DIPINTI ANTICHI

14 NOVEMBRE 2017

DIPINTI ANTICHI

Asta, 0224

FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26


ore 16.00
Esposizione
FIRENZE
10-13 Novembre 2017
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   3000 € - 70000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 59
16

Alessandro Casolani

(Casole d'Elsa, 1552 – Siena, 1607)

MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA E SAN MICHELE ARCANGELO

olio su tela, cm 106x84

 

Bibliografia

M. Ciampolini, Pittori senesi del Seicento, Siena, 2010, p. 103



Bibliografia di riferimento

F.S. Santoro (a cura di), L'arte a Siena sotto i Medici (1555-1609), (Catalogo della mostra, 3 maggio – 15 settembre, Siena, Palazzo Pubblico), Roma 1980, pp. 67-86, (scheda di Alessandro Bagnoli)

 

I colori accesi e la pennellata sfumata donano al dipinto un intreccio emotivo di tenerezza ed eleganza esemplificata soprattutto dalla fisionomia dei personaggi contraddistinti da volti piacevolmente morbidi e sguardi languidi. Al centro della scena è presente un volto maschile barbato che guarda verso lo spettatore, probabilmente si tratta del committente o dello stesso artista di cui conosciamo i lineamenti grazie al ritratto inciso da Bernardino Capitelli nel 1634  di cui un esemplare è al Fine Art Museum di San Francisco. 

Il nostro dipinto mostra inoltre forti somiglianze stilistiche e compositive con un altro dipinto di Casolani, la Sacra Famiglia con San Giovannino e Santa Caterina da Siena (Collezione Chigi Saracini, proprietà del Monte dei Paschi, inv. n. 7455), in particolare nei profili delle due Sante Caterine a destra e nel gruppo della Madonna con il Bambino in braccio. Il Suddetto dipinto è probabilmente ricordato da Ettore Romagnoli che nelle biografie degli artisti senesi cita in modo sommario "sette sacre famiglie colorite del Casolani".

E' possibile richiamare come confronto, sempre per quanto riguarda l'impostazione del gruppo principale, anche la Madonna con Bambino, Santa Caterina da Siena e San Bernardino presente alla Pinacoteca Nazionale di Siena, già catalogata nella Fototeca Zeri (n. scheda 52892)

Alessandro Casolani inizia la sua formazione artistica con Cristofano Roncalli e Arcangelo Salimbeni. Intorno al 1578 l'artista si trasferì a Roma per studiare le opere degli artistici più significative della città. Fu però a Siena che l'artista ricevette le commissioni più prestigiose tra le quali due Adorazioni dei Pastori per la Chiesa dei Servi e una per il Duomo, oltre alle decorazioni a fresco attorno all'orologio della torre del Mangia. Il pittore lavorò anche a Genova, Napoli, Pisa e a Pavia, dove eseguì gli affreschi per la cupola della Certosa e per la volta della sacrestia.

 

Stima   € 18.000 / 24.000
29

Alessandro Turchi, detto l’Orbetto

(Verona, 1578 – 1649)

BACCO E ARIANNA

olio su tela, cm 170x123

 

Notevole acquisizione al catalogo dell’Orbetto, sebbene per il momento priva del riscontro di antiche citazioni inventariali, il bellissimo dipinto qui offerto si pone con assoluta evidenza tra le opere della maturità dell’artista veronese.

Trasferitosi a Roma circa il 1614, Alessandro Turchi si inserì immediatamente tra gli artisti – tra cui i conterranei Ottino e Bassetti e il veneziano Saraceni – attivi nei cantieri del pontificato borghesiano e, nel contempo, lavorò per il cardinal nipote, Scipione Borghese, cui fornì i preziosi dipinti su paragone per cui era celebre la scuola veronese. Ricercato negli anni successivi dai più raffinati collezionisti romani – il cardinale Francesco Barberini e il cardinal del Monte, protettore del giovane Caravaggio, il marchese Asdrubale Mattei e il tesoriere Patrizi, l’artista non fece più ritorno in patria pur continuando a ricevere importanti commissioni pubbliche e private per la città natale attraverso il suo protettore, il marchese Gherardini.

Al crocevia tra il naturalismo post-caravaggesco e la norma classica degli allievi di Annibale, ma insieme profondamente sensibile alla grazia pacata dei pittori toscani presenti a Roma, Turchi elabora ben presto il suo stile inconfondibile e una maniera, pressoché immutabile nei tre decenni di attività romana, segnata dal naturalismo temperato da una solenne misura classica e dal rigore infallibile del disegno.

Autore di soggetti tratti dalla poesia e dal mito ricercati, ancora nel Settecento, dai maggiori collezionisti europei, Turchi dipinse altre due versioni del tema di Bacco e Arianna. Totalmente diverse dalla nostra composizione, presentano entrambe i protagonisti seduti, con Bacco nell’atto di consolare Arianna piangente mentre Venere, accompagnata da Cupido, le cinge il capo di una corona. Più volte replicate, differiscono tra loro solo per la presenza, nel dipinto ora all’Ermitage di San Pietroburgo (dalla collezione del cardinal Mazarino) di tre figure di Sileni alle spalle dei protagonisti, assenti invece nella versione a sole quattro figure nella reggia di Pavlovsk, dalle collezioni di Caterina II di Russia.

Del tutto originale è dunque la nostra versione, in cui il giovane dio, le belle membra appena celate dal manto trattenuto dalla sinistra, consola la fanciulla lacrimosa indicandole il cielo, dove la sua corona terrena splenderà in eterno come costellazione boreale. Evidenti i riferimenti alla scultura classica, resa naturale e viva da raffinatissimi accordi cromatici, per cui il rosa intenso del panneggio di Bacco e il blu più discreto del manto Arianna si fondono nei toni ametista della tenda nuziale.

 

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
46

λ

Ubaldo Gandolfi

(San Matteo della Decima, 1728 – Ravenna, 1781)

SAN GIUSEPPE CHE LEGGE

olio su tela, cm 87x69

 

Opera corredata da parere scritto di Donatella Biagi Maino, Bologna, 18 febbraio 2013

 

Bibliografia di riferimento

D. Biagi Maino, Ubaldo Gandolfi, Torino 1990.

Gaetano e Ubaldo Gandolfi. Opere scelte, catalogo della mostra a cura di D. Biagi Maino (Cento 2002), Torino 2002.

 

Ubaldo Gandolfi può rientrare a buon diritto tra i protagonisti della pittura italiana del secondo Settecento grazie alla sua ineccepibile maniera fondata sulla sicurezza del disegno di matrice bolognese, la gradevolezza della tavolozza debitrice della cultura veneta e l’ispirazione poetica delle sue composizioni.

Ne è prova l’insolita raffigurazione di San Giuseppe di questa tela, dove il padre putativo di Gesù è assorto nella lettura secondo una rara iconografia da letterato cara al Gandolfi, che la replica infatti anche nella figura di Gioacchino della pala con l’Educazione di Maria commissionatagli nel 1779 (cfr. Gaetano e Ubaldo Gandolfi. Opere scelte, catalogo della mostra a cura di D. Biagi Maino, Torino 2002).

Una datazione sul finire degli anni Settanta del Settecento è quella proposta per il dipinto qui offerto nel parere scritto di Donatella Biagi Maino (18 febbraio 2013) che cita l’altra versione di Gandolfi del San Giuseppe leggente oggi conservata presso le Collezioni Comunali di Bologna, in controparte e con qualche variante, secondo la studiosa di poco successiva.

Si segnala infine sulla tela qui presentata il suggestivo effetto del trascolorare del cielo sullo sfondo che fa da contrappunto alla solenne colonna sulla destra, facendo risaltare la figura del santo.

Al retro, sul telaio, è presente l’etichetta della Mostra del Settecento Bolognese tenutasi presso il Palazzo D’Accursio di Bologna nel 1935 e curata da Roberto Longhi e Guido Zucchini.     

 

 

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
52
Stima   € 5.000 / 7.000
Aggiudicazione  Registrazione
54

λ

Artista veneziano, fine sec. XVIII

VEDUTA DEL CORTILE DI PALAZZO DUCALE

olio su tela, cm 87x134

 

La bella veduta qui offerta raffigura il cortile del palazzo dei Dogi mostrando, nella luce pomeridiana, i risalti della facciata orientale del palazzo, ricostruita da Antonio Rizzo dopo l’incendio del 1483 e rifinita dopo il 1498 dalle decorazioni marmoree di Pietro Lombardo. In fondo, la scala detta “dei Giganti”, capolavoro del Rizzo, caratterizzata dalle figure monumentali di Nettuno e Mercurio scolpite dal Sansovino nel 1566 quali simbolo della potenza della Serenissima. Al centro, il maestoso arco Foscari conclude l’omonimo porticato sul lato settentrionale, da cui emergono le cupole della basilica marciana. Prediletto dagli allievi di Giovanni Migliara, e in particolare da Federico Moja negli anni del quinto decennio dell’Ottocento, questo soggetto compare invece più raramente tra i vedutisti del Settecento, nonostante le splendide interpretazioni del Canaletto, di Michele Marieschi e di Antonio Joli.

A queste si aggiungono l’incisione dello stesso Marieschi, fondamentalmente corrispondente alle sue vedute dipinte, preceduta da quelle di Domenico Lovisa (1717) e di Luca Carlevarijs, del1703 (cfr. Dario Succi, La Serenissima nello specchio di rame, Venezia 2013, I, pp. 44, 78, 128, 130).

È appunto dalla stampa di Carlevarijs, preparata da un disegno al British Museum, che il nostro dipinto riprende il taglio dell’ombra che, unico caso tra le diverse versioni note, avanza ben oltre il centro della veduta. Del tutto originali sono invece i gruppi di figurine ancora affaccendate nel crepuscolo della sera, in qualche modo reminiscenti degli esempi di Bernardo Canal (1664-1744) autore, non a caso, di una veduta di questo stesso soggetto.

 

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
9

λ

Scuola toscana, sec. XVII

CRISTO E LA SAMARITANA AL POZZO

olio su tela, cm 129x99

 

 

Provenienza

Collezione privata

 

L’episodio evangelico dell’incontro di Cristo e della Samaritana al pozzo trova in questa tela un’interessante traduzione sia in termini compositivi che pittorici.

La scena è infatti arricchita da alcuni dettagli tra i quali spicca il bassorilievo sulla base del pozzo raffigurante Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia, per suggerire una continuità tra Antico e Nuovo Testamento.

L’impaginazione teatrale, i colori brillanti e l’attenzione rivolta alla resa dei tessuti collocano il dipinto nell’ambito della scuola fiorentina seicentesca.

Il gusto nel descrivere la veste e gli accessori della Samaritana, che arriva sino a trasformare il secchio con il quale sta per attingere l’acqua dal pozzo in un lavoro di oreficeria, è senz’altro da avvicinare alla scuola di Giovanni Bilivert nella quale si formò anche Francesco Morosini detto il Montepulciano, attivo a Firenze tra il 1600 e il 1646, secondo l’attendibile resoconto di Filippo Baldinucci (Notizie de’ professori del Disegno da Cimabue in qua, Firenze 16871-1728, ed. 1845-1847, IV, 1864, p. 316).

All’interno del corpus pittorico noto del Morosini (S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e del ‘700, Firenze 2009, 1) si segnalano come possibile confronto, soprattutto per l’arricciato svolgimento dei panneggi, l’Allegoria delle arti conservata presso i depositi delle Gallerie Fiorentine e l’Arianna abbandonata da Teseo di collezione privata, recentemente esposta alla mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi a Roma (Artemisia Gentileschi e il suo tempo, catalogo della mostra a cura di F. Baldassari – Roma, Museo di Roma, 2016/2017 – Milano 2016, pp. 166-167, scheda 41).

 

Stima   € 12.000 / 18.000
10

λ

Francesco Rustici, detto il Rustichino

(Siena, 1592 – 1625)

MORTE DI SANTA MARIA MADDALENA

olio su tela, cm 135x182,5

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

M. Ciampolini, Pittori senesi del Seicento, 3 voll., Siena, 2010, pp. 673-702

Il buon secolo della pittura senese. Dalla maniera moderna al lume caravaggesco. Montepulciano, San Quirico d'Orcia, Pienza, catalogo della mostra, Ospedaletto-Pisa, 2017, pp. 320-321, scheda 36

 

Come riportato da Franco Paliaga nella scheda di catalogo della recente mostra “Il buon secolo della pittura senese risulta che nelle raccolte fiorentine fossero conservati almeno tre dipinti di Francesco Rustici con questo soggetto, sebbene di differenti dimensioni.

Due sono registrati, a partire dal 1625, nella villa di Poggio Imperiale che apparteneva a Maria Maddalena d’Austria, moglie del granduca Cosimo II: il primo misurava circa 130x203 cm, l’altro era molto più piccolo, 43,5x58 cm, probabilmente un bozzetto.

Una terza versione, che all’incirca misurava cm 193x261, è invece segnalata nella villa di Lappeggi, nell’inventario del 1667 redatto alla morte di Mattias de’ Medici, fratello di Ferdinando II che ne era il proprietario.

La presenza di tre opere del Rustichino con la stessa iconografia della Maddalena ha portato una certa confusione nella loro identificazione.

Una di esse è registrata nell’inventario degli Uffizi 1890, n. 5667 (cm 148x219), l’altra nell’inv. OA, n. 481 (cm 121x169) mentre della tela più piccola, il probabile bozzetto, si è persa ogni traccia.

Confrontando le misure riportate in braccia fiorentine risulta che la versione più grande era quella appartenuta a Mattias de’ Medici, mentre quella di dimensioni inferiori era di proprietà di Maria Maddalena d’Austria ed è la versione della Galleria degli Uffizi che è stata esposta alla mostra. Di questa esiste una replica nella Pinacoteca Nazionale di Siena, purtroppo in cattive condizioni conservative, ma che si qualifica come opera di mano del Rustici, il quale elaborò il soggetto numerose volte, indice di un grande successo della formula iconografica.

Del soggetto esiste anche un’incisione eseguita dal disegno di Jan Baptiste Wicar per essere inserita nel Tableaux de la Galerie de Florence et du Palais Pitti, edito a Parigi nel 1819 (I/91).

Anche il dipinto qui offerto, proveniente da un’importante collezione fiorentina, risulta essere una replica autografa del dipinto degli Uffizi n. 481, rispetto al quale presenta la variante del teschio al centro della composizione, mentre nel dipinto appartenuto a Mattias dei Medici il teschio è di fianco al vasetto degli unguenti in basso a destra.

Si tratta di una composizione assai innovativa, databile intorno agli anni Venti del Seicento, giocata su un’emozionante scenografia notturna con luci artificiali con richiamo alle opere di Gherardo delle Notti.

Rustichino è stato sicuramente uno dei pittori toscani del secondo decennio del secolo a sperimentare la pittura a lume di candela, influenzato anche dai lavori di Théophile Bigot e del cosiddetto “Candlelight Master” che lavoravano in Italia in quegli anni.

 

Stima   € 45.000 / 65.000
11

λ

Bottega di Isaia da Pisa, Roma, seconda metà sec. XV

FIGURA FEMMINILE PANNEGGIATA ALL’ANTICA

scultura in marmo, cm 83x28

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

F. Caglioti, Precisazioni sulla Madonna di Isaia da Pisa nelle Grotte Vaticane, in “Prospettiva”, 47, 1986, pp. 58-64

F. Caglioti, Su Isaia da Pisa. Due Angeli reggicandelabro in Santa Sabina all’Aventino e l’altare eucaristico del Cardinal d’Estouville per Santa Maria Maggiore, in “Prospettiva”, nn. 89-90, ottobre 1998, pp. 125-160

 

 

L’interessante scultura qui presentata mostra una figura femminile vestita con una lunga tunica legata in vita e un mantello ampiamente panneggiato che dalle spalle passa davanti alle gambe e si appoggia al braccio sinistro. La capigliatura si dispone lungo il volto in due grossi boccoli laterali ricavati con un esteso lavoro di trapano.

L’opera, che proviene da un’importante collezione romana, è una rara testimonianza della bottega di Isaia da Pisa, scultore principe a Roma prima dell’avvento dei maestri moderni toscani come Mino da Fiesole e i Rossellino, o adriatici come Giovanni Dalmata.

I confronti più stringenti con Isaia da Pisa si possono fare con la lunetta del tabernacolo del corpo di Sant’Andrea nell’antica basilica di San Pietro a Roma, ora conservata nelle Grotte Vaticane. Il modo di panneggiare è analogo e l’ovale del volto quasi sovrapponibile con gli occhi sgranati (con cornea e pupilla incisa), i capelli pettinati in una forma regolare quasi astrattamente decorativa, la bocca e il naso piccoli.

La data di quell’altare, che fu rinnovato tra il 1463-64, è utile per collocare anche la scultura qui offerta che probabilmente apparteneva ad un complesso funerario o a un altare di difficile identificazione dopo che la scultura ha perso l’attributo iconografico che aveva nelle mani.

La fisionomia della figura si avvicina molto a quella delle virtù teologali per la tomba del cardinale Antonio Martinez de Chavez (1448-1450) in San Giovanni in Laterano, rimontate poi da Francesco Borromini nel Seicento.

Alcuni punti di contatto per quanto riguarda lo stile antiquario dei panneggi si trovano anche con l’altare di Eugenio IV e Pietro Bembo (altare degli Orsini) sempre nelle grotte Vaticane, del 1451, dove le pieghe del manto di San Paolo sono affini a quelle della nostra scultura.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
26

λ

Cesare Dandini

(Firenze 1596-1656)

SAN GIOVANNI EVANGELISTA                     

olio su tela, cm 71,5x58

 

Inedito e non replicato, lo splendido dipinto qui offerto costituisce un’aggiunta significativa al pur nutrito catalogo di Cesare Dandini e, più precisamente, al suo periodo più felice intorno alla metà degli anni Trenta.

Nella figura pensosa e languida dell’Evangelista riconosciamo i tratti di un modello ideale costantemente ripetuto dall’artista fiorentino, che lo piega alle più diverse identità, maschili e femminili, prestando i suoi tratti ad allegorie sacre e profane come a figure tratte dalle Scritture e dal mito.

Lo ritroviamo ad esempio nella Allegoria della Commedia commissionata da don Lorenzo de’ Medici per la villa La Petraia e ora nei depositi delle Gallerie Fiorentine, come nella Donna in abiti orientali che nello Statens Museum for Kunst di Copenhagen reca la sigla del pittore e la data del 1639, uno dei rari riferimenti cronologici nel catalogo dell’artista.

Inusuale è il soggetto del nostro dipinto, che conoscevamo solo in una diversa versione, parte di una serie dedicata ai quattro Evangelisti nella collezione di Gianfranco Luzzetti (Sandro Bellesi, Cesare Dandini, Firenze 1996, pp. 199-101, n. 46 e tav. VII). Anche le fonti biografiche tacciono a questo proposito, ma possibili tracce di antica appartenenza a una collezione aristocratica fiorentina potrebbero arrivare dalla Nota dei quadri esposti all’Accademia del Disegno, che nel 1729 registra la presenza di un San Giovanni Evangelista di Cesare Dandini prestato dal Cavalier Filippo Guadagni. Ancora, nel 1715 un San Giovanni Evangelista del Dandini figura in mostra, dalla collezione Compagni: lo stesso, senza dubbio, descritto nel 1789 nella galleria del Cavalier Braccio Luigi Compagni, che tuttavia nell’inventario della stessa collezione del 1808 viene invece descritto come Giovanni Battista (The Getty Provenance Index Database).

Una committenza importante si deduce in ogni caso dai preziosi pigmenti utilizzati per i panneggi sontuosi della figura, esaltati da un ottimo stato conservativo.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
27

λ

Giovanni Domenico Ferretti                                                

(Firenze, 1692-1768)                                                       

CARICATURE (SCENE GIOCOSE)

tre dipinti ad olio su tavola parchettata, diam. cm 87          

(3)                                                                       

                                                                          

Provenienza

Collezione Amari                                                          

Collezione marchese Gian Francesco Giaquili Ferrini                       

Collezione privata

                                                                      

Bibliografia

M. Gregori, Nuovi accertamenti in Toscana sulla pittura "caricata" e giocosa, in "Arte antica e moderna", 13-16, 1961, pp. 400-416, p. 412, figg. 198b e 199 a-b; uno illustrato a colori alla tav. X;                                           

M. Gregori, 70 pitture e sculture del 600 e 700 fiorentino, catalogo della mostra, (Firenze Palazzo Strozzi, ottobre 1965), Firenze, 1965, p. 63, nn. 50, 51, 52, tutti riprodotti;

E. A. Maser, Gian Domenico Ferretti, Firenze, 1968, p. 81, n. 96-98, pp. 179-180, figg. 79, 80, 82;

F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Milano, 2002, pp. 240-241, DIP. COM. 2-4.

S. Bellesi, Catalogo dei Pittori Fiorentini del 600 e 700, Firenze 2009, I, p. 139 (non riprodotti).

 

 

Le “macchiette” qui offerte furono rese note da Mina Gregori nella storica indagine che già nel 1961 disegnava la storia della pittura caricata e giocosa in Toscana, rintracciandone le ascendenze nella produzione grafica di Callot, nelle scenette umoristiche di Baccio del Bianco e di Giovanni da San Giovanni, nel gusto per i “caramogi” e per la voluta deformazione della figura umana che attraversa un po’ tutto il secolo, quasi la faccia in ombra della pittura accademica. Un gusto che poco prima della metà del Settecento approda alle “spiritose invenzioni” di Giovan Domenico Ferretti, autore delle sedici scene in maschera dedicate al personaggio di Arlecchino, documentate nel 1751 nel palazzo di Orazio Sansedoni a Siena, a cui la critica moderna ne ha aggiunte altre ancora.

Unici restano invece i nostri tre tondi, di cui si ignora la committenza, datati dalla Gregori intorno al 1735-45, e dunque non lontani dalla formazione bolognese dell’artista che affiora nelle forme tondeggianti, nella saturazione del colore e nella libertà di tocco memore degli esempi di Giuseppe Crespi.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
31

λ

Cennino Cennini

(Colle di Val d'Elsa 1370 – Firenze 1427)

MADONNA CON IL BAMBINO TRA SANTE E ANGELI

tempera su tavola, cm 52x32, con la cornice cm 62x42

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia 
W. Angelelli, A.G. De Marchi, Pittura dal Duecento al primo Cinquecento nelle fotografie di Girolamo Bombelli, a cura di S. Romano, Milano, 1991, p. 221, scheda n. 420Wolf-Dietrich Löhr, “Fantasie und Handwerk”, Cennino Cennini und die Tradition der toskanischen Malerei von Giotto bis Lorenzo Monaco, catalogo della mostra presso la Gemäldegalerie di Berlino, München, 2008, riprodotta a colori a p. 240

Bibliografia di riferimento
M. Boskovits, Cennino Cennini: pittore nonconformista 1973 in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 17, 1973, 1, pp. 201-222.M. Boskovits, Pittura Fiorentina alla vigilia del Rinascimento 1370-1400, Firenze, 1975

L’interessante tavola qui presentata raffigura la Vergine con il Bambino tra Sante martiri e angeli musicanti dinanzi a lei inginocchiati. Sullo sfondo un elegante drappo con motivi floreali, tenuto da due piccoli angeli, incornicia ed esalta la raffinatezza delle figure.L’opera è stata pubblicata da A.G. De Marchi in Pittura dal Duecento al primo Cinquecento nelle fotografie di Girolamo Bombelli con riferimento al Maestro di San Lucchese e a Cennino Cennini; a questo secondo artista è stata poi attribuita da Miklòs Boskovits nel 2007 come precisato nel catalogo della mostra alla Gemäldegalerie di Berlino (comunicazione scritta del 20 gennaio 2007). Pittore raro, Cennino Cennini è conosciuto principalmente per aver scritto il Libro dell'Arte, un importante trattato degli inizi del Quattrocento che riassume le esperienze tecniche maturate nei laboratori della pittura toscana del Trecento, in particolare pittura su tavola e ad affresco. Cennino nacque a Colle Val d’Elsa da padre pittore. Fu indirizzato a questa professione nella bottega fiorentina di Agnolo Gaddi. Le informazioni sulla sua vita sono poche; gli unici riferimenti cronologici puntuali provengono da due atti notarili del 1398 che attestano la sua presenza a Padova come pittore al servizio di Francesco da Carrara. Altre notizie si possono dedurre dal Libro dell'Arte; infatti nella sua "genealogia pittorica" fa riferimento al suo maestro Agnolo Gaddi, figlio di Taddeo, con cui rimase dodici anni e di cui tramanda questo ricordo: "colorì molto più vago e fresco che non fé Taddeo suo padre" (Libro dell'arte, LXVII). Cennini fu seguace della tarda tradizione giottesca, quale si tramandava a Firenze nelle botteghe degli Orcagna e dei Gaddi; se Giotto fu per lui il padre della nuova pittura, definì sé stesso "piccolo maestro esercitante nell'arte di dipintoria", forse con calcolata modestia.Nel 1973 Boskovits ha riunito attorno al nome di Cennino Cennini un gruppo omogeneo di opere articolate intorno agli affreschi con Storie di Santo Stefano dell'abbazia di San Lucchese, vicino a Poggibonsi (da qui forse la precedente identificazione con il Maestro di San Lucchese che fu invece un artista nella cerchia di Maso di Banco).Questi affreschi, tradizionalmente attribuiti a Taddeo Gaddi ma datati 1388, sono firmati con l'iscrizione "collensis patria" probabilmente riferibile ad un autore cittadino di Colle quale era appunto il Cennini. Intorno a questo ciclo Boskovits ha raccolto altre due opere legate a Colle Val d'Elsa: la Natività della Vergine proveniente da una chiesa di Colle (ora Pinacoteca di Siena), e un tabernacolo con la Madonna col Bambino, purtroppo assai alterato, ancora in una via della cittadina toscana; inoltre vi sono due scomparti di polittico (Staatliche Museen di Berlino) raffiguranti Sant’Agostino e San Gregorio e due Madonne col Bambino, una già Firenze collezione Baroni e l’altra del Monte dei Paschi di Siena (precedentemente nella collezione Hylard, Greenwich (Conn.) 1958 , e poi apparsa da Sotheby’s, New York nel gennaio del 1985, n. 44).La nostra tavola trova un plausibile confronto con le due ultime opere citate soprattutto per l’andamento del panneggio e la conformazione dei volti; anche lo sguardo azzurro della Vergine è familiare a quello del bel San Francesco di Poggibonsi.Analoga composizione infine ritorna nella tavola di collezione privata raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista, Pietro, Caterina e Lucia sempre riferita al Cennini. Questa tavola terminante in una cuspide mostra come avrebbe dovuto essere anche il nostro dipinto, che invece è stato decurtato della parte terminale probabilmente a metà dell’Ottocento per essere inserito all’interno dell’attuale cornice. 

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
40

λ

Scuola di Jacopo Bassano, sec. XVII

IL SACRIFICIO DI NOE'

SCENA PASTORALE O LA PARABOLA DEL SEMINATORE                              

due dipinti ad olio su tela, cm 158x224

(2)                                                                       

                                                                          

Provenienza

Collezione privata

 

I due dipinti qui presentati sono repliche di discreta qualità da modelli del pittore Jacopo Bassano (1515 ca - 1592).

Il dipinto originale raffigurante il Sacrificio di Noè fu eseguito nel 1574 ed è oggi conservato nei Palazzi Statali di Postdam in Germania. Si conoscono varie repliche del dipinto, due di queste catalogate nella Fototeca della Fondazione Zeri; la prima (scheda n. 42905) passata in asta da Christie's a Londra il 26 marzo del 1971 come Jacopo Bassano e precedentemente appartenuta a varie collezioni private inglesi dal 1682.

Un altro esemplare (scheda 40472), attribuito al figlio terzogenito di Jacopo, Leandro Bassano (1557-1622), proveniva dal Landesmuseum di Oldenburg in Germania ed è poi apparso sempre da Christie's a Londra il 4 giugno 1965. Un'ulteriore opera è catalogata nella Fototeca della Fondazione Giorgio Cini (scheda 401764) e rappresenta un frammento della parte destra dell'originale oggi conservato alla Walker Art Gallert di Liverpool; le repliche successive, eseguite dalla bottega di Jacopo, derivano probabilmente da quest'ultima versione. Il nostro dipinto presenta alcune varianti rispetto alla composizione originale.

La Scena pastorale, datata 1560 circa, è conservata nella collezione Thyssen Bornemisza di Madrid ed è pubblicata in P. Zampetti, Jacopo Bassano, 1957, p. 208; il dipinto rimase nella collezione Thyssen di Villa Favorita a Lugano fino al 1992. Come per la prima opera anche questa presenta alcune varianti rispetto all'originale, soprattutto nel paesaggio e negli utensili poggiati a terra.

Stima   € 20.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

λ
Andrea Scacciati

(Firenze, 1642-1710)

VASO DI FIORI ALL’APERTO, SU UNA PIETRA; SULLO SFONDO, PIANTE SELVATICHE E UN TAPPETO, CON URNA E VASI METALLICI SU UN PIEDISTALLO

olio su tela, cm 125x180,5

firmato e datato: "A. Scacciatj 1679" in basso a destra su una pietra (le C incrociate)

 

Provenienza

New York, Sotheby’s, 19 Gennaio 1984, n. 62.

 

Bibliografia

L. Salerno, La natura morta italiana 1560-1805, Roma 1984, p. 297, fig. 84.1.

M. Cinotti, Catalogo della pittura italiana dal 300 al 700, Milano 1985, p. 307.

G. e U. Bocchi, Naturaliter. Nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, p. 498, fig. 626.

S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del 600 e 700: biografie e opere, Firenze 2009, I, p. 252.

S. Bellesi, Andrea Scacciati pittore di fiori, frutta e animali a Firenze in età tardobarocca, Firenze 2012, p. 110, n. 20.

 

 

Pubblicata per la prima volta da Luigi Salerno nel 1984, questa sofisticata composizione di Andrea Scacciati è stata ripetutamente celebrata come uno dei capolavori dell’artista fiorentino.

La storia del nostro dipinto è stata doviziosamente ricostruita da Sandro Bellesi attraverso stringenti confronti con un gruppo di opere analoghe per imponenza di formato e per impianto compositivo. Si menzionano in particolare la coppia di tele, di cui una firmata e datata 1678, che, esposte nel 1964 alla storica mostra sulla natura morta italiana tenuta a Napoli, a Zurigo e a Rotterdam, segnarono in qualche misura la riscoperta di Andrea Scacciati, fino a quel momento confuso con altri fioranti, e la sua consacrazione tra i protagonisti della natura morta barocca (La natura morta italiana. Catalogo della mostra, Milano 1964, pp. 79-80, nn. 166-167, tavv. 76 a-b).

Al pari del nostro dipinto, le tele citate raffigurano una variazione sul tema, assai familiare all’estetica barocca, del paragone tra natura e artificio accostando un bouquet di fiori variopinti raccolti in un vaso sbalzato a una pianta selvatica, fiorita spontaneamente sul terreno sassoso.

Impreziosiscono la nostra composizione i vasi in metallo e il tappeto dalla frangia dorata posti a sinistra, motivi che confermano la relazione intrattenuta da sempre da Scacciati con la scuola romana, sottolineata per la prima volta da Mina Gregori nel 1964 a proposito della sua produzione di fiori.

Insolita l’ambientazione notturna, che non riscontriamo nelle altre sue composizioni all’aperto fin qui note: una scelta atta a far risaltare la brillante cromia dei suoi fiori recisi, anemoni e tulipani in tutte le gradazioni del rosa, le pieghe sontuose del panno con la bordura dorata e i bagliori metallici.

 

 

 

 

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
13

Artista fiorentino, metà del sec. XVI

NATIVITA'

olio su tavola, cm 60x38

al retro è presente la scritta "Nardini F" e il numero di inventario "306" e uno studio di figure a pennello e vernice nera

 

Provenienza

Collezione privata

 

La bella tavola qui presentata si iscrive con ogni evidenza nella produzione destinata al culto domestico e alla devozione privata fiorita a Firenze intorno alla metà del XVI secolo ad opera di artisti che in qualche modo si sforzavano di temperare la stretta osservanza ai dettami tridentini con una più libera e a tratti trasgressiva scelta di stile. Classica nell’impianto, per quanto lievemente sovraffollata in uno spazio tutto scalato in verticale, la Natività è messa in scena da protagonisti e comparse che impercettibilmente divergono, nei profili aguzzi e nei colori accesi (quali possiamo indovinarli sotto una vernice lievemente ingiallita) dalla norma classica di Andrea del Sarto e di Fra Bartolomeo, seguendo piuttosto le strade aperte, ormai due decenni prima, dal Rosso Fiorentino e dai suoi compagni più stravaganti, tra tutti Giovanni Larciani, il cosiddetto Maestro dei Paesaggi Kress.

I confronti più immediati, sebbene condotti su opere di destinazione pubblica e di imponente formato, rimandano tuttavia alla produzione sacra di Carlo Portelli intorno alla metà degli anni Cinquanta, ancorandosi alla pala della Natività eseguita intorno al 1555 per la chiesa delle Clarisse di Monticelli, ora in San Michele a San Salvi o, per quanto riguarda il profilo affilato della Vergine, all’Annunciazione firmata e datata dello stesso anno nella chiesa di Santa Maria Assunta a Loro Ciuffenna, paese natale del pittore.

Confrontabile col San Giuseppe pensoso (o semplicemente assonnato) e tutto raccolto su sé stesso nella citata pala di San Salvi, il nostro risulta poi pressoché sovrapponibile a quello nella Sacra Famiglia di collezione privata, e dunque di più ridotte proporzioni, venduto a Firenze nel 2002 da Finarte-Semenzato.

 

Stima   € 13.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
37

Attribuiti a Pier Francesco Garola

(Torino, 1638 - Roma, 1716)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA CON IL RITORNO DEL FIGLIOL PRODIGO             

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA CON LA PARTENZA DEL FIGLIOL PRODIGO            

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 116,5x146,5                         

(2) 

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

G. Sestieri, Il capriccio architettonico in Italia nel XVII e XVIII secolo, Foligno, 2015, II, pp. 62-81.

 

La complessità delle prospettive architettoniche qui presentate, animate da vivaci figurine, e la loro impostazione scenografica palesemente legata al mondo degli allestimenti teatrali suggeriscono di ricondurre la coppia di tele alla produzione di Pier Francesco Garola, autore di vedute interne delle principali basiliche romane ma anche di prospettive di invenzione, alcune delle quali accostabili alle nostre sotto il profilo stilistico e compositivo.

Tra queste possiamo citare due opere pubblicate da Giancarlo Sestieri nei volumi sul capriccio architettonico edito nel 2015 (II, p. 80, figg. 26 a-b): il pendant attribuito a Pier Francesco Garola (e un tempo ad Alberto Carlieri; ubicazione ignota, già Padova Galleria Antiquaria G. Morosini), raffigura le storie di David sullo sfondo di due archi a serliana che possono essere accostati a quello presente nel nostro dipinto col ritorno del figliol prodigo.

Architetto e pittore di prospettiva formatosi tra Venezia, Bologna e Firenze, Pier Francesco Garola perfeziona il suo stile durante un soggiorno in Emilia dove poté osservare attentamente lo stile e la tecnica di pittori quadraturisti come Girolamo Curti, Giovanni Antonio Mannini e Angelo Michele Colonna. Nel 1668 si trasferisce a Roma dove acquista notorietà come pittore di vedute tanto da ricevere l'incarico di maestro di prospettiva all'Accademia di San Luca.  

 

                                                     

Stima   € 16.000 / 22.000
Aggiudicazione  Registrazione
15

Attribuito a Bernardino Luini

(Dumenza, 1481 – Milano,1532)

TESTA VIRILE - ULISSE

affresco staccato, cm 38,5x31

 

 

Viene qui presentato uno stacco d’affresco con una testa di vecchio elmato che probabilmente faceva parte del ciclo ricordato nella villa La Pelucca a Sesto San Giovanni, Milano.

La villa aveva un grande salone di rappresentanza decorato tra il 1520-24 da Bernardino Luini su commissione dal nobile milanese Gerolamo Rabia.

Gli affreschi vennero staccati tra il 1821 e il 1822 con una campagna diretta da Stefano Barezzi che li trasportò, secondo l'uso dell'epoca, su tavole di legno: tale tecnica è all'origine delle numerose fessure ancora oggi o visibili.

Gli affreschi sono conservati per la maggior parte alla Pinacoteca di Brera di Milano, mentre altri si trovano presso la Wallace Collection di Londra e il Museo Condé di Chantilly.

Il supporto in legno e gesso in cui è adagiato anche il nostro dipinto è del tutto simile al supporto presente negli stacchi relativi all’intervento di recupero di Stefano Barezzi.

Gli affreschi di villa La Pelucca componevano un vasto ciclo di stampo umanistico con episodi tratti dal mondo cortese, dalla mitologia e dalle sacre scritture.

La sala più grande, col camino, era decorata dalla Fucina di Vulcano mentre alle pareti si trovavano Storie dell'Esodo. Una stanza adiacente aveva un sopracamino con il Sacrificio di Pan.

Un altro ambiente vicino, più piccolo, mostrava il Bagno delle fanciulle, forse la più celebre tra le scene; vi si trovavano inoltre il cosiddetto Gioco della mano calda (una specie di schiaffo del soldato), il frammento con la Coppia di giovani e le lunette con i Putti vendemmianti.

Dalla cappella, tuttora esistente, provengono infine il Corpo di santa Caterina d'Alessandria trasportato dagli angeli, un Eterno benedicente e altri frammenti.

Il personaggio qui offerto, di cui si conserva la testa con alcune porzioni del collo, della spalla e del mantello, può essere interpretato come Ulisse in età anziana; per il modello iconografico di riferimento si cita la testa dell’Ulisse Grimani del Museo Archeologico Nazionale di Venezia in cui l'eroe è rappresentato con quel particolare copricapo, spesso utilizzato da Bernardino Luini nelle sue composizioni.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
56

Cornelis de Wael

(Anversa, 1591 – Roma, 1667)

VEDUTA DI PORTO CON GALEA E VELIERI OLANDESI

olio su tela, cm 102x147

 

Bibliografia di riferimento

Van Dyck a Genova. Grande pittura e collezionismo, catalogo della mostra (Genova 1997) a cura di S. J. Barnes, P. Boccardo, C. Di Fabio, L. Taglaferro, Milano 1997, pp. 342-349; A. Orlando, Pittura fiammingo-genovese: nature morte, ritratti e paesaggi del Seicento e primo Settecento: ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2012, pp. 103-105.

 

 

Figlio e allievo di Jan de Wael, Cornelis de Wael si trasferisce stabilmente a Genova nel 1619, quando il fratello Lucas prende in affitto una casa che diventerà un punto di riferimento per tutti gli artisti fiamminghi transitanti nel capoluogo ligure, compreso il celebre Anton Van Dyck.

Numerosi sono i quadri di Cornelis descritti negli inventari genovesi del XVII e XVIII secolo come Battaglia navale, Diversità di vascelli o Marina, a testimonianza della fortuna di questo genere pittorico presso la committenza genovese. Il dipinto qui offerto è un bell’esempio della bravura del pittore fiammingo di inserire in un’ampia veduta l’animazione di un porto, descrivendo dettagliatamente le figure impegnate in svariate attività.

La maniera assai meticolosa con cui sono state realizzate le imbarcazioni, protagoniste della porzione destra della scena, permette di ipotizzare l’intervento di uno specialista del genere, Andreas van Ertvelt, documentato dal 1627 a Genova, di cui Cornelis spesso si avvalse per soddisfare le numerose commissioni della sua casa-bottega, organizzata come una vera e propria impresa.

Si ringrazia Anna Orlando per aver precisato l’attribuzione a Cornelis de Wael con la collaborazione di Andreas van Ertvelt.

L’opera sarà pubblicata dalla studiosa in Van Dyck e i suoi amici. Fiamminghi a Genova 1600-1640, catalogo della mostra a cura di Anna Orlando (Genova, Palazzo della Meridiana, 9 febbraio – 10 giugno 2018), Sagep, Genova 2018 (in c.d.s.).

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
2
λ
Scuola pisana, sec. XV

SAN MATTEO EVANGELISTA 
scomparto di polittico a tempera su tavola fondo oro, cm 86,4x34

Provenienza
Collezione privata 

Referenze fotografiche
Fototeca Zeri, busta 0067; fasc. 1, scheda 3377 


Questo interessante scomparto di polittico raffigurante San Matteo Evangelista (come confermato anche dall’iscrizione sotto i piedi del santo) è stato attribuito da Roberto Longhi a Cecco di Pietro, artista tra i più rappresentativi della scuola pisana nella seconda metà del secolo XIV.Il linguaggio di Cecco di Pietro deriva dallo studio delle novità giottesche che ancora si propagavano in Toscana negli ultimi vent’anni del Trecento, ma con una significativa apertura ai modi del tardogotico.Linda Pisani, studiosa di Cecco di Pietro, parla per questo artista di “raffinatezza delle punzonature, ricchezza e varietà della gamma cromatica e cura dei dettagli”; tali caratteristiche ci inducono a pensare che il nostro San Matteo Evangelista sia opera di un pittore leggermente più attardato che abbia voluto riproporre lo stile di Cecco nella precisione dei riccioli della barba, nel taglio allungato degli occhi e nelle rughe espressive della fronte. Tuttavia più aspra e tagliente è la resa delle mani, del viso e della veste giocata nei toni del celeste, del giallo e del verde.Nel nostro San Matteo possiamo vedere anche una prossimità con Pietro da Talada, pittore emiliano attivo in Garfagnana nel XV secolo. L'artista iniziò ad essere noto a partire dagli anni '60 del sec. XX, quando Giuseppe Ardighi lo identificò come autore del trittico della chiesa di Santa Maria di Borsigliana (da cui il nome di Maestro di Borsigliana con cui è principalmente conosciuto) raffigurante la Madonna col Bambino tra i Santi Prospero e Nicola.Nella predella, in cui sono rappresentati gli apostoli, si trovano delle vicinanze con il nostro San Matteo, in particolare nella figura del San Bartolomeo per la profonda ruga espressiva a forma di “U” che si vede tra le arcate sopraccigliari.
Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
7
Scuola marchigiana, fine sec. XVI
MADONNA CON BAMBINO TRA LE SANTE CATERINA D'ALESSANDRIA E CATERINA DA SIENA 
olio su tavola, cm 76x55                         

Il particolare dipinto qui offerto rappresenta una Madonna con Bambino tra due sante, entrambe di nome Caterina; a sinistra Caterina d’Alessandria, riconoscibile dalla ruota dentata del martirio, a destra Santa Caterina da Siena con l’abito dell’ordine domenicano intenta ad adorare il crocifisso.Le due sante, come fossero presenze oniriche, incombono dietro la Vergine che si erge dinanzi allo spettatore con forza e grazia allo stesso tempo. Le mani sono estremamente affusolate e l’acconciatura è descritta in modo complesso; infatti i capelli sono legati in trecce in cui è annodato un velo da cui cade il manto ceruleo. In piedi dinanzi a lei vediamo Gesù Bambino descritto in una posa insolita mentre calpesta, spiegazzandole, le pagine di un testo sacro. Con la manina sinistra accarezza il mento della madre mentre con la destra si succhia il pollice guardando di fronte a sé. Le figure presentano una certa rigidità iconica e un’astrazione di ascendenza neogotica con riferimenti alle stampe nordiche che forse rispondevano bene a un misticismo di provincia con una funzione didattico-dottrinale secondo i dettami della Controriforma; possiamo infatti collocare il dipinto nell’ambito della pittura marchigiana della seconda metà del Cinquecento e in particolare vicino alle opere di Simone de Magistris (Caldarola, Macerata 1538 – 1613).La nostra composizione si distingue per un alto livello di originalità in cui serpeggia quella vena “folle” che si ritrova proprio nello stile del de Magistris dalle quali il nostro pittore eredita molte caratteristiche tipiche come l’atteggiamento anticlassico delle figure.
Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
14
λ
Francesco Montelatici, detto Cecco Bravo
 
(Firenze, 1601 - Innsbruck, 1661)
ARMIDA
olio su tela, cm 127,5x82

Provenienza
Collezione privata

Esposizioni
Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Firenze, Palazzo Strozzi, 21 dicembre 1986 – 4 maggio 1987; 
Cecco Bravo pittore senza regola, Firenze, Museo di Casa Buonarroti, 22 giugno 1999 – 30 settembre 1999

Bibliografia
Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Pittura, I, Firenze 1986, pp. 370-371, scheda 1.198 di Anna Barsanti.Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Biografie, III, Firenze 1986, pp. 48-51, biografia a cura di Anna BarsantiA. Barsanti, Cecco Bravo pittore senza regola. Firenze 1601 - Innsbruck 1661, Milano, 1999, pp. 100-101, scheda 30; riprodotto anche in copertinaS. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ’600 e ’700: biografie e opere, Firenze, 2009, I, tav. 33 riprodotto a colori; p. 204

Più volte commentata nella letteratura su Cecco Bravo, la nostra Armida, la celebre maga della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, presenta elementi tipici delle opere più tarde dell’artista che dimostrano una conoscenza diretta della pittura veneta e di Tiziano; infatti è caratterizzata da una pennellata sfaldata e morbida che accentua l’atmosfera misteriosa e onirica della scena. Anche lo schema compositivo del quadro è quello già collaudato da Cecco Bravo per le opere da cavalletto, ovvero la rappresentazione di figure in un proscenio ristretto, stagliate su fondi mossi ma senza una reale tridimensionalità, suggerita soltanto dai passaggi di colore. Armida ci appare temibile, accompagnata da una schiera di creature infernali da lei evocate (serpenti, draghi, aquile rapaci) a indicarne lo stato d’animo furioso. Essa è stata infatti abbandonata dall’amato Rinaldo e medita vendetta, come leggiamo nel canto XVI, ottava LXVIII, della Gerusalemme di Tasso:
“Giunta a gli alberghi suoi chiamò trecento,con lingua orrenda deità d'Averno.S'empie il ciel d'atre nubi, e in un momento impallidisce il gran pianeta eterno,e soffia e scote i gioghi alpestri il vento.Ecco già sotto i piè mugghiar l’inferno:quanto gira il palagio udresti iratisibili ed urli e fremiti e latrati.”
La bellezza della maga, circondata da una veste trasparente che ne rende la piena sensualità, è arricchita dai nastri purpurei tra i capelli e dai gioielli, bagliori di perla che le adornano il collo e l’orecchio. È un incanto delicato quello del volto di Armida in contrasto si direbbe con le sue spaventose passioni e con le creature demoniache che la accompagnano, i cui occhi allucinati e fiammeggianti sembrano riecheggiare nella spilla circolare che le ferma il mantello blu.Cecco Bravo è stato uno degli artisti più importanti e significativi della prima metà del Seicento fiorentino. Da Baldinucci ([1681-1728], IV, p. 311) si apprende che il tirocinio del pittore avvenne sotto la guida di Giovanni Bilivert, pittore di corte del granduca Cosimo II de’ Medici. L’alunnato presso Bilivert dovette rivelarsi ricco di stimoli, dato che la sua bottega si trovava in alcune stanze della Galleria degli Uffizi, permettendogli così di studiare e copiare direttamente capolavori antichi e moderni.Determinante è stata la collaborazione con Matteo Rosselli che ottenne alcune prestigiose committenze pittoriche da parte della famiglia ducale offrendo a Montelatici la possibilità di cimentarsi con la tecnica ad affresco, inusuale nella bottega di Bilivert.Rosselli realizzò infatti la decorazione delle stanze del casino di San Marco, tra il 1623 e il 1624 per il cardinale Carlo de’ Medici e, insieme ai medesimi aiuti, gli affreschi delle quattro sale al pianterreno della villa di Poggio Imperiale su committenza di Maria Maddalena d’Austria vedova di Cosimo II. Nonostante  sia ancora in dubbio la partecipazione di Montelatici alla decorazione del casino, la storiografia concorda nel ricavare un suo intervento nel secondo cantiere, assegnandogli la lunetta con la Profetessa Maria ringrazia il Signore dopo il passaggio del Mar Rosso, nella stanza delle Eroine bibliche (Barsanti, 1986, III, p. 49), dove già si preannuncia quell’inclinazione, così caratteristica dell’intero percorso dell’artista, a recepire le suggestioni più eccentriche e libere della pittura contemporanea fiorentina, in particolare di Domenico Pugliani e Giovanni da San Giovanni. Spirito bizzarro, Cecco Bravo si accostò anche all'ambiente artistico veneto, in particolare a pittori quali Sebastiano Mazzoni e Domenico Fetti.  L’attività autonoma del pittore si registra dal 1624, come si ricava da alcune citazioni del tribunale dell’Accademia del Disegno, nelle quali comincia a essere menzionato come Cecco Bravo. Di tale istituzione divenne accademico nel 1637 e ne rimase membro fino al 1659, poco prima della sua partenza per Innsbruck presso la corte dell’arciduca Ferdinando Carlo d’Austria e di Anna de’ Medici, conti del Tirolo.Tra le sue opere più famose si ricordano gli affreschi della parete settentrionale nel salone degli Argenti, al piano terreno di palazzo Pitti. Gli affreschi, realizzati in occasione del matrimonio tra Ferdinando II de’ Medici e Vittoria della Rovere, sono stati completati tra 1638-1639 e raffigurano Lorenzo il Magnifico porta la pace e Lorenzo il Magnifico accoglie Apollo e le Muse. Essi dimostrano una pittura dai cromatismi fluidi e trasparenti derivati da Pietro da Cortona, che aveva da poco completato gli affreschi nella stanza della Stufa sempre a Pitti.Dopo il 1650 la pittura di Montelatici si orientò verso una maggiore inquietudine formale, dominata da tonalità cupe, volta verso la smaterializzazione dello spazio, definito piuttosto da pennellate sempre più sfumate in corrispondenza dello sfondo.
Stima   € 70.000 / 90.000
Aggiudicazione  Registrazione
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