DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

11 OTTOBRE 2017

DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

Asta, 0220
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17.30
Esposizione

FIRENZE
7-10 Ottobre 2017
orario 10-13 / 14–19 
11 Ottobre 2017
orario 10-13
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1000 € - 100000 €

Tutte le categorie

31 - 60  di 129
32

Gervasio Gatti, detto il Sojaro

(Cremona, 1550 circa - 1630)

RITRATTO DI NOBILDONNA

olio su tela, cm 104x75

al retro sono presenti bolli della dogana di Bologna del 1911 e quelli del trasportatore imperiale di Vienna.

 

Il dipinto è corredato di parere scritto di Marco Tanzi

 

Bibliografia

Sette ritratti lombardi dalla tarda maniera alla maniera pura, testi di M. Tanzi e M. Vezzosi, Firenze, 2009, pp. 4-9   

 

 

Il ritratto di nobildonna qui proposto rientra all'interno della ritrattistica cremonese della fine del Cinquecento. Si caratterizza, come riporta Marco Tanzi, per intensa "carica espressiva, raffinatezza d'esecuzione e per l'efficace definizione dei tratti dell'effigiata".

Tanzi propone un'attribuzione a Gervasio Gatti, nipote di Bernardino Gatti detto il Sojaro, da cui ereditò il soprannome (una versione dialettale del mestiere di bottaio). Presso lo zio condusse il proprio apprendistato che è documentato a partire dai lavori per la cupola di Santa Maria della Steccata a Parma dove Bernardino fu attivo dal 1560 al 1572. Il Gatti si formò a diretto contatto con le opere dei maestri parmensi, filtrando la lezione che lo zio aveva assimilato dalla "maniera" romano-padana e a parte qualche eccezione fu attivo principalmente nella città di Cremona.

Del resto Cremona, già dagli anni venti del Cinquecento, era un crocevia artistico di primaria importanza. Luogo ufficiale di sperimentazione fu la cattedrale di Cremona dove si erano succedute le più aggiornate personalità artistiche (Romanino e Pordenone). Da questo cantiere si sarebbe formata la nuova generazione di artisti cremonesi.

L'effigiata, di cui è chiara la condizione vedovile, è probabilmente una nobildonna che faceva parte di una famiglia locale di cui però non troviamo riferimenti di carattere araldico nel quadro; solo gli anelli che indossa potrebbero rivelare un'affiliazione, in particolare quello sul mignolo sinistro con la Croce dei Cavalieri di Malta o dei Gerosolimitani, unico lusso di un abbigliamento estremamente austero.

Nella severità complessiva dell'immagine il Gatti riesce a far risaltare il suo virtuosismo pittorico nella resa elegante dei bianchi presenti nel colletto a lattuga, nella camicetta sottostante e nei pizzi dei polsini; di estrema raffinatezza anche l'espediente della luce che batte sulla veste nera, creando nel risvolto della casacca e sulle maniche operate del vestito delle zone luminose diversificate.

Vivido e penetrante infine il volto della donna si imprime sullo spettatore con immediatezza.

Come indica Marco Tanzi non sono da escludere per il quadro influenze nordiche legate "da una parte alla corrente circolazione di prototipi fiamminghi che il Gatti aveva potuto vedere e copiare alla corte farnesiana di Parma, dall'altra ai documentati rapporti con le Fiandre della stessa Cremona che all'epoca era, come evocava Roberto Longhi, di spirito, una Piccola Anversa".

Stima   € 15.000 / 20.000
34

Scultore veneto della seconda metà del sec. XVI

ALLEGORIA DELL’INVERNO

terracotta, cm 33x18x20

 

Resa visibile nella collezione Vezzosi solo in tempi recenti e in preparazione della presente vendita, la piccola terracotta si presenta in buono stato di conservazione: una leggera sbeccatura interessa la punta di un piede ed è perduto il fuoco che si trovava in basso a sinistra, là dove si rivolgono corpo e mani del vecchio.

I caratteri di stile rimandano alla cultura veneta del Cinquecento, in particolare essa pare allinearsi alle opere di uno dei maggiori protagonisti di quella stagione artistica e cioè Alessandro Vittoria, e segnatamente a quelle eseguite al tempo della permanenza del grande scultore nella città di Vicenza, prima del rientro nella Serenissima nella primavera del 1553.

Sia nella costruzione dell’anatomia del corpo, di parmigianinesca eleganza, come nel volto incorniciato da barba e capelli fluenti, nel nostro Inverno possono essere letti intenti simili alle figure a stucco realizzate dal Vittoria in Palazzo Thiene, soprattutto quelle che ornano il soffitto della Sala dei Principi.

Data la qualità di esecuzione esibita dal nostro piccolo Inverno, è ragionevole pensare che più approfonditi studi dovrebbero condurre all’identificazione dell’autore della terracotta qui proposta, autore che, per le scelte di sofisticata eleganza e sentita aderenza al linguaggio che proprio il Vittoria andava affermando nella città lagunare, dovette, nella seconda metà del Sedicesimo secolo, ricoprire un ruolo tutt’altro che marginale. 

 

Stima   € 8.000 / 10.000
35

Scultore veneto, 1720/1730 circa

SAN GIACOMO MAGGIORE

terracotta, ovale cm 44x36x8

 

Questa bella figura iscritta in una medaglia ovale, raffigurante San Giacomo Maggiore (identificabile per il bastone da pellegrino e soprattutto per la conchiglia sulla veste) è riferibile ad uno scultore veneto attivo intorno al terzo decennio del Settecento. Se alcuni elementi suggeriscono una cultura ancora partecipe della stagione del Barocco, dall’espressione del volto, di intenso patetismo (si vedano le labbra socchiuse), ai capelli dalle ricche ciocche, morbidamente rese nella terracotta, altri lasciano intravedere spunti di incipiente classicismo. Si tratta in particolare di un passaggio, quello della manica destra, sotto il mantello, con la stoffa ordinata in pieghe parallele che rimandano all’Antico. Confronti sono istituibili con l’opera del veneziano Antonio Corradini (1688 – 1752), non tanto con i suoi capolavori maturi (le celebri statue velate, dalla Tuccia di Palazzo Barberini a Roma, 1743, alla Pudicizia della Cappella Sansevero a Napoli, 1752), quanto piuttosto con invenzioni precedenti quali la Verginità nella Chiesa dei Carmini a Venezia, del 1721 (Bruno Cogo, Antonio Corradini scultore veneziano 1688 – 1752, Este 1996, p. 193), che proprio nella manica sinistra presenta un motivo assai simile. D’altronde quel panneggiare con pieghe quasi rigidamente parallele è una cifra stilistica che accomuna diversi scultori veneti di quell’epoca, basti pensare all’opera di Antonio Gai, in particolare la Figura all’antica del castello di Ferrières-en-Brie, in Francia (Andrea Bacchi, a cura di, La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, Milano 2000, tav. 386).

A.B.

 

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
36

Scultore napoletano o spagnolo, metà del sec. XVIII

SAN LUIGI GONZAGA IN ADORAZIONE DEL CROCIFISSO

statua ‘da vestire’ in legno dipinto, cm 137x52x32

 

Il nobile, compunto volto giovanile, caratterizzato dal taglio dei capelli assai corti e da un languore che tradisce una profonda sofferenza, le scarpe austere di foggia moderna indossate su calze parimenti nere e soprattutto la gestualità che lascia immaginare la figura in atto di contemplare un crocifisso tenuto nella mano sinistra ci consentono di riconoscere in questo affascinante simulacro il gesuita Luigi Gonzaga (Castiglione delle Stiviere 1568 - Roma 1591), figlio del marchese Ferrante, morto a soli ventitré anni durante la terribile pestilenza che aveva flagellato Roma nel 1590-91, dopo per essersi prodigato fino allo stremo per gli ammalati. Canonizzato nel 1726, data che fornisce un utile post quem per la cronologia dell’opera, lo si venera come santo protettore della gioventù studiosa, titolare di numerose congregazioni religiose dedite all’educazione cristiana.

Negli ultimi anni una folta letteratura critica e numerose esposizioni hanno restituito appieno dignità a simili statue concepite per essere abbigliate con abiti reali, impropriamente definite ‘manichini’, spesso, come in questo caso, realizzate da abilissimi intagliatori (Vestire il sacro. Percorsi di conoscenza, restauro e tutela di Madonne, Bambini e Santi abbigliati, a cura di L. Bortolotti, Bologna 2011), ma non è ancora facile circoscriverne l’ambito di produzione e addentrarsi in proposte attributive.

L’opera che qui si presenta, per la sua costruzione, l’intaglio sensibilissimo degli incarnati e dei capelli, la delicata, opalescente policromia, trova efficaci riscontri nella produzione presepiale napoletana del secondo Settecento, in cui furono impegnati, accanto a una schiera di specialisti del genere - Lorenzo Mosca, Nicola Ingaldi, Michele Trillocco e molti altri -, anche scultori di prim’ordine come Giuseppe Sammartino, Angelo Viva, Francesco Celebrano, produzione dove peraltro il lavoro d’intaglio sovente si alterna a teste modellate in argilla (G. Borrelli, Il presepe napoletano, Roma 1970).

D’altra parte questi stessi aspetti formali, declinati qui con particolare compostezza, e lo spiccato magistero nell’arte del legno, possono richiamare l’intensa e tersa statuaria devota spagnola nei modi di Alonso Cano e Pedro de Mena, attivi tra Granada, Madrid e Toledo nella seconda metà del Seicento (The Sacred made Real. Spanish Painting and Sculpture 1600-1700, catalogo della mostra, Londra, The National Gallery - Washington, National Gallery of Art, a cura di X. Bray, Londra 2009).

G.G.

Stima   € 5.000 / 7.000
37

Francesco Pesenti, detto il Sabbioneta                              

(Cremona, 1510/1520-1563)

SAN GIOVANN BATTISTA                        

olio su tavola di noce, cm 32x22,2

 

L'opera è corredata da una scheda di Marco Tanzi di cui riportiamo un estratto:

 

"La piccola tavola raffigurante il Precursore che si staglia contro un cielo blu cobalto gonfio di nubi grigio-rosa, è di buona mano ed appare eseguita tra Mantova e Cremona intorno alla metà del XVI secolo da un artista particolarmente attento ai fermenti ed alle novità, soprattutto parmigianinesche, di quegli anni; capace inoltre di sganciarsi da un’ipoteca per molti versi “pesante” come quella rappresentata da Giulio Romano: credo che non ci siano dubbi nel poterne individuare l’autore in Francesco Pesenti detto il Sabbioneta (per un riesame bio-bibliografico rimando a C. Nolli in I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, catalogo della mostra, Milano 1985, pp. 152-153, 294, 475-476; M.C. Rodeschini Galati in Pittura a Cremona dal Romanico al Settecento, a cura di M. Gregori, Milano 1990, pp. 271-272).

Nato probabilmente nel secondo decennio del Cinquecento a Cremona, dove membri della famiglia Pesenti, originaria del borgo reso celebre da Vespasiano Gonzaga (in provincia di Mantova ma nella diocesi cremonese) erano già insediati dalla fine del XV secolo, e dove il padre Galeazzo fu attivo dal secondo al quarto decennio in Cattedrale come pittore e doratore; Francesco è il primo di tre fratelli pittori, Vincenzo e Martire, ai quali faranno seguito altre generazioni di artisti (su quella di fine Cinquecento si veda C. Nolli, Giovan Paolo e Giuseppe Pesenti a Castelleone, in “Paragone”, 453, 1987, pp. 60-68). Francesco Pesenti è un personaggio di spicco della cultura figurativa cremonese a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento, la cui fama sembra essersi appannata durante i secoli, ma ci è ampiamente testimoniata dalla stima dei contemporanei e dalle commissioni ottenute in un panorama che non risulta affatto monopolio esclusivo dei Campi, come la critica tende, forse un po’ superficialmente, ad accreditare."

                                                 

Stima   € 4.000 / 6.000
38

Bartolomeo Mazzuoli

(Siena 1674 - 1749)

SANTA CATERINA DA SIENA CORONATA DI SPINE

busto in stucco dipinto su base modanata pertinente dipinta con stemma araldico (della famiglia Bandinucci?), cm 75x56x33

 

A lungo impegnato nella rinomata e prolifica bottega di famiglia, come collaboratore del padre Giovanni Antonio e dello zio Giuseppe (lavori nella Villa Chigi di Cetinale), Bartolomeo si distinse sia come scultore in marmo (monumenti sepolcrali nella chiesa del Carmine, in San Cristoforo e nella Cattedrale di Siena; rilievi e statue in Palazzo Sansedoni), con una produzione spesso desunta dai modelli di Giuseppe (statue del Salvatore e della Vergine in Cattedrale) e di altri scultori romani (Bernini, Ferrata, Legros) conservati nella bottega senese dei Mazzuoli (M. Butzek, Die Modellsammlung der Mazzuoli in Siena, in “Pantheon”, XLVI, 1988, pp. 75-102; V. Di Gennaro, Arte e industria a Siena in età barocca. Bartolomeo Mazzuoli e la bottega di famiglia nella Toscana meridionale, Siena 2016), sia come stuccatore, proseguendo così un’affermata tradizione familiare (statue nella Certosa di Maggiano; Apostoli nella Collegiata di Sinalunga; complessi decorativi a Montepulciano).

Le fonti locali ne ricordano un’intensa e apprezzata vena ritrattistica, che si traduce nella capacità di infondere una vivida presenza anche a effigi religiose altrimenti congelate in schemi iconografici convenzionali, come nel pulsante busto in terracotta del Beato Bernardo Tolomei conservato nella Collezione Chigi Saracini di Siena (G. Gentilini, in G. Gentilini e C. Sisi, Monte dei Paschi di Siena. Collezione Chigi-Saracini. 4. La scultura. Bozzetti in terracotta, piccoli marmi e altre sculture dal XIV al XX secolo, Firenze 1989, pp. 360-361 n. 105), o nel penetrante, affilato busto della Benincasa che qui si presenta: l’amata mistica senese, giovinetta di particolare bellezza, devota al culto della Passione di Cristo al punto da riceverne le stigmate cui allude la corona di spine, attributo ricorrente nell’iconografia della santa, indossata sull’abito delle terziarie domenicane (a Siena dette Mantellate).

Di particolare interesse la presenza sul basamento di uno scudo araldico sul quale è dipinto un blasone (troncato: nel primo d’azzurro, al monte di sei cime movente dalla partizione e accostato da due stelle a otto punte dello stesso; nel secondo bandato d’argento e d’azzurro), quasi identico all’arme della famiglia Bandinucci, attestata a Firenze nel quartiere di Santa Maria Novella (Raccolta Ceramelli Papiani, Archivio di Stato di Firenze, fasc. 369: arme che però è sbarrata, non bandata). Si tratta forse dei Bandinucci de’ Conti di Monte Maggio (o di un ramo collaterale), nobile famiglia originaria di Cortona - un territorio, quello della Valdichiana, dove i Mazzuoli furono attivi in più occasioni -, e dunque una corretta identificazione araldica, oltre a definire la committenza del busto in esame, potrebbe consentire di circoscriverne la datazione, individuarne l’ubicazione originaria e forse accertarne la paternità qui proposta per ragioni stilistiche.

 

Stima   € 5.000 / 8.000
39

Federico Zuccari

(Sant'Angelo in Vado, 1539 – Ancona 1609)

RITRATTO DI GIOVANE

olio su carta incollata su tavola in antico, cm 43,5x32

 

Incollata su tavola già in antico, forse dall'artista stesso, la carta è dipinta usando paste pittoriche dense anche se delicate nell’incarnato del volto e nei tocchi di biacca del colletto, mentre per i capelli ed il vestito nero la stesura risulta liquida e disciolta, tanto che in basso l’abito è palesemente non finito; anche il fondo è lasciato alla sola preparazione rossastra, con una leggera velatura scura in basso a sinistra.

Tutto ciò indica chiaramente trattarsi di un “modello”, eseguito dal vero o su un precedente disegno, (del tipo dei ritratti a due matite, rossa e nera, dei quali Federico era maestro) messo a punto e rifinito solo nel volto: la parte di maggiore interesse in previsione di un ritratto finale più grande, magari a tre quarti di figura.

L’aspetto “romano” del dipinto, non esente da influenze fiorentine della seconda metà del Cinquecento e pervaso da suggestioni baroccesche ha condotto più di uno storico dell’arte a riconoscere la mano di Federico Zuccari; ultimamente anche Annamaria Ambrosini Massari ha confermato la mano di Federico nell’esecuzione del presente dipinto (comunicazione orale su visione diretta dell’originale).

Si tratta di un’aggiunta di straordinario valore al catalogo della maturità dell’artista. Il nostro Giovane è infatti accostabile ai ritratti eseguiti ad affresco nelle lunette della sala terrena in casa Zuccari sul Pincio a Roma, terminata da Federico nel 1598. Negli stessi anni l’artista portava a termine la pala nel Municipio di Sant’Angelo in Vado (1603, ma iniziata a fine ‘500), raffigurante La Madonna col Bambino, Santi e la famiglia Zuccari (pala Zuccari) dove, se si osserva il ritratto del fratello Taddeo, ben si ritrova la stesura pittorica del nostro esemplare.

Una data quindi nel primo quinquennio del Seicento può a buona ragione essere estesa al dipinto qui presentato che, fatti salvi gli aggiustamenti dati da motivi iconografici, non è dissimile nella stesura dal volto del Cristo alla colonna (Urbino, Museo Diocesano Albani) terminato da Federico nel 1605.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
40

Antonio Cavallucci

(Sermoneta, 1752 - Roma, 1795)

SOCRATE SI CONGEDA DAI DISCEPOLI

olio su tela, cm 89x134,5

 

Il dipinto sarà pubblicato da Alessandro Agresti sulla rivista "Studi di Storia dell'Arte"

 

Attribuito al Cavallucci da Massimo Vezzosi, attribuzione confermata oralmente da Alessandro Agresti, cui si devono gli studi più recenti sul pittore romano riscoperto negli anni Settanta del Novecento grazie a Steffi Roettgen, il dipinto qui offerto – non ricordato dalle fonti biografiche sull’artista – resta in qualche modo isolato nella sua produzione prevalentemente volta, sebbene non in modo esclusivo, a soggetti sacri e di pubblica destinazione. È proprio in questo senso che, dopo gli avvii nel palazzo del suo protettore, il duca Francesco Caetani, grazie all’appoggio di Monsignor Francesco degli Albizzi, Economo della Fabbrica di San Pietro dal 1778, Antonio Cavallucci riceve le prime importanti commissioni pubbliche nell’ambito del programma di rinnovamento della “Roma cristiana” voluto da Pio VI Braschi, di cui diventerà uno degli interpreti più accreditati.

È appunto con il ciclo di quattro storie petrine eseguite prima del 1784 per la sacrestia della basilica vaticana che il nostro dipinto mostra i più forti legami stilistici, pur nello svolgimento di un tema radicalmente estraneo a quella temperie spirituale. L’accostamento è suggerito dalla presenza di modelli comuni alle figure degli Apostoli nelle tele vaticane e agli anziani discepoli del filosofo greco nella tela qui offerta (dove il protagonista sembra invece citare una scultura classica), ai quali si aggiunge un giovane e inedito Alcibiade. Anche i colori smaltati dei panneggi, dai colori discordanti ma unificati dal lieve chiaroscuro, rimandano alle opere pubbliche dipinte dal Cavallucci nella seconda metà degli anni Ottanta, quali il Sogno di Giuseppe in S. Andrea a Subiaco del 1788.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
41

Pieter Mulier il giovane, detto il Cavalier Tempesta

(Haarlem, 1637 - Milano, 1701)

AUTORITRATTO

olio su tela, cm 63,5x50

 

Bibliografia

Sette ritratti lombardi dalla tarda maniera alla maniera pura, a cura di M. Tanzi e M. Vezzosi, Firenze, 2009, pp. 10-15

 

Impostato di tre-quarti, con lo sguardo puntato verso lo spettatore ed un'aria intensa a metà tra concentrata attenzione e spavalda sicurezza, così il Cavalier Tempesta consegna ai posteri la propria effige. La decisa consapevolezza di sé che promana dai tratti del volto e dallo sguardo è come sottolineata dalla mise, ordinaria e priva di ostentata ricchezza, che l'artista sfoggia; una giubba rossa in parte sbottonata e dalla quale fuoriesce con studiata trascuratezza un lungo e trinato jabot, un mantello dal bavero giallo sulle spalle ed un cappello di pelliccia che copre parte dei lunghi e fluenti capelli. Ad aumentare il fascino un po' zingaro che il Mulier trasmette è l'attualissimo cerchietto che gli accende di riflessi d'oro il lobo dell'orecchio.

Di Pieter Mulier si conoscevano, ad oggi, due autoritratti autografi e praticamente identici fra di loro salvo leggere varianti; uno conservato presso la collezione Borromeo all'Isola Bella e l'altro a Firenze nella Galleria degli Uffizi, Corridoio Vasariano. La comparsa oggi del presente autoritratto, simile agli altri due ma con significative varianti, induce ad alcune riflessioni circa la genesi dei tre autoritratti, la loro datazione ed il loro probabile significato. Anzitutto, ed ovviamente, dovrà essere considerata la fattura del dipinto qui presentato: esso presenta l'artista raffigurato all'interno di una tela rettangolare a mezzo busto, di tre-quarti e girato verso lo spettatore. La stesura pittorica è veloce e fluida, realizzata con pennellate che rendono visibile la trama compositiva. Tutta la parte dell'angolo basso di destra occupata dal mantello che copre la spalla sinistra dell'effigiato è lasciata al livello della preparazione di base sulla quale si evidenziano le pieghe e le notazioni chiaroscurali tutte "disegnate" con il pennello ed un tono di bruno scuro liquido, anche il fondo reca pochi accenni di colore poco denso steso sopra la preparazione rossa di base. Il jabot è dipinto con grande velocità, linee lunghe e fluide di toni bianco latte con ombre grigie azzurrate e una trina, più suggerita che non definita, realizzata battendo la punta del pennello sulla tela, capelli e cappello sono una massa bruno scuro indistinta che si staglia appena dal fondo. Il volto, dove più è concentrata l'attenzione pittorica, è dipinto con campiture (di materia più spessa) larghe e sintetiche per quanto attiene le zone di maggiore evidenza luminosa, mentre gli occhi, la bocca, bellissima e sensibile, così come le narici, appaiono dipinte con brevi pennellate, tratteggiate, spesso appoggiate le une alle altre. Quanto sopra osservato non lascia dubbio alcuno sul fatto che il presente ritratto sia eseguito in "presa diretta" dimostrando l'intento dell'artista di fermare e restituire, con urgenza, lo stato emotivo della propria immagine.

Stima   € 5.000 / 7.000
42

Attribuito a Carlo Innocenzo Carloni

(Scaria d'Intelvi, Como 1686 - 1775)

LA PACE CHE BRUCIA LE ARMI A MARTE

olio su carta, mm 275x206                                

 

Su suggerimento di Enrico Maria Dal Pozzolo il delizioso dipinto ad olio su carta qui presentato si può accostare alla mano del bel pittore Carlo Innocenzo Carloni che faceva parte della famiglia comasca di artisti chiamati i Carlone (o Carloni). Suo padre Giovan Battista era stuccatore e anche il fratello Diego Francesco era stuccatore e architetto.

Appena dodicenne seguì il padre in Germania per essere avviato all'arte dello stucco; ma avendo dimostrato una forte tendenza per la pittura, fu affidato dal padre al pittore Giulio Quaglio, pure intelvese, che lo portò a Venezia e Udine. Dopo il 1706 si recò a Roma dove ebbe come maestro il veneto Francesco Trevisani. Nel 1715 si stabilì a Vienna chiamato dal principe Eugenio di Savoia per il quale aveva dipinto l'affresco con la Glorificazione del Principe nella sala dei marmi del Belvedere inferiore, in collaborazione con il quadraturista Marcantonio Chiarini. A Vienna il Carloni visse diversi anni con la famiglia, ritornando in Italia per alcune commissioni; intorno al 1725 circa si datano due tele nella chiesa di Balerna (Canton Ticino), quattro nella basilica di San Fedele a Como, e, ancora a Como, gli affreschi e i quadri del santuario del Crocefisso e l'affresco dello scalone del palazzo Gallio. Nel 1727 ritornò in Austria e nello stesso anno si trasferì con la famiglia a Praga per decorare lo scalone e due sale del palazzo Clam Gallas.

In Italia di nuovo nel 1737, Carloni ricevette nuove commissioni a Calusco d'Adda (scalone di Villa Colleoni) e nel duomo di Monza dove lavorò dal 1738 per circa sette anni.

La visione pittorica di Carloni è una visione in chiaro, costruita con una pennellata veloce e leggera; quello che stupisce e incanta sia nella sua pittura che nel nostro dipinto è la grande libertà inventiva sempre pervasa da uno spirito teatrale. La sua pittura briosa e vivace, ricca di fantasia ed estro, è segnata sicuramente dal gusto decorativo della tradizione tipica degli intelvesi e dell'attività dei suoi familiari.

Marte e Venere in primo piano sono i personaggi di un vaporoso spettacolo, la dea nasconde e brucia le armi del suo amato che le porge dei fiori profumati.

Dal punto di vista stilistico, la pittura appare estremamente leggera, quasi dissolta nei toni del pastello.

 

 

 

 

 

Stima   € 6.000 / 8.000
43

Francesco Rustici, detto il Rustichino

(Siena, 1592 – 1626)

SAN GIOVANNI BATTISTA

olio su tela, cm 138x106,5

                  

Esposizioni

Il buon secolo della pittura senese. Dalla maniera moderna al lume caravaggesco. Montepulciano, San Quirico d'Orcia, Pienza, 18 marzo-30 giugno 2017

 

Bibliografia

Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco gentile, Pienza Conservatorio San Carlo Borromeo in Il buon secolo della pittura senese. Dalla maniera moderna al lume caravaggesco. Montepulciano, San Quirico d'Orcia, Pienza, 18 marzo-30 giugno 2017, Ospedaletto-Pisa, 2017, p. 303 scheda 19 di Marco Ciampolini

 

Come la Maddalena confortata dagli angeli qui presentato al lotto 7 anche questo San Giovanni Battista è stato esposto alla mostra sul Rustichino come opera inedita ascritta a Francesco Rustici proprio da Massimo Vezzosi.

Come riporta Marco Ciampolini nella scheda di catalogo il giovane santo è raffigurato nella sua veste eremitica immerso nel "deserto della meditazione" accompagnato solo dall'agnello che è metafora del Cristo "agnello di Dio che toglie i peccati del mondo".

L'opera, di devozione domestica, è una tela giovanile del Rustici quando dipingeva, non ancora ventenne, con lo zio Alessandro Casolani e il padre Vincenzo. Già in queste prime opere è evidente il desiderio del Rustichino di mostrare il suo talento e la sua elaborazione dello studio dei maestri senesi "saturi della delicatezza formale del Cinquecento che sfocia in ameni paesetti saettanti da una luce bianca, quasi lunare, secondo i modi proposti da Paul Brill, che tanta accoglienza avevano trovato nella cultura tardo manierista senese, capeggiata da Francesco Vanni".

 

 

                                                             

Stima   € 20.000 / 30.000
45

Girolamo Muziano

(Brescia, 1532 - Roma, 1592)

SAN GIROLAMO PENITENTE

olio su tela, circa 228x164

  

Bibliografia di riferimento

P. Tosini, Girolamo Muziano dalla Maniera alla Natura, Roma, 2008

                                     

Il dipinto qui presentato si offre in un notevole stato di conservazione; montato ancora sul telaio originale ha una superficie pittorica che non ha mai subito puliture (una prova di pulitura che interessa parte del braccio, le mani, il volto e una porzione di paesaggio retrostante è stata eseguita in occasione della presente vendita e rivela una cromia cristallina e smagliante nei blu-azzurri metallici e nel viola ciclamino), unica mancanza è un’abrasione sul manto del santo dovuta ad un vecchio urto.

Si tratta di un dipinto di straordinaria qualità eseguito dall’artista agli inizi degli anni Settanta del Cinquecento. Realizzato su una tela a tramatura spessa il dipinto è eseguito con impasti di colore densi, di matrice veneta, con una attenzione (si veda il volto del santo dallo sguardo intenso ed ispirato o le bellissime mani, ma anche il corpo scorciato del Cristo crocifisso) al dato naturalistico che tende a superare la “maniera” verso soluzioni di naturalismo pre-secentesco.

Un’altra versione dell’opera, proveniente dalla chiesa di San Giorgio in Poggiale, ma non eseguita per quella destinazione, è conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Tra i due dipinti vi sono notevoli varianti compositive: la veste del santo, nel nostro esemplare più articolata e complessa, scende a coprire buona parte della gamba sinistra, che invece è nuda nel dipinto bolognese; sulle ginocchia di Girolamo è appoggiato un grosso volume che invece non compare nell’altro dipinto; la tipologia delle rocce della grotta è completamente diversa (manca nella versione bolognese anche l’edera che si arrampica sulle rocce in basso a destra). Inoltre diverso è il crocifisso al quale il santo rivolge lo sguardo (di dimensioni più contenute il nostro, con l’asta della croce più corta e piantata su uno sperone di roccia di maggior altezza), come diverso è il paesaggio in lontananza sul fondo. Anche i colori delle vesti, azzurro e rosa in ambedue le versioni, risultano invertiti tra un esemplare e l’altro. Gli interventi di restauro che sono stati fatti sul dipinto bolognese ci presentano un quadro ancora bello e potente ma che ha perso un po’ della sua freschezza originale, mentre la nostra versione mostra ancora una grande ricchezza cromatica oltre ad una qualità compositiva molto alta.

Le due versioni sono ricordate dalle fonti come inviate dal Muziano a Bologna: “un quadro grande co’ la figura di S. Ieronimo de mano del Muziano opera molto bella” ricordato già da Cavazzoni (1603) e Oretti in casa di Carlo Fantuzzi e un secondo dipinto in casa di Paolo Tanari nel 1659, segnalato da Giordani (1829). (Per l’intera vicenda relativa si rimanda alla monografia di Patrizia Tosini, Girolamo Muziano dalla Maniera alla Natura, Roma, 2008, pp. 367-369).

Al momento risulta arduo stabilire con certezza quale tra le due versioni sia quella arrivata in Pinacoteca e quale quella qui presentata, come difficile poter asserire quale sia stata la prima ad essere eseguita cronologicamente.

Si ringrazia la professoressa Patrizia Tosini per aver confermato l'attribuzione dopo aver visionato direttamente il quadro.

 

Stima   € 70.000 / 100.000
46

François Girardon

(Troyes, 1628 - Paris, 1715)

MATER DOLOROSA

marmo, cm 74x60; entro cornice in legno dorato e dipinto, cm 102x88

 

La Mater dolorosa di questo rilievo ovale in marmo replica un’invenzione, divenuta preso celeberrima, di François Girardon, ovvero il suo morceau de réception all’Académie royale de peinture et de sculpture di Parigi, presentato dall’artista nel 1657 (cm. 85 x 65); già collocato nella prima sala dell’Académie, dove è attestato nel 1715 (anno della scomparsa del maestro), il rilievo passò poi al Musée des Monuments français nel 1795, all’École des beaux-arts nel 1816, e infine al Louvre, dove tuttora si conserva, nel 1816 (Musée du Louvre – Sculpture française II, Renaissance et temps modernes, I, Paris1998, p. 395, cat. RF 3148; Alexandre Maral, François Girardon (1628 – 1715). Le sculpteur de Louis XIV, Paris 2015, pp. 47 e 466, cat. S.19). Le fonti attestano l’esistenza di un modello preparatorio in terracotta, di un altro in gesso che venne donato al cancelliere Séguir nel maggio del 1657, e di una replica sempre in terracotta dorata, inviata dallo scultore a Troyes, dove è citata nel 1780; nessuna di queste versioni è attualmente nota (Maral, op. cit., p. 481, catt. Sem. 2-4). Un’ovale in bronzo di dimensioni minori, cm. 36,8 x 29,2, era nel 1971 nella collezione del conte Ciechanowiecki a Londra (Europäische Barockplastik am Niederrhein: Grupello und sein zeit, catalogo della mostra (Düsseldorf, Kunstmuseum), Düsseldorf 1971, p. 366, cat. 332). Sebbene quasi sovrapponibile al suo modello in marmo del Louvre, ad esempio nell’esatta posizione delle dita delle mani, questa versione presenta comunque qualche variante, soprattutto nella semplificazione delle pieghe del mantello sopra la testa e nell’espressione stessa della Madonna, meno pateticamente atteggiata. D’altronde anche il bronzo esposto a Düsseldorf nel 1971 differisce dal marmo di Giradon in molti passaggi delle pieghe del mantello (ad esempio in quelle che ricadano dal capo, a sinistra).

Stima   € 8.000 / 12.000
47

Giovanni Antonio Mazzuoli?

(Volterra 1639 - 1714)

ASSUNZIONE DELLA VERGINE MARIA

bozzetto in terracotta per una pala d’altare, cm 31x17,2x3,2

 

Fratello del più noto Giuseppe, scultore affermatosi a Roma collaborando col Bernini, Giovanni Antonio Mazzuoli alternò ai lavori in marmo di un certo impegno, spesso scolpiti traducendo modelli di Giuseppe, un’intensa attività di modellatore in stucco svolta per le chiese di Siena e del suo territorio, che sovente lo vide impegnato a realizzare complessi altari architettonici e movimentate pale ad altorilievo (Siena, Sant’Antonio da Padova della Tartuca; San Giuseppe dell’Onda; Sinalunga, Madonna delle Nevi; Volterra, Sant’Agostino etc.).

Di questi lavori si conoscono alcuni bozzetti preparatori, conservati a lungo nella bottega di famiglia - dove un inventario stilato nel 1767 registra ben quarantacinque terrecotte di Giovanni Antonio -, e confluiti sul 1810 nella Galleria allestita da Galgano Saracini nel suo palazzo senese (M. Butzek, Die Modellsammlung der Mazzuoli in Siena, in “Pantheon”, XLVI, 1988, pp. 75-102; G. Gentilini, in G. Gentilini e C. Sisi, Monte dei Paschi di Siena. Collezione Chigi-Saracini. 4. La scultura. Bozzetti in terracotta, piccoli marmi e altre sculture dal XIV al XX secolo, Firenze 1989, pp. 330-337 nn. 92-95; M. Butzek, Scultura barocca. Studi in terracotta dalla bottega dei Mazzuoli, catalogo della mostra, Petroio, Museo della Terracotta, Cinisello Balsamo 2007, pp. 40-43) che per la vivace, spumeggiante modellazione delle animate composizioni si prestano ad un riscontro con l’opera in esame, da ritenere comunque il bozzetto o un primo studio per una monumentale pala d’altare presumibilmente in stucco.

 

Stima   € 5.000 / 8.000
48

Orazio Samacchini

(Bologna, 1532 -1577)

ANNUNCIAZIONE

olio su tela, cm 107x87

 

In primissimo piano, con un coinvolgimento intenso da parte dello spettatore, viene rappresentato l’evento sacro dell'Annunciazione. Nella stanza in penombra l’arcangelo Gabriele, seguito da un vortice di angioletti, giunge maestoso sopra dense nubi. La stanza è illuminata dalla colomba dello Spirito Santo che irradia luce divina, mentre la Vergine, intenta a leggere, si ritrae dinanzi all’improvvisa apparizione.

In secondo piano, in una stanza adiacente, si muovono due figure dalle silhouette eleganti che tradiscono una derivazione parmigianinesca, cosa che ci porta a classificare il dipinto come opera bolognese del Cinquecento.

L'autore è Orazio Samacchini; le forme tornite delle figure, richiamano la tradizione emiliana di primo Cinquecento, echi di Prospero Fontana, oltre a riferimenti al disegno fiorentino e alle opere di Giorgio Vasari in particolare.

La tipologia dei volti e il modo in cui sono condotti gli “erculei” angioletti rimandano alle opere del Samacchini eseguite attorno agli inizi degli anni Settanta del Cinquecento, al ritorno dalla sua esperienza romana; basterà confrontare la nostra Annunciazione con la grande pala raffigurante l’Incoronazione della Vergine della Pinacoteca Nazionale di Bologna, per trovare tutti gli elementi che caratterizzano la nostra tela: ombrosità della scena, luce che colpisce e rileva forme chiuse e tornite di costruzione vasariana, un’accurata e meticolosa stesura pittorica esaltata da velature “metalliche”.

Di questa Annunciazione ne esistono altre due versioni, una conservata al museo di Tula (Russia) e una alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, anch’esse su tela e simili per dimensioni (cm 106x86).

Probabilmente il pittore, dato il successo della composizione, ha riutilizzato lo stesso cartone preparatorio in momenti diversi del suo percorso pittorico.

 

 

 

 

 

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
49

Pietro Ricchi, detto il Lucchese

(Lucca, 1606 – Udine, 1675)

TESTA FEMMINILE

olio su tela, cm 45,5x37,5

 

Bibliografia di riferimento

Paolo dal Poggetto, Pietro Ricchi 1606-1675, Rimini 1996

Pietro Ricchi 1606-1675, a cura di M. Botteri Ottaviani, Milano 1996

 

Il fascinoso dipinto qui presentato mostra un volto femminile che emerge in tutto il suo candore giovanile da un fondo ocra-grigio; non avendo la figura attributi identificativi potrebbe trattarsi di uno studio preparatorio per un personaggio che doveva far parte di una composizione più grande; allo stesso tempo la delicatezza e la perizia con cui è condotto il roseo volto potrebbero far pensare ad un'opera da stanza in sé già finita. In effetti la nostra fanciulla presenta i tratti somatici che ritroveremo nella maggior parte delle figure femminili sacre e profane dipinte da Pietro Ricchi e in particolare in una serie di pale d'altare eseguite nei primi anni Quaranta a Brescia e in Lombardia, in primo luogo con la pala in Santa Maria Assunta a Clusone (Bergamo).

In perfetto stato di conservazione, il dipinto si qualifica come un lavoro di altissima qualità all'interno della produzione del Lucchese.

La nostra elegante Testa femminile trova inoltre stringenti confronti con i volti femminili, pubblicati in dal Poggetto e Ottaviani, che sono datati proprio intorno al 1646-47.

In particolare la conformazione degli occhi della nostra fanciulla, che rende le figure del Lucchese ben riconoscibili e uniche, è analoga a quella della Testa di giovane donna della Galleria Tadini di Lovere (Bergamo) (Pietro Ricchi cit. a cura di Ottaviani, scheda 48, pp. 330-331); la teletta della Galleria Tadini è un abbozzo non finito forse ritagliato da una tela più grande, così come anche il busto femminile di collezione privata fiorentina (Paolo dal Poggetto cit. p. 313, fig. 180) doveva essere un frammento di una composizione più grande di cui non è identificabile il soggetto.

Il dipinto qui offerto si avvicina per livello qualitativo, stile e resa pittorica anche alle figure del quadro della Residenzgalerie di Salisburgo raffigurante Erminia cura Tancredi ferito, definito da Roberto Contini “opera quasi imparagonabile ad altre per essere più che mai al vertice della scala di qualità”. Gli incarnati sono infatti dolcissimi e arrotondati da ombre sensibili, con la notazione delle guance accese di rosso.

Tra le opere che la critica ritiene tra i più alti raggiungimenti del pittore si ricordano: La consegna delle chiavi, Rimini, Chiesa di San Giuliano (Pietro Ricchi cit. scheda 27, pp. 284-285, la Deposizione di Ghedi (Brescia), Chiesa parrocchiale, L’ultima cena, Asola (MN), Chiesa parrocchiale di San Andrea Apostolo (Pietro Ricchi cit. scheda 26, pp. 280-283) e l'Erminia cura Tancredi ferito poco sopra menzionato (Pietro Ricchi cit. scheda 52 pp. 336-337).

 

Stima   € 15.000 / 20.000
50

Domenico Mioni, detto Domenico da Tolmezzo

(Canale di Gorto 1448 - Udine 1507)

SAN GIACOMO MAGGIORE

statua in legno dipinto e dorato, cm 111x30x23

 

Bibliografia

M. Vezzosi, Domenico da Tolmezzo. Il ritorno di un santo pellegrino, Firenze 2011

 

Questa importante scultura lignea, che s’impone con ieratica potenza espressiva, raffigura l’apostolo Giacomo detto ‘il Maggiore’, restituendone nel volto accigliato l’indole focosa e intransigente, in atto di sorreggersi con il bastone da pellegrino, principale attributo iconografico, come fosse sul punto d’intraprendere il suo lungo viaggio per predicare il vangelo, esibito sul fianco, durante il quale avrebbe raggiunto la Spagna, dove, come è noto, il suo corpo si venera nel celebre santuario di Compostela in Galizia (denominato Santiago dal nome del santo), meta sin dal Medioevo di assidui pellegrinaggi.

L’opera è stata presentata nel 2011 dallo stesso Massimo Vezzosi (op. cit.), con una pubblicazione monografica di ineccepibile rigore scientifico cui si rimanda per una disamina più esaustiva, e riferita con riscontri puntuali a Domenico da Tolmezzo, protagonista indiscusso della felice stagione della scultura lignea in Friuli, responsabile di grandiose, affollate ancone dove la tradizione lagunare dei polittici tardogotici fiammeggianti - ancora richiesti dalla committenza locale - si coniuga con un più moderno vigore plastico e prospettico di sentore rinascimentale nonché pittore di talento aggiornato sugli esiti della cultura figurativa veneta e mantegnesca, conosciuta durante un probabile soggiorno a Venezia tra il 1469 e il 1475 (G. Marchetti, Domenico da Tolmezzo scultore, Udine 1962; G. Nicoletti, Domenico da Tolmezzo, Udine 1969; Mostra della scultura lignea in Friuli, Udine, Villa Manin di Passarano, a cura di A. Rizzi, Udine 1983).

Tra i riscontri attributivi più calzanti si segnalano le immagini del medesimo santo inserite nelle monumentali ancone lignee di San Pietro a Zuglio, eseguita tra il 1481 e il 1483 (il San Giacomo, trafugato insieme alle altre statue nel 1981, è tra le cinque recuperate ed esposte dal 2017 nel Civico Museo Archeologico di Zuglio), e della Parrocchiale di Forni di Sopra, databile sul 1500: figure quasi sovrapponibili a quella in esame nella caratterizzazione fisionomica, nella foggia e nell’andamento del mantello (pure interamente dorato), sollevato intorno all’avambraccio destro in modo da creare una profonda ansa sul ventre e una ricaduta a ventaglio lungo il fianco, o nella robusta articolazione delle mani nocchiute. Ineccepibile è anche la datazione proposta, intermedia alle due citate ancone, in prossimità della statua della Trinità conservata nella chiesa della Santissima a Coltura di Polcenigo, firmata e datata 1494, dove ritroviamo una medesima concentrazione formale, nei penetranti tratti del volto e nell’articolazione spigolosa del panneggio.

Possibile che, per le sue notevoli dimensioni, la statua si trovasse in origine al centro di una simile ancona dedicata proprio a San Giacomo, protettore dei pellegrini e quindi oggetto di particolare devozione in un territorio traversato dai perigliosi valichi alpini e dalle importanti vie di comunicazione con la Germania e l’Europa dell’Est; e dunque che attraverso adeguate ricognizioni della cospicua documentazione d’archivio su Domenico da Tolmezzo e sull’arte del legno in Friuli - un patrimonio oggetto di consistenti dispersioni -, possano emergere maggiori certezze sull’ubicazione originaria e magari la commissione dell’opera.

 

G.G.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
51

Tiziano Minio

(Padova ante 1511/1512 - Padova 1552)

MADONNA COL BAMBINO

pietra, cm 52,5x24,5x20,7

 

Per questa piccola Madonna col Bambino lapidea destinata verosimilmente, in ragione delle sue dimensione contenute, alla devozione privata, Luca Siracusano ha avanzato un’attribuzione in favore di Tiziano Aspetti, detto Minio, con un’ipotesi di datazione agli ultimi anni di attività documentata di questo scultore di origine padovana dalla breve ma fulminante carriera (Luca Siracusano, “Cose tutte piene d’invenzioni, capricci e varietà”. Proposte per Tiziano Minio a Padova e altrove, in “Nuovi Studi”, XVI/17, 2011, p. 88).  Come ha scritto lo studioso, “l’ampio velo che cala dal capo della Vergine, la posa irrequieta del Bambino in atto di benedire e la disposizione fuori asse del gruppo scultoreo, concepito per tagli diagonali, parla di una rielaborazione dei fortunati prototipi mariani della maturità di Sansovino, che alla metà del Cinquecento colpirono l’attenzione non solo degli scultori, ma anche dei pittori della Serenissima.” Siracusano ha proposto come confronto, per supportare il riferimento a Minio, con una figura femminile in stucco dell’ultima sala dell’Odeo Cornaro a Padova, databile al 1540 circa, dove ricorre il motivo delle pieghe a a “V” ripetute nella veste, subito sotto al collo. Per quanto riguarda il panneggio più ampio sulle gambe, a grandi falcate, è utile invece l’accostamento con l’analogo motivo del San Matteo in bronzo, a rilievo bassissimo, che orna il coperchio del fonte battesimale di San Marco a Venezia, opera documentata al 1545, che segnò forse l’apice della carriera del Minio, il quale condivise la commissione con Desiderio da Firenze (lo specialista che dovette affiancare Tiziano nella fusione del pezzo). Tiziano si era in realtà inizialmente formato nella tecnica della toreutica accanto al padre, Guido Minio (e anche Bernardino Scardeone, nel 1560, avrebbe lodato l’artista prima di tutto in quanto bronzista), ma per noi oggi egli è noto fondamentalmente nelle vesti di stuccatore, attivo in particolare in cantieri portati avanti accanto ad altri specialisti orbitanti nella cerchia di Sansovino (Silvio Cosini e Danese Cataneo). A Padova Minio godette della protezione e della stima di Alvise Cornaro, per il quale lavorò al già citato Odeo (e il cui nome compare in calce alla stipula del contratto per il coperchio del fonte marciano come garante del metallo e delle somme anticipate a Tiziano e a Desiderio da Firenze). Nonostante il suo nome sia oggi legato in primo luogo alla produzione in stucco, Minio dovette essere senz’altro artista assai versatile, attivo forse anche come intagliatore di sculture lignee (Andrea Bacchi, scheda in Opere scelte, a cura di Massimo Vezzosi, Firenze 2002, pp. 33-37, cat. 3) e certamente autore di altre opere lapidee, tra le quali dovrebbe rientrare il San Giovanni Battista del Nelson-Atkins Museum of Arts di Kansas City (Siracusano, art. cit., p. 88). D’altronde già Giorgio Vasari, nelle poche ma dense righe dedicate a “Tiziano da Padova” nell’edizione giuntina delle sue Vite (1568; Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di Rosanna Bettarini, commento secolare di Paola Barocchi , Firenze 1966-1987, VI, p. 189) citava opere in stucco, bronzo e marmo e rimpiangeva la precoce perdita di un vero e proprio talento: “rimase il mondo privo d’un eccellente e valoroso artefice.”

 

A.B.

Stima   € 12.000 / 18.000
52

Pittore genovese della metà del sec. XVII

RITRATTI DI UBERTUS E CONRADUS DELLA VOLTA

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 235x76,5

(2)

 

Le iscrizioni poste in calce alle due tele ci informano dettagliatamente circa l’identità dei personaggi effigiati, membri dell’antica famiglia consolare genovese dei Della Volta che, a partire dal XIV secolo, diede vita all’albergo Cattaneo (istituzione consortile di famiglie genovesi), anteponendo quindi al loro questo nuovo cognome.

I Cattaneo della Volta si distinsero nell’attività mercantile nel Mediterraneo e nel nord Europa e nel 1528 furono posti a capo di uno dei 28 clan familiari della neocostituita Repubblica genovese.

Il ponderoso volume dedicato alla lunga storia di questa famiglia, recentemente pubblicato (I Cattaneo della Volta. Vicende e protagonisti di una millenaria famiglia genovese, a cura di Elena Chiavari Cattaneo e Andrea Lercari, Genova, 2017), ha reso noto un manoscritto cartaceo acquarellato, datato tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, con la ricostruzione genealogica dei della Volta, dove i principali personaggi della discendenza sono raffigurati con l’abbigliamento significativo delle cariche ricoperte.

Il console e il condottiero effigiati sulle tele qui presentate possono pertanto essere identificati con gli immediati discendenti del capostipite della famiglia, Conradus, indicato come vivente nel 938.

Facenti parti presumibilmente di una serie di dipinti volta a glorificare, analogamente all’albero genealogico citato, la loro nobile e antica discendenza, i due ritratti furono presumibilmente commissionati intorno alla metà del Seicento, quando la famiglia continuava a prosperare e ad affermare il proprio prestigio patrocinando imprese decorative e commissionando opere a illustri artefici quali Van Dyck, autore, nel terzo decennio di quel secolo, della superba Elena Grimaldi Cattaneo oggi alla National Gallery of Art di Washington.

Nel nostro caso la famiglia si rivolse a un artista suo concittadino, protagonista della grande stagione barocca genovese che prese avvio, oltre che dalla straordinaria presenza di artisti forestieri come il menzionato Van Dyck, con il ritorno in patria poco più di un decennio dopo di Gio. Benedetto Castiglione, detto il Grechetto.

Sono le esuberanti e piene pennellate di questo grande maestro, a Roma a stretto contatto con Bernini e Poussin, ad aver ispirato quelle che, con un andamento a tratti nervoso e corsivo, fanno emergere dal fondo bruno le smaglianti cromie delle due tele e, su tutte, il rosso intenso della veste consolare di Ubertus e del mantello di Conradus.

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
53

Scultore umbro prossimo a Fiorenzo di Lorenzo

(Perugia 1440 circa - 1522)

SAN GIROLAMO PENITENTE

statua in legno dipinto, cm 90x65x60, su base rettangolare in legno dipinto e dorato

 

La complessione anatomica del torace, ben definita ma senza ostentazione, che sembra rivelare un ascendente verrocchiesco tradotto con modi più semplificati, ammorbiditi e accostanti, coniugata al deliberato arcaismo nella barba raccolta in trecce spiraliformi, insieme alla postura genuflessa del santo penitente, con lo sguardo e il palmo della mano sinistra rivolti al cielo, riproposta in molti dipinti del Perugino e della sua cerchia (Washington, National Gallery of Art; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria; etc.), suggeriscono di collocare quest’opera nell’Umbria di fine Quattrocento, dove era ancora ben viva la gloriosa tradizione della scultura lignea dipinta (All’ombra di sant’Ercolano. Sculture lignee tra Medioevo e Rinascimento nella Diocesi di Perugia, catalogo della mostra, Perugia, Museo del Capitolo di San Lorenzo, a cura di C. Fratini, Perugia 2009).

Nello specifico la figura trova puntuali riscontri in una statua lignea raffigurante San Francesco conservata nell’Oratorio di San Bernardino a Perugia - parimenti composta e delicata, e simile anche nella conformazione ossuta della testa su cui svetta un ciuffetto ben rilevato - che Laura Teza ha ricondotto su basi documentare all’ancona in forma di nicchia, ora nella Galleria Nazionale dell’Umbria, dipinta da Fiorenzo di Lorenzo nel 1487 per l’attigua chiesa di San Francesco al Prato (Per Fiorenzo di Lorenzo pittore e scultore. Una proposta di ricomposizione della nicchia di San Francesco al Prato a Perugia e altre novità, Perugia 2003; Indagini sulla statuaria lignea a Perugia nella seconda metà del Quattrocento, in L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, atti del convegno, Pergola, 9-12 maggio 2002, a cura di G.B. Fidanza, Perugia 2005, pp. 65-90). È infatti plausibile che Fiorenzo, ben noto come pittore prossimo agli esordi del Perugino col quale avrebbe condiviso una formazione fiorentina presso il Verrocchio, essendo figlio di un maestro di legname si fosse dedicato anche alla scultura lignea, assecondando una vocazione politecnica ben radicata nella bottega verrocchiesca.

Un’attività che ha trovato nella critica numerose conferme (in ultimo P. Mercurelli Salari, in «Fece di scoltura di legname e colorì». Scultura del Quattrocento in legno dipinto a Firenze, catalogo della mostra, Firenze, Galleria degli Uffizi, a cura di A. Bellandi, Firenze 2016, pp. 214-215, n. 27), ma ancora tutta da approfondire, alla quale la stessa Teza (opp. cit.) propone di ricondurre anche il Crocifisso nella chiesa perugina di Santa Maria di Monteluce, sovrapponibile all’opera in esame nella definizione anatomica del torace e delle gambe, nella modellazione increspata del perizoma in stoffa gessata e soprattutto nell’intaglio delle barba in ciocche ritorte.

G.G.

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
54

Giovanni Comin

(Treviso 1647 circa - Venezia 1695)

INVERNO E AUTUNNO

terracotta patinata, Inverno cm 49x16,5x13,5, Autunno cm 51x20x14

 

All’Inverno già pubblicato da chi scrive nel 2007 (Andrea Bacchi, scheda in Jacopo Sansovino, Annibale Carracci ed altri contributi, Firenze 2007, pp. 72-79, cat. 7) si è aggiunto ora un Autunno riferibile sempre al veneto Giuseppe Comin. Le due terrecotte sono senz’altro riconducibili all’area veneta, con una datazione alla seconda metà del Seicento, ma rispetto all’irrefrenabile, capricciosa e traboccante vena barocca del caposcuola degli scultori attivi nella Serenissima in quella stagione, il fiammingo Giusto Le Court, e, almeno in parte, anche dei suoi allievi ed imitatori più diretti, quali ad esempio Enrico Merengo e Michele Fabris detto l’Ongaro, queste due figure di Stagioni appaiono più salde e composte. Le profonde pieghe del panneggio dell’Inverno, pur nel loro pieno, magmatico plasticismo, non presentano quei tipici svolazzi che sono una cifra caratteristica del linguaggio di Le Court, quasi la sua maniera fosse qui trattenuta e frenata da un latente classicismo. Utile, in questo senso, è il confronto fra l’Angelo annunciante del fiammingo in San Lorenzo a Sebenico e quello in tutto simile, ma assai più composto soprattutto nel panneggio, nella Cappella Ballarin di San Pietro Martire a Murano, recentemente riferito a Comin proprio per una “serie di ‘timidi’ accenti classicheggianti” (Tamir Tulić, Per Giovanni Comin: l’arredo marmoreo secentesco della cappella Ballarin a Murano, in “Arte Documento”, 25.2009, p. 166). La stessa pacatezza caratterizza gli Angeli, sempre in marmo, sul timpano di un altare nella chiesa abbaziale di San Paolo d’Argon, presso Bergamo (Giuseppe Sava, Scultori veneziani del Sei e Settecento a Brescia e a Bergamo: Giovanni Comin, Pietro Baratta, Antonio Gai, in “Arte veneta”, LXXII, 2015, pp. 202-203). Man mano che si accresce il corpus di opere di questo scultore veneto è più facile metterne a fuoco la cifra stilistica, caratterizzata appunto da un’adesione con riserve al pieno barocco lecourtiano: sembra quindi riconfermabile il riferimento a Comin dell’Inverno e dell’inedito Autunno qui presentati. È possibile che si trattasse di terrecotte preparatorie, tanto rifinite da essere indicate come modelletti di presentazione, per statue da giardino raffiguranti tutto il ciclo delle quattro Stagioni. D’altronde Tommaso Temanza (1705-1789) nel suo Zibaldon appuntava che Giovanni “non faceva altro, che modelare e le Statue in pietra le facevano due suoi giovani uno chiamato Onghero di nazione tedesco e l’altro Giacomo Femenuzzol veneto” (Tommaso Temanza, Zibaldon, a cura di Nicola Ivanoff, Venezia-Roma 1963, p. 101): la produzione di terrecotte di Comin doveva insomma essere assai notevole, e se fino ad oggi non ne sono state ancora identificate questo si deve senz’altro al fatto che il collezionismo di terrecotte a Venezia non sembra fosse altrettanto diffuso ed articolato quanto a Roma. È davvero significativo, in fondo, che una delle più notevoli attestazioni di una fortuna anche commerciale di terrecotte venete di età barocca sia in una lettera di Quintiliano Rezzonico a Livio Odescalchi (1680): la vendita dei “bellissimi modelli in creta fatti dal medesimo Giusto”, appena defunto (Marco Pizzo, “Far Galleria”: collezionismo e mercato artistico tra Venezia e Roma nelle lettere di Quintiliano Rezzonico a Livio Odescalchi, in “Bollettino del Museo Civico di Padova”, LXXXIX, 2000, p. 52, nota 23), veniva implicitamente proposta ad un grande collezionista romano. Ed in ogni caso, quei modelli, seppure ‘bellissimi’, erano rimasti nella bottega dell’artista, magari come materiale di lavoro, fino alla sua morte, non andando ad alimentare prima il collezionismo locale.

 

A.B.

Stima   € 15.000 / 20.000
55

Pietro Grammorseo

(1490 circa – Casale Monferrato, prima del 1531)

SAN GREGORIO MAGNO E SANTO STEFANO

tempera grassa su tavola e aureole in lamina d’oro, cm 126x52

 

Bibliografia di riferimento

G. Romano, Casalesi del Cinquecento: l'avvento del manierismo in una città padana, Torino, 1970

 

Il dipinto qui offerto è senza alcun dubbio un’opera straordinaria e probabilmente una tra le più importanti tra quelle appartenenti alla collezione Vezzosi.

Eccezionale, in primo luogo, in virtù del perfetto stato di conservazione, quasi un miracolo per un’opera eseguita nel primo ventennio del Cinquecento: sia il supporto, una tavola di quattro centimetri di spessore (mai ridotta e solo impercettibilmente arcuata) sia la superficie pittorica (che dimostra non essere stata sottoposta ad interventi di pulitura da svariati secoli, e forse addirittura mai toccata) si presentano infatti integri lasciando immaginare, sotto l’antica vernice fortemente ingiallita ma ripristinabili una volta che l’opera venga sottoposta ad una precisa ed accorta pulitura, lo splendore dei colori, con toni luminosi nei bianchi e nelle lumeggiature sui piviali, nei verdi acidi della tenda, nei gialli dei riquadri del pavimento e nei bianco-azzurri di parti delle vesti.

Le opere certe di Pietro Grammorseo, pittore rarissimo, si contano sulle dita delle mani. Il corpus dell’artista è stato oggetto di particolare studio da parte di Giovanni Romano nel suo fondamentale Casalesi del Cinquecento L’avvento del manierismo in una città padana, Torino, 1970, che del pittore non esita a dire “Con il grande dipinto della Sabauda il Grammorseo sembra portare la sua ricerca personale a un confine in pratica invalicabile, a meno di non possedere il genio visionario di Grünewald …” (G. Romano in: Casalesi del Cinquecento cit. p. 35).

L’opera di collezione Vezzosi, riemersa anni addietro dal mercato estero dove era passata senza attribuzione, è stata riconosciuta al pittore da Alessandro Bagnoli che la pubblicherà in sede scientifica. Essa si qualifica come un ritrovamento eccezionale essendo la parte sinistra di un polittico che, perduta la tavola centrale, (forse una Madonna col Bambino), ha nel Musée des Beaux-Arts a Besançon il laterale destro ove sono raffigurati i santi Giovanni Battista e Lorenzo.

Il nostro dipinto, oltre che andare ad aggiungere un importante tassello alla perduta composizione, si rivela fondamentale alla comprensione dell’intera opera e della sua spazialità: il laterale di Besançon ci è infatti pervenuto tagliato praticamente per metà in senso orizzontale, con i santi ridotti a tre quarti di figura: la tavola decurtata misura cm 63,5x49, e conserva dunque quasi interamente la sua larghezza. Nonostante un mediocre stato conservativo riguardante anche il fondo, resta ancora parzialmente leggibile lungo il margine superiore del frammento il drappo fissato da chiodi che, nel nostro dipinto, disegna una serie di arcate sopra le teste dei due santi, anticipando una soluzione che nel pannello con i Santi Antonio e Defendente ora alla Galleria Sabauda dal polittico in S. Francesco a Casale Monferrato l’artista vorrà declinare in modo ancor più originale e bizzarro.

Documentato per la prima volta a Casale Monferrato nel 1521, quando si accorda con il suocero Francesco Spanzotti, fratello di Martino, per la condivisione dell’attività della bottega, Pietro Grammorseo è presente in città fino al 1527 e risulta già morto nell’estate del 1531. La sua produzione attualmente nota e quella documentata da fonti e pagamenti è circoscritta tra il 1523, data del polittico con il Battesimo di Cristo dipinto per S. Francesco a Casale su commissione di Margherita de Guiscardis (Torino, Galleria Sabauda) e il 1526 iscritto sulla Concezione della Vergine già nella parrocchiale di Boscomarengo e ora nella National Gallery di Dublino. Le opere casalesi furono viste da Luigi Lanzi nel 1793, dieci anni prima che le soppressioni napoleoniche disperdessero il patrimonio ecclesiastico di Lombardia e Piemonte, e descritte con maggiore dettaglio nel Ritratto della città di Casale del canonico Giuseppe De Conti del 1794. Insieme ai documenti pubblicati da Alessandro Baudi di Vesme, queste fonti hanno consentito a diversi studiosi di cose piemontesi (Vittorio Viale, Anna Maria Brizio, Noemi Gabrielli) e in particolare a Gianni Romano e da ultimo a Simone Baiocco di ricostruire la produzione del Grammorseo, consistente in polittici spesso firmati nelle tavole principali ma invariabilmente smembrati e dispersi rispetto al luogo di origine.

È importante sottolineare come la pala ancora frammentaria, della quale fanno parte i due laterali – di Besançon e Vezzosi – è la prima opera conosciuta del pittore fiammingo(?)-italiano, quindi di rilevante interesse per la corretta comprensione dello sviluppo di questo misterioso ed affascinante artista che seppe volgere in un linguaggio personale e di altissima qualità elementi düreriani, piemontesi e leonardeschi. “Se proprio dovessi immaginare un primo avviamento di Grammorseo nella terra di origine lo penserei in un ambiente più tedeschizzante, tra Joos van Cleve e Jacopo de’ Barbari. Soprattutto il dürerismo addomesticato di quest’ultimo può aver interessato il giovane pittore, e se ne può trovare forse qualche traccia nella sua prima opera nota: intendo questi due santi a mezza figura che ho conosciuto attraverso una fotografia Bulloz (n. 15 407, ancora con la vecchia attribuzione al Bergognone), e che al Museo di Besançon ho già trovato esposti col giusto nome suggerito anni fa da Roberto Longhi” (G. Romano in: Casalesi del Cinquecento cit. p. 28).

È da notare, a questo proposito, la propensione di Jean Gigoux (Besançon 1806-Parigi 1894) collezionista originario del pannello compagno del nostro nel museo di Besançon, per la pittura fiamminga e tedesca del primo Cinquecento: oltre alla celebre Ebbrezza di Mosè, opera estrema di Giovanni Bellini, tra i dipinti della sua raccolta legati al museo si contano ad esempio diverse opere di Cranach e, per una coincidenza che riconduce al nostro luogo di origine, due coppie di angeli di Gaudenzio Ferrari, frammenti di una pala del Cinquecento piemontese.

 

Stima   € 100.000 / 150.000
56

Battista Lorenzi, detto Battista del Cavaliere

(Settignano, 1527 - Pisa, 1594)

UN GIOVANE ASSOPITO E UN BAGNANTE (SCENA MITOLOGICA?)

bassorilievo ‘a stiacciato’ in marmo, cm 27,3x34,5x3

 

Bibliografia di riferimento

H. Utz, Skulpturen und andere Arbeiten des Battista Lorenzi, in “Metropolitan Museum Journal”, 7, 1973, pp. 37-70

 

Concepito e finemente intagliato come un’antica gemma o un prezioso cammeo, tanto da richiedere un apprezzamento tattile - proprio come suggeriva la trattatistica rinascimentale per simili rilievi ‘a stiacciato’ -, questo squisito medaglione ovale marmoreo di piccole dimensioni era certamente destinato all’arredo di uno studiolo o di un camerino, dove, in compagnia di ‘anticaglie’ e altre memorie di gusto archeologico, il suo seducente soggetto profano poteva evocare la bellezza e la libertà arcadica del mito e della letteratura greco-romana, sollecitando, con una iconografia sfuggente e forse criptica, un’esegesi interpretativa erudita. L’immagine in primo piano dell’avvenente giovanetto ignudo, mollemente assopito all’ombra di un alberello, con accanto un fedele cagnolino, sulla ripa di uno specchio d’acqua dove sullo sfondo compare un bagnante intento a detergersi le gambe, può infatti ricordare numerosi personaggi ben noti della mitologia greca, ma sembra sottrarsi a una identificazione esaustiva e convincente: Endimione sprofondato nel suo sonno di eterna giovinezza, il superbo Narciso insensibile alle attenzioni di molti giovani, Ermafrodito sulle rive del lago ove fu visto dalla ninfa Salmace, o anche, per la posizione adagiata, Adone e Giacinto.

I riferimenti all’antico riguardano anche gli aspetti formali, in quanto le due figure si collegano a modelli ben noti diffusi attraverso la glittica o i sarcofagi romani - divinità fluviali, naiadi, Diomede col Palladio, etc. -, ma rivisitati accentuandone la complessità posturale con un virtuosismo che presuppone un attento studio dei nudi di Michelangelo dipinti nella volta della Cappella Sistina in Vaticano (1508-12) o disegnati nel perduto cartone della Battaglia di Cascina che avrebbe dovuto affrescare nel Palazzo della Signoria a Firenze (1505-6), cui attinsero, come è noto, innumerevoli artisti, primo tra i quali lo scultore Baccio Bandinelli.  D’altra parte l’anatomia tersa e l’assottigliato allungamento proporzionale del nudo in primo piano, rivelano un’adesione ai moduli del manierismo di metà Cinquecento, forse attraverso un aggiornamento sull’esperienza del Cellini, richiamando la Ninfa eseguita nel 1542 per Fontainebleau (Parigi, Musée du Louvre), o, nella posa languida con la mano sopra la testa reclinata, il Narciso scolpito intorno al 1560, rimasto nella bottega celliniana fino alla morte del maestro (1571) e poi confluito nei giardini medicei (Firenze, Museo Nazionale del Bargello). Rammentano qui il Cellini persino la cornicetta modanata e l’ovato compresso del medaglione, identico a quello del rilievo in bronzo raffigurante un Levriero acquisito nel 1545 dal duca Cosimo I dei Medici (anch’esso al Bargello); mentre l’articolazione della figura principale è praticamente sovrapponibile alla Venere dipinta dal Bronzino nel 1553 per Alamanno Salviati (Roma, Galleria Colonna).

Tali coordinate culturali orientano dunque la paternità del marmo in esame verso Battista Lorenzi (Giovanni Battista di Domenico Lorenzi), detto Battista del Cavaliere proprio in ragione del suo discepolato nella bottega del cavalier Bandinelli, artista particolarmente legato alle memorie michelangiolesche, avendo scolpito nello studio ch’era stato del Buonarroti la statua destinata al monumento funebre in Santa Croce (1564-72), dal 1560 in strettissimi rapporti col Cellini, al punto da subentrare nel 1571 nella sua bottega, e da quel momento privilegiato dalla prestigiosa committenza del figlio di Alamanno Salviati, Jacopo, per il quale fu impegnato anche come restauratore di marmi antichi (Utz, op. cit.; A. Fazzini, Collezionismo privato nella Firenze del Cinquecento. L’"appartamento nuovo" di Jacopo di Alamanno Salviati, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia”, 1, 1993, pp. 191-224).

Per quanto sia difficile, tra le opere di tipo prevalentemente statuario ascritte oggi al Lorenzi, trovare riscontri tipologici per il nostro rilievo, non mancano le conferme stilistiche a una tale proposta: ad esempio, nella sintesi levigata degli incarnati e soprattutto nella peculiare conformazione tondeggiante della testa del nudo disteso, caratterizzata dal naso appuntito e da una capigliatura a caschetto con le ciocche proiettate in avanti, che ben si confronta con quella di Alfeo nel gruppo scolpito intorno al 1568 per la Villa il Paradiso di Alamanno Bandini (New York, Metropolitan Museum of Art). L’opera che qui si presenta induce dunque ad approfondire la conoscenza dei marmi da studiolo e della produzione profana di piccolo formato del Lorenzi, ad oggi attestata quasi solo da una Venere al bagno di collezione privata che ben dialoga con i nostri bagnanti (C. Pizzorusso, in Schede fiorentine e una scultura di Girolamo Campagna, a cura di M. Vezzosi, Firenze 2001, pp. 8-13 n. 1): una produzione verosimilmente assimilabile ai sensuali rilievi di soggetto mitologico di Francesco Mosca, detto il Moschino, a lungo attivo, fino alla morte nel 1578, nel cantiere del Duomo di Pisa, quello stesso in cui trascorse l’ultimo decennio della sua vita Battista Lorenzi.

G.G.

 

Stima   € 15.000 / 25.000
57

Giovanni Battista Bernero

(Cavallerleone, Cuneo 1735 - Torino 1796)

DONNA CON BAMBINO

terracotta, cm 45x34x25

 

Questa squisita terracotta, di una grazia e levità quasi pienamente rococò, è stata originariamente presentata al pubblico con un riferimento a Francesco Ladatte (Antiquari a Stupinigi, Savigliano 2004, p. 103), poi attribuita a Giovanni Battista Bernero (Andrea Bacchi, scheda in Jacopo Sansovino, Annibale Carracci ed altri contributi, Firenze 2007, pp. 102-111, cat. 11) e infine, più recentemente, a Stefano Maria Clemente (Vittorio Natale, scheda in Spiritelli, amorini, genietti e cherubini: allegorie e decorazione di putti dal Barocco al Neoclassico, catalogo della mostra, Torino, Museo di arti decorative Accorsi-Ometto, a cura di Vittorio Natale, Cinisello Balsamo 2016, p. 64, cat. 3.8). La critica è quindi sempre stata concorde nel riferire l’opera all’ambito piemontese del Settecento, e la proposta in favore di Bernero sembra essere la più convincente. Il panneggio della donna, ampio ed esuberante, trova un confronto con una delle opere maggiori dello scultore, il Beato Amedeo in marmo del 1764-65 sull’altare maggiore dalla cappella della Curia Regia nel Palazzo Reale di Torino. Bernero, entrato nel 1757 nella ‘Scuola del disegno per li pittori, scultori e lavoranti di tappezzeria’ diretta dal pittore di origine francese Claudio Francesco Beaumont, ebbe sempre un rapporto privilegiato con il gusto parigino, anche grazie al suo possibile apprendistato con il già citato Ladatte. E proprio un dialogo a distanza con la Parigi di François Boucher potrebbe offrire un aiuto per una corretta lettura iconografica di questa terracotta. Già identificata, ipoteticamente, con una Carità (Bacchi, cit.), è stata poi presentata più genericamente come una Figura allegorica (Natale, cit.), ma nessuna delle due ipotesi sembra calzante: la presenza di un solo putto (che non è neanche rappresentato nell’atto di reclamare il latte dal seno della donna) suggerisce di escludere la prima identificazione, e l’assenza di qualsivoglia attributo rende difficile accettare la seconda. Potrebbe invece trattarsi, più semplicemente, anche se forse sorprendentemente, di una variazione sul tema della Madonna col Bambino, probabilmente il soggetto più frequentato in assoluto della storia dell’arte occidentale, riletto però alla luce di quella fascinazione per pastorelle e scene bucoliche che informa tanta parte della pittura di Boucher: è difficile immaginare la raffigurazione di una Madonna con una spallina calata sulla spalla destra, secondo una soluzione senz’altro poco in linea con la tradizione rinascimentale e barocca italiana, ma forse questa terracotta non raffigurava davvero un soggetto preciso, quanto piuttosto l’abbraccio tra una madre e il figlio.

A.B.

 

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
58

Giacomo Pacchiarotti

(Siena, 1474 – 1540)

RITRATTO DI GIOVANE

olio su tavola, cm 35,8x23,5

(trasporto ottocentesco dalla tavola originale)

 

La tavoletta raffigura l’immagine di una ragazza molto giovane ritratta a mezzo busto, secondo la moda degli inizi del secolo XVI, che per gli spiccati caratteri pinturicchieschi si colloca nell’ambiente artistico senese di primo Cinquecento, entro una congiuntura di stile fortemente suggestionata da quanto fatto da Bernardino di Betto nella Libreria Piccolomini in Duomo (1502-1508). A quell’impresa prese parte, soprattutto per i lavori della volta, pure Giacomo Pacchiarotti: un maestro che, per gran parte della sua lunga vita, sarebbe rimasto condizionato da quella esperienza e dalla pittura del Pinturicchio, e cui questo dipinto si può riferire (come suggerito peraltro da Alessandro Bagnoli).

A lungo confusa col più anziano Pietro Orioli, col più giovane Girolamo del Pacchia e col misterioso Matteo Balducci, la personalità artistica del Pacchiarotti è stata ricostruita soltanto da una trentina d’anni, grazie a una lunga serie di studi, avviati da Alessandro Angelini (Da Giacomo Pacchiarotti a Pietro Orioli, in “Prospettiva”, 29, 1982, pp. 72-78) e Fiorella Sricchia Santoro (‘Ricerche senesi’. 1. Pacchiarotto e Pacchia, in “Prospettiva”, 29, 1982, pp. 14-23), come riassunto in un paio di profili biografici dell’artista messi a punto di recente (Serena Vicenzi, ad vocem Pacchiarotti Giacomo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXX, Roma 2014; Gabriele Fattorini, in The Bernard and Mary Berenson Collection of European Paintings at I Tatti, a cura di Carl Brandon Strehlke e Machtelt Brüggen Israëls, Milano-Firenze 2015, pp. 509-510).

Ormai è chiaro che Giacomo - ben affermato nella Siena del suo tempo tanto da affrescare entro il 1509 la volta della “camera bella” del palazzo di Pandolfo Petrucci, ora al Metropolitan Museum di New York, e lavorare tra il 1509 e il 1514 alla perduta decorazione della cappella intitolata dai Piccolomini a Sant’Andrea, in San Francesco - non seppe mai aggiornarsi con decisione sulla “maniera” del Sodoma e di Beccafumi, ma restò sempre ancorato allo spirito umbro dei suoi inizi. Lo dimostra non solo il debole affresco con la Madonna col Bambino e Santi datato 1520 nel museo di Casole d’Elsa, ma anche quello assai più impegnato - e non privo di qualche accenno di apertura sul Sodoma - del refettorio dell’antico monastero di Santa Marta a Siena, che sappiamo eseguito nel 1522 e solo di recente recuperato grazie a un restauro. Le opere più significative del Pacchiarotti risalgono tuttavia al primo decennio del Cinquecento, quando eseguì la pala per l’altare della famiglia Borghesi che si conserva ancora nella chiesa di Santo Spirito a Siena e gli affreschi della pieve di Sant’Ippolito ad Asciano, dove Giacomo guarda alla pittura di Perugino (che nel 1506 ultimò la Crocifissione per la cappella Chigi in Sant’Agostino a Siena) e di recente si è cercato di riconoscere addirittura la mano di Raffaello (cosa assolutamente da escludere).

Questo dipinto, che pare essere stato trasportato sull’attuale tavoletta da una tavola più antica e più spessa, deve risalire ancora al primo decennio del Cinquecento. Per quanto la superficie pittorica abbia sofferto, nelle fattezze della fanciulla si riconoscono quei caratteri un po’ rigidi che sono tipici della pittura di Giacomo Pacchiarotti fin dall’intervento alla volta della Libreria Piccolomini: l’ovale allungato, il nitido disegno degli occhi scuri e degli archi delle sopracciglia, il gusto ornamentale del copricapo e dell’acconciatura. Si direbbe una versione assai meno aulica e più intima dei molti ritratti, anche femminili, che percorrono il ciclo pinturicchiesco della Libreria Piccolomini. A tal proposito merita evidenziare che, stando alle fonti, nei decenni a cavallo del 1500 le tavole con ritratti femminili dovevano essere piuttosto diffuse a Siena, ma oggi sono una vera rarità, pur trovando due testimonianze assai alte nel Ritratto di giovane di Neroccio di Bartolomeo e in quello di Girolamo di Benvenuto che si conservano nella National Gallery of Art di Washington.

 

Gabriele Fattorini

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
59

Simone Peterzano

(Venezia, 1535 – Milano, 1599)

ALLEGORIA DELLA MUSICA

olio su tela, cm 124,5x98,7

 

Bibliografia

L'allegoria della Musica di Simone Peterzano, allievo di Tiziano e maestro di Caravaggio, a cura di E.M. Dal Pozzolo, Firenze, 2012, pp. 38-49

 

Il bel dipinto qui offerto rientra nella produzione felice delle suonatrici di liuto attribuite a Simone Peterzano, importante esponente del tardo manierismo lombardo.

La fortuna riscossa da questa composizione è facilmente comprensibile se ci immaginiamo lo spettatore ammaliato dalle grazie di una figura femminile discinta, una Venere ma anche una cortigiana.

Il buio della stanza viene illuminato dal candore niveo dell'incarnato della giovane donna, nella scia delle belle fanciulle di Giorgione, Tiziano e Palma il Vecchio.

La bellezza fisica della donna e l'estasi del canto accompagnato dal liuto completavano senz'altro la malìa che il dipinto riusciva riverberare nella memoria del committente.

Ritornato a Milano dopo l'apprendistato veneziano con Tiziano, Peterzano divulgò e reiterò la composizione che ebbe grande successo realizzando questa terza versione autografa. Della serie delle "suonatrici di liuto" questa offerta è la più grande, scelta che deriva dal desiderio di aumentare l'altezza dando una maggiore monumentalità alla composizione.

La provenienza originaria della tela è sconosciuta, abbiamo solo una comunicazione orale del proprietario che fa riferimento ad una collezione privata bresciana.

Sul verso era riportato un cartiglio, adesso riportato sulla tela di rifodero, con scritto "N. 62" e una parola non comprensibile.

Ad eccezione del formato più grande il dipinto è identico a quello già presso la Galerie Virginie Pitchal di Parigi per cui è possibile immaginare l'utilizzo dello stesso cartone.

La datazione dell'opera si può far risalire agli anni Ottanta del Cinquecento, durante il periodo milanese, per via della luce calda, soffusa e ambrata derivata dallo studio delle opere di Leonardo e dei leonardeschi.

                                                          

Stima   € 25.000 / 35.000
60

Nicodemo Ferrucci

(Fiesole, 1575 – Firenze, 1650)

SANT'ELENA ABBRACCIA LA CROCE

olio su tela, cm 76x60,5

 

Appartenente ad una famiglia di artisti, Nicodemo era figlio dello scalpellino Michelangelo Ferrucci e fratello minore dello scultore Andrea; il pittore si formò con il Passignano, col quale ebbe modo di continuare a collaborare, meditando poi sull'opera dell'Empoli e soprattutto del Cigoli. Un anno a Roma (1609), sempre in compagnia del Passignano, completò il suo linguaggio pittorico improntato ad una semplice rappresentazione del naturale, in linea coi dettami della Controriforma, e a un uso del colore di sapore veneto trasmessogli appunto dal Cigoli.

Pittore di successo nella Firenze della prima metà del Seicento, Nicodemo riscosse i favori di casa Medici; sue ad esempio le decorazioni dei chiostri di Ognissanti e Santa Trinita e quelle in Casa Buonarroti.

Un’espressione profonda, mesta eppure solenne scaturisce dallo sguardo assorto e sereno rivolto verso lo spettatore della nostra Sant’Elena, che è stata assegnata al pittore da Claudio Pizzorusso. La pittura, di notevole qualità negli incarnati, come nella pelliccia soffice che orna il viola del manto e il delicato velo che dalla fronte scende sulle spalle, può essere messa a confronto con le tonalità presenti nell'Omaggio a Michelangelo, Firenze, Museo di Casa Buonarroti, oppure con le teste femminili presenti nella Deposizione, già Prato, Farsetti Arte, e, in maniera risolutiva, con il volto della seconda santa a destra  nel dipinto Madonna della Misericordia e santi (Firenze, Convento di Santa Maria Maggiore).

 

Stima   € 7.000 / 9.000
31 - 60  di 129