DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

11 OTTOBRE 2017

DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

Asta, 0220
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17.30
Esposizione

FIRENZE
7-10 Ottobre 2017
orario 10-13 / 14–19 
11 Ottobre 2017
orario 10-13
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1000 € - 100000 €

Tutte le categorie

61 - 90  di 129
61
Valerio Castello
(Genova, 1624 - 1659)
 CROCIFISSIONE TRA I DOLENTI
olio su tela, cm 130x97,5

L’inedito dipinto qui offerto costituisce un’interessante aggiunta al catalogo di Valerio Castello, ancora aperto a inattese scoperte soprattutto per quanto riguarda la prima attività dell’artista genovese. La nostra tela si iscrive appunto negli anni che appena precedono la metà del secolo, come indica il confronto con due opere di uguale soggetto da tempo note agli studi sul pittore. Si tratta della teletta in collezione Koelliker, possibile abbozzo per una composizione più ampia (A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento, Torino 2006, pp. 122-25) e di un’altra tela in collezione privata che si accosta alla nostra in maniera ancora più puntuale. Entrambe sono pubblicate da Camillo Manzitti (Valerio Castello, Torino 2004, p. 90, n. 28; p. 100, n. 43, rispettivamente). È appunto questa seconda Crocefissione, in cui tuttora persiste il famosissimo modello di Antonio van Dyck, a offrire precisi confronti con la nostra che ne ripete gli angeli piangenti tra le nubi temporalesche e, con qualche variante, il paesaggio sullo sfondo tanto da porsi come possibile ulteriore sviluppo di quella invenzione, peraltro di minori dimensioni (cm 39,5x31,5). La principale novità riguarda le figure dei dolenti che nel nostro dipinto emergono dall’ombra quasi posassero sullo stesso piano dello spettatore e, in primo piano, richiamano anche sotto il profilo cromatico gli angeli all’estremo opposto della diagonale. L’intenso patetismo della Vergine, possibile rilettura dei modelli correggeschi ricordati da Anna Orlando in relazione alla versione Koelliker, dove un diverso gruppo di dolenti appare appena abbozzato, ritorna altresì nella Madonna Assunta di raccolta privata (Manzitti 2004, cit., p. 100, n. 42) databile anch’essa poco prima della metà del secolo.
Stima   € 10.000 / 15.000
62
Stima   € 6.000 / 8.000
64

Girolamo Ticciati

(Firenze 1679 - 1745)

CROCIFISSIONE CON SAN GIOVANNI, LA VERGINE E LA MADDALENA

terracotta dipinta a tempera giallastra, cm 55,8x27,6, entro cornice in legno ebanizzato

 

Questo rilievo in terracotta raffigurante la Crocifissione con in basso i due dolenti e la Maddalena è stata pubblicata per la prima volta, e attribuita senza esitazioni a Girolamo Ticciati, da Alessandra Giannotti (Nuove opere del “celebre scultore” Girolamo Ticciati, in “Nuovi studi”, XXI/22, 2016, pp. 120-121). Il riferimento allo scultore fiorentino è stato suggerito dal confronto con i noti rilievi in marmo per il Battistero di Firenze (oggi al Museo dell’Opera del Duomo); la figura di Maria a destra, in particolare, per quel panneggio di scarsissimo aggetto plastico, dalle pieghe decise e graficamente rilevate, tradisce immediatamente la mano di Ticciati. Il pathos che avvolge la scena è sapientemente sottolineato dall’assenza di qualsivoglia ambientazione naturalistica, e la posizione del Cristo, il cui corpo cade pesantemente in avanti dai bracci della Croce, è una nota di sapore quasi arcaico, del tutto in linea con il linguaggio dell’autore dei già citati rilievi con Storie del Battista del Museo dell’Opera del Duomo. La terracotta non è stata messa in relazione con un’opera in marmo di Ticciati, ed è possibile che fosse realizzata come un pezzo destinato alla devozione privata: la centinatura in alto suggerisce proprio la funzione di piccola pala d’altare di questa Crocefissione.

 

A.B.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
65

Cerchia di Giovanni Marigliano, detto Giovanni da Nola

(Nola 1488 circa - Napoli 1558)

RE MAGIO (MELCHIORRE?)

statua in legno dipinto e dorato, cm 116x40x44

 

Bibliografia di riferimento

L. Gaeta, Sulla formazione di Giovanni da Nola e altre questioni di scultura lignea del primo ‘500, in “Dialoghi di Storia dell’Arte”, 1, 1995, pp. 70-103;

Giovanni da Nola, Annibale Caccavello, Giovan Domenico d’Auria. Sculture ‘ritrovate’ tra Napoli e Terra di Lavoro 1545-1565, a cura di R. Naldi, Napoli 2007

 

La bella testa dai tratti maturi che esprimono nobiltà e saggezza, l’incedere lento, riverente, leggermente incurvato verso il basso come nell’atto di offrire un dono con la mano destra dischiusa, la fulgida, preziosa cromia delle vesti, con la tunica interamente dorata e il mantello argentato, i calzari a stivale adatti a un lungo viaggio, ci consentono di identificare questa notevole statua lignea con uno dei tre re Magi (ovvero sapienti) venuti d’Oriente per salutare e omaggiare la nascita di Gesù “re dei Giudei” (nello specifico quello di mezza età, perlopiù ritenuto il persiano Melchiorre menzionato nel Vangelo dell’infanzia Armeno), e quindi di ricondurla ad uno smembrato gruppo presepiale raffigurante la Natività con l’Adorazione dei Magi.

Tali affollati Presepi a figure mobili, grandi al vero o poco meno, in legno dipinto con suntuosi motivi tessili, furono particolarmente diffusi nell’arte napoletana del Rinascimento, cui rimandano sia la raffinata decorazione graffita a ‘estofado’, ancora ben conservata nelle bordure, nel risvolto del mantello e nella cintura - una tecnica di ascendenza iberica oggi rivalutata da un’ampia letteratura critica -, sia gli aspetti formali, che trovano significativi riscontri soprattutto nelle opere di Giovanni da Nola, protagonista della scultura partenopea della prima metà del Cinquecento, in marmo e in legno (F. Abbate, La scultura napoletana del Cinquecento, Roma 1992, pp. 181-258).

Formatosi nella bottega dell’intagliatore lombardo Pietro Belverte, apprezzato proprio per i gruppi presepiali dipinti a ‘estofado’ (Presepe Carafa, Napoli, San Domenico Maggiore, 1507), il giovane Nolano si distinse nei suoi primi anni per una cospicua produzione di sculture lignee (Compianto, Teggiano, Chiesa della SS. Pietà, 1510-12; San Sebastiano, Nocera Inferiore, Convento di Sant’Antonio, 1514; Ancona di Sant’Eustachio, Napoli, Santa Maria la Nova, 1516-17 ca.: Gaeta, op. cit.; R. Naldi, Giovanni da Nola tra il 1514 e il 1516, in “Prospettiva”, 77, 1995, pp. 84-100). Un successo, ben attestato dal Presepe commissionatogli dal Sannazzaro per la chiesetta di Santa Maria del Parto a Margellina, eseguito con l’intervento di collaboratori tra il 1519 e il 1524 (composto in origine da quattordici statue oggi ridotte a cinque), che dovette indurre la bottega di Giovanni da Nola ad impegnarsi nella scultura lignea anche negli anni successivi, quando il marmo era ormai la materia privilegiata. Lo suggeriscono la Vergine e il San Giuseppe oggi nel Museo di San Martino - immagini utilmente confrontabili con quella che qui si presenta, come mi segnala Riccardo Naldi -, provenienti da un Presepe ad altorilievo già in San Giuseppe dei Falegnami, per i quali è stata proposta una cronologia verso il 1530 (F. Bologna, in Sculture lignee nella Campania, catalogo della mostra, Napoli, Palazzo Reale, a cura di F. Bologna e R. Causa, Napoli 1950, pp. 178-179 n. 77), o anche una figura virile in adorazione (San Giuseppe o Un pastore) di collezione privata databile al tempo dell’Altare Ligorio in Sant’Anna dei Lombardi, scolpito tra il 1528 e il 1532 (R. Naldi, in Vetera et nova, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2005, pp. 86-93 n. 6).

In effetti, nell’opera in esame, il movimento trattenuto che conferisce alla statua una postura ingobbita rimarcando la flessione delle ginocchia e lo sviluppo snodato della gamba in primo piano, l’acuta definizione anatomica e l’articolazione prensile delle mani, il complesso andamento del panneggio che s’increspa in un dedalo di pieghe morbidamente acciaccate per poi ricadere in nette falde lamellari, risultano peculiarità formali ricorrenti in particolar modo nei lavori in marmo della maturità di Giovanni da Nola - ad esempio, le ritroviamo nel San Matteo dell’Altare Arcella in San Domenico Maggiore, datato 1536, o nella Deposizione Giustiniani di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli -, mentre meno stringenti appaiono i riscontri per la testa, più tersa e composta. Dunque, non essendo noti lavori in legno direttamente ascrivibili al maestro in questi ultimi decenni e considerando la consistente compartecipazione di Annibale Caccavello e Gian Domenico d’Auria alle sue ultime imprese (Giovanni da Nola, op. cit.), sembra opportuno in questa sede una certa prudenza attributiva, che, d’altra parte, non ci esime dal riconoscere al nostro Re magio una intensità espressiva e una qualità d’intaglio difficilmente compatibili con i modi, spesso più grevi, enfatici e impacciati, dei due ben noti collaboratori e seguaci del Nolano.

 

G.G.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
66

Ercole Graziani

(Bologna, 1688 –1765)

CLEOPATRA SCIOGLIE LA PERLA NELL'ACETO

olio su tela, cm 98,5x73,5

                                       

ll bel dipinto qui offerto mostra Cleopatra, ultima regina di Egitto, in atto di sciogliere una perla nell'aceto. Secondo quanto ci tramanda lo storico Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia la perla era “la più grossa di tutta la storia, un lavoro notevole e unico nella natura del valore di 10 milioni di sesterzi".

La leggenda a cui fa riferimento l'iconografia del quadro parla di una scommessa fatta tra Cleopatra e Marco Antonio; infatti la regina dimostrò che con un solo pasto avrebbe speso ben 10 milioni di sesterzi affermando così potere e ricchezza di fronte all'amato.

Plinio il Vecchio racconta che Cleopatra durante un banchetto, presentò agli ospiti un grande vassoio che reggeva un contenitore ricolmo di aceto; all'interno del contenitore sciolse una perla per poi berla davanti ai commensali.

Per gli storici si tratta di un episodio leggendario, ma secondo alcuni esperimenti condotti sulla composizione delle perle in relazione agli acidi degli aceti, è stato ritenuto l'episodio plausibile, dimostrando l'arguzia ma anche le conoscenze di una delle donne più famose dell'antichità.

Sappiamo infatti che questa regina si dilettò in esperimenti chimici; è probabile che in questo caso Cleopatra abbia 'ammorbidito' la perla in anticipo, per poi scioglierla in un calice sorprendendo così Marco Antonio.

La grazia della figura, il disegno raffinato, la luce che accarezza le ciocche d'oro dei capelli, le vesti cangianti, i gioielli e le perle della bella regina d'Egitto, portano a collocare l'opera in area emiliana verso il primo quarto del Settecento.

In particolare possono essere fatti puntuali riscontri con le opere di Ercole Graziani per il disegno morbido e compatto sia del volto che delle mani; tra queste citiamo il Lot e le figlie e la Susanna e i vecchioni della Pinacoteca Nazionale di Bologna, oppure la Madonna in trono e Santa Irene del Musée Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles dove simili sono i volti dell’angelo con quella di Cleopatra, e ancora è possibile equiparare la squisita eleganza della nostra tela con i due dipinti dell’Opera Pia dei Vergognosi a Bologna raffiguranti Giuditta ricevuta da Oloferne ed Ester e Assuero. Altri raffronti sia per quanto riguarda i tratti fisiognomici che per la grazia emanata dalle figure si evidenziano con il Ratto d’Europa della collezione Mattioli di Bologna, dove ritorna (peraltro ripetuto assai spesso in molti altri dipinti) il modo di fissare il manto sulla spalla nuda attraverso l’uso di un prezioso elemento di oreficeria.

Stima   € 8.000 / 12.000
67

Andrea Celesti

(Venezia, 1637 – Toscolano, 1712)

DUE PUTTINI CHE GIOCANO

DUE PUTTINI CHE MANGIANO

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 59x42,2

(2) 

 

I dipinti sono corredati da parere scritto di Annalisa Scarpa, Venezia 17 aprile 2010 di cui riportiamo alcuni passaggi salienti:

 

"Le due tele qui riprodotte rappresentano due gradevolissime scenette con putti: la prima li mostra in una specie di danza che si confonde quasi con una specie di lotta ludica che nulla ha di aggressivo; la seconda ci mostra uno dei due fanciullini intento a nutrire il compagno con un fare molto protettivo e tenero.

Si tratta quindi di due tematiche di genere, gradevolissime nella loro delicata narrazione così come nella raffigurazione tenera di un racconto che non ha una precisa connotazione temporale. Indubbiamente il soggetto è molto particolare, direi quasi un unicum nella pittura italiana; non si tratta infatti della consueta teoria di putti giocosi cui siamo adusi, con esempi ben famosi: basti pensare a opere di Cignani, come di Sebastiano Ricci o di Gaspare Diziani, quanto piuttosto di un soggetto più intimo e familiare certamente di destinazione mirata e certamente privatissima.

Stilisticamente le due tele ci conducono alla mano di un pittore di bizzarra genialità, Andrea Celesti.

Uno di quei pittori che, come Giulio Carpioni e Sebastiano Mazzoni, sembrano fluttuare nel proprio mondo contemporaneo con un linguaggio di autonomia estrema, attenta sì agli stimoli e alle suggestioni ma prepotentemente libera da condizionamenti. (...)

La coppia di putti qui riprodotta rientra, a mio giudizio, nella produzione di questo fantasioso e interessantissimo artista veneto.

Pur essendo un unicum, in quanto a tematica, nella sua produzione, essa si avvicina nei suoi protagonisti a fisionomie tipiche dell'artista, presenti in dipinti come La Sacra Famiglia della Pinacoteca di Brescia, dove il Bambino mostra analoghe connotazioni anatomiche, o La Croce portata da angioletti della Parrocchiale di Goito, dove ne ritornano, se non uguali similari, le movenze.

Ancor più suggerisce l'attribuzione la pittura liquida, dai toni morbidi e delicatamente chiaroscurati nelle carni, cui fanno da contrappunto il bruno ocra o il verde sottobosco delle casacchine ricche di cangiantismi illuminati a tratti da sprazzi di luce che si illuminano nelle camiciole e nei panni lumeggiati di bianco".

Stima   € 15.000 / 20.000
69

Giovanni Cristoforo Storer

(Costanza, 1611-1671)

ALLEGORIA DELLA PRODIGALITA'

affresco staccato e riportato su tela, cm 112x169

 

Corredato da parere scritto di Francesco Frangi, 1996

 

Bibliografia

F. Frangi, Francesco Cairo, Torino, 1998, citati a p. 136, nota 34

 

Di provenienza sconosciuta e tuttora inediti, sebbene da tempo riconosciuti all’artista oltremontano attivo tra Milano e Bergamo alla metà del Seicento, i dipinti qui offerti sono stati oggetto di attenta analisi e confronti pertinenti da parte di Francesco Frangi in una comunicazione privata alla proprietà nel 1996.

Oltre a meglio precisare i dati biografici dello Storer e i termini della sua presenza in Lombardia a partire dal 1640 e, pur in alternanza con la sua attività in patria, fino al ritorno definitivo a Costanza nel 1657, gli studi più recenti hanno arricchito di nuovi numeri il catalogo dell’artista recando altresì nuovi elementi di confronto con la coppia di figure allegoriche qui in esame. Non è dubbio infatti che sia stata appunto questa la sua specialità, nota a partire dagli affreschi in palazzo Terzi a Bergamo, dal soffitto affrescato nella villa Lucini Arese di Osnago nel 1650, e dall’interessante serie di affreschi staccati e ricomposti nel salone di villa Erba a Cernobbio resi noti da Daniele Pescarmona (Affreschi secenteschi staccati. Isidoro Bianchi e Johann Christophorus Storer. In Arte Lombarda del secondo millennio. Saggi in onore di Gian Alberto Dell’Acqua, Milano 2000, pp. 208-212).

Sono forse questi ultimi, per l’appunto, a offrire i maggiori punti di confronto con la coppia di lunette qui offerte, tanto da non potersi escludere che anche le nostre, incorniciate in modo non dissimile, facessero parte di quell’insieme di scene allegoriche e mitologiche di sconosciuta provenienza. Altri elementi, e in particolare l’anziana donna scelta a personificare l’Erudizione, riconducono a figure già viste nella maggiore opera pubblica dello Storer, la Strage degli Innocenti in Sant’Eustorgio a Milano, dove uno dei carnefici, pur volgendosi in controparte, ne ripete i tratti e l’acconciatura e nasce forse dallo stesso cartone.

I confronti più precisi riconducono però alle invenzioni che Cristoforo Storer fornì nel 1644 per l’apparato funebre della Regina di Spagna in occasione della cerimonia tenutasi nel Duomo di Milano. In quell’occasione l’artista fu l’ideatore delle figure allegoriche scolpite e dipinte che celebravano la monarchia spagnola e le qualità personali della sovrana defunta; tutte furono incise da Giovan Battista del Sole per essere pubblicate da Dionisio Garibaldi nel 1645, ed è proprio la personificazione della Sicilia a offrire motivi quasi sovrapponibili alla nostra Prodigalità.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
71

Agostino Zoppo

(1520 circa - 1572)

BUSTO DI GUIDO D’AREZZO

marmo, cm 68x55x34

 

Come indica la scritta presente nel peduccio (scolpito nello stesso blocco di marmo del ritratto), questo busto raffigura il monaco benedettino Guido di Arezzo vissuto nell’XI secolo e ritenuto il creatore della moderna notazione musicale articolata in sette note. La fortuna iconografica di questo personaggio fu notevole specie in ambito benedettino poiché l’ordine riconosceva in Guido, nonostante egli non fosse né un Santo né un beato, una delle figure più straordinarie fra coloro che avevano fatto parte della congregazione religiosa fondata nel VI secolo da San Benedetto.

I caratteri stilistici di questa immagine chiamano in causa la produzione scultorea veneta di secondo Cinquecento. Proprio qui, fra Venezia e Padova, negli anni che precedono la metà del secolo, artisti come Danese Cattaneo (1512-1572) e Alessandro Vittoria (1525-1608) crearono alcuni dei massimi capolavori della ritrattistica rinascimentale scolpita tanto in marmo, quanto in bronzo e in terracotta. A quei modelli ha senza dubbio guardato anche l’autore del nostro ritratto. Il busto, ieraticamente frontale, mostra una singolare ma assai efficace economia di mezzi: la veste del religioso dove viene segnata con una semplice incisione l’attaccatura delle maniche, esibisce solo qualche sottile accenno di pieghe sul petto mentre in alto il cappuccio circonda la testa leggermente ruotata verso destra. Qui lo scultore dispiega una notevole sottigliezza di passaggi nel restituire i caratteri del volto, il leggero incavarsi delle guance, il corrugarsi della fronte in corrispondenza delle sopracciglia e la pacata ma intensa nobiltà dello sguardo. Un vero pezzo di bravura è poi costituito dalla barba, allo stesso tempo meticolosamente incisa ma complessivamente ricca di passaggi pittorici che ne esaltano brillantemente gli effetti di chiaroscuro. Proprio tali elementi e cioè da una parte la rarefatta sintesi descrittiva della veste, dall’altra la sontuosità materica nella resa della barba, sono quelli che richiamano con maggiore forza i ritratti dello scultore cui credo spetti questo busto e cioè il padovano Agostino Zoppo (Padova 1520 circa-1572). Noto soprattutto per i suoi bronzetti e per la produzione di gusto antiquario di cui il Monumento di Tito Livio nel Palazzo della Ragione a Padova (1547) rimane la testimonianza più celebre, Agostino Zoppo fu altresì autore di una serie notevole di busti che solo gli studi più recenti hanno saputo individuare e mettere a fuoco nella loro originalità all’interno del complesso contesto della produzione veneta dell’epoca. Nel 1999 l’identificazione del Busto di Luca Salvioni Gallina (Minneapolis Institute of Arts) con il ritratto di un personaggio di questa famiglia citato nella Nota dei crediti dello Zoppo, redatta all’indomani della sua scomparsa nel 1572 (D. Myers, Renaissance Portrait Sculptures small and large, in ‘The Medal’, 34, 1999, pp. 3-10), ha consentito di porre finalmente una base documentata per ricostruire tale attività; attività che dovette essere tutt’altro che sporadica come dimostrano intanto gli otto ritratti menzionati in quella stessa nota ma anche la possibilità di collegare stilisticamente al Busto di Luca Salvioni Gallina vari altri busti.

Nel 2009 Claudia Kryza Gersch ha proposto di avvicinare allo Zoppo il cosiddetto Busto di Girolamo Fracastoro del Kunsthistorisches Museum di Vienna (Porträt eines paduanischen Gelehrten, in Wir sind Maske, catalogo della mostra di Vienna a cura di S. Ferino Pagden, Cinisello Balsamo 2009, p. 86, n. I.19) e, per parte mia, gli ho riferito altri tre ritratti in bronzo e uno in terracotta. Quelli in bronzo sono il cosiddetto Busto di giurista della Frick Collection di New York (inv.16.2.47), il Busto di gentiluomo del Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 576-1865) e il Busto di Giovan Pietro Mantova Benavides della Ca’ d’Oro; quello in terracotta è il Busto di Matteo Forzadura (collezione privata), in passato attribuito a Danese Cattaneo o a Francesco Segala (Andrea Bacchi, Agostino Zoppo, Busto di Matteo Forzadura, in D. Banzato E. Gastaldi, a cura di, Ospiti al museo: maestri veneti dal XVI al XVIII secolo tra conservazione pubblica e privata, catalogo della mostra, Padova 2012, p. 56-59). Va notato fra l’altro come tutti questi busti abbiano lasciato da tempo la città di Padova, circostanza che attesta la notevolissima considerazione di tali opere, molte delle quali approdate in importanti istituzioni museali in Europa e negli Stati Uniti. Una circostanza tanto più notevole se pensiamo che spesso questi busti vennero acquistati senza che se ne conoscesse il nome dell’autore o quello del personaggio raffigurato, ma soltanto in virtù della loro qualità e dell’aura di grande prestigio, da sempre riconosciuta alla bronzistica e più in generale alla scultura patavina. Diversamente dalla maggior parte di quelli finora noti, il Busto di Guido Monaco è scolpito in marmo, materiale utilizzato da Agostino in questo campo solo per il già citato Busto di Tito Livio che, stilisticamente, sembra però precedere di vari anni il busto qui considerato. Di fatto dunque i confronti migliori per confermare allo Zoppo il Busto di Guido Monaco sono quelli con il Busto di giurista della Frick Collection e con il Busto di Matteo Forzadura due opere che si collocano nella fase più tarda della sua attività, direi posteriormente al 1560.

A.B.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
72

Gaspar Rem

(Anversa, 1542 - Venezia, 1617)

GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE

olio su tela, cm 103x82,5

firmato “IASPR REM” in basso a sinistra

                     

Bibliografia

V. Mancini, Gaspar Rem : un veneziano di Anversa e una Giuditta ritrovata, Firenze, 2010    

 

Riscoperto da Giorgio Faggin, studioso di artisti neerlandesi attivi a Venezia che nel 1964 gli dedicò una breve nota, il pittore anversese è stato recentemente l’oggetto dell’approfondita e ben documentata ricerca di Vincenzo Mancini che a partire da fonti e documenti, in particolare i testamenti del pittore, ha potuto ricostruire per quanto in via ipotetica le sue vicende biografiche e le sue frequentazioni veneziane, sempre indirizzate ad artisti e mercanti della patria di origine. Ne è stata occasione il ritrovamento del dipinto qui offerto, la cui pulitura ha rivelato la firma in forma estesa presente su altre tele già note agli studi. Tra queste, la Allegoria della Vanità pubblicata appunto da Faggin (Su Gaspar Rem e altri pittori neerlandesi-veneziani del Cinquecento, in “Emporium” CXL, 1964, 840, pp. 242-43, fig. 1; V. Mancini 2010, fig. 8) così strettamente affine alla nostra Giuditta da farla collocare in una stessa ideale galleria di personaggi femminili. Appare senza dubbio pertinente la suggestione di Mancini circa la possibilità di identificare la nostra eroina biblica con il “quadro de Giuditta in tela senza soasa” legato dall’artista a uno dei suoi esecutori testamentari.

Autore dei teleri con storie della vera Croce eseguiti nei suoi ultimi anni per la Scuola dei Mercanti de Vin nel sestiere di San Silvestro, pubblicati per la prima volta da Aldo Rizzi (1969-70) e nuovamente illustrati da Mancini, Gaspar Rem si dimostra particolarmente felice nelle opere di destinazione privata come appunto quella qui offerta. Probabilmente attivo per il mercato nordico come restauratore e copista dei grandi maestri del Cinquecento, Gaspar Rem si forma, almeno idealmente, sui modelli di Tintoretto e del Veronese, che traspaiono in qualche misura anche nelle sue invenzioni originali, come quella in esame. Dalla grande stagione della pittura veneziana e dal suo più recente recupero ad opera di Parrasio Michiel e, sul versante lombardo, di Fede Galizia e Simone Peterzano discende infatti la nostra eroina biblica, caratterizzata dagli importanti volumi dei panneggi di colori contrastanti, ulteriormente impreziositi da ricami e passamanerie, oltre che dai raffinati gioielli che appunto la legano alla già citata Vanità. Una datazione all’ultimo decennio del Cinquecento o appena all’inizio del nuovo secolo sembra suggerita anche dalla consonanza con la Giuditta di Fede Galizia, firmata e datata del 1596 nella versione a Sarasota, Ringling Museum of Art, verosimilmente la più antica tra le varie repliche della pittrice milanese.

 

                                       

Stima   € 25.000 / 40.000
74

Scultore attivo a Roma, 1650-1700 circa

TESTA MULIEBRE

terracotta patinata, cm 33x27x26; montata su base a plinto in legno ebanizzato cm 20x26x26

 

Questa nobile testa muliebre, dagli occhi privi dell’indicazione delle pupille, e dalla bocca socchiusa, in un’espressione ispirata, è immediatamente riconducibile alla linea generalmente indicata come ‘classicista’ della scultura seicentesca romana, da Alessandro Algardi fino ai suoi allievi e collaboratori Ercole Ferrata e Domenico Guidi. Di modelli simili dovevano in genere trovarsene molti nelle botteghe di siffatti scultori, ed in questo senso è illuminante l’inventario post mortem dei beni di Ferrata, dove ad esempio si trovano “Una testa di gesso della figlia della Niobe de Medici”, “Una testa della figlia della Nioba” e ancora “Una [testa] detta della Nioba”, cfr. Vincenzo Golzio, Lo “studio” di Ercole Ferrata, in “Archivi. Archivi d’Italia e Rassegna internazionale degli Archivi”, s. II, II, 1935, pp. 66-68. La testa della Niobe e delle figlie, le celebri sculture antiche già nel giardino di villa Medici e oggi agli Uffizi, simili nelle loro espressioni patetiche a questa terracotta, furono imitatissime nel Seicento (erano ammirate in particolare da Guido Reni, si veda anche l’esemplare di Dresda esposto alla mostra L’dea del Bello: viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, Roma, Palazzo delle Esposizioni, Roma 2000, p. 346, cat. 5), e in qualche modo ispirarono tante invenzioni simili. Se, vista di fronte, anche nella capigliatura, questa testa ricorda tali modelli, l’acconciatura nella parte posteriore della nuca fa tornare in mente uno dei capolavori di Guidi, l’Andromeda oggi al Metropolitan di New York. L’inventario dello studio del carrarese (Cristiano Giometti, Uno studio e i suoi scultori. Gli inventari di Domenico Guidi e Vincenzo Felici, Pisa 2007) è assai meno interessante, da questo punto di vista, rispetto a quello di Ferrata, poiché Guidi doveva aver venduto o alienato gran parte delle terrecotte; ma proprio nell’opera del grande scultore si possono trovare altri utili confronti per questa testa, basti pensare al volto estatico della Santa Apollonia in marmo nella chiesa di Santa Maria degli Abbandonati a Torano, del 1690-1691, cfr. Cristiano Giometti, Domenico Guidi 1625 – 1701: uno scultore barocco di fama europea, Roma 2010, p. 271, cat. 50.S.

A.B.

 

 

Stima   € 5.000 / 7.000
76
Giovanni Bonazza
(Venezia 1654 - Padova 1736)
VENERE O NINFA
marmo, cm 80x28x20

Nella sterminata produzione degli scultori veneti di età barocca, i marmi destinati al collezionismo privato, pensati per essere esposti in un interno invece che per ornare gli innumerevoli giardini delle ville dell’entroterra, non sono certo numerosissimi. Se si escludono infatti i busti e i bassorilievi, generi al contrario assai frequentati dagli scultori attivi nella Serenissima tra Sei e Settecento (1), le statue al naturale, o anche più piccole del naturale (come è il caso di questo marmo, impossibile da pensare in un esterno), che possiamo indicare come ‘da galleria’, sono assai rare. Questo splendido nudo di figura femminile è quindi un pezzo della massima importanza: il suo riferimento all’ambito veneto è stato subito riconosciuto da Massimo De Grassi, che ha pubblicato la statua nel 2006 con un riferimento a Pietro Baratta (Carrara 1668 - 1729) (2). Lo studioso identificava la figura con una ninfa, in ragione dell’assenza degli attributi classici di Venere (il figlio Eros, il delfino, la conchiglia, e si potrebbe aggiungere anche la mela assegnata alla dea da Paride), ed è vero che la donna non compie neanche il gesto classico della Venus pudica. Non si può però escludere quella che sarebbe la lectio facilior, ovvero l’identificazione del bellissimo nudo con una Venere: in fondo uno dei modelli antichi che godettero di maggiore prestigio nel Rinascimento, una Venere dei Musei Vaticani già nel Cortile del Belvedere, non era caratterizzata da nessuno degli attributi di cui sopra (3), ed aveva accanto quel medesimo tronco d’albero che ha suggerito a De Grassi l’ipotesi che nel presente marmo sia raffigurata una ninfa dei boschi. E d’altronde nello Statuario di Venezia era, tra le altre, una “Statua di donna mezzoignuda: ha la sinistra mano al petto, e con la destra sostiene un drappo, che la ricuopre dal mezzo in giù,” (4) priva dei canonici attributi della dea. Ad ogni modo, se davvero qui venne raffigurata Venere, non potrebbe non sorprendere la grande libertà iconografica e compositiva di cui avrebbe fatto mostra l’autore. Non si può  escludere la possibilità, inoltre, che questa figura facesse inizialmente parte di un gruppo narrativo a tutto tondo: a questo proposito è opportuno ricordare, ad esempio, come Domenico Maria Federici ricordasse a Treviso, opera di Giovanni Marchiori (Caviola di Falcade, Belluno, 1696 – Treviso 1778), “Quattro statue di marmo di p. 3, e mezzo, che mostrano il Giudizio di Paride nella sala del Marchese Sugana” (il Paride, non ricollegato a questa notizia, è stato reso noto da Massimo De Grassi) (5).
L’identificazione dell’autore del marmo qui presentato con Pietro Baratta non è del tutto convincente. Lo scultore carrarino mantenne sempre, per tutta la sua carriera, tracce della sua prima formazione toscana (solo quando aveva venticinque anni, nel 1693, egli era passato a lavorare in laguna), ed il suo linguaggio, al confronto con quello degli esponenti più tipici del Barocco veneto, sembra sempre più ‘disegnato’, meno pittorico. La pastosità dei capelli di questa Venere (o Ninfa) trova invece precisi termini di confronto con l’opera di uno dei più prolifici e notevoli scultori di quella stagione artistica, ovvero Giovanni Bonazza. In particolare, il contrasto tra la materia quasi ruvida dei capelli e la superficie lustratissima del nudo femminile, che anche per il suo eccezionale stato di conservazione denuncia immediatamente di non essere mai stato esposto agli agenti atmosferici, può far tornare alla mente gli Angeli passati sul mercato antiquario di Madrid e pubblicati nel 2010 da Simone Guerriero (6). Anche l’espressione del volto, a cui la bocca appena socchiusa conferisce una nota di straordinaria vivacità, è tutta nelle corde di Bonazza, si pensi alla Fede dell’altare maggiore di Santa Maria degli Angeli a Murano, giustamente riferita allo scultore sempre da Guerriero (7). Nella sua produzione più tipica Bonazza spesso calcò il piede sul pedale del grottesco, storpiando quasi le espressioni delle sue figure, soprattutto nel caso delle straordinarie serie dei medaglioni in bassorilievo con personaggi storici del passato (8), ed una cifra caratteristica del suo stile sono gli occhi, mai semplici ovali come nel caso di questa Venere/Ninfa. In opere riconducibili alla sua giovinezza, come l’Annunciazione firmata oggi nella chiesa di San Matteo a Dobrota, presso le Bocche di Cattaro (1679 circa) (9), Bonazza non aveva ancora portato alle estreme conseguenze quel suo linguaggio capriccioso, quasi anticlassico, di cui pure si indovinano le premesse, come d’altronde in questo marmo da galleria. I panneggi, come noto, sono sempre uno degli elementi che più aiuta a suggerire un inquadramento stilistico per marmi ancora anonimi, ma in questa statua è possibile interrogare solo un brano di piccole dimensioni. Si tratta peraltro di un passaggio, il panno che la donna tiene con le due mani e con il quale si appresta ad asciugarsi, di grande squisitezza tecnica, nel quale l’autore non si esibisce in un tour de force di virtuosismo tecnico, cercando al contrario di rendere al meglio la naturalezza delle pieghe. Anche in questo caso sono possibili confronti precisi con l’opera di Bonazza, dalla veste del San Filippo Benizzi nell’altare dell’Addolorata ai Servi di Padova (1703-1710) (10), o con la Madonna con il Bambino oggi a Stra (villa Pisani), ma proveniente dalla chiesa di San Geminiano a Venezia (11).
Non è un caso, in fondo, che del maestro veneto siano note oggi almeno due piccole sculture di soggetto profano destinate al collezionismo privato, la Venere e Amore del Museo di Amburgo e la Ninfa del Dallas Museum of Art (12). Entrambi i pezzi sono caratterizzati da quel medesimo contrasto fra la pastosità di capelli, onde e panneggi, e la squisita “modellazione dei levigati, sensuali corpi eburnei.” (13) I marmi di Amburgo e Dallas appartengono a quella categoria di sculture reclinate che ebbero notevole fortuna nella Venezia di fine Sei e inizio Settecento (allo stesso Bonazza si deve una bellissima Maddalena penitente dei Musei Civici di Padova): come è noto i Manin, nel loro palazzo di Rialto a Venezia, avevano allestito una “camera delle sculture moderne distese”, dove era anche una Galatea di Pietro Baratta, identificata da Monica De Vincenti con l’omonima scultura oggi al Victoria and Albert Museum di Londra, dove è accanto ad un’altra figura reclinata di provenienza Manin, il Bacco di Antonio Tarsia (allo stesso gruppo appartenevano il Narciso del Torretti e una Venere di Mazza) (14). Tra le rarissime figure in piedi, più piccole del naturale, riconducibili alla scultura barocca veneta da galleria, si deve infine ricordare la Venere sempre di Tarsia passata sul mercato antiquario (56 cm.), lontanissima da questa qui presentata (15).
Anche per Pietro il Grande, che fu come noto uno dei maggiori committenti per gli scultori veneti attivi all’inizio del Settecento, furono realizzate statue di dimensioni minori del naturale: sebbene siano noti soprattutto i marmi destinati al Giardino d’Estate di San Pietroburgo, è opportuno ricordare come il grande successo internazionale della statuaria monumentale da giardino veneta stimolò anche la produzione di pezzi di diverso formato (16). Tra i pezzi che lo stesso Bonazza eseguì per lo zar è opportuno ricordare soprattutto la Sibilla delfica, datata e firmata 1719, che per l’espressione degli occhi e la naturalezza della postura, ha più di un punto di contatto con il marmo qui presentato (17).
A.B.

1 Simone Guerriero, Le alterne fortune dei marmi: busti, teste di carattere e altre "scolture moderne" nelle collezioni veneziane tra Sei e Settecento, in La scultura veneta del Sei e Settecento: nuovi studi, a cura di Giuseppe Pavanello, Venezia 2002, pp. 73-149.
2 Massimo De Grassi, Una Ninfa al bagno di Pietro Baratta “Scultore della Moscovia”, Padova 2006.
3 Francis Haskell, Nicholas Penny, Taste and the antique: the lure of classical sculpture 1500 – 1900, New Haven 1981, pp. 330-331, cat. 90.
4 Descrizione delle Statue, de’ Busti, e d’altri Marmi antichi dell’Antisala della Liberia Publica, Venezia 1736, citato in Marilyn Perry, The “Statuario Pubblico” of the Venetian Republic, in “Saggi e memorie di storia dell’arte”, 8, 1972, p. 142, n. 138. Cfr. anche Massimo De Grassi, L’ antico nella scultura veneziana del Settecento, in Antonio Canova e il suo ambiente artistico fra Venezia, Roma e Parigi, A cura di Giuseppe Pavanello, Venezia 2000, p. 40.
5 Domenico Maria Federici nelle sue Memorie trevigiane sulle opere di disegno, Venezia 1803, p. 136; De Grassi, L’antico nella scultura cit., p. 52.
6 Simone Guerriero, La prima attività di Giovanni Bonazza, in “Arte veneta”, LXVII, 2010, pp. 79-81.
7 Guerriero, La prima attività cit., p. 87 e 100, fig. 45.
8 Su questi pezzi (se ne conservano numerosi nel Museo Civico di Padova, cfr. Monica De Vincenti, schede in Dal Medioevo a Canova: sculture dei Musei Civici di Padova dal Trecento all'Ottocento, a cura di Davide Banzato, Venezia 200, pp. 169-192, catt. 97-172) cfr. da ultimo Gábor Tokai, A portrait relief series by Giovanni Bonazza and his workshop, in “Bulletin du Musée Hongrois des Beaux-Arts”, CXX/CXXI; 2015/2016, pp. 135-145.
9 Guerriero, La prima attività cit., pp. 73-75; Damir Tulić, Le opere dei Bonazza sulla costa orientale dell’Adriatico, in Antonio Bonazza e la scultura veneta del Settecento, atti della giornata di studi (Padova, Museo Diocesano, 25 ottobre 2013) a cura Carlo Cavalli e Andrea Nante, pp. 43-44.
10 Egidio Arlango, Monica Pregnolato, L’altare dll’Addolorata nella chiesa padovana dei Servi: lettura tecnica e materica di una “straordinaria invenzione”, in Antonio Bonazza cit., p. 193, fig. 8.
11 Andrea Bacchi (con la collaborazione di Susanna Zanuso), La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, Milano 2000, p. 703, tav. 268.
12 Simone Guerriero, Un “Venere e Amore” di Giovanni Bonazza ad Amburgo, in “Arte Veneta”, LXX, 2013, pp. 202-205; Olivier Meslay, Une "Nymphe allongée" par Giovanni Bonazza dans les collections du Dallas Museum of Art, in Arte Veneta”, LXX, 2013, pp. 206-207.
13 Guerriero,Una “Venere e Amore” di Giovanni Bonazza cit., p. 202.
14 Monica De Vincenti, Antonio Tarsia (1662 – 1739), in “Venezia Arti”, X, 1996, pp. 52 e 56; Martina Frank, Virtù e fortuna: il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, Venezia 1996,p. 69; De Grassi, Una Ninfa cit.
15 Monica De Vincenti, “Piacere ai dotti e ai migliori”: scultori classicisti del primo ’700, in La scultura veneta del Seicento cit., p. 235.
16 Sergej O. Androsov, Le sculture di piccole dimensioni nella collezione di Pietro il Grande, in Francesco Robba and the Venetian sculpture of the eighteenth century, a cura di Janez Höfler, Ljubljana 2000, pp. 73-79.
17 Sergej O. Androsov, Pietro il Grande, collezionista d’arte veneta, Venezia 1999, p. 215, cat. 33.
Stima   € 60.000 / 80.000
78

Vincenzo Foggini

(Firenze 1692 - 1755)

SAMARITANA AL POZZO

terracotta, cm 21x16,5; montato entro cornice in legno intagliato e dorato, cm 42x37

 

Il 22 giugno del 1750 Vincenzo Foggini ricevette un pagamento da parte della Manifattura delle porcellane di Doccia, inaugurata dal marchese Carlo Ginori a Sesto Fiorentino nel 1737, per i modelli di alcune ‘medaglie’; l’inventario dei modelli della manifattura, redatto intorno al 1770, elenca quelle invenzioni tutte insieme, in un’unica voce, a partire da quello con la Samaritana al pozzo: “Cinque piccoli bassirilievi che sono la Sammaritana con Cristo al pozzo […]” (Klaus Lankheit, Die Modellsammlung der Porzellanmanufaktur Doccia: ein Dokument italienischer Barockplastik, München 1982, p. 135: pagina 35, n° 82). Un’esemplare della manifattura di Doccia con la Samaritana al pozzo è stato riprodotto in Giuseppe Morazzoni, Le porcellane italiane, 2 voll., Milano 1960, II, tav. 240a (allora in collezione Nella Longari a Milano). Rispetto al pezzo qui in oggetto la differenza più significativa è la totale assenza, in quella porcellana, dell’albero dalle ricche fronde che è alle spalle di Cristo. Vincenzo, figlio del più noto Giovanni Battista Foggini (Firenze 1652-1725), aveva ereditato dal padre la carica di scultore di corte, e teneva scuola presso la casa in Borgo Pinti dove prima di lui aveva operato Giovanni Battista (sulla carriera dello scultore, in particolare sulla sua produzione in marmo, cfr. Roberta Roani Villani, Scultura fiorentina del Settcento: aggiunte a Vincenzo Foggini, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato”, LXVIII, 2001, pp. 203-228). Già le invenzioni del padre di Vincenzo erano state riprodotte in porcellana nella manifattura di Doccia (si veda ad esempio il Davide e Golia del 1750 circa, da un modello di Giovanni Battista del 1723, Sesto Fiorentino, Museo delle Porcellane di Doccia, cfr. Le statue del Marchese Ginori: sculture in porcellana bianca di Doccia, a cura di John Winter, Firenze 2003, pp. 60-63, cat. 10), e Vincenzo entrò quasi naturalmente al servizio della fortunata manifattura toscana.

 

A.B.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
81

Francesco Morandini, detto il Poppi

(Poppi, 1544 - 1597)

CROCIFISSIONE

olio su tela, cm 21,3x14,5

 

Bibliografia di riferimento

A. Giovannetti, Francesco Morandini detto il Poppi, Firenze, 1995

 

Francesco Morandini nasce a Poppi probabilmente nel 1544, secondo quanto possiamo ricavare dal trattato di Raffaello Borghini "Il Riposo" che nel 1584 lo ricorda come uomo di trentanove anni. Probabilmente negli anni Sessanta del Cinquecento si trasferì a Firenze dove fu accolto tra gli allievi di Giorgio Vasari, spiccando per una naturale predisposizione al disegno. Il suo stile, dalla pennellata sicura, si può riconoscere per l'uso del colore spesso cangiante su incarnati chiarissimi, con delicate sfumature che danno corpo ai volumi attraverso una piena padronanza delle ombre e delle luci.

Molte sono state le sue commissioni a Firenze; in particolare ebbe un ruolo fondamentale nello studiolo di Francesco I, realizzato tra settembre e novembre del 1570; il Poppi infatti, secondo Raffaello Borghini e Vasari, fu responsabile dell'intera decorazione della volta, affiancato nell’impresa da Jacopo Zucchi.

Al centro del soffitto realizzò l'affresco con Prometeo che riceve i doni dalla Natura punto di partenza per tutto il ciclo decorativo; attorno vi sono le personificazioni dei quattro elementi (Aria, Acqua, Terra e Fuoco). Sull'asse dipinse le imprese di Francesco I, la Donnola e l'Ariete, sostenute da putti, e infine, a fianco della lunetta con il ritratto di Cosimo I, le allegorie dell'Autunno e dell'Inverno.

Sulle pareti, entro il 1571, furono collocati l’ovale con Alessandro dona Campaspe ad Apelle e il riquadro con la Fonderia dei bronzi, in cui rese, con i bagliori della luce artificiale, i prodotti dell’officina medicea.

Accanto a questi raffinati soggetti profani va ricordata anche la sua copiosa produzione religiosa entro cui va inserita la nostra piccola ed inedita tela con la Crocifissione.

Il soggetto ritorna molte volte, con alcune varianti, tra quelli rappresentati dal Poppi. Tra questi si ricordano le Crocifissioni del Museo del Cenacolo di San Salvi e della Chiesa di San Michele a San Salvi a Firenze oltre a quella della Chiesa di San Francesco a Castiglion Fiorentino; ma le più somiglianti alla nostra sono la Crocifissione della Galleria Nazionale di Parma e quella di collezione privata fiorentina (i dipinti sono pubblicati nella monografia sul Poppi di Alessandra Giovannetti alle seguenti pagine: p. 175, fig. 73; p. 142 fig. 33; p. 186, fig. 85; p. 176, fig. 74; p. 143, fig. 35). Probabilmente il prototipo per questo fortunato motivo del Crocifisso è il disegno n. 329 conservato al Musée Wicar di Lille (in A. Giovannetti, cit. fig. 34).

Il nostro dipinto, rispetto a quelli di Parma e di collezione privata fiorentina, mostra il Redentore in solitudine, senza i dolenti e la figura di Maddalena ai piedi della croce.

L'attenzione si concentra esclusivamente sul corpo esanime del Cristo, rifinito e cesellato per mezzo di un chiaroscuro morbido secondo la consuetudine disegnativa del Poppi.

La nostra elegante teletta doveva essere probabilmente un oggetto di devozione privata.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
83

Cerchia di Andrea Contucci, detto Andrea Sansovino

(Monte San Savino 1467 - 1529)

TESTA VIRILE BARBATA, DALL’ANTICO (ANTONINO PIO)

modello da studio in terracotta, cm 32x21x17

 

Poco più piccola del naturale, la testa qui proposta non era normalmente esposta (come del resto il grosso delle opere presenti nella collezione Vezzosi) e risulta quindi freschissima alla conoscenza. Nata come oggetto di studio da tenersi appesa nella bottega, come testimonia il retro nemmeno sgrossato ed il foro praticato in alto direttamente nella creta fresca, atto a far passare una corda per appenderla, essa dimostra la sua appartenenza alla stagione del primo Cinquecento toscano e i suoi debiti verso la statuaria antica. Appare infatti evidente che si tratti di una rimeditazione, in senso di studio ed approfondimento su un probabile modello antico, non necessariamente “ricopiato” pedissequamente ma usato quale base di meditazione stilistica.

All’esame essa dimostra un fare potente, sintetico e di grande forza, laddove l’autore cerca la restituzione di un proprio ideale di moderna classicità: le forti segnature dei tratti fisiognomici, le rughe intense e i riccioli, soprattutto visibili nella barba, eseguiti con “vermi” di terra modellati a parte e poi applicati, rimandano alle opere tarde di Andrea Sansovino, eseguite tra il 1518 ed il 1529 anno della morte dell’artista. Confronti possono essere instituiti con la colossale testa di Porsenna, a Montepulciano, quanto resta di una statua in terracotta “all’antica” alta circa tre metri e il San Rocco in terracotta policroma a Battifolle (Arezzo), probabile ultima opera dell’artista.

Date le evidenti similitudini con i lavori sopra menzionati è possibile immaginare che in quella direzione sia da cercare l’autore dell’opera qui presentata.

 

Stima   € 12.000 / 15.000
84

Cerchia di Francesco Mochi

(Montevarchi 1580 - 1654)

CRISTO CROCIFISSO

intaglio in legno di bosso, cm 37x28

croce d’albero dipinta su base a volute dorata, inizi del sec. XVIII, cm 100x39x16

 

Intagliato con particolare virtuosismo, conferendo al corpo inarcato e consunto la sottigliezza e l’elastica tensione di un giunco, questo singolare, drammatico Crocifisso in legno di bosso, destinato alla devozione privata. rivela intriganti affinità formali con la statuaria marmorea e in bronzo di Francesco Mochi: eccentrico, magistrale interprete, tra Roma, Orvieto e Piacenza, del trapasso dai formalismi del manierismo giambolognesco alla spericolata teatralità del barocco berniniano (Francesco Mochi e il suo tempo, a cura di R. Barbielli Amidei, Firenze 1981).

L’anatomia smagrita, ossuta, le proporzioni allungate, l’andamento incurvato e dinoccolato del corpo di Cristo richiamano infatti le spettrali figure del monumentale Battesimo commissionato al Mochi da Orazio Falconieri per l’altar maggiore di San Giovanni dei Fiorentini nel 1634, ma non ancora a termine alla morte dello scultore (collocato sul Ponte Milvio, poi in Palazzo Braschi e solo nel 2016 consegnato alla chiesa cui era destinato), dove ritroviamo anche simili fisionomie dolenti, con la bocca dischiusa in un prolungato lamento e lunghi capelli filamentosi, come pure un’identica concezione del panneggio, con l’andamento diagonale percorso da fitte pieghe tesissime. Stilemi così peculiari e ricorrenti nell’attività matura del Mochi - ad esempio nei Santi Pietro e Paolo scolpiti per San Paolo fuori le Mura (oggi nel Museo di Roma) o nello scattante, burbero San Matteo del Duomo di Orvieto, eseguito tra il 1631 e il 1644 (Museo dell’Opera del Duomo in Sant’Agostino) - da poter prospettare, in assenza di attestazioni relative ad una simile produzione autografa, un modello del maestro tradotto da qualche abile specialista nell’intaglio del bosso.

G.G.

Stima   € 7.000 / 10.000
85

Giuseppe Piamontini

(Firenze 1663 - 1744)

DOVIZIA

terracotta, cm 44x18x21

 

Bibliografia

S. Bellesi, Pittura e Scultura a Firenze (Secoli XVI-XIX), Firenze 2017

 

L’opera, in buono stato di conservazione, presenta un’avvenente giovinetta dai lineamenti perfetti, mirabilmente incorniciati da una fluente chioma ondulata raccolta dietro la nuca e ruscellante in morbide ciocche cadenti sulla spalla sinistra, rivestita da un vaporoso abito ricco di pieghe ampie e vibranti. La presenza di una cornucopia tra le braccia della donna consente di qualificare questa come personificazione simbolica della Dovizia o Abbondanza, allegoria associata, per lo più, alla Pace, alla Giustizia e al Buon Governo. Attributo ricorrente in varie raffigurazioni allegoriche, la cornucopia, unico elemento simbolico presente nella statua, risultava relazionata, per tradizione, al corno di Amaltea, capra mitologica che nutrì il piccolo Giove, o a quello di Acheloo, dio fluviale il cui corno posizionato sulla sua fronte fu acquisito da Ercole durante un combattimento. La presenza di frutti all’interno della cornucopia, che potrebbe qualificare la giovane donna come Cerere, allude, ovviamente, alla ricchezza e alla prosperità della terra, dispensatrici di benessere per tutti gli esseri umani. Come ricorda Cesare Ripa nella sua Iconologia, la Dovizia o Abbondanza veniva descritta comunemente come donna «bella & gratiosa (…così) come cosa buona & desiderata da ciascheduno, quanto brutta & abominevole è riputata la carestia, che di quella è contraria» (C. Ripa, Iconologia, Padova, 1618, ed. Milano, 1992, p. 3).

In base ai caratteri stilistici ed esecutivi è possibile ascrivere l’opera, finora inedita, al catalogo autografo di Giuseppe Piamontini, figura di primissimo piano nel pantheon artistico fiorentino in età tardo-barocca.

Nato nel capoluogo toscano nel 1663, Piamontini, dopo una prima formazione locale nella scuola di Giovan Battista Foggini, ebbe agio di completare i suoi studi a Roma, dove, documentato dal 1681 al 1686, frequentò l’Accademia Medicea, istituto educativo per i giovani artisti di talento fondato nel 1673 dal granduca Cosimo III. Al rientro in Toscana, lo scultore dette inizio a una serrata attività in proprio che lo portò, entro breve tempo, a raggiungere significativi traguardi professionali, documentati, in base alle opere oggi note e ai referti archivistici, dalle numerose commissione legate alle famiglie nobili più in vista e ai più rinomati edifici ecclesiastici cittadini. Protetto dal gran principe Ferdinando de’ Medici, per il quale realizzò nel corso del tempo alcune delle sue statue più acclamate in bronzo e in marmo, l’artista fu autore di opere di squisita fattura, oscillanti stilisticamente tra la grazia e l’armonia delle composizioni locali di matrice fogginiana, gli echi della corrente classicista romana post-algardiana e i richiami alla nouvelle vague francese. Figura chiave per l’evoluzione della scultura toscana tra Sei e Settecento, l’artista morì al culmine della sua fama a Firenze nel 1744. Per commemorare degnamente lo scultore fu eretto, in seguito al suo decesso, un monumento funebre nella chiesa di San Felice in Piazza, che, tuttora esistente, fu corredato da un busto marmoreo con l’effigie di questi scolpito dal figlio Giovan Battista, erede della sua bottega (per l’artista si veda soprattutto S. Bellesi, I marmi di Giuseppe Piamontini, Firenze, 2007; con bibliografia precedente).

L’attenta lettura dell’opera, che costituisce con probabilità il modello preliminare per una statua di grande formato nata per essere addossata a una parete come indicano l’incavo e la mancanza di rifiniture nella parte tergale, mostra caratteri tipologici e stilistici tipici del primo tempo dell’attività dell’artista. Deferente strettamente ai modelli muliebri romani di Ercole Ferrata, maestro di Piamontini durante la permanenza di questi nella Città Eterna, la statuetta presenta, a un’analisi lessicale circostanziata, un linguaggio elegante e ricco di raffinato eclettico, perfettamente in linea con i nuovi orientamenti scultorei toscani in età tardo-barocca.

Collocabile sulla scia di alcune delle figure muliebri più note e affascinanti del catalogo ferratiano, tra le quali appare sufficiente menzionare per maggiori affinità fisionomiche e per la resa vaporosa dei panneggi la Sant’ Agnese e la Sant’Emerenziana in Sant’Agnese in Agone a Roma (per le immagini di queste sculture si veda ad esempio Scultura del Seicento a Roma, a cura di A. Bacchi, Milano, 1996, figg. 373-375), la statua, databile con probabilità tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del Seicento, denota nella resa descrittiva della figura e nella sua sintassi formale analogie stringenti, come sopra indicato, con opere documentate al primo tempo di attività di Piamontini, spesso legate a Casa Medici. Collocabile sulla scia di opere come i Busti femminili in marmo in palazzo Pitti, la Diana in collezione privata e, ancora, la Fortuna Nautica nella cappella Feroni alla Santissima Annunziata a Firenze (per queste sculture si veda S. Bellesi, I marmi di Giuseppe Piamontini, cit., pp. 21-28), la terracotta in esame, nella quale non appaiono immuni analogie con immagini muliebri eseguite da scultori fiorentini coevi e compagni di studio di Piamontini come Anton Francesco Andreozzi e Isidoro Franchi, è da porre in relazione, per la particolarità del soggetto, con la più tarda statua in pietra, raffigurante anch’essa la Dovizia, eseguita nel 1721 da Giovan Battista Foggini per Piazza del Mercato Vecchio, oggi conservata nella sede centrale della Cassa di Risparmio di Firenze presso palazzo Pucci (Repertorio della Scultura Fiorentina del Seicento e Settecento, a cura di G. Pratesi con il coordinamento scientifico di U. Schlegel e S. Bellesi, 3 voll., Torino, 1993, II, fig.152).

Sandro Bellesi

 

Stima   € 12.000 / 18.000
87

 

Pietro Bellotti

(Roè Volciano, 1625 – Gargnano, 1700)

RITRATTO DI ANZIANA IN MEDITAZIONE

olio su tela, cm 60x53

 

Bibliografia di riferimento

L. Anelli, Pietro Bellotti. 1625-1700, Brescia, 1996, p. 247, fig. 207; p. 260, fig. 224; p. 307, fig. 264.

 

È un pennello intriso di materia densa quello che accumula colore nelle carni del volto e della mano, colore che scava rughe profonde, entrando nei solchi dove deposita ombre bruno scuro.

La figura, che non è un ritratto di persona anziana ma piuttosto un soggetto allegorico, peraltro caro alle tematiche del Bellotti, appoggia la guancia al palmo della mano, assorta in una contemplazione interiore meditando sul passare degli anni (uno ad uno segnati dalle rughe che lasciano). Si tratta di un dipinto di grande suggestione che si ascrive tra le opere di questo raro artista dal realismo potente e a volte crudo, a metà strada tra naturalismo lombardo e colorismo veneto.

I rimandi più evidenti sono alla Testa di vecchia del Museo Civico di Padova, alla Vecchia con lo scaldino (Bologna, Pinacoteca Nazionale) al Ritratto di vecchia che tiene un teschio di Nimes, Musée d’Art et d’Histoire, non ultimo al dipinto raffigurante Vecchia filosofa allo scrittoio già asta Christie’s a New York (1990) dove la bellissima natura morta con libri, teschio e clessidra, rimanda a meditazioni sulla vita e sul tempo che passa inesorabilmente, riflessioni analoghe a quelle del nostro soggetto.

                       

Stima   € 8.000 / 12.000
88

Carlo Francesco Nuvolone

(Milano, 1609 - 1662)

BUSTO DI GIOVANE DONNA (LA POESIA?)

olio su tela, cm 69x53,2            

 

Bibliografia di riferimento

F.M. Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Cremona, 2003

 

Quest'opera di straordinaria qualità è un esempio altissimo delle capacità di Carlo Francesco Nuvolone di rendere la morbidezza soffice degli incarnati del viso e delle mani, con le dita delicate che si affusolano verso le estremità, così come dei vaporosi capelli, fino alla sgargiante luce nelle pieghe rosse del manto.

A questa invenzione il pittore dovette essere particolarmente affezionato. Sperimentata a figura quasi intera nell'Ester (Milano, collezione privata) e qui ridotta al solo busto, certamente essa dovette riscuotere molto favore tra i collezionisti poiché, variata nelle vesti o nello scarto della testa o ancora con l’aggiunta di un piccolo angelo e trasformata in santa, è stata replicata dall’artista in tre diverse versioni: una a New York, collezione F. Mont (la più vicina alla nostra); a Milano, in collezione privata, di forma ottagonale e con l’aggiunta di un angioletto a destra, come Santa Caterina (o la Filosofia?); e un’altra sempre in collezione privata, con l’angioletto sulla destra ma diversamente atteggiata nel busto e con ambedue le mani a sinistra (tutte riprodotte in Filippo Maria Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Cremona, 2003, p. 364, fig. 46; pp. 366-367 figg. 48-49)

Confrontando la versione di collezione Vezzosi con le altre tre sopra menzionate deve essere obiettivamente rilevata la punta qualitativa che essa esibisce, tanto da far credere che possa essere proprio questa la prima della serie. 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
90

Andrea di Lazzaro Cavalcanti, detto il Buggiano

(Borgo a Buggiano 1412 - Firenze 1462)

e bottega di Bernardo Gambarelli, detto il Rossellino?

(Settignano? 1409 circa - Firenze 1464)

VASO DECORATIVO A URNA CON FREGIO ALLEGORICO DI PUTTI E TRALCI DI VITE

marmo, cm 52x42x38


Opera dichiarata di particolare interesse culturale ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004

Bibliografia

G. Gentilini e F. Ortenzi, in Vetera et Nova, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2005, pp. 40-59 n. 2;

F. Bacci, Acquasantiere, fonti battesimali e lavabi. Per una storia dell’arredo lapideo nella Firenze del Quattrocento, tesi di dottorato di ricerca in Storia delle Arti e dello Spettacolo, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2015/2016, p. 30

 

 

Questo raro, raffinato vaso decorativo d’ispirazione archeologica e tipologia inconsueta contribuisce a comprovare l’impegno creativo profuso dagli scultori fiorentini del Rinascimento nell’arredo lapideo: una produzione particolarmente apprezzata dalla storiografia ottocentesca, in ragione di una diffusa sensibilità per i valori delle arti decorative, che negli ultimi decenni ha riconquistato le attenzioni della critica (G. Gentilini, Fonti e tabernacoli… pile, pilastri e sepolture: arredi marmorei della bottega dei da Maiano, in Giuliano e la bottega dei da Maiano, atti del convegno, Fiesole, 13-15 giugno 1991, a cura di D. Lamberini, M. Lotti, R. Lunardi, Firenze 1994, pp. 182-195; F. Caglioti, Donatello e i Medici, Firenze 2000; Bacci, op. cit.).

Il vaso, nel corpo di forma globulare, su cui staccano due anse di tipo metallico, con orlo profilato a ‘ovoli e dardi’ e il duplice piede scampanato scandito da baccellature, richiama urne cinerarie di epoca romana (Firenze, Galleria degli Uffizi; Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco e Museo Pio Clementino; Venezia, Museo Archeologico; Pisa, Camposanto), in particolare il cratere reimpiegato come fonte battesimale nella chiesa di San Michele Arcangelo a Camiliano di Capannori, trovando puntuali riscontri in alcuni celebri arredi marmorei di metà Quattrocento: lo splendido fonte battesimale della Collegiata di Empoli (ora nell’attiguo Museo), scolpito nel 1447 da Bernardo Rossellino, l’acquasantiera (forse in origine anch’essa un vaso decorativo) della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, a lungo riferita alla cerchia donatelliana e più di recente allo stesso Rossellino, e il perduto ‘nodo’ della fontana del giardino dei Pazzi (New York, Metropolitan Museum), attribuita ad Antonio Rossellino o Benedetto da Maiano verso la fine degli anni Sessanta.

Peculiare dell’opera in esame è invece la decorazione scolpita a bassorilievo, che raffigura, con notevole vivacità espressiva ed efficaci scorci prospettici, un corteo di quattro putti variamente atteggiati sotto una sorta di pergola con foglie di vite: uno di essi brandisce una fiaccola riversa e il suo compagno trasporta sulle spalle un agnello, mentre sull’altra faccia del vaso un fanciullo, che porta due ceste di vimini per la vendemmia, conduce con sé una capra, seguito da un putto con una cetra capovolta in atto di indicare con la stecca. L’inconsueta, criptica iconografia, che coniuga motivi della tradizione pagana bacchica con riferimenti funerari (il “tedoforo” con la face riversa), cristologici (il “buon pastore”), eucaristici (i tralci d’uva, il putto vendemmiante che reca il “capro espiatorio”) desunti da sarcofagi romani e paleocristiani, dichiara la sofisticata cultura umanistica del committente, presumibilmente partecipe delle speculazioni di Marsilio Ficino sulla “theologia platonica”, la “docta religio” e sulla musica come “harmonia mundi”. Rimane invece più arduo ipotizzare la funzione e la destinazione originaria del manufatto, che poteva trovar posto sia in un contesto ecclesiale, come urna o cippo funerario, sia più probabilmente in una signorile dimora privata: forse in un portico o un giardino destinato ad ospitare i certami poetici e le dispute filosofiche dei dotti membri dell’Accademia neoplatonica, fondata dal Ficino nel 1462 per incarico di Cosimo dei Medici, riunitasi inizialmente nella Villa le Fontanelle poi nella Villa medicea di Careggi. 

Quanto alla paternità dell’opera, presumibilmente da ricercare dunque tra gli artisti della cerchia medicea, riteniamo di poter confermare il riferimento al Buggiano, già dettagliatamente argomentato (Gentilini e Ortenzi, op. cit.) e ora accolto da Alfredo Bellandi in una monografia sullo scultore di prossima pubblicazione (Andrea Cavalcanti «discipulo Filippi ser Brunelleschi»), il quale potrebbe averla eseguita collaborando con la bottega dei fratelli Rossellino, cui ci riconducono, come si è visto, l’ornato e la tipologia del manufatto, recentemente menzionato da Francesca Bacci (op. cit.) in relazione al vaso-acquasantiera della Sagrestia Vecchia che la studiosa riconduce proprio a Bernardo Rossellino.

Figlio adottivo del Brunelleschi, il Buggiano, dedito soprattutto agli arredi lapidei (lavabi delle due Sagrestie di Santa Maria del Fiore, su disegno del Brunelleschi, 1438-1445; altare e ornati della Cappella Cardini in San Francesco a Pescia: Atti del convegno su Andrea Cavalcanti detto ‘il Buggiano’, Buggiano Castello, 23 giugno 1979, Buggiano 1980), tra i quali è opportuno ricordare le due perdute acquasantiere della Villa di Careggi (G. Gentilini, Una perduta pila del Brunelleschi, due del Buggiano e alcune altre acquasantiere fiorentine del primo Quattrocento, in Le vie del marmo, aspetti della produzione e della diffusione dei manufatti marmorei tra Quattrocento e Cinquecento, atti del convegno, Pietrasanta, 3 ottobre 1992, a cura di R.P. Ciardi e S. Russo, Firenze 1994, pp. 61-68), fu infatti impegnato in modo consistente nel cantiere mediceo brunelleschiano della Sagrestia Vecchia, e la sua collaborazione con la bottega di Bernardo Rossellino è attestata quantomeno dal suo intervento nel Monumento Bruni in Santa Croce del 1450 (A. Markham Schulz, The sculpture of Bernardo Rossellino and his Workshop, Princeton 1977, pp. 49-50).

I modi peculiari del Buggiano sono del resto ben riconoscibili nelle fisionomie paffute, nella mimica allegra e nell’anatomia corpulenta di almeno due putti, quello che reca in spalla l’agnello e quello con la cetra, agevolmente confrontabili con il Gesù Bambino che ricompare nelle varie redazioni in terracotta e stucco di una composizione mariana concordemente attribuitagli (Firenze, Museo Nazionale del Bargello; Villamagna, Pieve di San Donnino; etc.), mentre il putto con la fiaccola, più delicato e pittorico, richiama la maniera dei Rossellino, inducendo a ipotizzare un intervento di Giovanni, personalità meno nota rispetto ai fratelli Bernardo e Antonio, quale si evince dalle figure angeliche del Monumento a Filippo Lazzeri in San Domenico a Pistoia realizzato tra il 1462 e il 1468.

 

G.G.

 

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
61 - 90  di 129