, intorno al 1593, un ciclo di affreschi con Storie di Caino e Abele e di Ester ed Assuero, ottenne l'apprezzamento del cardinale Alessandro de' Medici (futuro papa Leone XI), che divenne suo protettore; si trasferì quindi a Roma dove rimase fino alla morte nel 1630.

Il delizioso olio su rame qui presentato, raffigurante la Madonna con il Bambino e San Giovannino, rientra nella produzione tipica di Ciampelli le cui opere si distinguono per la pennellata corposa e densa e per la forte carica devozionale dovuta alla vicinanza agli stilemi della Controriforma. Dolce è il gesto di Maria che mostra a San Giovannino Gesù bambino addormentato alzando il velo del lenzuolo ricoperto di fiori. Si tratta di un delicato espediente dell'artista per prefigurare la tragedia della morte di Gesù.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
52

λ

Christian Berentz

(Amburgo 1658-Roma 1722)

PESCHE E UVA SU UN PIANO DI PIETRA CON FIORI DI GELSOMINO

olio su tela, cm 42,7x52,3

siglato e datato a destra tra le foglie “C. B. 1717”

 

Provenienza

Londra, Sotheby’s, 1993; collezione privata

 

Bibliografia

G. Bocchi – U. Bocchi, Pittori di natura morta a Roma. Artisti stranieri 1630-1750, Viadana 2005, p. 287 e 289, fig. CB 5.

 

Raffinatissimo esempio della produzione romana di Christian Berentz, il dipinto propone una composizione già sperimentata con alcune varianti dall’artista amburghese in un dipinto di minori dimensioni che differisce dal nostro per i fiori in primo piano – in quel caso uno solo – e per lievi varianti nelle fratture della lastra di pietra, oltre che per l’assenza di sigla e data.

Quest’ultima consente di riferire il dipinto a un’epoca molto avanzata dell’artista, e lo rende quasi coevo di una composizione di identiche dimensioni ma arricchita da un cesto di prugne datata del 1716 (Bocchi, citato, p. 289, fig. CB 4) e addirittura coincidente per data con il cosiddetto “Spuntino elegante”, forse il più celebre tra il gruppo di nature morte di Berentz a Roma nella Galleria Corsini.

E’ questo, peraltro, il modello iconografico e compositivo ripreso dal suo unico allievo identificabile con certezza, Maximilian Pfeiler, attivo a Roma almeno fino al 1721 e, diversamente dal maestro, a capo di una numerosa bottega che diffuse con esiti alterni i modelli raffinati e curatissimi del pittore di Amburgo.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
48

λ

Domenico Corvi

(Viterbo 1721 – Roma 1803)

AMORE E PSICHE

olio su tela, cm 99x73

 

Nel dar conto della propria visita allo studio romano di Domenico Corvi nel 1785, il conte Bernardino di Campello ricordava, tra i numerosi dipinti finiti e pronti per la consegna “un altro quadro di mezzana grandezza (...) Psiche che a lume di una lucerna sta osservando Amore che dorme” (cfr. V. Curzi, in Domenico Corvi. Catalogo della mostra, Roma 1998, p. 43 e p. 49, note 41-43).

Non si trattava del nostro dipinto ma, verosimilmente, della versione “in grande” (cm 172x121) commessa al pittore viterbese dal principe Nicolaj Borisovich Jusupov nell’agosto del 1784. Il dipinto qui offerto è infatti un secondo esemplare di dimensioni ridotte della tela ora all’Ermitage di San Pietroburgo dipinta per il principe, inviato dello zar a Torino dal 1783 al 1789, grande mecenate e leggendario collezionista d’arte che negli anni della sua permanenza in Italia fu più volte a Roma. Il tema erotico di Amore e Psiche doveva essere particolarmente caro al diplomatico russo, consulente artistico di Caterina II e dal 1797 direttore dell’Ermitage Imperiale, visto che fu lui a commissionare ad Antonio Canova la seconda versione di Amore e Psiche che si abbracciano oggi all’Ermitage (1794-1796).

Tratto distintivo di Domenico Corvi secondo il conte di Campello, la capacità “nel dipingere a lume di notte”, una caratteristica che il giovane aristocratico potè apprezzare in molte altre opere dell’artista viterbese ammirate nella stessa occasione: il celebre Funerale di Ettore e la tragica fine dii Leandro “colorito a lume di notte vicino allo spuntare dell’Alba”. Caratteri che ammiriamo nel nostro dipinto, così aggiornato al gusto e alla sensibilità del tardo Settecento sospeso tra Classico e Romantico.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
45

λ

Scuola Veneziana, fine del sec. XVIII 

IL BUCINTORO A SAN NICOLO' DI LIDO

olio su tela, cm 67x100

 

Proveniente da una raccolta veneziana, l’inedito dipinto qui presentato riproduce con pressoché assoluta fedeltà e con identiche dimensioni la nota veduta di Francesco Guardi ora al museo del Louvre, parte della celebre serie dedicata alle cerimonie dogali composta da dodici tele ora divise tra il Louvre e altri musei della Francia e del Belgio.

I numerosi interventi sulla serie da parte dei principali specialisti di Settecento veneziano sono stati riassunti da Margherita Azzi Visentini in occasione della mostra organizzata nel 1993 dalla Fondazione Cini di Venezia a cura di Sandro Bettagno (Francesco Guardi. Vedute Capricci Feste. Venezia, Isola di San Giorgio Maggiore, 28 agosto – 21 novembre 1993) a cui fu esposta anche la tela del Louvre da cui la nostra deriva (si veda il catalogo, Venezia 1993, pp. 177-180 e 186-87, dove il dipinto è tuttavia riprodotto al contrario).

Come ormai accertato, il ciclo delle cerimonie dogali dipinto da Francesco Guardi tra il settimo e l’ottavo decennio del Settecento si pone in stretta relazione con la serie di incisioni pubblicate a Venezia nel 1766 da Francesco Furlanetto ed eseguite da Giovan Battista Brustolon su invenzione del Canaletto. Poiché le tavole recano l’iscrizione “Antonius Canal pinxit” si è anzi pensato che esistesse una sua serie dipinta – in realtà mai rintracciata – o che fosse sua quella di cui il nostro soggetto fa parte, riconosciuta invece a Francesco Guardi in maniera definitiva a partire dagli studi di Giuseppe Fiocco nel 1923.

Di Antonio Canal si conoscono invece dieci disegni, “belli quanto quadri” secondo il parere di un testimone settecentesco, acquistati a Venezia nel 1789 da sir Richard Colt Hoare; dispersi a una vendita Christie’s nel 1883, sono stati eccezionalmente riuniti a Venezia cent’anni dopo, di nuovo ad opera della Fondazione Cini (Canaletto. Disegni. Dipinti. Incisioni, Venezia 1982. Catalogo a cura di A. Bettagno, pp. 51-52, nn. 64-72). Il confronto tra disegni, incisioni e dipinti stabilisce peraltro la derivazione della serie dipinta da quella incisa, stabilendone l’ante quem nel 1766. Unico riferimento a una possibile committenza del ciclo è il dogato di Alvise IV Mocenigo (1763-1778), di cui compare in alcune tavole il ritratto e lo stemma.

Eseguite nel corso di un decennio a partire dal 1766, le tele di Francesco Guardi rimasero a Venezia per un tempo assai breve, se già nel 1793 erano sequestrate dal governo rivoluzionario francese al collezionista belga, il barone de Pestre de Seneffe, che da un tempo imprecisato le possedeva a Parigi.

Insieme all’episodio che lo precede – la partenza del Bucintoro dal Molo - e che si riferisce anch’esso alla Sensa, la festa del Redentore, il Ritorno del Bucintoro da San Nicolò oggi al Louvre è anzi considerato per motivi stilistici una delle ultime scene del ciclo ad essere stata dipinta, un dato che restringe in maniera considerevole il lasso di tempo in cui la nostra tela poté essere eseguita, nella stretta cerchia di Francesco Guardi e forse proprio nella sua bottega.

La tela raffigura, come si è detto, il corteo dogale che dopo il ricevimento presso il convento di San Nicolò attraverso un passaggio coperto effimero si imbarca nuovamente sul Bucintoro per tornare a Venezia. Protagonista della scena è però la laguna veneta solcata da imbarcazioni di ogni tipo per questa celebrazione della Serenissima ormai in declino.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
44

Antonio Amorosi

(Comunanza 1660 – Roma 1738)

LA TENTAZIONE DI SAN BENEDETTO

LA TENTAZIONE DI SANT'ANTONIO

coppia di dipinti a olio su tela, cm 45x58,5

(2)

 

Provenienza

Londra, Heim Gallery (1969); Roma, Finarte, 16 maggio 1974; Roma, collezione Fabrizio Lemme e Fiammetta Luly Lemme; Roma, collezione privata

 

Esposizioni

Antonio Mercurio Amorosi 1660-1738. La cultura figurativa del 700 tra le Marche e Roma. Comunanza, Museo di Arte Sacra, 13 agosto – 8 ottobre 2016.

 

Bibliografia

G. Sestieri, Repertorio della pittura romana della fine del Seicento e del Settecento, Torino 1994, I, p. 14; II, figg. 17-18; C. Maggini, Antonio Mercurio Amorosi pittore (1660-1738). Catalogo generale, Rimini 1996, pp. 126-27, nn. 33 a-b; M.R. Valazzi in Antonio Mercurio Amorosi 1660-1738. La cultura figurativa del 700 tra le Marche e Roma. Catalogo della mostra, Roma 2016, pp. 48-49.

 

Da tempo noti agli studi sul Settecento romano e a lungo assenti, invece, dal mercato dell’arte, i dipinti qui presentati costituiscono una delle prove più raffinate della produzione di Antonio Amorosi, e addirittura un episodio del tutto eccezionale in una carriera dedicata, come si sa, alla scena di genere di piccolo formato, settore in cui l’artista marchigiano non ebbe rivali nella Roma tra Sei e Settecento.

Rare e di scarsa fortuna le opere di destinazione pubblica commesse ad Amorosi nei primi anni del secolo, tali comunque da confermarlo nella scelta di dedicarsi a un genere che, sebbene minore agli occhi della cultura accademica, riscuoteva comunque un discreto successo presso i collezionisti privati e, dopo le prove dei Bamboccianti alla metà del Seicento, aveva conosciuto nella seconda metà del secolo una variante di grande fortuna ad opera di Eberhard Keil, il Monsù Bernardo con cui a lungo Amorosi fu appunto confuso.

Nelle scene qui offerte persiste in effetti il gusto aneddotico e descrittivo che caratterizza la produzione più nota di Antonio Amorosi e che possiamo riconoscere anche nella cura dedicata agli oggetti, accessori di scena che nella Tentazione di San Giacomo sono raffigurati con la cura di uno specialista in natura morta.

Particolarmente raffinata, ed esaltata da un perfetto stato conservativo, la scelta cromatica che, in entrambe le scene, declina in diverse sfumature il bianco, il rosa e il marrone, in una ricerca di grazia elegante – assolutamente riuscita e in questo caso – del tutto conforme agli ideali dell’Arcadia.

Anche negli sfondi paesistici Amorosi si mostra perfettamente aggiornato su quanto a Roma, negli stessi anni, veniva proposto con universale successo da Jan Frans van Bloemen e dai suoi seguaci.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
43

Andrea Belvedere

(Napoli 1652 - 1732)

COMPOSIZIONE FLOREALE CON VASI ISTORIATI E SCIMMIA

olio su tela, cm 122x183,5

 

Esposizioni

Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli. A cura di Nicola Spinosa. Napoli, Museo di Capodimonte, 12 dicembre 2009 – 11 aprile 2010, n. 1.252

 

Bibliografia

R. Nauclerio, in Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli. Catalogo della mostra, Napoli 2009, I, p. 427, n. 1,252.

 

Come osservato da Rosanna Nauclerio in occasione della mostra napoletana in cui il dipinto fu esposto, la tela qui offerta si iscrive nell’ultima attività di Andrea Belevedere al ritorno dalla corte di Madrid nel 1700. Una datazione non troppo lontana da quell’anno è poi suggerita dal noto passo di Bernardo De Dominici, che aveva certo conoscenza diretta dell’artista, secondo il quale negli ultimi trent’anni della sua esistenza Andrea Belvedere abbandonò l’attività di pittore per dedicarsi esclusivamente al teatro. E’ comunque al suo periodo più tardo che appartengono le tele di imponente formato dove composizioni di fiori all’aperto si accompagnano a frammenti architettonici e a rilievi scolpiti, e spesso ad animali, per lo più volatili: queste infatti le soluzioni proposte nei dipinti, da tempo noti, nella Galleria Palatina e nel Museo Stibbert a Firenze, e nel Museo Correale di Terranova a Sorrento dove è riunita la maggior parte delle opere pubbliche dell’artista.

Come è noto, si tratta di soluzioni compositive largamente debitrici dell’esempio della scuola romana, trasmessa a Napoli da Abraham Brueghel dopo il 1670 e rinnovata, nell’ultimo decennio del secolo, dalla declinazione più aggiornata e aperta all’Europa proposta da Karel van Vogelaer e Franz Werner Tamm. Da qui, gli esiti di seguaci del Belvedere che, come Lopez e Casissa, ripeteranno questi modelli nel corso della prima metà del Settecento variandoli tuttavia con il loro personalissimo stile.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
41

λ

Bottega di Claude Joseph Vernet, sec. XVIII                                           

LE CASCATE DI TIVOLI (LA JEUNE NAPOLITAINE A LA PECHE)                     

olio su tela, cm 44x61                                                    

firmato J. Vernet in basso a sinistra                                     

                                                                          

Provenienza                                                               

Londra, Knoedler; collezione privata                                      

                                                                          

Questa scena campestre di gusto arcadico e ambientazione italianizzante è 

nota con titoli diversi tra cui, più noto e diffuso nel Settecento grazie 

all'incisione in controparte trattane da Le Veau e così intitolata, La jeune

napolitaine à la pèche.                                                      

Nel catalogo delle opere dell'artista francese, ancor oggi l'unico esistente

anche se inevitabilmente superato, Florence Ingersoll-Smouse riproduce    

l'incisione collegandola alla menzione di un dipinto eseguito da Vernet nel

1755 per Monsieur Vitali ed esposto al Salon nel 1757 insieme al pendant, 

Temps orageux nell'accostamento, caro al pittore e ai suoi committenti, di 

situazioni opposte tra loro per situazione atmosferica e sentimentale (F. 

Ingersoll Smouse, Joseph Vernet, Paris 1926, I, n. 657; II, LXV, sotto il 

numero 146).                                                              

Il dipinto documentato del 1755 non è a tutt'oggi identificato e la versione

qui offerta, che i dati stilistici consigliano di posticipare ad anni più 

avanzati nell'itinerario dell'artista, ne è comunque una delle migliori     

repliche eseguite nella bottega, a differenza di altre passate sul mercato

antiquario e con ogni evidenza dipendenti dall'incisione, che riproducono il dipinto in controparte.

Stima   € 20.000 / 25.000
40

Giandomenico Cignaroli

(Verona, 1724-1793)

CRISTO RISORTO APPARE A SAN FRANCESCO DI SALES E SAN GAETANO DI THIENE CON ANGELI E ANIME PURGANTI

olio su tela, cm 65x43,5

 

Bibliografia di riferimento

F. Benuzzi, Appunti per il catalogo di Giandomenico Cignaroli, in “Arte Documento”, 32, 2016, pp. 224-229;

F. Magnani (a cura di), Il Settecento a Verona: Tiepolo, Cignaroli, Rotari; la nobiltà della pittura, catalogo della mostra (Verona, Palazzo della Gran Guardia, 26 novembre 2011 - 9 aprile 2012), Cinisello Balsamo 2011.

 

Il catalogo pittorico di Giandomenico Cignaroli è stato arricchito grazie a recenti studi che ne hanno maggiormente messo a fuoco l' originale fisionomia artistica, e lo hanno distinto dal più noto fratello Giambettino, indiscusso protagonista del panorama artistico veronese settecentesco, riconosciuto dalla critica come suo unico maestro.

Si riconosce nella teletta qui offerta il bozzetto preparatorio per la pala eseguita da Giandomenico per la chiesa della Santissima Trinità e ora conservata presso il museo civico di Crema (fig. 1): all’interno di una maestosa ambientazione caratterizzata da un classicheggiante arco a tutto sesto, spesso utilizzata nelle opere di entrambi i Cignaroli, le figure sono disposte secondo un tradizionale schema piramidale alla cui sommità è collocato il Cristo. Rispetto alla redazione definitiva, il nostro bozzetto mostra alcune varianti nella presenza della croce che accompagna l’apparizione del Risorto e nella disposizione dei santi ma già è messa a punto l’insistito partito chiaroscurale su cui si fonda il linguaggio pittorico del Cignaroli.

Ricchi di fascino sono i panneggi increspati in fitte piegature costruite grazie al contrasto tra mosse pennellate intrise di bagliori di luce e zone dai toni più scure dove si annidano le ombre.

 

 

DIDASCALIA IMMAGINE DI RIFERIMENTO

 

fig. 1 Giandomenico Cignaroli, Cristo appare a San Francesco di Sales e San Gaetano di Thiene con angeli e anime purganti, Crema, Museo Civico

 

 

Stima   € 6.000 / 8.000
39
Jacob de Heusch 
(Utrecht, 1656 – Amsterdam, 1701)
PAESAGGIO COSTIERO CON ROVINE ANTICHEMARINA CON BARCHE E FIGURE
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 60,5x97,5 
(2)
Il primo firmato “Heusch” in basso a destra

 Provenienza
Collezione Serristori, Firenze;Sotheby’s, Asta Serristori, Firenze, maggio 1977, n. 36

Queste raffinate vedute costiere, notevoli anche per l’ottimo stato conservativo, costituiscono un esempio tipico della produzione di Jacob de Heusch, documentata da numerose opere firmate in parte eseguite a Roma, dove l’artista neerlandese fu attivo quasi per un ventennio, o recanti date successive al ritorno in patria ma sempre ispirate al soggiorno italiano.Documentato a Roma per la prima volta nel gennaio del 1675, De Heusch risulta presente in città nel corso degli anni Ottanta e di nuovo nel 1692, prima del ritorno in Olanda dove operò per quasi un decennio.Formatosi come pittore di paesaggio nella bottega dello zio Willem de Heusch, a Roma Jacob fu attratto dalle soluzioni che nella prima metà del secolo avevano imposto Gaspard Dughet e Salvator Rosa e che i loro epigoni, da Crescenzio Onofri a Pietro Montanini, tuttora praticavano con successo. Sofisticato interprete di quei modelli, e in particolare di quelli rosiani, Jacob de Heusch ne fu in effetti il tramite più efficace per i pittori di paesaggio della prima metà del Settecento, da Adrien Manglard a Andrea Locatelli.Autore di numerosi disegni di veduta dedicati alle antichità romane, De Heusch inserisce motivi dal vero nei suoi paesaggi ideati e nelle sue vedute fluviali; ne è un tipico esempio la prima composizione qui offerta, in cui una scena costiera di fantasia è limitata a sinistra dalle rovine del Palatino, così come apparivano nel prospetto su via dei Cerchi. Le ritroviamo in controparte in due composizioni firmate dell’artista dove inquadrano composizioni fluviali di invenzione, una delle quali eseguita a pendant di una veduta di Ripa Grande (A. Busiri Vici, Jacob de Heusch (1656-1701). Un pittore olandese a Roma detto il “copia”. A cura di Cinzia Martini, Roma 1997, numeri 9 e 13). La veduta costiera nel secondo dipinto è invece desunta con ogni evidenza da soluzioni compositive proposte nella prima metà del secolo da Salvator Rosa, costante riferimento di Jacob de Heusch anche per le figurine di soldati e bagnanti che anche qui vediamo.
Stima   € 30.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
38

Thomas Wyck

(Bewerwijck, 1621 – Haarlem, 1677)

VEDUTA DELLA CHIESA DELL’ARACOELI

Olio su tela, cm 66x58,5

Firmato “TWyck” in basso a sinistra

 

Sebbene un suo soggiorno italiano non sia documentato, i numerosissimi motivi romani presenti nei dipinti e ancor più nel ricco corpus di disegni di Thomas Wyck inducono a ritenere che l’artista neerlandese visitasse Roma spingendosi fino a Napoli.

Rare sono tuttavia le vedute dedicate agli aspetti monumentali o comunque esattamente identificabili della Città Eterna: tra queste la Veduta di ponte Milvio (Braunschweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum), in possibile relazione con esempi incisi e dipinti di Jan Both e di Pieter van Laer; il Mercato del pesce al Portico d’Ottavia, accompagnato da una serie di fogli che ritraggono i cortili delle case adiacenti e che forniranno all’artista i principali motivi delle sue scene italiane; infine, per l’appunto, la chiesa dell’Aracoeli, che conoscevamo attraverso una diversa versione, forse più romantica nella sua ambientazione, conservata a Monaco di Baviera (Bayerische Staatsgemäldesammlungen, n. 5196) e da tempo nota agli studi sul pittore (cfr. L. Salerno, Pittori di paesaggio del Seicento a Roma, Roma 1978-80, I, p. 346, fig. 58.4, erroneamente come “Veduta di un paese”).

È dunque di particolare interesse il ritrovamento del dipinto qui presentato che propone in maniera più fedele al vero, sebbene non senza qualche licenza in nome del pittoresco, il motivo principale della veduta monacense e ne identifica il soggetto senza possibilità di dubbio grazie alla rampa del Campidoglio sormontata da uno dei Dioscuri capitolini e dai cosiddetti Trofei di Mario.

Di invenzione, naturalmente, la fontana circolare che peraltro ritroviamo in tutte le vedute immaginarie di porti italiani per cui Wyck è famoso, mentre l’edificio in primo piano a destra ricorda, decontestualizzata, la torre delle Milizie assai più che il palazzo dei Conservatori.

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
37

λ

Thomas van der Wilt

(Delft, 1659-1733)

RITRATTO DI FAMIGLIA

olio su tela, cm 152,5x123

firmato e datato 1708 in basso a destra sul gradino

 

Provenienza

Colonia, Lempertz, 12 marzo 1938

Londra, Christie, 11 dicembre 1987

New York, Sotheby, 1 giugno 1990

 

Referenze fotografiche

Rijksbureau voor Kunsthistorische Documentatie (RKD), n. 95633

 

L’opera è corredata di perizia scritta di Eduard A. Safarick, datata 13 febbraio 1995.

 

L’autore di questo articolato Ritratto di famiglia è il pittore e incisore Thomas Van Der Wilt, attivo fra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento a Delft, dove fu allievo di Jan Verkolje, noto ritrattista e pittore di genere.

Offre uno stringente confronto con la nostra, un’altra sua tela firmata raffigurante una Coppia al tavolo da gioco, conservata presso la Gemäldegalerie di Berlino, citata da Safarick nella perizia che accompagna l’opera.

Il ritratto di gruppo qui offerto veicola non solo le effigi dei componenti della famiglia, purtroppo anonima, e del loro elevato stato sociale ma, nella migliore tradizione della pittura olandese, un preciso messaggio etico e morale, legato all’educazione dei bambini, qui in posa insieme ai genitori nel giardino della loro dimora.

Allude alla crescita dei figli, il nido con quattro uccellini che tiene in mano la bimba sulla carrozzella trainata da una capretta, simbolo del vizio che deve essere domato, contrapposto alla presenza, dalla parte opposta, del virtuoso agnello.

In secondo piano spicca un grande vaso con un bassorilievo raffigurante una scena bacchica, un’immagine di dissolutezza contrastata da un emblema del saldo legame matrimoniale quale il putto in volo che regge la nappa del tendaggio rosso e un anello.

 

Stima   € 7.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
36

Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio

(Genova 1639 – Roma 1709)

RITRATTO DI GIOVINETTO DI CASA MATTEI

olio su tela ovale, cm 64,5x48,5

 

Iscritto al retro della tela antica "RITRATTO DAL PENNELLO DEL SIG/GIO: BATTA GAULLI, DETTO, BACICCIA/L'ANNO 1681 D'APRILE”

Incollato al retro della tela, un cartellino ottocentesco di collezione iscritto a inchiostro “Ritratto di Personaggio di casa Mattei lavoro del Baciccia”.

 

Provenienza

Roma, collezione privata.

 

Bibliografia

F. Petrucci, Baciccio. Giovan Battista Gaulli 1639 – 1709, Roma 2009, p. 161, fig. 204 (riprodotto a colori); pp. 434-35, A 67.

 

Reso noto da Francesco Petrucci nella sua monografia sul pittore genovese, il dipinto qui offerto si caratterizza innanzi tutto per l’importante provenienza documentata dalla scritta al retro, così precisa nel ricordarne l’esecuzione nel mese di aprile del 1681 da non potersi ritenere di molto successiva a quella data.

È poi il cartiglio ottocentesco a indicare nonostante il silenzio degli inventari l’identità del ritrattato nell’ambito di quell’antica famiglia romana, nota innanzi tutto per la ricchissima collezione di antichità, la committenza di opere al Caravaggio e ai suoi primi seguaci, e la protezione accordata al giovanissimo Pietro da Cortona.

In considerazione dell’età dell’effigiato alla data del 1681 Francesco Petrucci suggerisce trattarsi del duca Alessandro Mattei, ancora minore all’epoca della scomparsa del padre, Girolamo Mattei marchese di Giove, nel 1676.

Il giovane aristocratico è qui ritratto in maniera del tutto informale, i lunghi capelli inanellati sciolti sulle spalle ed esaltati dalla seta dorata della veste da camera ricamata, lo scollo aperto con negligenza sulla camicia bordata di trine.

Una presentazione inusuale, nella ritrattistica del Gaulli per lo più dedicata, peraltro, ai più eminenti personaggi della curia romana. L’intimità con cui il nostro giovanetto si propone appare invece sensibile alle suggestioni di modelli internazionali proposti a Roma dal fiammingo Ferdinand Voet e destinati a grande attualità nel Secolo dei Lumi quando anche negli ambienti delle corti europee si tenderà a preferire immagini improntate alla più informale spontaneità.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

Giovanni Bilivert

(Firenze, 1585-1644)

ANGELICA E RUGGERO

olio su tela, cm 119,5x151,5

 

Provenienza

Collezione Ganucci Cancellieri (cartellino sul retro della tela, riprodotto qui in basso)

 

Bibliografia di riferimento

R. Contini, Bilivert: saggio di ricostruzione, Firenze 1985, pp. 82-85;

E. Fumagalli in L’ arme e gli amori: la poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento, catalogo della mostra, Livorno 2001, p. 211, scheda 79;

R. Spinelli in Palazzo degli Alberti. Le collezioni d’arte della Cariprato, a cura di A. Paolucci, Milano 2004, pp. 84-87, scheda 22.

 

La tela è un’inedita versione del dipinto che Giovanni Bilivert dipinse, secondo la testimonianza di Baldinucci, “circa all’anno 1624” per il cardinale Carlo de’ Medici, descrivendolo come “la favola di Ruggeri” (F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, ed. anastatica a cura di P. Barocchi, Firenze 1974-1975, vol. IV, pp. 305-306).

Notevole è stata la fortuna riscossa dall’opera, destinata dal cardinale della famiglia Medici al casino di San Marco e oggi nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti di Firenze: si conoscono infatti altre tre redazioni del soggetto, due delle quali, facenti parti della collezione della Cassa di Risparmio di Prato e della galleria degli Uffizi, ritenute autografe. La terza, conservata presso il museo di Belle Arti di Digione, è probabilmente opera di bottega, se pur di buon livello.

I temi dell’epica ariostesca furono ampiamente presi a prestito dalla pittura barocca e rivestiti di un’interpretazione moralizzata. Lo sfrenato desiderio che si impossessa di Ruggero alla vista delle nudità della bellissima Angelica, veniva dunque letto, all’interno di una quadreria seicentesca, quale esempio di follia provocata dalla passione e dal vizio.

Bilivert interpreta con assoluta fedeltà i versi conclusivi del canto X dell’Orlando Furioso di Ariosto, restituendo la foga con cui il paladino cristiano si sta accingendo a spogliarsi dell’armatura, dopo aver salvato da una mostruosa orca Angelica, incatenata nuda a uno scoglio, e averla portata in salvo facendola salire sull’ ippogrifo che si scorge sullo sfondo. Spaventata dalle intenzioni di Ruggero, la ragazza ricorre nuovamente all’anello magico, grazie al quale già era riuscita a sfuggire all’orca, portandoselo prontamente alla bocca e rendendosi così invisibile anche al nuovo assalitore.

A differenza della versione della Palatina, considerata l’archetipo, il nostro dipinto, così come le altre redazioni citate, presenta Angelica nuda, secondo la descrizione ariostesca, documentando presumibilmente l’aspetto originale della composizione concepita da Bilivert: è stato infatti supposto che il panno che ricopre l’eroina nella tela della raccolta museale fiorentina sia stato aggiunto in seguito alla censura da parte della madre del cardinale Carlo, Cristina de’ Medici, come si desume da una divertente pagina, ritenuta autografa del pittore di origine fiamminga, contenuta in un codice miscellaneo della Biblioteca nazionale di Firenze.

Anche nella tela qui offerta, Giovani Bilivert dimostra le sue doti di grande colorista: spicca il rosso della camicia di Ruggero e del suo giubbone gettato a terra che fa da contrappunto all’armatura percorsa da bagliori dorati. Rispetto alle altre redazioni inserisce alcune varianti nella resa dell’aspetto del paladino, che appare qui ancor più un giovinetto in preda ai suoi impulsi, e nella definizione del fondale naturalistico.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Da Guido Reni, sec. XVII

MADDALENA PENITENTE

olio su tela, cm 219x146,5

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

D. S. Pepper, Guido Reni. A complete Catalogue of his Works with an introductory Text, Oxford 1984, p. 267, n. 137, tav. 165

L. Mochi Onori, R. Vodret, Galleria Nazionale d’Arte Antica Palazzo Barberini. I dipinti, catalogo sistematico, Roma 2008, p. 324.

 

Il dipinto replica, senza varianti, la Maddalena di Guido Reni conservata presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di palazzo Barberini a Roma. Portata a termine, probabilmente entro il 1633, per il cardinale Antonio Santacroce, entrò dopo la morte di questi nella collezione Barberini dove è citata frequentemente dalle guide del XVIII e XIX secolo e dove rimase fino al 1812, anno in cui passò al ramo Colonna di Sciarra per poi essere venduta ai Corsini di Firenze e dopo alterne vicende diventare di proprietà statale.

L’immagine della peccatrice che si pente dei propri peccati conobbe grande fortuna tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo, nel clima di aspra polemica contro i protestanti, per accreditare la necessità del sacramento della penitenza, e lo stesso Reni si cimentò nell’esecuzione di questo soggetto in diverse prove, molto apprezzate dalla committenza, che ne faceva continua richiesta.

Una serie di copie, più o meno fedeli, testimoniano l’apprezzamento riscosso in particolare dalla classica monumentalità della Maddalena oggi a palazzo Barberini, splendido esempio dello stile maturo di Guido Reni, caratterizzato dalla tipica luce argentata delle sue opere degli anni trenta.

La tela qui offerta viene dunque ad arricchire questo corpus di repliche, ponendosi accanto ad altri esemplari antichi, tra i quali si ricordano la tela della Walters Art Gallery di Baltimora e quella conservata presso l’ Alte Pinakothek di Monaco.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
30

Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro

(Napoli c. 1609 – 1675)

MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO

MARTIRIO DI SANT’ANDREA

coppia di dipinti a olio su tela, cm 68x104

(2)

firmati con monogramma DG in basso a destra

 

Sconosciuti agli studi storico-artistici come peraltro al mercato, gli inediti dipinti qui presentati costituiscono un’aggiunta interessante al pur nutrito catalogo di Micco Spadaro, analizzato da Giancarlo Sestieri e Brigitte Daprà (1994) nella monografia dedicata al pittore napoletano, cui fece seguito la mostra organizzata alla Certosa di San Martino, che conserva peraltro gli straordinari affreschi dell’artista e molte delle sue tele più emblematiche dedicate ai drammatici eventi patiti dalla città, tra l’eruzione del Vesuvio e la peste del 1656.

I nostri dipinti si accostano ad altri di analogo soggetto e simile formato, per lo più eseguiti nei primi anni Quaranta, che ne condividono l’impaginazione e varie soluzioni compositive. Mentre però il San Bartolomeo, di cui non conosciamo altre versioni, non presenta confronti specifici con altre tele di Micco Spadaro, numerose sono le relazioni tra il Sant’Andrea e opere da tempo acquisite al suo catalogo. Il dipinto è infatti una variante della tela di uguale soggetto, siglata, già a Londra presso Colnaghi in pendant con una diversa scena di martirio, forse di San Gennaro (G. Sestieri – B. Daprà, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro paesaggista e “cronista” napoletano, Milano 1994, pp. 180-181, nn. 79-70). La parte destra della composizione citata è infatti ripetuta nei suoi elementi essenziali nel nostro dipinto, che in primo piano a sinistra riprende invece il soldato romano su un cavallo bianco già visto in un altro Martirio di San Gennaro (Sestieri – Daprà, 1994, p. 169, n. 62).

Numerosi sono comunque i motivi inediti, a conferma della prodigiosa inventiva dell’artista napoletano.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
29

Girolamo Siciolante, detto Siciolante da Sermoneta

(Sermoneta 1521 – Roma 1575)

SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNINO

Olio su tavola, cm 99x76

 

Referenze fotografiche

Fototeca Zeri, busta 0039; fasc. 3, scheda 16241

 

Provenienza

Monaco - Roma, collezione Messinger; Roma, collezione Fassini

 

Bibliografia

P. D’Achiardi, La collection Messinger, Rome 1910. Supplément, p. 287, n. 132, tav. LXV; H. Voss, Die Malerei der Spätenrenaissance in Rom und Florenz, Berlino 1920, I, p. 108; Collezione d’arte del Barone Alberto Fassini I. Pitture dal 300 all’800 illustrate da Adolfo Venturi Senatore del Regno. Milano – Roma s.d. (1930) tav. XXII, con scheda a fronte, s.p.; A. Venturi, Storia dell’arte italiana, IX, 5, Firenze 1932, pp. 567, 591; J. Hunter, Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta (1521 – 1575), Roma 1996, p. 229, B1; fig. 97.

 

Riemersa dalla raccolta privata che la custodiva da quasi cent’anni, e a oltre un secolo dalla leggendaria vendita Messinger in cui è documentata per la prima volta, questa importante tavola si conferma con ogni evidenza come opera di Girolamo Siciolante e, verosimilmente, tra le opere tarde del pittore di Sermoneta.

Oltre a consolidarne il supporto, un opportuno restauro ha infatti restituito leggibilità alla superficie pittorica ed esaltato la gamma cromatica, dissipando le perplessità sollevate da John Hunter, che conosceva l’opera solo attraverso riproduzioni del primo Novecento, presumibilmente quelle pubblicate da Voss e Venturi, ignorandone tecnica e dimensioni. A proposito di queste ultime, occorre specificare che quelle riportate nel catalogo Fassini risultano inferiori di quasi tre centimetri rispetto a quelle attuali: non comprendono infatti un listello aggiunto al margine destro, assente peraltro anche nella illustrazione del dipinto.

Accostato da Adolfo Venturi all’elemento centrale del cosiddetto Trittico de Cordoba a Roma nella collezione dei principi Colonna, dove il gruppo della Madonna col Bambino e il piccolo Battista (fig. 1) è affiancato, nei laterali, dai Santi Andrea e Caterina, il dipinto ripete in effetti, pur variandoli nella composizione, modelli già incontrati nelle opere del Siciolante, costantemente fedele al classicismo di matrice raffaellesca, reso più affabile e intimo dai modelli di Parmigianino. A quest’ultimo rimandano infatti anche le pieghe replicate e gli elaborati ornamenti della Vergine, che in qualche modo ne alleggeriscono l’impostazione austera e monumentale, tipica dell’artista.

Una datazione intorno al 1565, documentata per il trittico di casa Colonna, sembra essere la più indicata anche per questo dipinto eseguito da Girolamo Siciolante per la devozione privata.

 

DIDASCALIA IMMAGINE DI CONFRONTO

fig. 1 Girolamo Siciolante, Madonna col Bambino, Roma, Galleria Colonna

Riproduzione fotografica, Fondazione Federico Zeri, scheda 16227

 

                                             

                                                                          

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
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