DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

11 OTTOBRE 2017

DA MERCANTE A Collezionista: CINQUANT'ANNI DI RICERCA PER UNA PRESTIGIOSA RACCOLTA

Asta, 0220
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17.30
Esposizione

FIRENZE
7-10 Ottobre 2017
orario 10-13 / 14–19 
11 Ottobre 2017
orario 10-13
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1000 € - 100000 €

Tutte le categorie

91 - 120  di 129
91

Giovanni Martino De Boni

(Venezia 1753-Roma dopo il 1817)

RITRATTO DEL PRINCIPE ABBONDIO REZZONICO,  1800 circa

olio su tela, cm 101x74,5

 

Esposizioni

Mostra del ritratto Italiano dalla fine del sec. XVI all’Anno 1861, Firenze, 1911, p. 80, n. 16;

Quadreria 2009. Dalla Bizzarria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, Mostra a cura di G. Capitelli, 23 aprile – 12 giugno 2009, Galleria Carlo Virgilio, Roma, 2009, pp. 36-39, scheda di S. Grandesso

 

Bibliografia

G. Pavanello, Antonio Canova e i bassorilievi Rezzoni, in "Bollettino del Museo Civico di Padova", LXXIII, 1984, p. 147, fig. 2

M. De Grassi, in G. Pavanello (a cura di), La pittura nel Veneto. L'Ottocento, Milano, 2003, t. II, p. 710

 

Nipote di papa Clemente XIII e celebre per il ritratto di Pompeo Batoni, ora nel museo di Bassano del Grappa, Abbondio Rezzonico fu un importante uomo politico, magistrato, militare e collezionista della Roma di metà Settecento. Svolse anche un ruolo fondamentale come uomo di cultura e animatore di circoli culturali dei quali fece parte anche lo scrittore e drammaturgo tedesco Wolfgang Goethe;  ebbe un ruolo molto importante come mecenate, proteggendo Giovan Battista Piranesi e introducendo per primo Antonio Canova nell’ambiente artistico romano. Qui lo scultore poté maturare la sua svolta classicista e conoscere i suoi primi committenti tra i quali lo stesso Rezzonico che gli ordinò come prima opera la scultura Apollo che si incorona oggi al J. Paul Getty Museum di Los Angeles. Durante il periodo della Rivoluzione Francese si recò in viaggio in Austria e Germania insieme allo scultore e all’amico pittore Giovanni Martino De Boni, autore del ritratto qui offerto. Quest’ultimo si era trasferito a Roma dopo la vittoria del primo premio al concorso dell’Accademia di Parma del 1779 con l’opera Silvia sorella di Pirro che addomestica una cerva oggi alla Galleria Nazionale. Nella città eterna ebbe assidui rapporti con Canova: fu incaricato di incidere opere canoviane, di eseguire alcuni ritratti dello scultore e di sua madre e altri dipinti  tra cui cinque vedute di Possagno.

Il ritratto di Abbondio Rezzonico, qui offerto, non è registrato negli inventari Rezzonico né in quelli della villa bassanese; giunto per via ereditaria alla famiglia Castelbarco, come il ritratto di Batoni, apparteneva al conte Emanuele nel 1911 quando fu esposto alla Mostra del ritratto italiano ed è rimasto presso la famiglia fino a tempi recenti. L’effigiato è rappresentato con un’iconografia intimistica e realista  vicina allo spirito dell'Illuminismo e con uno stile descrittivo sobrio e raffinato che mette in risalto la veste e il brano di natura morta con gli strumenti da scrittura. 

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
93

Andrea Torresani

(Brescia 1695-1728)

RITRATTO DI CACCIATORE

olio su tela, cm 94,5x76

 

Bibliografia

M.Tanzi, Un ritratto di Andrea Torresani, pittore della realtà in Lombardia, in "Prospettiva", Firenze 2002, pp. 89-92

C. Parisio, Giorgio Duranti 1687-1753, Brescia 2004, p. 11, fig. 3

Sette ritratti lombardi dalla tarda maniera alla maniera pura, testi di Marco Tanzi e Massimo Vezzosi, Firenze 2009, pp. 16-21                                                                            

 

Il dipinto si segnala immediatamente per la elevata temperatura qualitativa, la sapiente impaginazione della scena e, soprattutto, per la resa realistica dell’effigiato che si volge allo spettatore con un’aria sospesa tra canagliesca indolenza, ironia e sarcasmo. Si tratta di un parallelo, in qualche modo più eccentrico e beffardo, della produzione contemporanea di Giacomo Ceruti e Fra Galgario: il suo autore è all’evidenza un altro protagonista, sino ad ora sconosciuto, della “pittura della realtà” nella Lombardia del Settecento, capace di guardare ai due campioni attivi a Brescia e Bergamo, ma attento anche alle varianti più nordicizzanti di questo linguaggio, che passano attraverso Giacomo Francesco Cipper, il Todeschini, ed il curioso Almanach. Un prete-cacciatore, diviso tra religiosità (scarsa, a leggere senza pregiudizi negli abissi ambigui dello sguardo) e passione venatoria, con le bellissime gabbiette sullo sfondo, il civettone antropomorfo sul davanzale ed il cagnetto devoto.

Una serie di sigle estremamente personali qualificano lo stile di questo pittore misterioso, a partire dalla straordinaria capacità di penetrazione, quasi psicanalitica, nei recessi dell’animo dell’effigiato. La presa sulla realtà disinvolta: un personaggio che non si preoccupa di farsi ritrarre in un ambiente secondario del palazzo, con i bottoni slacciati, guardando “in camera” con la massima naturalezza, quasi sornione. Poi brani di pittura bellissima, da parte di un artista che si dimostra in qualche modo – come il ritrattato – sprezzante: le mani enormi e così caratterizzate, con la sinistra, poggiata sul libro, che sembra persino indossare un guanto, tanta è la rapidità, abile e strafottente, di esecuzione; il gusto pungente e quasi parodistico nella definizione dei volatili e del cane. Insomma un enigma di prima grandezza nella pittura lombarda di primo Settecento, equidistante, sul versante dello stile, tra Milano da una parte, Brescia e Bergamo dall’altra.

Andrea Torresani viene ricordato dalle fonti come importante pittore di paesaggio e  soprattutto come ritrattista; va citato infatti l'interessante taccuino di disegni, conservato presso l'Accademia Carrara di Bergamo, in cui i ritratti sono caratterizzati da un realismo graffiante e da una sottile vera ironica.

                

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
94

Stefano Tofanelli

(Nave, Lucca 1752- Lucca 1812)

RITRATTO DI POETESSA

olio su tela, cm 99,5x75

 

L'inedito dipinto qui offerto è stato riconosciuto da Stella Rudolph come opera di Stefano Tofanelli in una comunicazione scritta alla proprietà (2005) e datato dalla studiosa nei primi anni Novanta del Settecento, il periodo cioè in cui l’artista lucchese si afferma a Roma sia come raffinato ed erudito pittore di storia che come ritrattista, richiesto in primo luogo da colleghi, intellettuali e artisti.

Tra le opere eseguite per i palazzi dell’aristocrazia romana ricordiamo innanzi tutto l’Apoteosi di Romolo dipinta per il cosiddetto Gabinetto Nobile in palazzo Altieri, alla cui decorazione in puro gusto Neoclassico parteciparono tra gli altri Antonio Cavallucci e Anton von Maron, nell’ambito dei lavori del nuovo appartamento che videro riuniti i maggiori talenti del momento sotto la direzione dell’architetto Giuseppe Barbieri.

Celebre l’autoritratto del pittore, effigiatosi insieme al padre e al fratello Agostino, accanto all’immagine dell’amico e maestro Bernardino Nocchi, dipinto nel 1783 e conservato al Museo di Roma a palazzo Braschi, come pure quello dello scultore Christopher Hewetson nell’atto di scolpire il busto-ritratto di Gavin Hamilton (Colonia, Wallraf-Richartz-Museum), e ancora quello dello scultore Carlo Albacini conservato all’Accademia di San Luca.

È appunto in qualità di ritrattista che Tofanelli sarà chiamato a ricoprire una posizione ufficiale alla corte lucchese di Elisa Bonaparte Baciocchi a partire dal 1805.

Il dipinto qui offerto, la cui committenza rimane per il momento ignota, presenta il contrasto tra la veste e gli attributi classicheggianti della figura e il relativo naturalismo del volto, che ci conferma trattarsi appunto di un ritratto e non di semplice figura ideale.

La corona di alloro che le cinge il capo e la lira da braccio qualificano la giovane donna come Erato, Musa della Poesia: la nostra figura si aggiunge quindi a quella ideale galleria di poetesse, letterate e erudite che a Roma trovano spazio e riconoscimento nell’Accademia dell’Arcadia, e i cui tratti ci sono tramandati da vari artisti contemporanei che le ritraggono, sebbene idealizzate, nelle vesti classicheggianti che l’incipiente Neoclassicismo riporta alla moda.

Tra queste, la più famosa è senza dubbio la poetessa lucchese Teresa Bandettini, in Arcadia Amarilli Etrusca, ritratta da Angelica Kauffmann e da Gaspare Landi, appunto con gli stessi attributi che caratterizzano la nostra ignota poetessa.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
95

Scuola neoclassica, fine sec. XVIII

IL GIUDIZIO DI VIRGINIA

olio su tela, cm 98x134,5

 

Il dipinto qui offerto narra la storia di Virginia, eroina di una leggenda romana collegata all’abolizione del decemvirato legislativo del V sec. a.C. e alla restaurazione della libertà plebea.

La leggenda, narrata già dai più antichi annalisti, viene riportata da Tito Livio nell’opera Ab urbe condita, III, 44.

Virginia, che per la sua bellezza era insidiata dal decemviro Appio Claudio, uno tra gli uomini più malvagi del secondo decemvirato, fu uccisa da suo padre Lucio Verginio che volle sottrarla in tal modo al disonore. Insorti la plebe e l’esercito, il decemvirato fu abbattuto, e Appio Claudio si uccise. La leggenda s’ispirava probabilmente al concetto che il disprezzo per l'onore delle donne è l'estremo e il più ripugnante eccesso della tirannide, della quale provoca infine la rovina. L’episodio è analogo a quello di Lucrezia romana, che si suicidò perché disonorata da Sesto Tarquinio.

Gli antefatti della storia sono i seguenti: il decemviro Appio Claudio, che si era invaghito di lei, tentò di corrompere la giovane con denaro e lusinghe, ma ella resistette; poi, approfittando dell'assenza del padre di lei che era impegnato in una campagna militare, convinse un suo cliente, Marco Claudio, a sostenere che Virginia fosse una sua schiava, per poter rispondere totalmente della donna. Ma le persone presenti nel foro sapevano che era una menzogna conoscendo le origini romane della fanciulla, per questo Marco Claudio portò la causa in tribunale, presieduto dal proprio mandante Appio Claudio. I difensori della ragazza testimoniarono la paternità romana di Virginia e chiesero che ogni decisione fosse sospesa fino al ritorno del padre. Il momento solenne che viene rappresentato nel nostro dipinto è proprio questo e precede l’estrema decisione di Lucio Verginio di sacrificare la vita della figlia pur di mantenerne intatta l’onestà.

Il soggetto di Virginia è stato più volte usato anche nella letteratura; del 1777 è la tragedia Virginia di Vittorio Alfieri, quindi di poco antecedente al momento in cui è stato realizzato il nostro dipinto.

Si tratta di un soggetto che ben rispondeva al sogno dell’antichità classica vagheggiato dagli artisti dell’epoca.

Il pittore del nostro Giudizio di Virginia, probabilmente un francese di passaggio in Italia verso gli anni Ottanta del Settecento, risolve la composizione del quadro in uno schema ordinato e razionale di chiari e scuri, di colori studiati armonicamente, di forme geometriche che mettono bene in scena la tragica sorte della fanciulla che è qui ancora bloccata nella sospensione del giudizio.

 

Stima   € 7.000 / 9.000
96

Giovanni Battista Dell'Era

(Treviglio 1765- Firenze 1799)

RITRATTO MASCHILE

olio su tavola, cm 46,5x35,5    

 

Bibliografia

Sette ritratti lombardi dalla tarda maniera alla maniera pura, testi di M. Tanzi e M. Vezzosi, Firenze 2009, pp. 22-25

                                                 

 

L'eccellente stato di conservazione di questa tavoletta permette di apprezzare a pieno l'intenso realismo di questo ritratto di giovane uomo che, tramite l'ausilio di una luce decisa ed implacabile, emerge con prepotenza visiva dal fondo scuro del dipinto. Il sapiente taglio compositivo, solo all'apparenza scontato, vede il personaggio raffigurato in primissimo piano muovere, tramite accorgimenti assai calibrati, da destra verso sinistra a cercare la luce e il contatto con lo spettatore. Concorrono all'idea di questo movimento rotatorio sia la disposizione leggermente in obliquo delle spalle che a destra si perdono nel buio sia, per contrapposto, lo scatto della testa che si gira perentoriamente verso il lato opposto come a rispondere ad un improvviso richiamo. Lo sguardo è femo e deciso, sottolineato dai tratti volitivi del volto, e reclama a sé quella attenzione dovuta alle persone di alto lignaggio.

L'utilizzo della tavola di noce quale supporto per la stesura pittorica in anni già addentro al secolo diciottesimo circoscrive in generale l'area di esecuzione del ritratto nell'Italia del nord e, scendendo nel particolare, una ampia casistica ne conferma la sua realizzazione tra Parma e Milano.

La stesura pittorica assai ricca e densa, la partitura cromatica del volto caratterizzata da forti contrasti di luci ed ombra che, soprattutto nell'abito e nel jabot tagliano i volumi in squadrature geometriche, sono fattori che consentono di assegnare il dipinto alla attività giovanile del pittore trevigliese Giovan Battista Dell'Era, intorno al 1783-1784 circa, uno dei personaggi di spicco del Neoclassicismo italiano attivo tra Milano, Roma e Firenze. 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
97

Pietro Benvenuti

(Arezzo 1769 - Firenze 1844)

RITRATTO DI DOMENICA BENVENUTI

olio su tela, cm 64x48

 

Esposizioni

Pittore imperiale. Pietro Benvenuti alla corte di Napoleone e dei Lorena, catalogo della mostra, Palazzo Pitti, Firenze, 10 marzo - 21 giugno 2009, n. 152

 

Bibliografia

L. Fornasari, Pietro Benvenuti. Ritratto di signora, in Schede fiorentine e una scultura di Girolamo Campagna, catalogo a cura di M. Vezzosi, Firenze 2001, pp. 69-71

L. Fornasari, Pietro Benvenuti, Firenze 2004, pp. 359, 362 fig. 302

Pittore imperiale. Pietro Benvenuti alla corte di Napoleone e dei Lorena, catalogo della mostra (Palazzo Pitti, Firenze, 10 marzo - 21 giugno 2009) a cura di L. Fornasari, C. Sisi, Firenze 2009, p. 203 n. 152

 

 

"Il dipinto con Ritratto di signora costituisce un'aggiunta importante alla lunga lista di ritratti eseguiti da Pietro Benvenuti e che - parzialmente indicati in un inventario ottocentesco compilato da Antonio Albergotti tra il 1810 e il 1815, oltre che elencati in numero maggiore, ma non completo, nelle brevi note biografiche dell'artista trascritte da Ugo Viviani nel 1921 -  sono stati però fino ad oggi rintracciati solo in parte.

Come per l'intera, nonché molto intensa, attività pittorica neoclassica del Benvenuti - unicamente ricondotta prima d'ora alla matrice davidiana-camucciniana - anche per gli apprezzati ritratti, studi recenti hanno contribuito a chiarire quanto complessa fosse invece la formazione culturale dell'aretino, offrendo attraverso il recupero di dipinti e di disegni, nuovi dati critici relativi sia alla fase giovanile dell'artista, che a quella matura, compreso l'ultimo contestato periodo di magistero accademico fiorentino.

Sebbene per il momento non sia possibile l'esatta identificazione del personaggio femminile rappresentato, è tuttavia probabile che il quadro in esame sia da includere nella serie di ritratti "in mezza figura grandi al vero" realizzati dal Benvenuti con particolare assiduità tra il 1810 e il 1830 collocandone l'esecuzione in un giro di anni compreso tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio.

Tale datazione esclude la sua presenza nell'inventario Albergotti.

Premesso che la presunta provenienza originaria del dipinto e il confronto con opere certe del Benvenuti rendono sicura l'attribuzione, è possibile anche individuare nell'impostazione del ritratto accenti stilistici che confermano la difficile e incerta, ma comunque interessata, posizione dell'aretino nei confronti dei nuovi ideali estetici romantici, non compresi comunque nel loro più profondo valore e risolti, come in questo caso, in modo molto personale.

Il taglio piuttosto semplificato della figura, l'assenza di connotazioni architettoniche o comunque di suppellettili d'arredo, l'accentuato realismo del volto, la raffinatezza della capigliatura, il candore del carnato, enfatizzato sia dalla scollatura dell'abito, che dal contrasto ottenuto dal colore scuro della pelliccia e dall'uso di due bianchi perlacei diversi per il collo e per il pizzo del corpetto, sono elementi che permettono un riferimento diretto con esempi dipinti da Francesco Hayez tra il 1827 e il 1830.

L'apprezzamento da parte di Pietro Benvenuti del successo ricevuto da Hayez è già stato messo in evidenza a riguardo della tela con l'Incontro di Corso Donati e Piccarda, rintracciata in una collezione privata aretina e databile intorno al 1840.

Senza raggiungere l'intensità drammatica di celebri esempi femminili hayeziani, la sensualità della Piccarda benvenutiana, palesando nel dettaglio delle braccia la conoscenza di manifestazioni romantiche esasperate, esce dai rigidi schemi della cultura accademica di cui in quegli anni il Benvenuti si dimostrava ufficialmente accanito sostenitore.

Ricordando quanto amichevoli fossero stati i rapporti tra Pietro e Hayez, incontratisi di sicuro più di una volta, è possibile affermare che il ritratto in esame documenta in anticipo rispetto al dipinto aretino l'interesse per il veneziano, segnando nello sviluppo del ritratto benvenutiano un ulteriore passaggio verso una fase diversa, immediatamente successiva alla decorazione della Sala d'Ercole di Palazzo Pitti, risalente quindi all'ultimo decennio di attività e già annunciata con il ritratto di Antonio Capacci, datato 1818 e con quello di Luigi Cittadini, pressappoco contemporaneo.

Per il Ritratto di signora, esempio quindi di cauto approccio da parte di Pietro verso il ritratto romantico, la datazione intorno al 1830, resa certa dal tipo di abbigliamento e di capigliatura, trova ulteriore conferma nel confronto con coevi lavori di Hayez, quali il Ritratto della contessa Luigia Douglas Scotti d'Adda o il Ritratto della contessa Litta Greppi Albani.

Anche nella versione benvenutiana l'immagine è sintetizzata nell'espressione del volto, priva però di intensità drammatica o malinconica, ma resa particolarmente vivace dall'accenno al sorriso della bocca ed esaltata dal colore dello sfondo, nonché dalla tinta forte dell'abito.

Ugualmente al nostro ritratto, alla fase tarda del Benvenuti fa riferimento un bozzetto di proprietà privata e che raffigura Leopoldo II e la sua famiglia. Si tratta di uno studio per un ritratto 'privato domestico' databile intorno al 1828. Tale data si deduce dalla presenza della figlioletta più piccola, che morta a soli sette anni nel 1834, è ritratta in braccio alla madre mostrando circa un anno di età."

 

L. Fornasari, Pietro Benvenuti. Ritratto di signora, in Schede fiorentine e una scultura di Girolamo Campagna, catalogo a cura di M. Vezzosi, Firenze 2001, pp. 69-71

 

Stima   € 8.000 / 10.000
105

Giuseppe Bezzuoli

(Firenze 1784 - Firenze 1855)

RITRATTO FEMMINILE

olio su tela, cm 57,5x45

 

Giuseppe Bezzuoli nacque a Firenze il 28 novembre 1784. Figlio del pittore prospettico e fiorista Luigi Bazzoli (e così si firmò G. fino al 1822, per poi firmarsi Bezzuoli o Bezzoli, ritenendosi discendente da un'antica famiglia Bezzoli), studiò dapprima medicina e chirurgia pur frequentando, all'Accademia, la scuola del nudo diretta da Desmarais e Luigi Sabatelli; finché nel 1807 si iscrisse regolarmente come allievo di Pietro Benvenuti. Vinto il premio triennale (1812) con un Aiace che difende il corpo di Patroclo, si dette a far studi di paese e di costume nella montagna pistoiese, eseguì alcune decorazioni in palazzi fiorentini, dipinse numerose tele di soggetto romantico e cominciò a fare qualche ritratto. Dopo un breve soggiorno a Venezia tornò a Firenze dove lavorò per committenze pubbliche e private, affrescò palazzi, ville ed eseguì tele a soggetto storico-romantico cavalleresco. Intanto nel 1829 era stato chiamato dal Pietro Benvenuti come aiuto del maestro di pittura ed è lo stesso Benvenuti a designarlo ufficialmente come suo successore nel '44. Ma le cure dell'insegnamento non diminuirono la sua attività e nell'ultimo decennio eseguì ancora numerosi quadri di soggetto storico. Tra i suoi ritratti più belli eseguiti tra il 1827 e il '44 ricordiamo quelli di Gino Capponi, Lorenzo Bartolini, Elisabetta Ricasoli, Luigi de Cambray Digny col figlio, Giovanni Carmignani, Marianna Rucellai de' Bianchi, Maria Antonietta granduchessa. Morì a Firenze nel 1855. Ottimo disegnatore, il Bezzuoli fu ligio agli schemi e ai precetti dell'accademia sia nelle tele sia negli affreschi; se preferì soggetti romantici, alla moda di Francia, non ebbe dei pittori romantici d'Oltralpe le belle qualità di chiaroscuro e di colorito. Ma nei ritratti, davanti al vero, il B. dimenticò teorie e precetti accademici e fece cose gustosissime e tali da essere avvicinate ai ritratti dell'Ingres, che probabilmente egli vide operante in Firenze nel 1820.

Stima   € 4.000 / 6.000
106

Giovanni Maria Benzoni                                                    

(Songavazzo 1809 - Roma 1873)                                             

INVERNO                                                                   

marmo, alt. cm 70                                                         

firmato e datato "Roma A. 1865"

                                                                          

I busti con le Stagioni furono una delle molte invenzioni più volte replicate da Giovanni Maria Benzoni. Nel regesto biografico della prima monografia moderna dedicata allo scultore bergamasco, che conobbe un enorme successo in pieno Ottocento, veniva in genere indicato il numero di versioni che Benzoni aveva realizzato di ciascuno dei suoi più celebri marmi: ben quarantacinque, ad esempio, della Speranza in Dio, o trentacinque della Riconoscenza. Benzoni, attivo a Roma a partire dalla fine degli anni Venti, ebbe una fortuna di portata europea, ed anche extraeuropea, finendo per essere l'ultimo rappresentante di una grande tradizione artistica che era nata con Antonio Canova in Italia ed aveva conquistato tutto il continente (Roberta Bertazzoni, Giovanni Maria Benzoni: la riscoperta di uno scultore oltre il Neoclassicismo, in "La rivista di Bergamo", LXXXV, 2016, pp. 42-49). L'opera che meglio sintetizza la continuità con il padre del Neoclassicismo in scultura, e anche il capolavoro più noto dello scultore bergamasco, è certamente l'Amore e Psiche del 1845 della Galleria d'Arte Moderna di Milano (Fernando Mazzocca, Canova e il Neoclassicismo, Milano 2008, p. 295; Stefano Grandesso, Modelli e fortuna della scultura ideale: la declinazione della grazia nel soggetto di Psiche, in Roma fuori di Roma: l'esportazione dell'arte moderna da Pio VI all'Unità (1775-1870), a cura di Giovanna Capitelli, Stefano Grandesso, Carla Mazzarelli, Roma 2015, pp. 244-245), replicato anch'esso almeno otto volte (una versione fu eseguita per Nicola I, ed è ancora oggi all'Hermitage di San Pietroburgo). D'altronde Benzoni interpretò al meglio anche il clima di rinnovato fervore religioso della Roma di Pio IX: della sua Immacolata, raffigurata anche in uno degli affreschi di Francesco Podesti nella sala dell'Immacolata Concezione in Vaticano, egli eseguì almeno nove versioni, una delle quali inviata a Ginevra, Notre-Dame, ed un'altra alla Cattedrale di Ossory in Irlanda (Giovanna Capitelli, Mecenatismo pontificio e borbonico alla vigilia dell'Unità, Roma 2011, pp. 61 e 67). Nella già citata monografia su Benzoni, sotto l'anno 1851 si riportava l'esecuzione di un Autunno per il marchese Antonio Busca di Milano, e poco dopo, sotto l'anno 1853, quella di una serie completa delle Stagioni per Henry Channis, di New York (Giuseppe Rota, Un artista bergamasco dell'Ottocento: Giov. Maria Benzoni nella storia della scultura e nell'epistolario famigliare, Bergamo 1936, p. 490). Giuseppe Rota non indicava quindi quante repliche delle Stagioni fossero state licenziate da Benzoni negli anni successivi, ma senz'altro lo scultore ne eseguì diverse. Nel 1864 la National Gallery of Victoria di Melbourne, in Australia (Galleria che era stata fondata appena tre anni prima), ne acquistò una serie completa, in seguito alienata. Proprio l'Inverno, una magnifica e nobile figura di vecchio, pare conoscesse un successo straordinario. Un esemplare del 1865 è passato all'asta da Sotheby's a Londra il 15 novembre del 2005 (M. BENZONI. F.1865); un altro, firmato e datato 1857, sempre da Sotheby's il 5 dicembre 2012, e ancora un altro, firmato e datato 1871, è stato battuto da Bonhams, ancora a Londra, il 29 gennaio 2014; sono registrati anche passaggi all'asta di versioni della Primavera e dell'Autunno.

 

A.B.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
107

Ambrogio Nava

(Milano 1791 - Milano 1862)

LE GHIACCIAIE DI VILLA CAGNOLA A INVERIGO

olio su tela, cm 99x74

firmato e datato "1822" in basso a destra

 

Esposizioni

Quadreria 2009. Dalla bizzaria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, Carlo Virgilio & C., Roma, 23 aprile - 12 giugno 2009, n. 23

 

Bibliografia

F. Giacomini in Quadreria 2009. Dalla bizzaria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, catalogo della mostra (Carlo Virgilio & C., Roma, 23 aprile - 12 giugno 2009) a cura di G. Capitelli, Roma 2009, pp. 60-61

 

"La tela, firmata e datata 1822, va con ogni probabilità identificata con il dipinto citato nel volume Viaggio pittorico nei monti di Brianza di Federico e Caterina Lose, pubblicato a Milano nel 1823. A corredo delle ventiquattro incisioni dipinte all'acquatinta che costituivano il pregio del volume, i Lose fornivano una serie di notizie "storico-artistiche" di estremo interesse. Nel commentare la veduta della villa Cagnola, i due artisti osservavano infatti: "Fra gli oggetti che somministrano nel territorio d'Inverigo argomento di studio pittorico merita particolarmente d'essere fatta menzione d'una folta macchia d'annose piante che difendono dai raggi solari le ghiacciaie della casa Cagnola, da cui con molto accorgimento trasse partito il sig. conte Ambrogio Nava milanese, pittore dilettante di paesaggio di merito distinto, per la composizione di un quadro che all'esposizione annuale del 1822 formava in quel genere uno dei più belli ornamenti delle sale dell'I.R. Accademia di Brera" (Viaggio pittorico [1823] 1999, p. 137).

Nato nel 1791, Ambrogio Nava fu figura di spicco dell'aristocrazia milanese negli anni del dominio napoleonico e nella successiva fase di dipendenza dall'Austria. Presidente dell'Accademia di Brera nel 1850-54, la sua fama è legata principalmente - oltre all'oltraggio subito dal suo ritratto, realizzato da Hayez, durante l'esposizione del 1852 a Brera) (Hayez 1983, n. 122, p. 250) - alla sua attività di pittore paesaggista e di architetto. A quest'ultimo impegno appartiene la sua opera più nota, ovvero il restauro della guglia maggiore del duomo di Milano, prossima alla demolizione e salvata da Nava, a quel tempo e poi per molti anni amministratore e in seguito architetto del duomo stesso, con un discreto, felice intervento di consolidamento. L'impresa è narrata dall'artista stesso nel volume Relazione dei restauri intrapresi alla gran guglia del duomo di Milano nell'anno 1844 ed ultimati nella primavera del corrente 1845, pubblicato a Milano nel 1845, a cui seguì qualche anno più tardi una nuova pubblicazione, Memorie e documenti storici intorno alle origini, vicende e riti del Duomo di Milano (1854), che attesta invece l'interesse di Nava per studi di tipo storico-architettonico sulla Fabbrica milanese. L'attività di architetto, che sembra assorbire le sue energie soprattutto negli anni della maturità, annovera inoltre una serie di altri interventi, tutti concentrati in Brianza, luogo a cui l'artista, come del resto buona parte della nobiltà milanese, appare particolarmente legato. A lui si devono la serra (la "Limonaia") della villa di famiglia costruita attorno al 1820 da Luigi Canonica, a Monticello; il campanile della chiesa parrocchiale della Purificazione di Maria Vergine nel paesino di Torrevilla, presso Monticello; il progetto per gli apparati decorativi della tardosettecentesca chiesa parrocchiale di Santa Margherita ad Albese-Cassano (1860-62); infine, il completamento delle fabbriche lasciate incompiute dal marchese architetto Luigi Cagnola: la cappella dei Santi Gervasio e Protasio a Tregasio-Triuggio, nota come il "Pantheon della Brianza" (1842), e la villa di Inverigo, a sua volta caratterizzata dalla cupola che copre l'imponente massa del salone, per questo soprannominata "La Rotonda" (Ronzoni 2003, pp. 97-107).

E' proprio questo inconfondibile edificio a comparire sullo sfondo del dipinto qui esposto: adagiato sulla sommità di una collina, il severo quadrilatero voltato a cupola costituiva il punto focale del complesso architettonico iniziato da Luigi Cagnola nel 1813 come propria residenza privata. Ricordato anche da Stendhal nel suo Journal du voyage dans la Brianza (1818), l'edificio vantava un eccezionale panorama su quel luogo di delizie e di impareggiabile bellezza che era allora la Brianza e si caratterizza tuttora per la retorica monumentalità, inconsueta da quelle parti, oltre che per l'eclettismo dei modelli estetici presi a riferimento da Cagnola.

Diversi anni dopo la realizzazione di questo dipinto, nel 1834, un anno esatto dopo la morte del marchese-architetto, Nava ne avrebbe sposato la vedova, Francesca d'Adda, venendo dunque di fatto in possesso della villa, di cui completò la costruzione - comunque già avanzata in tutte le sue parti - con l'aiuto dell'allievo di Cagnola Francesco Peverelli.

Il dipinto rappresenta una delle più significative opere note del Nava pittore: sono stati fino ad ora individuati, infatti, ben pochi dei numerosi paesaggi realizzati da questo nobile che, secondo una moda molto diffusa nell'aristocrazia milanese, si dedicava per diletto alle arti figurative (Le Arti Nobili 1994, pp. 97, 148). Assidua la sua presenza alle mostre annuali di Brera, dove, forte anche di un giovanile soggiorno romano che certo gli consentì di venire a contatto con le molteplici tendenze della pittura di paesaggio, espose con una qualche continuità dal 1812 al 1844 (Gozzoli-Rosci 1975, p. 51, nota 19). Come detto, questo dipinto, insieme ad altri due "paesi a olio", fu presentato nel 1822. Esso si fonda su una declinazione lucidamente descrittiva del tradizionale paesaggio classico, sulla scia di quella linea analitica portata ai più alti esiti da Jakob Philipp Hackert nella seconda metà del Settecento. Gli elementi architettonici - il rustico edificio della ghiacciaia, la villa sul fondo - così come le figurette dei pastori, ancora di chiara ascendenza settecentesca, appaiono dominati dalla mole maestosa, in qualche modo già romantica, dei lecci, esaltati dall'attento gioco delle luci e delle ombre".

 

F. Giacomini in Quadreria 2009. Dalla bizzaria al canone: dipinti tra Seicento e Ottocento, catalogo della mostra (Carlo Virgilio & C., Roma, 23 aprile - 12 giugno 2009) a cura di G. Capitelli, Roma 2009, pp. 60-61

Stima   € 8.000 / 10.000
108

Clemente Alberi

(Bologna 1803 - Bologna 1864)

RITRATTO DEL DOTTOR GIUSEPPE MAZZACORATI

olio su tela, cm 89x66

firmato e datato "1838" in basso a sinistra

 

Il dipinto che qui presentiamo raffigura uno degli uomini illustri della Bologna dell'800.

Giuseppe Gaetano Mazzacorati, nato a Bologna nel 1803, laureato in Giurisprudenza, fu fondatore della Banca Agricola, e fino al 1859, rappresentante dell'Impresa dei Lotti pontifici. Come latifondista partecipò alla prima Esposizione nazionale organizzata a Firenze nel 1861 presentando campioni di riso cinese e novarese.

Assieme al padre, è schedato nel Libro dei compromessi nella rivoluzione del '31, perché "si pronunciò molto trasportato pel liberalismo in entrambe le epoche, in favore del quale spese assai. Somministrò sussidi a chi si dimostrò esaltato liberale, e che fosse bisognoso. Istigò al partito rivoluzionario, disse infamità contro il Governo, e si dichiarò uno dei nemici dei preti. Ora apparisce moderato, ma non lo è". Nel 1847 fu creato nobile di Bologna, e nel 1877 affrancò il canone feudale in favore del Regio Demanio nazionale, succeduto alla Camera dei Tributi in Roma, per conservare il pieno diritto al titolo di marchese della Massetta e ville di Pagno, Rivo e Casalecchio nel Montefeltro, di cui era stato investito suo padre Giovanni. Si ricorda che il primo maggio 1860, in occasione della visita del re Vittorio Emanuele II a Bologna, Giuseppe Mazzacorati aspettò il Re, proveniente dalla Toscana, ai piedi della sua villa fuori porta Santo Stefano. Accogliendolo sulla sua carrozza scoperta, lo accompagnò per l'ultimo tratto di strada fino alla porta, e poi per via Santo Stefano, Cartoleria Nuova (ora via Guerrazzi), Strada Maggiore, Mercato di Mezzo (via Rizzoli), e piazza del Nettuno fino a San Petronio. Al termine della visita, il Re decorò Giuseppe con una medaglia di benemerenza in bronzo, per avere, in qualità di soldato della Guardia Nazionale a cavallo, prestato al sovrano un servizio d’onore "in guisa da meritarsi tutta la sua soddisfazione". Morì a 83 anni il 27 maggio 1887, per "pneumonite esaurimento vitale".

 È quindi comprensibile come il Mazzacorati abbia affidato l'esecuzione del proprio ritratto all'Alberi, pittore riconosciuto come il miglior ritrattista in Bologna.

Stima   € 3.000 / 5.000
109

Carlo Markò

(Budapest 1822 - Mosca 1891)

IL CASTELLO DELLA VERRUCA VICINO PISA

olio su tela, cm 46x61,5

firmato e datato "1875" in basso a destra

retro: etichetta sul telaio con titolo

 

Sono ancora oggi visibili le rovine del Castello e la rocca della Verruca che furono in passato teatro di cruente battaglie tra Pisani e Fiorentini. Il sito era già occupato da una fortificazione dal 780, ma la rocca vera e propria fu costruita solo nel XIII secolo, ed è sopravvissuta come struttura militare attiva fino alla definitiva caduta di Pisa nel 1503. Le ultime strutture ad esser costruite, in vista dell'ultimo decisivo scontro con i Fiorentini, furono le quattro torri angolari, due orientali di grossa dimensione e due occidentali più piccole, con feritoie e balestriere.

Nel 1509, tuttavia, la fortezza fu ristrutturata da Antonio da Sangallo a cui vengono attribuiti i due bastioni poligonali e da Luca del Caprina, della bottega del Francione, a cui viene attribuita la grossa torre cilindrica su uno spigolo del perimetro. La fortezza fu in seguito dismessa venendo a mancare la sua posizione di frontiera e quindi la sua utilità difensiva.

La struttura della rocca aveva un'importanza cruciale per la Repubblica Pisana, perennemente in guerra con Firenze. Il castello era il nucleo di un sistema di fortificazioni sparse sul territorio circostante, tra cui possiamo elencare i castelli di Caprona, Vicopisano e Buti. Le comunicazioni tra questi avamposti e la rocca, così come quelle tra la rocca e la città di Pisa, avvenivano con lenzuola, stendardi, fumo, fuochi o colpi di artiglieria attraverso un codice che permetteva di informare repentinamente sui movimenti delle truppe nemiche in avvicinamento. In caso di scarsa visibilità il segnale veniva passato attraverso le varie torri dislocate sui monti pisani: la Torre dello Spuntone, il castellare di Asciano, il castello di Agnano e il castello di San Giuliano.

Nei primi anni del Novecento venne avviato un progetto per la realizzazione di una croce monumentale, in risposta all'iniziativa di papa Leone XIII di porre il simbolo della cristianità sulle cime più alte d'Italia. La prima pietra venne posata dall'Arcivescovo di Pisa Maffi nel 1904, ma i lavori non proseguirono per il blocco imposto dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali, decisa a preservare l'aspetto dell'antica fortezza.

 

 

 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
110

Natale Schiavoni

(Chioggia (Venezia) 1777 - Venezia 1858)

GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE

olio su tela, cm 122x96


Definito "pittore delle grazie" dai suoi contemporanei, Natale Schiavoni dopo aver frequentato l'Accademia di Venezia assieme al Politi ed aver avuto come maestro il Maggiotto, fu mandato a Firenze per perfezionarsi nel disegno sotto la guida di Raffaello Morghen. Sviluppò una particolare propensione per i ritratti e su invito di un amico si trasferì a Trieste, dove si fece notare per la proprie capacità tra i "commercianti e i ricchi forestieri che gli chiedevano sempre più spesso ritratti in miniatura". Successivamente si trasferì a Milano, dove ebbe modo di confrontarsi con altri artisti fino al 1815, quando venne chiamato a Vienna da Francesco I che lo volle come ritrattista di corte. L'incarico si rivelò proficuo e risultò in numerose committenze da parte dell'aristocrazia viennese ed ungherese, che gli richiedevano ritratti in miniatura ma anche dipinti con soggetti femminili raffiguranti Bagnanti e Odalische ora presenti in molte collezioni private di Vienna dal chiaro riferimento rinascimentale. Il dipinto che presentiamo in catalogo s'inserisce in questa produzione di soggetti femminili con abbigliamento di gusto orientalista e stante le dichiarazioni del biografo dell'artista, il Sernagiotto, riteniamo che possa trattarsi della Giuditta ed Oloferne realizzata tra il 1830-1835, replicata poi in alcune varianti, come nel caso del dipinto che lo stesso biografo menziona tra le opere donate dal triestino Nicola Bottacin al Museo Civico di Padova. Dipinta nel 1852, questa versione differisce dal dipinto presentato in catalogo in alcuni dettagli nella fisionomia della figura femminile di destra e nel paesaggio sullo sfondo (cfr A. Nave, Natale Schiavoni incisore, miniatore, pittore, in "Chioggia, Rivista di studi e ricerche", 33, 2008, pp. 142-143; n. 34, 2009, p. 131).

Stima   € 8.000 / 12.000
113

Leopoldo Costoli

(Firenze 1850 - 1908)

BUSTI DI GENTILUOMO E DI GENTILDONNA

marmo, alt. cm 65, su base in marmo, alt. cm 15

firmati e iscritti "Firenze"

(2)

 

Figlio d'arte, il padre Aristodemo Costoli fu scultore tra i più apprezzati nella Toscana Neoclassica assieme a Lorenzo Bartolini e al Pampaloni, Leopoldo ebbe gli insegnamenti di scultura del padre col quale collaborò a lungo, ereditandone alla morte lo studio con statue, modelli e bozzetti. Rispetto al purismo del padre, Leopoldo Costoli andò man mano sviluppando una più marcata adesione ad un sincero, anche se aristocratico, realismo in linea con le coeve novità pittoriche. Dimostra già questa attitudine la statua del conte Galli Tassi che scolpì quando aveva appena ventitre anni per L'Arcispedale di Santa Maria Nuova come poi il monumento all'orafo Bernardo Cennini nella chiesa di San Lorenzo, la statua di Galileo Galilei al museo della Specola e quella di Niccolò Tommaseo a Settignano. La sua straordinaria abilità a trattare il marmo ottenendone risultati di alto virtuosismo gli valse grande considerazione sia nell’ambiente artistico che in quello della committenza, nonostante il carattere "scontroso" sempre dimostrato dallo scultore, e la commessa delle statue Gioacchino Rossini e di Michelangelo Buonarroti per le storie degli uomini illustri.

I due busti qui presentati, e dei quali per ora sono sconosciuti i dati anagrafici, provengono dalla collezione di Augusta Costoli, ultima discendente della famiglia e figlia dello sculture. In essi risulta pienamente evidente quella abilità nel trattare il marmo che tanto esaltò la critica contemporanea, basti osservare come, nel Ritratto Femminile le vesti e i fiocchi restituiscono l'effetto della seta differenziandosi da quello dell’epidermide, la straordinaria verosimiglianza della rifinitura ad uncinetto dell'abito che in alcuni punti si "solleva" e si storce per effetto dei movimenti; quanto invece nel Ritratto Maschile sorprenda la stoffa ruvidamente reale del panno della giacca, quasi un antico Casentino, o la resa mozzafiato della capigliatura e dei baffi che ricorda assai da vicino esemplari del Seicento come ad esempio il Ritratto di Michelangelo Buonarroti il giovane di Giuliano Finelli nel museo di Casa Buonarroti, opera che certo il nostro scultore dovette aver attentamente mediato.

Stima   € 6.000 / 9.000
114
Luigi Basiletti
(Brescia 1780 - Brescia 1859)
RITRATTO DI DUE FANCIULLI
olio su tela, cm 61x47,5

Pittore e incisore notevole, buon architetto e valente archeologo, Basiletti nasce a Brescia dove esercitò primariamente la sua attività anche d'intenditore d'arte e restauratore di dipinti e dove fu socio dell'Ateneo bresciano nel 1810, membro dell'Accademia di S. Luca nel 1814, dell'Accademia di Brera nel 1828 e anche censore dell'Ateneo di Brescia dal 1816 al 1844.
Dopo aver fatto i primi studi di pittura presso Sante Cattaneo a Brescia, passò all'Accademia di Bologna, ove vinse un concorso, e quindi nel 1806 a Roma ove si fermò vari anni. Oltre che a qualche pala d'altare (Angelo custode nel Duomo di Brescia, 1811), a qualche quadro storico o mitologico (Niobe nella Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia; Ferimento di Baiardo, Ateneo di Brescia, 1826) e ad affreschi decorativi (lunette nel salone dell'Ateneo bresciano, sale in palazzo Martinengo), il suo nome è legato a ottimi ritratti: da quello giovanile del Canova nell'Ateneo a quello della famiglia Balucanti Cigola del 1812 presso i conti Fenaroli di Brescia, a quello del poeta Cesare Arici che gli dedicò la sua Brescia romana, a quello, più tardo, del conte Tosio.
La sua maggior fama pittorica è tuttavia dovuta giustamente a vedute e paesaggi (Lago d'Iseo, Tempio della Sibilla, Pozzuoli, Ischia nella Pinacoteca Tosio Martinengo; l'Aniene a Tivoli nella Galleria d'Arte Moderna di Milano; Campagna bresciana nella raccolta Calini di Brescia), tra i più notevoli e vivi del tempo, ricchi d'atmosfera, delicatissimi di colore nonostante il rigore del precisissimo segno neoclassico. Della sua vasta opera di paesaggista e ritrattista, conservata presso le vecchie famiglie di Brescia, pochi pezzi sono oggi noti e accessibili.
L'artista può essere giudicato forse meglio e più compiutamente dai suoi Ricordi di viaggio (quattro album di disegni di 245 fogli complessivi, una cartella di 175 fogli sciolti e 13 grandi disegni isolati) esistenti presso la Pinacoteca Tosio Martinengo. Assistette per lunghi anni il conte Tosio nella formazione della sua pinacoteca e come dilettante di architettura intervenne spesso nei problemi edilizi cittadini risolvendo, tra l'altro, prima del 1820, i dispareri sull'ornamento della cupola del Cagnola nel duomo nuovo di Brescia e, tra il 1820 e il 1823, approntando, in collaborazione con l'architetto A. Vita, i disegni per il Mercato del Grano di Brescia, insigne fabbrica neoclassica.
Stima   € 4.500 / 6.500
118

Urbano Lucchesi

(Lucca 1844 - Firenze 1906)

IL FURTO DEL TABACCO

bronzo, alt. cm 89

firmato e iscritto "Firenze"

timbro della Fonderia Conversini e C., Pistoia

 

Urbano Lucchesi è il più importante scultore attivo a Lucca nell'Ottocento, è autore di diversi grandi bronzi tutt'oggi presenti nell'arredo urbano della città: i busti di Giuseppe Mazzini, Benedetto Cairoli, Vincenzo Consani; il monumento ai "Caduti delle patrie battaglie" e quello a Giuseppe Garibaldi, mentre una buona parte della sua produzione scultorea di piccole dimensioni, opere in cui il rigore accademico si stempera in visioni spontanee, è conservata presso il Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca.

L'artista fu attivo anche a Firenze (la presente scultura è eseguita proprio nel capoluogo toscano come recita la firma sulla base: U. Lucchesi Firenze) nei cantieri di maggior prestigio messi in opera durante quel secolo, suo è il monumento a Donatello posto davanti all'edificio dove il grande scultore ebbe studio; nella città di VIareggio eseguì il monumento al grande monumento al grande poeta romantico Percy Bysshe Shelley.

Il bronzo in questione, una fusione di considerevole misura ed impegno, raffigura Il furto del tabacco; una bimba in piedi vestita con un abito che potrebbe essere datato verso gli anni ottanta dell'Ottocento che, dopo aver annusato il contenuto della scatolina aperta che tiene in mano (tabacco da fiuto appunto) alza la testa nel gesto di starnutire.

Il soggetto, piacevolissimo, rientra in quel gusto aneddotico con descrizioni di scene di genere e vita popolare che anche in pittura fu assai in voga nell'Ottocento.

M.V.

Stima   € 3.500 / 5.000
119

Raffaello Romanelli

(Firenze 1856 - Firenze 1928)

PUTTINO

bronzo, alt. cm 64

firmato

 

Membro di una famiglia di scultori composta anche dal padre Pasquale Romanelli e dal figlio Romano, Raffaello avvia gli studi artistici nella bottega del genitore, per poi iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Firenze, dove il suo maestro è Augusto Rivalta (allievo di Giovanni Dupré). Una volta diplomato comincia a lavorare nell'atelier di famiglia. Nel 1880 vinse il pensionato di Roma con un Muzio Scevola, e ottenne il premio quadriennale dell'Accademia con l'opera L'indemoniato che si getta ai piedi di Cristo.

Partito da un verismo naturalistico, in seguito aderisce al clima Liberty soprattutto nei ritratti. Autore di monumenti celebrativi, lavora anche in Argentina, Cuba, Francia, Germania, Romania, Russia, America e Venezuela. Risulta particolarmente apprezzato negli Stati Uniti: molte sue opere si trovano a Detroit e Kansas City, dove gli viene dedicato un parco, il Romanelli Garden, e in Romania, dove fu l'artista ufficiale della famiglia reale, di cui dipinge quattro ritratti, e dove produce quaranta opere.

Tra quelle realizzate in Italia possiamo ricordare a Siena il monumento di Giuseppe Garibaldi a Firenze il busto di Benvenuto Cellini sul Ponte Vecchio di Firenze e il cenotafio di Donatello nella basilica di San Lorenzo. A Livorno si occupò delle decorazioni scultoree della cappella Bastogi nel Cimitero della Misericordia e realizzò il busto di Benedetto Brin. La sua fama è legata anche al grande gruppo in bronzo eretto agli Studenti caduti a Curtatone nell'Università di Siena e al colossale monumento equestre a Carlo Alberto al giardino del Palazzo del Quirinale in Roma.

 

Stima   € 2.500 / 3.500
91 - 120  di 129