Dipinti e sculture antiche

16 MAGGIO 2017

Dipinti e sculture antiche

Asta, 0203
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15:30
Esposizione
FIRENZE
12-15 Maggio 2017
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   1500 € - 80000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 80
59

 

Attribuito a Giuseppe Volò, detto Giuseppe Vicenzino

(Milano 1662-notizie fino al 1700)

NATURA MORTA CON FIORI E VOLATILI

olio su tela, cm 147x219, le misure complessive con la cornice sono cm 190x261.

 

Bibliografia di riferimento

M. Mosco, Cornici dei Medici. La fantasia barocca al servizio del potere, Firenze, 2007

 

Questa grande Natura morta con fiori e volatili viene presentata all'interno di un'importante cornice fiorentina dorata a mecca della metà del secolo XVII.

Si tratta di una rara cornice, battuta a gole lisce su fascia rilevata intagliata a motivi di fogliette nervate sovrapposte e ricorrenti che si dipartono dai centri segnati da volute e girali a inquadrare quattro mascheroni a grottesca che decorano la fascia esterna dipinta nei toni del marrone. Agli angoli le medesime volute e i girali inquadrano grandi foglie aperte rivolte verso l’esterno a decorare la fascia il cui bordo si presenta intagliato a motivo di nastro fogliaceo ritorto. Questa eccezionale cornice è da annoverare fra le opere dei grandi artigiani, disegnatori e intagliatori che operarono per le botteghe medicee.

Per quanto riguarda i mascheroni che scandiscono la cornice non vi è dubbio che l’intagliatore si sia ispirato non solo ai mascheroni del Buontalenti che sono presenti sulle finestre di alcuni palazzi fiorentini, ma anche ai fantasiosi disegni di Stefano della Bella come quello conservato a Roma presso l’Istituto Nazionale per la Grafica, inv. FC 126096, collocazione scatola 38, provenienza vol. 157 G10 (fig. 1).

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
49

Agostino Ciampelli

(Firenze 1565- Roma 1630)

CROCIFISSIONE CON LA MADDALENA

olio su tavola, cm 44x33,5

In aggiunta a quanto riportato in catalogo si segnala che il lotto 49 è stato ripubblicato nel 2011 da Alessandro Nesi con una nuova attribuzione a Girolamo Macchietti in A. Nesi, Le opere tarde di Girolamo Macchietti tra maniera e controriforma, in “Arte cristiana”, 99.2011,866, pp. 337-350, illustrato a pagina 343

 

Bibliografia

La bella maniera in Toscana. Dipinti dalla collezione Luzzetti e altre raccolte private, a cura di F. Berti e G. Luzzetti, Firenze, 2008, pp. 162-165, scheda di Alessandro Nesi

 

 

 

Il dipinto qui proposto, pubblicato per la prima volta con una scheda di Alessandro Nesi nel 2008, si può datare probabilmente intorno alla metà degli anni ottanta del Cinquecento.

Lo studioso analizza vari aspetti stilistici dell'opera come la pennellata densa e corposa tipica di Agostino Ciampelli e le molte similitudini sia con la cultura tardomanieristica che con quella della Controriforma per la forte carica emotiva e devozionale che pervade l'opera; ulteriori elementi che ci avvicinano all'artista si trovano nel forte contrasto cromatico tra le figure di Cristo e  Maddalena, rese con colori vivaci, avvolte da un chiaroscuro che ne mette in risalto le forme, e nel cupo paesaggio dello sfondo che ci comunica tutta la drammaticità della scena rappresentata.

Il Cristo crocifisso può essere accostato a quello dipinto alcuni anni dopo dallo stesso Ciampelli nella Chiesa di Santa Prassede a Roma per la pala con il Miracolo di San Giovanni Gualberto mentre il volto di Maddalena è vicino a quello delle donne presenti nella Natività di San Michele Visdomini a Firenze (1593).

Inizialmente allievo di Santi di Tito, dal maestro apprese gli stilemi tipici della Controriforma fondati su una maggiore semplificazione delle forme con un chiaro messaggio di tipo devozionale. Nel 1589 lavorò all'interno della bottega del maestro per gli apparati decorativi in occasione delle nozze di Ferdinando I dei Medici e Cristina di Lorena eseguendo su un arco di trionfo provvisorio al canto dei Carnesecchi la scena con il Duca di Guisa che assale Calais. Dopo aver eseguito a Palazzo Corsi, intorno al 1593, un ciclo di affreschi con Storie di Caino e Abele e di Ester ed Assuero, ottenne l'apprezzamento del cardinale Alessandro de' Medici (futuro papa Leone XI), che divenne suo protettore; si trasferì quindi a Roma dove rimase fino alla morte nel 1630.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
12

Agostino Verrocchi

(Roma 1586 ca. - 1659)

NATURA MORTA CON FRUTTA E ORTAGGI SU UN PIANO

olio su tela, cm 97,5x131

 

 

Tradizionalmente attribuito a Giovan Battista Ruoppolo nella raccolta privata di provenienza, l’inedito dipinto qui presentato è invece opera tipica di Giovan Battista Verrocchi, l’artista romano riscoperto a partire dalla storica mostra sulla natura morta del 1964, grazie agli studi di Mina Gregori (1973), di Giampaolo Pes (2005) e di Gianluca e Ulisse Bocchi (2005). La ricostruzione dei suoi dati biografici ha consentito di ipotizzare che la sua attività quale pittore di natura morta si sia svolta su un arco di tempo prolungato, tale da fare di lui il collegamento tra la prima generazione di specialisti legati ai modelli di Caravaggio e del Maestro di Hartford e quella, alle soglie del Barocco, di Michelangelo Cerquozzi e Michelangelo del Campidoglio. In questa chiave, per l’appunto, alcune sue opere sono state esposte in occasione della recente mostra nella Galleria Borghese a Roma (L’origine della natura morta italiana. Caravaggio e il Maestro di Hartford. A cura di Anna Coliva e Davide Dotti, novembre 2016 – aprile 2017). Se tuttavia le opere presenti nella rassegna romana (nn. 28-29-30; si veda il contributo di Franco Paliaga nel catalogo della mostra, Milano, Skira, 2016, pp. 244-45) si legano agli esempi precoci del caravaggismo nella presentazione analitica dei singoli elementi di natura disposti su un piano di pietra, spesso simmetrici rispetto a un asse centrale, il dipinto qui offerto si pone invece in stretta contiguità con una serie di nature morte che, allentati progressivamente i nodi col primo tempo caravaggesco del genere, trasformano la "mostra" di frutta e ortaggi in composizioni via via più articolate nei nessi spaziali, e dunque verosimilmente scalabili tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del 600. Numerosi sono infatti i motivi di confronto tra il nostro dipinto e le opere raggruppate da Gianluca e Ulisse Bocchi (Agostino Verrocchio, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Casalmaggiore 2005, pp. 21-42), e addirittura inconfondibili risultano una serie di elementi, quali la selezione di ortaggi accostati a frutta variopinta, in particolare le fragole riunite a mazzetti e le pesche rosseggianti i cui colori accesi interrompono la cupa gamma dei verdi di carciofi e baccelli. Una datazione relativamente tarda nell’ambito della produzione verrocchiesca è suggerita comunque dalla presentazione degli elementi di natura sul terreno, o su un piano roccioso irregolare, invece che sulla consueta lastra di pietra, come si registra in un piccolo numero di opere tarde, punto di passaggio per le nature morte all’aperto di Michele Pace e di Michelangelo Cerquozzi, non a caso legato personalmente con la famiglia Verrocchi.

 

 

 

 

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

λ

Artista caravaggesco, sec. XVII

SAN GIOVANNI BATTISTA

olio su tela, cm 153x108

 

Provenienza

Collezione privata, Firenze

 

Il bel dipinto qui presentato, che ha come soggetto un San Giovanni Battista nel deserto a figura intera, è un’opera che può essere riferita alla scuola fiorentina della prima metà del Seicento, in particolare alla cerchia di Jacopo Vignali. L'accostamento si può fare pensando alle eleganti figure maschili che Vignali così poeticamente dipingeva come il San Michele della chiesa fiorentina di San Michele e Gaetano o il sognante San Giovanni Battista, un dipinto su tela ovale presentato in asta Pandolfini il 21 aprile 2015 (lotto 24).

Con quest’ultima opera il nostro quadro ha in comune, oltre al soggetto, la torsione della testa e della spalla, tuttavia sembra possedere un’intensità espressiva e un contrasto luministico differenti che ci rimandano anche alla pittura più cruda e realistica di Ribera.

Sebbene non vi sia un’attribuzione è lecito dire che siamo dinanzi ad un artista colto, in grado di fare proprie le suggestioni dell’antichità classica; infatti il San Giovanni che si toglie una spina dal tallone cita senza dubbio nella posa lo Spinario, la famosa scultura ellenistica raffigurante un giovane (in questo caso seduto) che si inclina per togliersi una spina dalla pianta del piede sinistro.

La scultura più antica con questo soggetto, da cui probabilmente derivano le altre copie, è quella che si trova ai Musei Capitolini di Roma, donata da Sisto IV alla città di Roman nel 1471 e assai studiata a partire dal Rinascimento. Dello Spinario esiste una versione marmorea anche alla Galleria degli Uffizi di Firenze, quella che venne copiata da Brunelleschi nel 1401 per la sua formella del concorso per la porta nord del Battistero fiorentino.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
8

λ

Girolamo Siciolante da Sermoneta

(Sermoneta 1521 - Roma 1575)

MADONNA CON BAMBINO E SAN GIOVANNINO

olio su tavola, cm 43,5x31,2

 

Raro esemplare destinato alla devozione privata, l’inedito dipinto qui offerto è attribuibile a Girolamo Siciolante – attivo come si sa come pittore di affreschi e di pale d’altare per le chiese di Roma e dello Stato pontificio – in virtù dell’evidente confronto con un disegno preparatorio estremamente raffinato e del tutto finito conservato nelle collezioni reali inglesi a Windsor (n. 5960; matita nera, pennello e inchiostro bruno, con rialzi di biacca su carta azzurra, mm 226x152).

Si tratta di uno studio per il gruppo della Vergine col Bambino (ne è escluso il San Giovannino, ma il gesto della Madonna suggerisce un’ulteriore presenza a sinistra nella composizione) virtualmente sovrapponibile alle figure corrispondenti nel nostro dipinto anche per quanto riguarda le pieghe ombreggiate del manto della Vergine e la posizione del Bambino benedicente.

Pubblicato per la prima volta da John Hunter nel 1988 (The Drawings and Draughtmanship of Girolamo Siciolante da Sermoneta, in “Master Drawings” 1988, p. 28) e nuovamente nel 1996 (Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta (1521-1575), Roma 1996, p. 282, D 25, fig. 85) il foglio di Windsor è ritenuto dallo studioso una prima idea per la composizione ulteriormente sviluppata, forse a qualche anno di distanza, in un disegno di insieme (già Londra, Phillips; Hunter 1996, fig. 84), a sua volta preparatorio per la pala già nella chiesa di San Bartolomeo in Ancona, capolavoro della tarda maturità di Siciolante, di cui reca la firma e la data del 1570.

Raffigurante la Vergine in trono accompagnata da angeli e santi, la pala citata (spostata nella chiesa dell’Assunta a Calcinate, Bergamo, a seguito delle soppressioni napoleoniche) ripropone uno schema già sperimentato da Siciolante nella pala in Sant' Eligio degli Orefici a Roma e in quella in San Martino a Bologna, che mostrano nella figura principale la persistenza del modello  di Giulio Romano nella pala in Santa Maria dell’Anima. Il nostro piccolo dipinto, pensato per la devozione domestica, richiama in qualche modo quell’illustre precedente nel clima profondamente mutato della Controriforma, delle cui istanze Girolamo Siciolante fu interprete fra i più autorevoli. Lo squarcio di paese oltre la finestra a sinistra trova infine riscontro nei paesaggi che fanno da sfondo alle scene vetero-testamentarie a piccole figure dipinte dall'artista sulla volta della prima cappella a sinistra nella chiesa di San Tommaso ai Cenci.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
39

λ

Jacob van Huchtenburgh

(Haarlem 1639 ca.-Amsterdam 1675)

VEDUTA DI CAMPO VACCINO

olio su tela, cm 82x111,5

firmato “Jacob Huchtenburgh” in basso a sinistra su una pietra

 

Provenienza

Londra, Christie’s, 4 aprile 1986, n. 119;

Parigi, J.O. Legenhoek;

Roma, collezione privata

 

Bibliografia

Illustrato in "La Revue du Louvre" 1987, 10;

L. Salerno, I pittori di vedute in Italia (1589-1830), Roma 1991, p. 110 (non riprodotto)

 

Splendido esempio della produzione olandese italianizzante, il dipinto qui offerto propone un soggetto più volte affrontato da Jacob van Huchtenburgh, a Roma nel 1670 secondo la biografia di Arnold Houbraken.

L’ampia veduta presenta il Foro romano – allora noto come Campo Vaccino – prima degli scavi di inizio Ottocento: a sinistra riconosciamo in sequenza l’arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina, il cosiddetto tempio di Romolo annesso alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano, la chiesa di Santa Francesca Romana; sullo sfondo, il Colosseo e la Basilica di Massenzio. A destra, il muro di cinta degli Orti Farnesiani con il portale di Vignola conduce all’arco di Tito; più vicino, la distrutta chiesa di Santa Maria Liberatrice alle pendici del Palatino. Di tutti i monumenti del Foro solo le colonne del tempio dei Castori sono visibili, con accanto la grande vasca circolare poi rimontata da Valadier accanto ai Dioscuri di Montecavallo.

Riproponendo in modo più esteso e completo vedute già note costruite con lo stesso punto di vista, a cui si aggiunge una veduta del Foro verso la torre delle Milizie già a Roma presso la Galleria Megna (vedi L. Salerno, I pittori di vedute in Italia cit., pp. 110-111) il nostro dipinto se ne distingue per proporzioni più ampie e soprattutto per le bellissime figure in primo piano, la cui luminosa cromìa è esaltata da un ottimo stato conservativo.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
44

λ

Alessandro Rondoni

(Roma 1644 ca. - 1710 ca.)

BUSTO DI ANTONIO CORSI

marmo, alt. cm 73, altezza complessiva con la base in pietra serena cm 128

 

Provenienza                                                               

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia

A. Bacchi, F. Berti, D. Pegazzano, Rondoni e Balassi, I ritratti del marchese Giovanni Corsi, Milano 2015, p. 19 fig. 6

 

L’imponente busto qui presentato raffigura un personaggio di spicco della famiglia Corsi, il marchese Antonio (1630-1679) fratello maggiore del cardinale Domenico Maria (1635-1697) che fu il committente della serie dei quattro busti che immortalavano appunto i suoi più stretti (e celebri) congiunti: il padre Giovanni (1600-1661), lo zio Lorenzo (1601-1656), il fratello Antonio e Domenico Maria stesso.

Il riferimento ad Alessandro Rondoni (o Rondone) come autore del busto di Antonio Corsi deriva dalla ricerca documentaria operata da Donatella Pegazzano; sarebbe stato altrimenti complesso attribuirgli le opere solo attraverso l’analisi stilistica data la rarità delle sculture a lui riferite. Il pagamento per il busto di Antonio Corsi è registrato il 30 ottobre del 1685: «scudi 35 di moneta per detto pagati ad Alessandro Rondone per un ritratto in marmo della buona memoria del signor marchese Antonio Corsi» (in Archivio di Stato di Firenze, Guicciardini Corsi Salviati, Libri di amministrazione 552, c. 75).

Come sostiene Donatella Pegazzano Domenico Maria Corsi entrò in contatto con il Rondoni per tramite di Livio Odescalchi (1658-1713), nipote di papa Innocenzo XI, collezionista e personaggio di rilievo a Roma alla fine del Seicento. I rapporti a Roma tra il Corsi e l’Odescalchi sono sicuri e altrettanto lo sono quelli tra Livio Odescalchi ed Alessandro Rondoni di cui si conoscono pagamenti e commissioni già dagli anni Ottanta del Seicento (Rondoni cit. pp. 31-32).

È quindi possibile che il Corsi, prossimo in quegli stessi anni alla famiglia del papa Odescalchi, avesse richiesto a Livio uno scultore esperto, e magari non troppo costoso, al quale affidare la realizzazione dei ritratti marmorei della sua famiglia.

Questo spiega l’incarico al romano Rondoni che è abbastanza inaspettata se si considera invece la collocazione fiorentina delle opere.

L’attribuzione delle quattro sculture permette di ampliare anche il catalogo dell’artista e di aggiungere un altro rilevante episodio alla sua attività. Il busto di Antonio Corsi è un esempio di classicismo con influenze barocche prive però di eccessi retorici; Rondoni si propone come un corrispettivo scultoreo della ritrattistica di Carlo Maratta riuscendo a fondere elementi di classica compostezza, ravvisabili nell’eleganza quasi grafica della veste, ad uno stile più espressivo e potente come si vede nello sguardo “fiammeggiante” dell’effigiato.

Il busto di Antonio Corsi è qui offerto con la sua base, una colonna in pietra serena con base a plinto. Questo sostegno era sicuramente lo stesso con cui era presentato nella Galleria della Villa Corsi Salviati a Sesto Fiorentino insieme agli altri busti. Ce lo conferma infatti una fotografia Alinari che riproduce un particolare della Galleria nel 1855 (Rondoni cit. p.14, fig. 2).

 

Stima   € 60.000 / 80.000
45

λ

Franz Werner Tamm, detto Daprait

(Amburgo 1658 - Vienna 1724)

FRUTTA, ORTAGGI E FIORI ALL'APERTO, CON UNA FIGURA FEMMINILE

NATURA MORTA CON SELVAGGINA E UN CACCIATORE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 98x135

(2)

 

Le sontuose, e inedite, nature morte qui presentate costituiscono un’interessante aggiunta al catalogo del periodo italiano di Franz Werner Tamm, documentato a Roma fra il 1685 e il 1696 e indicano, più precisamente, un suo recupero del fortunato modello proposto da Abraham Brueghel fin dal 1669 (data che compare nel dipinto al museo del Louvre, oltre che in altri non datati) in cui  composizioni di frutta e fiori disposte su piani in pietra con sfondo di paesaggio sono accompagnate da figure femminili di altra mano.

Sebbene la collaborazione di Franz Werner Tamm con Carlo Maratta sia ben documentata dalle tele con putti tra festoni di fiori e frutta nella Galleria Pallavicini e da altre da tempo note, non conoscevamo fino a questo momento composizioni di frutta con figure femminili  simili a quella qui offerta, che contribuisce dunque a una migliore conoscenza di un artista raffinato e versatile, spesso sorprendente nella varietà delle sue invenzioni (per cui si veda G. e U. Bocchi, Franz Werner Tamm detto Daprait o Dapper, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti stranieri 1630 – 1750, Viadana 2005, pp. 199-250).

Numerosi sono invece i motivi di confronto per quel che riguarda gli elementi che compongono la natura morta, ove riconosciamo la consueta frutta autunnale (zucca e  melograni spaccati accanto a grappoli di uva nera) insieme alle inconfondibili rose bianche di molte composizioni da tempo note, talvolta accostate a funghi come nella più rara natura morta all’aperto resa nota da Gianluca e Ulisse Bocchi (p. 205, fig. FT6) e all’altra, molto simile, in asta da Sotheby’s a Milano, erroneamente come opera di Spadino (9 giugno 2009, n. 61).

Meno comuni, e in larga parte circoscritti al periodo viennese gli animali e i motivi venatori nel dipinto compagno qui al lotto successivo, che trova però motivi di confronto specifico nella Natura morta con selvaggina e due cacciatori nel Kunsthistorisches Museum a Vienna (Bocchi, 2005, p. 220, fig. FT 24).

 

 

 

Stima   € 40.000 / 55.000
Aggiudicazione  Registrazione
51

λ

Giovanni Battista Vanni

(Firenze 1600 - Pistoia 1660)

CARDINALI A CAVALLO, 1653-1657

olio su tela, cm 109x216,5

firmato e datato in basso a destra "Gio.B.Vanni. F. 165(..) "

 

Provenienza

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Firenze, 1937, p. 18 e p. 67

D. Pegazzano, I "Cardinali guerreggianti": dipinti inediti di Giovan Battista Vanni per monsignor Lorenzo Corsi, in "Prospettiva", 153/154.2014 (2015), pp. 74-94, figg. 1-4, fig. 11

 

Il grande e fascinoso dipinto qui presentato testimonia l’ultima tappa di un proficuo sodalizio tra monsignor Lorenzo Corsi e il pittore Giovan Battista Vanni che per lui realizzò molte opere.

Donatella Pegazzano dedica un recente e nutrito articolo a questi due personaggi e al quadro qui offerto.

Come per la Caccia del cardinale Giovan Carlo dei Medici (presentato nell’asta Pandolfini del 23 novembre 2016 con il lotto 28) anche i Cardinali a cavallo sono ricordati nell’inventario della nobile famiglia di appartenenza: “sei ritratti di Cardinali che hanno comandato in guerra” e ancora “Due quadri grandi che uno di Braccia 4 e ½ di larghezza dipintovi una Caccia del Serenissimo Cardinale Giov. Carlo dei Medici alla villa di Cafaggiolo e l’altro Braccia 4 incirca ove sono dipinti sei Cardinali a cavallo" (in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, p.18 e p. 67).

La scena rappresentata è strettamente legata alla vita e alle aspirazioni di monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) che stava avviando una brillante carriera ecclesiastica che lo avrebbe portato al cardinalato se non fosse morto precocemente di peste durante l’epidemia che aveva colpito Roma.

L’anno successivo alla morte di Lorenzo, nel 1657, il Vanni venne pagato per il nostro dipinto con un primo acconto di 22 scudi e saldato con 64 scudi; la voce di pagamento infatti parla di “diversi cardinali guerreggianti servito per la Galleria di Sesto” (Pegazzano cit. pp. 79-80. nota 53) e fu l’abate Domenico Maria, nipote di Lorenzo e figlio di Giovanni Corsi, a pagare il pittore.

Ci troviamo comunque di fronte ad una committenza di Lorenzo Corsi e non di Domenico Maria in quanto i personaggi effigiati sono in relazione con le vicende della sua vita tra Roma e la Francia. Per quanto riguarda il periodo di realizzazione del quadro è possibile che il Vanni lo abbia ideato e cominciato nel 1653, appena dopo il rientro del Corsi da Avignone (dove era stato dal 1645 come vice legato per conto di papa Innocenzo X), e terminato quattro anni dopo quando Domenico Maria aveva provveduto al saldo dell’opera.

Il grande quadro, che si contraddistingue per una studiata composizione scenografica, per i colori brillanti e i dettagli vividi, rappresenta un gruppo di sei figure a cavallo con due paggi vestiti all’orientale. Le figure si stagliano monumentali sotto un cielo tempestoso, nel paesaggio in lontananza si vedono un accampamento militare e una città fortificata.

Sono gli zucchetti color porpora sulle teste delle figure che ci permettono di identificarli come cardinali, almeno per cinque delle sei figure. Sotto ogni personaggio è visibile un numero tracciato a pennello che doveva rimandare ad una iscrizione in cui erano riportati i nomi per identificarli. L’iscrizione purtroppo non è più presente nel quadro anche se, analizzandolo con la lampada di Wood, si intravedono nella parte superiore le gambe di quelli che potevano essere Vittorie alate in atto di sostenere un cartiglio con i nomi dei cardinali. Probabilmente il quadro è stato ridotto nell’altezza e le figure delle Vittorie ridipinte e nascoste da nubi cariche di pioggia.

La presenza del cartiglio ci viene suggerita anche da un’incisione di François Chauveau del 1655 (Pegazzano, cit., p. 79, fig. 7) che riproduce Mazzarino su un cavallo impennato in atto di sedare il conflitto tra l’esercito imperiale e quello francese durante la guerra del Monferrato. Nella parte soprastante della scena si vede infatti un doppio cartiglio inneggiante alla sua fama e alla sua gloria.

L’avvenimento della Guerra dei Trent’Anni, che pose fine alla difficile successione dello stato di Mantova e Monferrato, è ricordato come un’azione eroica in cui si dimostrarono tutte le doti diplomatiche di Mazzarino, non ancora cardinale, ma in procinto di diventarlo; infatti l’occasione fu propizia per mettere in luce la sua abilità politica intuita subito da Richelieu che di lì a poco lo avrebbe chiamato in Francia come suo successore. Proprio questo avvenimento presso Casale Monferrato, nonché l’incisione di Chauveau, ci aiuta a riconoscere nel cavaliere al centro del nostro dipinto un "vittorioso" Giulio Mazzarino. Invece nel primo personaggio sulla sinistra con la chioma bianca e il volto magro si riconosce facilmente il cardinale Richelieu, il cui volto era noto in Europa per il bellissimo ritratto di Philippe de Champaigne adesso presso la National Gallery di Londra.

Insieme a queste due personalità di spicco è possibile rintracciare anche gli altri personaggi presenti nel quadro. Secondo quanto ricostruito da Pegazzano, in base alle frequentazioni romane di Lorenzo Corsi e ai confronti fisionomici, i due cavalieri sul lato destro del dipinto sono i cardinali Antonio iuniore (1670-1671) e Francesco Barberini (1597-1679) nipoti di Urbano VIII.

Antonio ha appuntata sul petto la croce dell’Ordine di Santo Spirito, che ricevette nel 1653, onorificenza che spettava alle personalità particolarmente vicine al re di Francia e interessante termine post quem del dipinto.

Proprio la presenza di Antonio induce a pensare che l’altro cardinale in armatura, quello più esterno, sia Francesco Barberini anche lui coinvolto nell’ambasceria papale e in contatto epistolare con Lorenzo Corsi.

Gli ultimi due cavalieri potrebbero essere Carlo I Gonzaga Nevers (accanto a Richelieu) che ebbe il dominio del ducato di Mantova dopo la pace di Casale, e Giulio Sacchetti (tra i due Barberini) anch’egli coinvolto nello stesso avvenimento (Pegazzano cit. p. 83).

Il dipinto potrebbe essere stato commissionato dal Corsi come dono ad Antonio Barberini per celebrarne il rientro a Roma dalla Francia, dopo aver ricucito i rapporti con papa Pamphilj, e per sottolineare la fedeltà al partito filo-francese grazie alla presenza di Richelieu e Mazzarino.

E sono proprio queste due personalità che dimostrano infine il forte desiderio di ascesa di Lorenzo Corsi e le sue aspirazioni al cardinalato. In particolare la brillante carriera di Mazzarino costituì certo un modello di riferimento per lui, considerando che furono entrambi vice legati ad Avignone.

Tuttavia la morte impedì al Corsi di raggiungere l’importante carica ambita; fu però il nipote Domenico Maria a raccogliere l’eredità dello zio e a diventare nel 1686 cardinale e in seguito vescovo di Rimini e Ferrara continuando inoltre ad incrementare le fortune e le collezioni della famiglia e a dimostrare una spiccata predisposizione all’arte e al collezionismo.

 

 

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
60

λ

Giuseppe Recco

(Napoli 1634-Alicante 1695)

PESCI, RECIPIENTI DI RAME E UN GATTO SU UN PIANO DI PIETRA

olio su tela, cm 71,2x96

firmato "Gios. Recco" in basso al centro sulla pietra

 

Provenienza

Collezione don Antonio Martinez de Pinillos (1856-1923), Cadice;

per eredità alla figlia, Doña Carmen Martinez de Pinillos, Cadice, e ai suoi discendenti;

Jean-Luc Baroni, Ltd. Londra;

Collezione privata, Milano

 

 

Opere tipiche di Giuseppe Recco, la cui firma compare per esteso nel primo dipinto qui offerto, le inedite tele qui presentate offrono numerosi confronti con la produzione certa dell’artista napoletano ragionevolmente ascrivibile al settimo decennio del secolo.

Numerose opere datate a partire dal 1659 e fino agli anni estremi della sua attività consentono in effetti di ricostruirla secondo un percorso cronologico scandito da date certe, cosa abbastanza eccezionale nel panorama di questo genere pittorico.

Gli elementi compositivi della prima  “natura in posa” qui in esame e la loro disposizione sul piano di pietra, come del resto le dimensioni – importanti ma ancora relativamente contenute – suggeriscono una serie di confronti con opere datate dalla critica nella seconda metà degli anni Sessanta: in primo luogo con la Natura morta con pesci, crostacei e recipienti di rame nella raccolta Molinari Pradelli, anch’essa siglata, ma anche, per quanto attiene gli aspetti compositivi, con l’Interno di cucina in collezione privata a Napoli che, come il nostro dipinto, raccoglie su un piano di pietra una serie di alimenti rustici e un rinfrescatoio (per entrambe le opere citate e per ulteriori confronti si veda la voce monografica curata da Roberto Middione in La Natura Morta in Italia (a cura di Federico Zeri), Milano 1989, II, pp. 903-911, in particolare le figg. 1091 e 1093). La presenza del gatto sullo sfondo del nostro dipinto lo accosta altresì alla tela siglata di Giuseppe Recco offerta in questa sede il 19 ottobre 2016 (lotto 89) nell’ambito della vendita della collezione Romano.

Il secondo dipinto presenta invece i pesci all’aperto su uno sfondo di cielo: soluzione più rara ma non certo priva di precedenti, e destinata a lunga fortuna attraverso l’attività dei figli di Giuseppe Recco, in particolare Nicola.

Nonostante la diffusione dei motivi da lui proposti e che la nuova generazione continuerà a praticare nel Settecento, Giuseppe Recco resterà ineguagliato nel virtuosismo dei suoi riflessi rossi e argentei, uniti a una singolare capacità mimetica che lo colloca a pieno diritto tra i naturalisti napoletani.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
69

λ

Jacopo di Chimenti da Empoli

(Firenze 1551-1640)

SANTA MARGHERITA DI ANTIOCHIA

olio su tela, cm 107,5x82,5

 

Provenienza

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. A. Bianchini, Jacopo da Empoli in "Paradigma", 3, 1980, pp. 91-146, p. 129

G. Cantelli, Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento, Fiesole (Firenze), 1983, p. 40

A. Marabottini, Jacopo di Chimenti da Empoli, Roma, 1988, p. 226, n. 69, fig. 69

Jacopo da Empoli 1551-1640, pittore d'eleganza e devozione, a cura di R. Caterina Proto Pisani, A. Natali, C. Sisi, E. Testaferrata, Milano, 2004, p. 204, n. 51, scheda di R. Spinelli

 

 

L'interessante dipinto qui proposto raffigura una Santa Margherita di Antiochia, la figlia di un sacerdote pagano che rinnegò la fede del padre per abbracciare quella cristiana.

Gli attributi che vediamo nel dipinto, la croce e il drago, sono quelli tipici per la santa; infatti secondo la tradizione il demonio le apparve sotto forma di drago. Dopo esserne stata inghiottita Margherita riuscì a liberarsi dall’infernale creatura squartandogli il ventre con una croce. Per questo motivo la devozione popolare ritiene Margherita la protettrice delle donne che devono partorire.

L'opera, citata ma non illustrata da Cantelli nel Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento tra le opere di Jacopo Chimenti da Empoli, è datata intorno al 1610-1615. La data è confermata anche da Alessandro Marabottini, che ha pubblicato il dipinto nella monografia dedicata all'Empoli (Marabottini cit. p. 226 fig. 69) e da Riccardo Spinelli, considerando la tendenza dell'artista in quegli anni a rappresentare figure femminili a mezzo busto secondo i canoni della ritrattistica fiorentina del Seicento. Spinelli ricorda anche che "una santa con croce in mano dell'Empoli" era presente nella collezione fiorentina del marchese Filippo Niccolini alla metà del Seicento; questo ci può fornire una preziosa indicazione sulla provenienza dell'opera (Spinelli, cit. p. 204 scheda 51).

Il volto e l'acconciatura di santa Margherita sono confrontabili sia con il Ritratto di dama come santa martire detta Santa Barbara (Londra, collezione privata) che con la Susanna al bagno del Kunsthistorisches di Vienna, fanciulle dai volti calmi e dignitosi. Rispetto ai due quadri citati la nostra Margherita non ha lo sguardo sommessamente abbassato ma rivolge verso lo spettatore gli occhi vittoriosi sul Male.

La figura della santa ci appare dolcemente avvolta dalla luce naturale che mette in risalto le sfumature di colore degli incarnati e della veste rosa antico, oltre a esaltare la ricchezza delle maniche ornate da eleganti motivi floreali. È possibile trovare la stessa tipologia decorativa nella veste della figura di Santa Lucia nella pala con la Trinità, i quattro Evangelisti, Santa Lucia e San Carlo Borromeo (1620-21) della chiesa di San Bartolomeo a Prato; oltre alla somiglianza della posa ritornano infatti gli stessi motivi floreali stilizzati nelle maniche del vestito. Un ulteriore dipinto citato da Marabottini come confronto è la Santa Caterina in deposito dal 1972 nel Seminario Arcivescovile di Venegono Inferiore (Varese).

Jacopo Chimenti si formò nella bottega di Maso da San Friano studiando attentamente sui grandi maestri fiorentini del primo Cinquecento tra i quali Fra' Bartolomeo, Andrea del Sarto e Pontormo. Questa prassi rientra nell'insegnamento suggerito intorno agli anni settanta del Cinquecento da Santi di Tito ai giovani pittori fiorentini invitati a guardare all'antica tradizione del disegno piuttosto che all'ambiguità del tardo manierismo.

Molte delle opere di Empoli sono oggi visibili tra Firenze ed il suo paese natale; tra queste possiamo citare l'Immacolata Concezione del 1591 nella chiesa di San Remigio e l'Annunciazione del 1609 nella chiesa di Santa Trinita, entrambe a Firenze.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
9

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Jacopo Robusti, detto il Tintoretto

(Venezia 1519 - 1594)      

RITRATTO DI UOMO IN ARMATURA

olio su tela, cm 49,5x41,5                                                

 

L'opera è corredata da parere scritto di Mauro U. Lucco del 22 marzo 2017 di cui riportiamo alcuni passaggi salienti:

 

“Quando il giovane Jacopo Robusti, ben presto noto dalla professione del padre come “il Tintoretto”, si affacciò attorno al 1540 sul mercato artistico lagunare, il ritratto aveva alle spalle, a Venezia, una storia relativamente breve. Le prime apparizioni si erano avute, tramite la via del commercio col Nord Europa, una novantina d’anni prima, ma era stato solo dal 1475 circa in poi che il genere si era imposto con un successo travolgente;  al punto che, secondo Vasari (Le vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, Firenze 1550, ed. a cura di L. Bellosi – A. Rossi, Torino 1986, p. 437) Giovanni Bellini aveva introdotto “una usanza in quella città, che chi era niente di grado, si faceva fare o da lui o da altri il suo ritratto, come appare per tutte le case di Venezia che son tutte piene di quegli, e vi si vede per infino in quarta generazione i discendenti nella pittura”. Identico giudizio, seppur attenuandone la carica sprezzante, era stato ripetuto nell’edizione Giuntina del  1568 (ed. a cura di G. Milanesi, Firenze 1878-1885, vol. III, p. 168). Ai tempi di Vasari, insomma, l’uso di quei dipinti a Venezia era divenuto talmente sistematico da passare in abuso, se in tali faccende è consentito un giudizio di tipo vagamente morale. In effetti, ai tempi di Tintoretto, che sono appunto gli stessi di Vasari, la finalità principale del ritratto, quella di sconfiggere la morte perpetuando la memoria di un individuo, era ormai per gran parte dimenticata; farsi ritrarre era divenuto il momento di una più complessa strategia del sé, di una sorta di albare forma di pubblicità, con l’inevitabile corollario che, in forza delle circostanze e degli scopi, vi potevano essere molti e differenti ritratti dello stesso individuo, eseguiti magari sempre dallo stesso artista. (…)

Quanto al ritratto in discussione, mi pare (…) che potrebbe trattarsi della stessa persona del Giovane guerriero già van Gelder a Bruxelles, oggi presso Luigi Grassi a Firenze, che riappare, se non m’inganno, come ho già segnalato (M. Lucco, Un giovane guerriero di Tintoretto, Firenze 2014, pp. 12-14), nel Busto di giovane uomo del Kunsthistoriches  Museum di Vienna, n° 702 (cfr. P. Rossi, Tintoretto. I ritratti, Milano 1974, ed. 1990, p. 101, e fig. 42), e nel Giovane del Museo di Cincinnati (Ohio; Rossi, op. cit., p. 90, fig. 59);  poi, abbigliato in altro modo, con barba e baffi un po’ più folti e biondo-rossicci, forse per effetto di qualche “acqua” schiarente, nel Ritratto di giovane del Museo Nacional d’Art de Catalunya a Barcellona (Rossi, p. 88, fig. 87), che Berenson (Italian Pictures of the Renaissance, Venetian School, London 1957, p. 169)  identificava  nell’ammiraglio don  Álvaro  de  Bazán,  primo Marchese  di  Santa Cruz. Naturalmente, tale riconoscimento avrebbe una notevole ricaduta anche sul nostro ritratto, ove potesse essere provato; (…)

Il tipo di corazza indossata dal nostro effigiato appare estremamente affine a quella del Guerriero trentenne del Kunsthistorisches Museum di Vienna (inv. 688), al punto da far quasi sospettare che si tratti dello stesso oggetto, solo lievemente camuffato nella realizzazione pittorica per farlo sembrare diverso: la fascia dorata con la punta controcurva e il tortiglione al giro del collo, e gli spallacci anch’essi con fascia dorata e tortiglione, corrispondono a una tipologia in voga attorno alla metà del Cinquecento. (…) il modo in cui sono trattati la barba e i capelli, “come rete grafico-luminosa, come scrittura di luci”, secondo l’efficace definizione di Roberto Longhi (Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1946., p. 29), è del tutto coerente con lo stile del giovane Tintoretto, quando, avendo da poco iniziato la professione, e non potendo forse ancora permettersi un gruppo di aiutanti in bottega, le sue tele sono al livello massimo di autografia. Un tipo simile di “scrittura pittorica” si vede ad esempio nella pelliccia del Gentiluomo ventiseienne del Kröller-Müller Museum di Otterlo (inv. KM 108.448), datato 1547, nel ventottenne della Staatsgalerie di Stuttgart (inv. N. 2665), del 1548, nel Lorenzo Soranzo del Kunsthistorisces Museum di Vienna (inv. GG 308), datato 1553, o, appunto, nel Gentiluomo di Barcellona, già ritenuto rappresentare il Bazán, riferibile allo stesso 1553 circa: cosicché una data all’incirca a cavallo della metà del secolo sembra del tutto giustificata. Non vi possono, insomma, essere dubbi, per il nostro ritratto, sulla totale autografia di Tintoretto giovane, e su una esecuzione attorno al 1550.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
19

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Artista attivo a Roma, metà del XVI secolo

RESURREZIONE DI CRISTO

olio su tavola, cm 179x123

 

Attribuito a Taddeo Zuccari nell'illustre collezione da cui proviene, il dipinto qui offerto, inedito e non documentato, appare più verosimilmente riconducibile al clima della Maniera fiorita a Roma tra il quinto e il sesto decennio del Cinquecento nella scia dei suoi più illustri protagonisti, Perin del Vaga e Francesco Salviati, per molti aspetti il suo successore. Possibile precedente per il nostro dipinto, in cui motivi michelangioleschi o desunti dall’antico sono tradotti nella sigla sofisticata della Maniera, è la Resurrezione dipinta a fresco da Salviati sul catino absidale della cappella della Pietà in Santa Maria dell’Anima appunto al volgere della metà del Cinquecento, come accertato dai documenti pubblicati da Luisa Mortari.

Altri motivi rimandano a modelli sviluppati nella bottega di Perin del Vaga, e più precisamente nel cantiere della Sala Paolina a Castel Sant’Angelo, decorata fra il 1545 e il 1547 da vari artisti, tra cui Pellegrino Tibaldi e Gerolamo Siciolante da Sermoneta. Alle decorazioni monocrome che incorniciano le storie di Paolo e di Alessandro o le figure dell’arcangelo Michele e dell’imperatore Adriano rimanda infatti il bizzarro ornamento del sarcofago da cui emerge la figura di Cristo risorto, che unisce il motivo del mascherone alle figure ignude di divinità marine dipinte nella sala principale di quel cantiere farnesiano.

Ancora alla cultura figurativa degli anni Quaranta, e all’eredità di Francesco Salviati, rimandano le figure dei soldati sorpresi in atteggiamenti diversi: non lontani da quelli nella Conversione di Saulo a Santo Spirito in Sassia, dipinta da Pedro de Rubiales (il “Roviale spagnolo” ricordato da Vasari tra gli allievi di Salviati) nel 1545, o a quelli nelle Storie di Scipione dipinte dallo stesso artista spagnolo sulle pareti della sala del Trono nel palazzo dei Conservatori sul Campidoglio.

 

Stima   € 35.000 / 45.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

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Pietro Berrettini, detto Pietro da Cortona (bottega)

(Cortona, 1596 – Roma, 1669)

CESARE RIMETTE CLEOPATRA SUL TRONO

olio su tela, cm 98,5x113,5

al retro, sul telaio, una ceralacca con lo stemma della famiglia Strozzi

 

Provenienza

Roma, collezione Strozzi, prima de1700;

Firenze, collezione Strozzi, prima del 1783

 

Presumibilmente eseguita nella bottega di Pietro da Cortona, la tela qui offerta ripete con dimensioni ridotte e proporzioni diverse la composizione eseguita dal Berrettini poco dopo la metà degli anni Trenta su commissione di Louis Phélipeaux de la Vrillière. La grande scena ora nel museo di Lione da cui la nostra deriva ornava infatti la galleria dell’hotel de la Vrillière a Parigi (più tardi noto per essere appartenuto al conte di Toulouse, figlio di Luigi XIV), parte di un ciclo di storie romane alla cui realizzazione parteciparono, oltre a Pietro da Cortona, presente con tre tele, Nicolas Poussin, Guercino, Alessandro Turchi e il giovane Carlo Maratta. Disperso alla Rivoluzione e ora diviso tra il Louvre e vari musei francesi, lo splendido insieme fu riunito nel luogo di origine, ora sede della Banca di Francia, in occasione della mostra dedicata alla pittura del Seicento italiano organizzata da Arnauld Brejon de Lavergnée (Seicento. Le siècle de Caravage dans les collections françaises. Parigi, Grand Palais, 1988-1989. Catalogo della mostra, Parigi 1988, pp. 80-87; pp. 184-90, per le opere di Pietro da Cortona).

Già nel 1962, peraltro, nella storica monografia su Pietro da Cortona, Giuliano Briganti (Pietro da Cortona o della pittura barocca, Firenze 1962, p. 234) aveva ricordato una versione del dipinto documentata nel 1783 in palazzo Strozzi a Firenze da un’incisione di Giovanni Battista Cecchi che riproduceva, appunto in formato diverso, la tela per La Vrillière: questa caratteristica, unita allo stemma sul telaio del nostro dipinto, certifica trattarsi proprio di quel quadro.

Lo spoglio degli inventari della collezione Strozzi, studiata in dettaglio da Maria Barbara Guerrieri Borsoi (Gli Strozzi a Roma: mecenati e collezionisti nel Sei e Settecento, Roma 2004) consente di ritrovare il dipinto a Roma nel palazzo del duca Luigi Strozzi presso la chiesa delle Stimmate nel rione S. Eustachio. L’inventario del 1705 lo descrive infatti come “Istoria di Tito e Berenice di Pietro da Cortona, in tela d’imperatore per traverso”, formato che corrisponde appunto alla tela qui offerta. Si tratta, con ogni probabilità, del dipinto visto da Giuseppe Ghezzi in casa del marchese Giovanni Battista Strozzi nel 1700 in vista della annuale mostra di quadri a San Salvatore in Lauro a cui forse fu esposto (G. De Marchi, Mostre di quadri a S. Salvatore in Lauro (1682-1725). Stime di collezioni romane, Roma 1987, p. 120).

Dopo la morte di Filippo Strozzi nel 1763 la famiglia tornò a Firenze trasferendovi parte della collezione. Documentato nel palazzo gentilizio dalla citata incisione del 1783, il nostro dipinto deve probabilmente riconoscersi nel “quadro storico di Pietro da Cortona” citato nella sesta stanza di palazzo Strozzi da una guida che nel 1841 ne descrive la collezione di quadri (Notizie e guida di Firenze e de’ suoi contorni, seconda edizione, Firenze 1841, p. 436).

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
21

λ

Aurelio Lomi

(Pisa 1556-1624 ca)

COMPIANTO SU CRISTO MORTO

olio su tela, cm 277,5x200

 

Il dipinto è corredato da parere scritto di Luciano Berti, 4 giugno 1993 e di Mina Gregori, 4 agosto 1997

 

Provenienza

Collezione privata

 

Bibliografia

Luce e ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, a cura di P. Carofano, Pisa, 2005, catalogo delle opere, p. 7, fig. 3

 

Bibliografia di riferimento

R. P. Ciardi, M. C. Galassi, P. Carofano, Aurelio Lomi, maniera e innovazione, Pisa, 1989, pp. 199-200, n. 17, p. 221, n. 41, tav. a colori LII, p. 222, n. 41

 

 

Il dipinto qui presentato, raffigurante il "Compianto sul Cristo morto", si può accostare stilisticamente alle opere del pisano Aurelio Lomi, fratello maggiore del celebre Orazio Gentileschi (che utilizzò il cognome della madre) e zio dell’ancora più celebre Artemisia.

Nella sua attività Lomi ha realizzato diversi dipinti con questo soggetto di cui il nostro si propone come un’ulteriore e intensa versione in linea con le opere mature del pittore dopo il rientro da Genova, post 1604, in particolare per le posture teatrali e per la vena descrittiva.

I confronti più stringenti si possono fare con il Compianto del Museo Nazionale di Villa Guinigi di Lucca, firmato sulla base del sepolcro, soprattutto per la tipologia del Cristo seduto ed esanime, in controparte rispetto al nostro, e con quello della chiesa della Regina Pacis di Genova per l’affinità con la Maddalena sognante che sorregge il braccio del Redentore. Di un certo interesse è anche lo sfondo naturalistico del nostro dipinto con il cielo che diviene scuro per l’imminente tempesta che investe la natura e gli uomini peccatori.

Di formazione fiorentina, Lomi lavorò a Roma dove ebbe la possibilità di studiare sulle opere di Girolamo Muziano e Scipione Pulzone, pittori controriformati che ne influenzarono lo stile, uno stile certamente più severo di quello del fratello Orazio e della nipote Artemisia ricordati invece per figure femminili avvenenti ed energiche.

I soggetti di Aurelio invece sono principalmente religiosi, contrassegnati da rigore compositivo ma con ancora una vena manieristica che rivela la formazione presso la bottega del Bronzino a Firenze prima del 1579.

Ad eccezione di quanto riportato dai proprietari che ricordano il quadro come pala d’altare nella cappella del Castello di Montauto presso Bagno a Ripoli, al momento non ci sono dati sulla possibile committenza dell’opera.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
26

λ

Giovanni Martinelli

(Montevarchi 1600- Firenze 1659)

LA MORTE AL TAVOLO DELL'AVARO

olio su tela, cm 102x126

 

Provenienza

Monsignor Lorenzo Corsi, Firenze;

Collezione Corsi Salviati, Firenze

 

Esposizioni

Montevarchi, Auditorium Comunale, 19 marzo – 19 giugno 2011, Giovanni Martinelli pittore di Montevarchi. Maestro del Seicento fiorentino

Bibliografia

Giovanni Martinelli pittore di Montevarchi. Maestro del Seicento fiorentino, catalogo della mostra a cura di A. Baldinotti, B. Santi, R. Spinelli, Firenze 2011, pp. 26-27, figg. 5, 6; pp. 98-101, n. 1.4.

D. Pegazzano, Corsi (parte prima), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto (Pisa), 2015, p. 95-96, fig. 6

 

Presentato per la prima volta in occasione della mostra monografica dedicata all’artista, il dipinto è stato analizzato in maniera esauriente da Donatella Pegazzano per quel che riguarda i documenti che molto verosimilmente si riferiscono alla sua esecuzione.

Accertata la sua antica provenienza, la studiosa ha potuto associare all’opera tre pagamenti a Giovanni Martinelli da parte dell’amministrazione della famiglia Corsi per imprecisati lavori “fatti e da fare” tra la primavera e l’estate del 1638. Al dipinto, di cui è specificato il soggetto ma non l’autore, si riferiscono poi tre citazioni inventariali, la più antica delle quali è però di un secolo successiva alla sua esecuzione.

L’opera risulterebbe dunque realizzata appena un anno dopo la registrazione di un soggetto analogo dell’artista fiorentino nella collezione del cardinale Gian Carlo de’ Medici, dove nel 1637 compare appunto una tela di Giovanni Martinelli raffigurante “la Morte al tavolo dei giovani”.

Non più rintracciato nelle collezioni dinastiche fiorentine, il dipinto è stato identificato in via di ipotesi con una delle due versioni di questo tema (New Orleans, Museum of Art; Milano, collezione Etro) non documentate e di controversa attribuzione, ma oggi generalmente riferite all’artista e un tempo così famose da essere oggetto di copia insieme a un possibile pendant, i Giocatori di carte (si veda in proposito G. Papi, in Caravaggio e caravaggeschi a Firenze. Catalogo della mostra, Firenze 2010, pp. 302-303, n. 91 e il già citato catalogo della monografica di Montevarchi, alle pagine 24-26, figg. 3-4).

 Se i dipinti citati appaiono strettamente legati all’esempio del caravaggismo romano, e a quella manfrediana methodus che Martinelli poté sperimentare al tempo del soggiorno romano, tra terzo e quarto decennio del secolo, assai più vicina al nostro dipinto e alle prove più tipiche e mature dell’artista fiorentino è un altro Memento mori (ovvero il Giovane e la Morte) un tempo da Colnaghi come opera di Angelo Caroselli e poi in asta da Sotheby’s come opera di Pietro Paolini (B. Nicolson, Caravaggism in Europe. II edizione, Torino 1989, II, fig. 365, come parte del gruppo di questo soggetto attribuito a Martinelli). Il dipinto Corsi, in cui la figura del giovane al centro ripete in controparte quella del Suonatore di violino a Houston (High Museum of Fine Art) verrebbe dunque a costituire una sorta di trait d’union tra momenti diversi nella maturazione del suo stile.

 

Committente del dipinto qui offerto, monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) visse tra Roma e Firenze, compiendo la sua carriera nella cerchia dei Barberini e in quella dei Medici.  Legato in particolare al cardinal Gian Carlo, ne condivise gli interessi culturali e collezionistici, e manifestò nelle sue scelte un atteggiamento in qualche misura imitativo di quelle del suo diretto protettore, secondo un uso comune a molti gentiluomini della cerchia medicea, quale ad esempio il marchese Gerini nei confronti del cardinale Carlo de’ Medici.

Oltre a legarsi sotto il profilo tematico alle opere già citate, il nostro dipinto rimanda altresì al più maturo Festino di Baldassarre, senza dubbio l’opera più celebre di Giovanni Martinelli, entrata nella Galleria Palatina nel 1777.

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
35

λ

Lorenzo Sabatini, detto Lorenzino da Bologna

(Bologna 1530 circa-Roma 1576)

LA GEOMETRIA

olio su tela, cm 174x123

 

L’opera qui presentata è replica autografa della tela, quasi identica per dimensioni, conservata nella Galleria Sabauda a Torino.

A lungo riferita a Francesco Salviati e ancora catalogata a suo nome da Luisa Mortari (Francesco Salviati, Roma 1992, p. 121, n. 34) la raffinata figura allegorica (che la studiosa legge come Prudenza) è stata correttamente restituita da Daniele Benati a Lorenzo Sabatini e, più precisamente, datata intorno al 1570 (Una Lucrezia e altre proposte per Bartolomeo Passerotti, in “Paragone” 1981, p. 34, nota 17; più specificamente in Lorenzo Sabatini: quadri con “donne nude”, in Studi di storia dell’arte in onore di Jürgen Winkelman, Napoli 1999, pp. 51 e 55, nota 5 p. 58, fig. 1); nuovamente in “Un quadro grande con donne nude” da Joachim Wtewael a Lorenzo Sabatini, in Il più dolce lavorare che sia. Studi per Mauro Natale, Cinisello Balsamo 2009, p. 118 e nota 11, fig. 2).

Nell’accogliere questa proposta per la tela della Sabauda, Jürgen Winkelman, primo e maggiore studioso del pittore bolognese (Lorenzo Sabatini, in Pittura bolognese del Cinquecento, a cura di Vera Fortunati Pietrantonio, Bologna 1986, II, p. 601) ne citava senza riprodurla una replica autografa e di uguali dimensioni già sul mercato antiquario a Milano: un’opera che per motivi di provenienza geografica potrebbe in effetti identificarsi con il dipinto qui presentato.

Sofisticato esempio della Maniera, la raffinata figura allegorica mostra gli esiti dell’esperienza fiorentina di Lorenzo Sabatini, collaboratore del Vasari nella decorazione di Palazzo Vecchio e negli apparati per le nozze di Francesco de’Medici con Giovanna d’Austria nel 1566. Documentato a Bologna nel 1569, egli si fece tramite degli stilemi della Maniera tosco-romana nella città natale, un fatto che giustifica l’attribuzione a Francesco Salviati per questa invenzione, nell’esemplare di Torino, e l’accostamento, nel gusto più che nello stile, alla Pazienza di Giorgio Vasari nella Galleria Palatina.

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
56

Antonio Joli

(Modena 1700 - Napoli1777)

VEDUTA DEL TEVERE CON CASTEL SANT’ANGELO E SAN PIETRO

olio su tela, cm 40x112

 

Provenienza

Christie’s, Londra, 10 luglio 1981, n. 62

 

Bibliografia

M. Manzella, Antonio Joli. Opera pittorica, Venezia 2000, p. 91, R8; fig. 57.

 

Proposta per la prima volta da Gaspar van Wittel nei primi anni del nono decennio del Seicento, la veduta del Tevere a Castel Sant’Angelo fu certo tra le più replicate su richiesta dei collezionisti italiani e dei viaggiatori del Grand Tour che in quest’immagine di Roma trovavano una vera e propria icona della città antica e moderna, classica e cristiana.

Il successo di questa veduta è appunto documentato dalla sua persistenza, ancora alla metà del Settecento, per opera di Antonio Joli, l’artista – scenografo riconosciuto nelle principali capitali d’Europa come uno dei seguaci più dotati ed originali di Vanvitelli. Non a caso, il catalogo dell’artista modenese stilato da Ralph Toledano riunisce venticinque versioni di questo soggetto, eseguite tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Settecento. Tra queste, la bella veduta eseguita intorno al 1747 per la sala da pranzo di Chesterfield House, scelta insieme a un’immagine di piazza del Popolo per rappresentare Roma.

Variabili per dimensioni, occasionalmente rilevanti come nel caso della tela di oltre tre metri venduta da Christie’s a Londra nel 1993, tutte le versioni note coincidono sostanzialmente nel punto di vista e nei dettagli dei monumenti raffigurati, il mausoleo di Adriano sulla riva destra del fiume, ponte Sant’Angelo con le statue berniniane degli angeli, e al centro la facciata e la cupola di San Pietro. Sommaria e di probabile invenzione nei suoi dettagli la riva sinistra; animate da barche e figurine simili tra loro ma mai identiche le acque del fiume.

Unica nel suo genere, la tela qui proposta ripete questo celebre soggetto nel formato, davvero inconsueto, di un sovrapporta, probabilmente accompagnato in origine da altre tele di uguali dimensioni ancora da rintracciare.

Pubblicata da Manzella (con riferimenti imprecisi) sulla base di una foto scarsamente leggibile, e per questo motivo assente nella più completa monografia di Ralph Toledano (Antonio Joli. Modena 1700 – 1777 Napoli, Torino 2006), la versione qui offerta è stata confermata a Joli da quest’ultimo studioso sulla base di fotografie in alta risoluzione.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

Antonio Mezzadri

(Bologna, XVII-XVIII secolo)

FIORI IN UN VASO D’ARGENTO, CON GIOIELLI SU UN DRAPPO

olio su tela, cm 92x116

 

 

"Viveva nel 1688 un Antonio Mezzadri, bravissimo pittore di fiori, e frutta, e la città nostra è ripiena delle sue lodevoli operazioni…". Così Luigi Crespi, nel terzo volume della Felsina pittrice, dava conto di uno dei principali fioranti attivi in città allo scadere del Seicento. Non molto di più si è appreso, in realtà, sul pittore bolognese, per quanto concerne i suoi dati biografici, ma il reperimento di opere firmate per esteso ha reso possibile una prima ricognizione del suo catalogo a partire dall’intervento di Mina Gregori (Nuove schede per la natura morta emiliana, in "Antichità viva", IV, 1965, pp. 11-18) seguito da quelli di Gianluca e Ulisse Bocchi (1998) e di Daniele Benati (2000), riassuntivi di precedenti studi.

A lungo confuse con quelle della dinastia di fioranti Volò-Caffi, attivi in Veneto e in Lombardia, e con quelle dei conterranei Bettini e Zuccati, le composizioni floreali di Antonio Mezzadri (nulla sembra essere emerso di quelle di frutta citate dal Crespi) si distinguono per i colori brillanti e variegati delle sue corolle che risaltano, quasi sul punto di sfiorire, su sfondi solitamente oscuri, talora evocanti un paesaggio notturno.

Imponente per dimensioni e formato quanto ricco di dettagli preziosi, quali i gioielli sparsi in primo piano su un tessuto pregiato, il dipinto qui offerto deve accostarsi ai migliori esempi della produzione di Antonio Mezzadri, e in particolare alla splendida coppia di composizioni floreali vendute nel 1991 alla Finarte di Roma con la corretta attribuzione, dopo essere passate in asta da Sotheby's a Montecarlo come opera di Margherita Caffi.

Nel commentarle nuovamente nel 2015, Daniele Benati sottolineava l'inevitabile senso di vanitas che scaturiva dal disfacimento della bellezza di quelle corolle al culmine dello splendore. Una indicazione che doppiamente si addice al nostro dipinto, considerata la valenza simbolica dei gioielli e dell´orologio abbandonati sul piano.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
43

Attribuito a Giovan Battista Ghidoni

(Firenze 1599- Vienna? post 1650)

RITROVAMENTO DI MOSE'                                                     

olio su tela, cm 175x233                                                  

reca sul retro etichetta e targhetta in metallo con la scritta "Proprietà Guicciardini Corsi Salviati in consegna alla parrocchia di S. Martino a Sesto"

                                                     

Provenienza

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

R. C. Proto Pisani, Appunti su alcuni pittori poco conosciuti del Seicento: Francesco Ligozzi, Giovan Battista Ghidoni e altri, in “Arte cristiana”, 1993, pp. 423-438 (Ghidoni, pp. 430-433)

 

La grande tela con il Ritrovamento di Mosè, da considerarsi, per le dimensioni, per le cornici coeve e per la stessa provenienza riportata al retro della cornice, come un pendant dell’Agar e Ismaele di Giovan Battista Vanni presentato al lotto precedente, si può accostare stilisticamente alle opere di Giovan Battista Ghidoni, autore meno conosciuto del Seicento fiorentino.

L’artista fu introdotto allo studio della pittura sotto la guida del padre Galeazzo, pittore cremonese allievo di Antonio Campi, e di Sigismondo Coccapani.

Nel 1615 Ghidoni debuttò a Firenze lavorando ad uno dei pannelli allegorici del soffitto di Casa Buonarroti; l’opera che raffigura una Pietà cristiana risente sia del Coccapani per la plasticità delle forme che delle novità di Artemisia Gentileschi, anche lei impegnata in quel cantiere. Lavorando a Casa Buonarroti ebbe modo di conoscere anche i pittori Bartolomeo Salvestrini e Filippo Tarchiani con cui aveva stretto un rapporto di amicizia.

Tra le opere di Ghidoni si ricordano anche la lunetta con Susanna per la Villa di Poggio Imperiale e le due tele, firmate, raffiguranti un’Annunciazione e un Battesimo di Sant’Agostino per la chiesa San Martino alla Scala, adesso presso il convento delle suore carmelitane di via de’ Bruni a Firenze.

Questi dipinti colpiscono, come indica Caterina Proto Pisani (cit. p. 431), per “la loro bellezza e il sapiente uso della luce” ed è proprio questa caratteristica del Ghidoni, “di una luminosità in chiaro” derivata dallo studio di Caravaggio, che ci spinge ad accostare il nostro Ritrovamento di Mosè alla mano di questo pittore.

In particolare si notano punti di contatto con il dipinto che Giovan Battista realizzò per la chiesa di Santa Verdiana a Castelfiorentino che raffigura la Reclusione di Santa Verdiana, opera commissionata nel 1632 e terminata nel 1637 (l’opera è firmata e datata 1637). Cronologicamente siamo inoltre vicini al dipinto del Vanni con Agar e l’angelo dipinta proprio intorno agli anni trenta del Seicento, come segnalato nella scheda qui in catalogo (lotto 42).

I colori tenui, l’attenzione alle fisionomie, la luce che batte e illumina con giochi di cangiantismo gli abiti di Bithia e delle sue ancelle sono tratti tipici di questo interessante pittore; le stesse caratteristiche le ritroviamo infatti nel dipinto di Castelfiorentino in cui la luce investe analogamente i paramenti liturgici dei personaggi in processione sulla destra.

Anche i volti delle fanciulle che si trovano ad assistere al ritrovamento di Mosè appartengono allo stesso tipo fisiognomico delle due donne presenti sul lato sinistro della tela di Santa Verdiana, una più giovane e una più matura.

Lo stile pittorico morbido e delicato, le figure accordate quasi musicalmente secondo una studiata poesia dei colori, consentono di proporre l’attribuzione al Ghidoni, aggiungendo un ulteriore dipinto al suo catalogo.

 

 

Stima   € 18.000 / 22.000
50

Bartolomeo Cavarozzi

(Viterbo 1587-Roma 1625)

MADONNA CON BAMBINO

olio su tela ovale, cm 105x80

 

Bibliografia

I. Faldi, in “Il Tempo” 25 ottobre 1985;

G. Papi, Bartolomeo Cavarozzi, Soncino 2015, pp. 48, 203, 219; n. 35, fig. 11.

 

Rivisitazione post-caravaggesca della Madonna della Seggiola di Raffaello, il bel dipinto di Bartolomeo Cavarozzi ripete parzialmente, a fini di devozione privata, l’imponente Sacra Famiglia a figure intere già in raccolta privata a Torino, dalla collezione Zerbone (G. Papi 2015 cit., p. 139, tav. XLIII). La probabile provenienza originaria da palazzo Spinola a Genova suggerisce, per il prototipo della nostra composizione, una datazione al breve soggiorno genovese del Cavarozzi nel 1617, poco prima del viaggio in Spagna al seguito del marchese Crescenzi. Lo confermano in ogni caso gli esiti stilistici e compositivi di questa invenzione in ambito genovese, percepiti immediatamente nelle opere di Domenico Fiasella, di Giovanni Andrea de Ferrari e addirittura di Andrea Ansaldo, a riprova della fortuna di questa immagine, peraltro ampiamente replicata in area ligure.

La sola figura del Bambino, sorretto dalla madre rivolta invece frontalmente ritorna poi nella celebre Sacra Famiglia della Galleria Spada a Roma, e ancora in una Madonna col Bambino di formato circolare, già in collezione privata a Madrid (G. Papi, 2015, p. 215, fig. 7, n. 24).

È probabile che queste repliche ridotte, variate anche nelle scelte cromatiche, siano state eseguite da Bartolomeo Cavarozzi dopo il ritorno a Roma, se non nei primi anni Venti, a riprova della prolungata fortuna di un’invenzione in grado di aggiornare l’ideale maternità serena di Raffaello alla luce del naturalismo seicentesco.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
1 - 30  di 80