Dipinti e sculture antiche

16 MAGGIO 2017

Dipinti e sculture antiche

Asta, 0203
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15:30
Esposizione
FIRENZE
12-15 Maggio 2017
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   1500 € - 80000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 80
78
Jacopo Fabris
(Venezia 1689- Copenaghen 1761)
VEDUTA DEL QUIRINALE
olio su tela, cm 71x110

La scenografica veduta di Piazza del Quirinale a Roma qui proposta è opera del pittore veneziano Jacopo Fabris.La sua produzione pittorica fu principalmente legata all'attività di scenografo per cui riscosse molto successo all’estero lavorando, dal 1719, a Karlsruhe, Amburgo, Londra e Berlino e dal 1747 fino alla morte a Copenaghen; qui ricoprì incarichi prestigiosi nel teatro della corte danese di Charlottenborg; A questa attività principale il Fabris affiancò anche quella di vedutista che doveva aver coltivato sin dagli anni giovanili a Venezia e che aveva perfezionato durante il soggiorno nella città papale.Fabris realizzò infatti molte vedute prospettiche ispirate a scorci romani e veneziani, quasi sempre arricchite da inserti fantastici. Questa sua attività continuò anche all’estero, incalzato sicuramente da una prolifica committenza, che lo portò a lavorare su stampe e appunti, nonché sulle sue fonti, Canaletto e Vanvitelli, con disinvoltura e fresca libertà. Il dipinto qui presentato, in cui si apre un’ampia veduta della Piazza del Quirinale con il gruppo dei Dioscuri provenienti dalle Terme di Costantino, rientra tra le opere di Fabris che riproducono luoghi famosi dell’Urbe, di grande successo date le numerose varianti conosciute. Nella composizione è assente l’obelisco egiziano in granito rosso che fu eretto nella piazza del Quirinale solo nel 1786 per volontà di papa Pio VI.
Stima   € 15.000 / 20.000
77

Jacob de Heusch

(Utrecht 1656 – Amsterdam 1701)

PAESAGGIO COSTIERO CON ROVINE ANTICHE

MARINA CON BARCHE E FIGURE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 60,5x97,5
il primo quadro è firmato "Heusch" in basso a destra sulla roccia 

(2)

 

Provenienza

Collezione Serristori, Firenze;

Sotheby’s, Asta Serristori, Firenze, maggio 1977, n. 36

 

L’inedita coppia di tele qui presentata costituisce un esempio tipico della fortunata produzione di Jacob de Heusch, documentata da numerose opere firmate in parte eseguite a Roma, dove l’artista neerlandese fu attivo quasi per un ventennio, o recanti date successive al ritorno in patria ma sempre ispirate al soggiorno italiano.

Documentato a Roma per la prima volta nel gennaio del 1675 in occasione di una riunione dei Bentvueghels cui parteciparono giovani colleghi destinati a un luminoso avvenire, tra i quali Gaspar van Wittel, De Heusch risulta presente in città nel corso degli anni Ottanta e ancora nel 1692, prima del ritorno in patria dove operò per quasi un decennio.

Formatosi come pittore di paesaggio nella bottega dello zio Willem de Heusch, a Roma Jacob fu attratto dalle soluzioni che nella prima metà del secolo avevano imposto Gaspard Dughet e Salvator Rosa e che i loro epigoni, da Crescenzio Onofri a Pietro Montanini, tuttora praticavano con successo. Sofisticato interprete di quei modelli, e in particolare di quelli rosiani, secondo quanto racconta Houbraken nella sua biografia dell’artista, Jacob de Heusch ne fu in effetti il tramite più efficace per i pittori di paesaggio della prima metà del Settecento, da Adrien Manglard a Andrea Locatelli.

Autore di numerosi disegni di veduta dedicati alle antichità romane, De Heusch inserisce numerosi motivi dal vero nei suoi paesaggi ideati e nelle sue vedute fluviali; ne è un tipico esempio la prima composizione qui offerta, in cui una scena costiera di fantasia è limitata a sinistra dalle rovine del Palatino, così come apparivano nel prospetto su via dei Cerchi. Le ritroviamo in controparte in due composizioni firmate dell’artista dove inquadrano composizioni fluviali di invenzione, una delle quali eseguita a pendant di una veduta di Ripa Grande (A. Busiri Vici, Jacob de Heusch (1656-1701). Un pittore olandese a Roma detto il “copia”. A cura di Cinzia Martini, Roma 1997, numeri 9 e 13).

Ancora più frequente, sebbene con numerose variazioni, la veduta costiera nel secondo dipinto, desunta con ogni evidenza dalle soluzioni compositive proposte nella prima metà del secolo da Salvator Rosa, costante riferimento di Jacob de Heusch anche per le figurine di soldati e bagnanti che anche qui vediamo. Da modelli dell’artista napoletano quali la tela a Roma nella Galleria Doria Pamphilj, o quella al Metropolitan Museum di New York discendono infatti le opere più felici di Jacob de Heusch, quali la Marina con soldati a Vienna, nella galleria della Akademie der bildende Künste, o quella già presso Schlichte Bergen a Amsterdam e, per l’appunto, la tela che qui proponiamo.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
74

Giacomo del Pisano, attivo a Siena, sec. XV

MADONNA CON BAMBINO

olio su tavola a fondo oro, cm 69,5x40,5

 

Provenienza

Collezione Serristori, Firenze;

Sotheby’s, Asta Serristori, Firenze, maggio 1977, n. 50

 

Bibliografia di riferimento

R. van Marle, Il problema riguardante Giovanni di Paolo e Giacomo del Pisano, in “Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione”, 18, 1924-25 (1925?), pp. 529-542

 

È stato Raimond van Marle a identificare la figura di Giacomo del Pisano quale probabile aiuto di Giovanni di Paolo (Siena, 1398-1482) nella realizzazione di alcune sue opere.

Il nome di questo allievo viene riportato alla luce grazie alla firma che si legge nel trittico con la Madonna con Bambino in trono e angeli tra Maria Maddalena e San Pietro, già al Museo Van Stolk di Harlem e oggi presso la National Gallery of Ireland di Dublino.

Nell’iscrizione, visibile al centro sotto la figura centrale della Vergine, si legge il nome “Jacopo del Pisano”; per van Marle non v’è dubbio che si tratti del nome dell’artista e non di quello del donatore. Lo studioso asserisce che nel secondo caso l’iscrizione sarebbe stata più lunga e che un nome che indica “l’origine della persona è più comune per indicare l’artista” (van Marle cit. p. 534). La firma che Jacopo ci ha lasciato dimostra la sua volontà di tramandare un ricordo di sé nel panorama della pittura senese del Quattrocento.

Grazie a quest’opera firmata, Van Marle procede nel riconoscimento di altre opere da ricondurre a Giacomo del Pisano piuttosto che al maestro, ritenendo che in queste “troviamo la maniera di Giovanni di Paolo ma non la sua mano”: oltre al Trittico di Dublino ne segnala un altro con la Madonna e il Bambino tra santi di collezione privata inglese (vedi van Marle cit. fig. 3).

Le opere di Giacomo del Pisano hanno infatti caratteristiche ben riconoscibili per i modi in cui sono condotte: la forma tondeggiante delle teste, i nasi molto aguzzi e quasi taglienti e soprattutto la forma delle mani allungate e con le dita larghe e schiacciate.

Sono questi dettagli, puntuali come una firma, che ci portano ad attribuire proprio a Giacomo del Pisano anche la Madonna con il Bambino qui presentata, del tutto coerente con il già citato Trittico di Dublino.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
70

λ

Taddeo Baldini

(Firenze 1623-1694)

SELENE ED ENDIMIONE

olio su tela, cm 253x202

 

Si ringrazia la dottoressa Francesca Baldassari per l'attribuzione del dipinto a Taddeo Baldini.

La tela verrà pubblicata dalla studiosa in un saggio in corso di stampa: F. Baldassari, Per Taddeo Baldini (1623-1694), pittore fiorentino della Controriforma e della favola mitologica, in Studi di Storia dell'Arte in onore di Fabrizio Lemme, a cura di F. Baldassari e A. Agresti, Etgraphiae (Roma) 2017. 

La studiosa propone una differente identificazione del soggetto che verrà appunto riferita negli Scritti in onore di Fabrizio Lemme di prossima pubblicazione.

 


 

Il dipinto qui presentato illustra il mito di Selene ed Endimione, due figure della mitologia greca che si stagliano dinanzi allo spettatore con un tocco di enfatica teatralità.

Apollonio Rodio è stato uno dei vari poeti a narrare come Selene si fosse innamorata perdutamente di questo giovane cacciatore al punto di chiedere a Zeus di accordargli una giovinezza perpetua così che lei avrebbe potuto visitarlo e amarlo ogni notte per sempre. Il desiderio di Selene venne esaudito e così Endimione cadde in un sonno di eterna adolescenza.

Ricca di lirismo, la scena si distingue per la gestualità dei personaggi, in linea con il linguaggio di età barocca, soprattutto di Selene che teneramente ammira con pathos il suo innamorato.

La tela mostra caratteri stilistici tipici della scuola pittorica fiorentina della metà del Seicento, indirizzati, in particolare, verso le formule figurative di Taddeo Baldini.

Nato a Firenze nel 1623, Taddeo fu introdotto in giovane età allo studio della pittura nella scuola di Matteo Rosselli dalla quale si distaccò intorno al 1648, anno di immatricolazione all’Accademia del Disegno, importante istituzione cittadina dove gli venne conferito il titolo di accademico.

Apprezzato dai committenti del tempo per le raffigurazioni sacre e profane condotte con notevole bravura pittorica, il Baldini mostrò stretti contatti stilistici con alcuni dei maestri fiorentini più importanti alla metà del secolo come Giovanni Martinelli, Vincenzo Dandini, Lorenzo Lippi. Taddeo Baldini morì a Firenze nel 1694.

Il dipinto con Selene ed Endimione, sulle cui provenienza originaria non abbiamo al momento informazioni, potrebbe trovare una collocazione cronologica adeguata negli anni sessanta del Seicento, quando l’artista dipinse alcune pale nella campagna Toscana (Barberino del Mugello e Marti, Pisa) che mostrano analogie con il nostro quadro.

La tela presentata è accostabile anche al dipinto raffigurante Linco che sorregge Dorinda ferita da Silvio passato in asta Pandolfini il 22 aprile 2013 soprattutto nella resa tipologica delle figure, nelle pieghe delle vesti e nella definizione delle mani.

 

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
69

λ

Jacopo di Chimenti da Empoli

(Firenze 1551-1640)

SANTA MARGHERITA DI ANTIOCHIA

olio su tela, cm 107,5x82,5

 

Provenienza

Collezione privata, Firenze

 

Bibliografia

M. A. Bianchini, Jacopo da Empoli in "Paradigma", 3, 1980, pp. 91-146, p. 129

G. Cantelli, Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento, Fiesole (Firenze), 1983, p. 40

A. Marabottini, Jacopo di Chimenti da Empoli, Roma, 1988, p. 226, n. 69, fig. 69

Jacopo da Empoli 1551-1640, pittore d'eleganza e devozione, a cura di R. Caterina Proto Pisani, A. Natali, C. Sisi, E. Testaferrata, Milano, 2004, p. 204, n. 51, scheda di R. Spinelli

 

 

L'interessante dipinto qui proposto raffigura una Santa Margherita di Antiochia, la figlia di un sacerdote pagano che rinnegò la fede del padre per abbracciare quella cristiana.

Gli attributi che vediamo nel dipinto, la croce e il drago, sono quelli tipici per la santa; infatti secondo la tradizione il demonio le apparve sotto forma di drago. Dopo esserne stata inghiottita Margherita riuscì a liberarsi dall’infernale creatura squartandogli il ventre con una croce. Per questo motivo la devozione popolare ritiene Margherita la protettrice delle donne che devono partorire.

L'opera, citata ma non illustrata da Cantelli nel Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento tra le opere di Jacopo Chimenti da Empoli, è datata intorno al 1610-1615. La data è confermata anche da Alessandro Marabottini, che ha pubblicato il dipinto nella monografia dedicata all'Empoli (Marabottini cit. p. 226 fig. 69) e da Riccardo Spinelli, considerando la tendenza dell'artista in quegli anni a rappresentare figure femminili a mezzo busto secondo i canoni della ritrattistica fiorentina del Seicento. Spinelli ricorda anche che "una santa con croce in mano dell'Empoli" era presente nella collezione fiorentina del marchese Filippo Niccolini alla metà del Seicento; questo ci può fornire una preziosa indicazione sulla provenienza dell'opera (Spinelli, cit. p. 204 scheda 51).

Il volto e l'acconciatura di santa Margherita sono confrontabili sia con il Ritratto di dama come santa martire detta Santa Barbara (Londra, collezione privata) che con la Susanna al bagno del Kunsthistorisches di Vienna, fanciulle dai volti calmi e dignitosi. Rispetto ai due quadri citati la nostra Margherita non ha lo sguardo sommessamente abbassato ma rivolge verso lo spettatore gli occhi vittoriosi sul Male.

La figura della santa ci appare dolcemente avvolta dalla luce naturale che mette in risalto le sfumature di colore degli incarnati e della veste rosa antico, oltre a esaltare la ricchezza delle maniche ornate da eleganti motivi floreali. È possibile trovare la stessa tipologia decorativa nella veste della figura di Santa Lucia nella pala con la Trinità, i quattro Evangelisti, Santa Lucia e San Carlo Borromeo (1620-21) della chiesa di San Bartolomeo a Prato; oltre alla somiglianza della posa ritornano infatti gli stessi motivi floreali stilizzati nelle maniche del vestito. Un ulteriore dipinto citato da Marabottini come confronto è la Santa Caterina in deposito dal 1972 nel Seminario Arcivescovile di Venegono Inferiore (Varese).

Jacopo Chimenti si formò nella bottega di Maso da San Friano studiando attentamente sui grandi maestri fiorentini del primo Cinquecento tra i quali Fra' Bartolomeo, Andrea del Sarto e Pontormo. Questa prassi rientra nell'insegnamento suggerito intorno agli anni settanta del Cinquecento da Santi di Tito ai giovani pittori fiorentini invitati a guardare all'antica tradizione del disegno piuttosto che all'ambiguità del tardo manierismo.

Molte delle opere di Empoli sono oggi visibili tra Firenze ed il suo paese natale; tra queste possiamo citare l'Immacolata Concezione del 1591 nella chiesa di San Remigio e l'Annunciazione del 1609 nella chiesa di Santa Trinita, entrambe a Firenze.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
60

λ

Giuseppe Recco

(Napoli 1634-Alicante 1695)

PESCI, RECIPIENTI DI RAME E UN GATTO SU UN PIANO DI PIETRA

olio su tela, cm 71,2x96

firmato "Gios. Recco" in basso al centro sulla pietra

 

Provenienza

Collezione don Antonio Martinez de Pinillos (1856-1923), Cadice;

per eredità alla figlia, Doña Carmen Martinez de Pinillos, Cadice, e ai suoi discendenti;

Jean-Luc Baroni, Ltd. Londra;

Collezione privata, Milano

 

 

Opere tipiche di Giuseppe Recco, la cui firma compare per esteso nel primo dipinto qui offerto, le inedite tele qui presentate offrono numerosi confronti con la produzione certa dell’artista napoletano ragionevolmente ascrivibile al settimo decennio del secolo.

Numerose opere datate a partire dal 1659 e fino agli anni estremi della sua attività consentono in effetti di ricostruirla secondo un percorso cronologico scandito da date certe, cosa abbastanza eccezionale nel panorama di questo genere pittorico.

Gli elementi compositivi della prima  “natura in posa” qui in esame e la loro disposizione sul piano di pietra, come del resto le dimensioni – importanti ma ancora relativamente contenute – suggeriscono una serie di confronti con opere datate dalla critica nella seconda metà degli anni Sessanta: in primo luogo con la Natura morta con pesci, crostacei e recipienti di rame nella raccolta Molinari Pradelli, anch’essa siglata, ma anche, per quanto attiene gli aspetti compositivi, con l’Interno di cucina in collezione privata a Napoli che, come il nostro dipinto, raccoglie su un piano di pietra una serie di alimenti rustici e un rinfrescatoio (per entrambe le opere citate e per ulteriori confronti si veda la voce monografica curata da Roberto Middione in La Natura Morta in Italia (a cura di Federico Zeri), Milano 1989, II, pp. 903-911, in particolare le figg. 1091 e 1093). La presenza del gatto sullo sfondo del nostro dipinto lo accosta altresì alla tela siglata di Giuseppe Recco offerta in questa sede il 19 ottobre 2016 (lotto 89) nell’ambito della vendita della collezione Romano.

Il secondo dipinto presenta invece i pesci all’aperto su uno sfondo di cielo: soluzione più rara ma non certo priva di precedenti, e destinata a lunga fortuna attraverso l’attività dei figli di Giuseppe Recco, in particolare Nicola.

Nonostante la diffusione dei motivi da lui proposti e che la nuova generazione continuerà a praticare nel Settecento, Giuseppe Recco resterà ineguagliato nel virtuosismo dei suoi riflessi rossi e argentei, uniti a una singolare capacità mimetica che lo colloca a pieno diritto tra i naturalisti napoletani.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
59

 

Attribuito a Giuseppe Volò, detto Giuseppe Vicenzino

(Milano 1662-notizie fino al 1700)

NATURA MORTA CON FIORI E VOLATILI

olio su tela, cm 147x219, le misure complessive con la cornice sono cm 190x261.

 

Bibliografia di riferimento

M. Mosco, Cornici dei Medici. La fantasia barocca al servizio del potere, Firenze, 2007

 

Questa grande Natura morta con fiori e volatili viene presentata all'interno di un'importante cornice fiorentina dorata a mecca della metà del secolo XVII.

Si tratta di una rara cornice, battuta a gole lisce su fascia rilevata intagliata a motivi di fogliette nervate sovrapposte e ricorrenti che si dipartono dai centri segnati da volute e girali a inquadrare quattro mascheroni a grottesca che decorano la fascia esterna dipinta nei toni del marrone. Agli angoli le medesime volute e i girali inquadrano grandi foglie aperte rivolte verso l’esterno a decorare la fascia il cui bordo si presenta intagliato a motivo di nastro fogliaceo ritorto. Questa eccezionale cornice è da annoverare fra le opere dei grandi artigiani, disegnatori e intagliatori che operarono per le botteghe medicee.

Per quanto riguarda i mascheroni che scandiscono la cornice non vi è dubbio che l’intagliatore si sia ispirato non solo ai mascheroni del Buontalenti che sono presenti sulle finestre di alcuni palazzi fiorentini, ma anche ai fantasiosi disegni di Stefano della Bella come quello conservato a Roma presso l’Istituto Nazionale per la Grafica, inv. FC 126096, collocazione scatola 38, provenienza vol. 157 G10 (fig. 1).

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
56

Antonio Joli

(Modena 1700 - Napoli1777)

VEDUTA DEL TEVERE CON CASTEL SANT’ANGELO E SAN PIETRO

olio su tela, cm 40x112

 

Provenienza

Christie’s, Londra, 10 luglio 1981, n. 62

 

Bibliografia

M. Manzella, Antonio Joli. Opera pittorica, Venezia 2000, p. 91, R8; fig. 57.

 

Proposta per la prima volta da Gaspar van Wittel nei primi anni del nono decennio del Seicento, la veduta del Tevere a Castel Sant’Angelo fu certo tra le più replicate su richiesta dei collezionisti italiani e dei viaggiatori del Grand Tour che in quest’immagine di Roma trovavano una vera e propria icona della città antica e moderna, classica e cristiana.

Il successo di questa veduta è appunto documentato dalla sua persistenza, ancora alla metà del Settecento, per opera di Antonio Joli, l’artista – scenografo riconosciuto nelle principali capitali d’Europa come uno dei seguaci più dotati ed originali di Vanvitelli. Non a caso, il catalogo dell’artista modenese stilato da Ralph Toledano riunisce venticinque versioni di questo soggetto, eseguite tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Settecento. Tra queste, la bella veduta eseguita intorno al 1747 per la sala da pranzo di Chesterfield House, scelta insieme a un’immagine di piazza del Popolo per rappresentare Roma.

Variabili per dimensioni, occasionalmente rilevanti come nel caso della tela di oltre tre metri venduta da Christie’s a Londra nel 1993, tutte le versioni note coincidono sostanzialmente nel punto di vista e nei dettagli dei monumenti raffigurati, il mausoleo di Adriano sulla riva destra del fiume, ponte Sant’Angelo con le statue berniniane degli angeli, e al centro la facciata e la cupola di San Pietro. Sommaria e di probabile invenzione nei suoi dettagli la riva sinistra; animate da barche e figurine simili tra loro ma mai identiche le acque del fiume.

Unica nel suo genere, la tela qui proposta ripete questo celebre soggetto nel formato, davvero inconsueto, di un sovrapporta, probabilmente accompagnato in origine da altre tele di uguali dimensioni ancora da rintracciare.

Pubblicata da Manzella (con riferimenti imprecisi) sulla base di una foto scarsamente leggibile, e per questo motivo assente nella più completa monografia di Ralph Toledano (Antonio Joli. Modena 1700 – 1777 Napoli, Torino 2006), la versione qui offerta è stata confermata a Joli da quest’ultimo studioso sulla base di fotografie in alta risoluzione.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
52

Mario Nuzzi detto Mario de' Fiori

(Roma 1603-1673)

VASI DI FIORI

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 66,8x50

(2)

 

Opere dichiarate di interesse culturale particolarmente importante con Decreto Lesislativo 490/1999 del Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali dell’Emilia Romagna del 21 ottobre 2002.

 

Provenienza

Collezione Bizzini, Vignola;

Porro & C., Milano, 25 febbraio 2004, n.11

 

Da tempo acquisiti al catalogo di Mario dei Fiori, e come tali sottoposti a vincolo da parte della Soprintendenza dell'Emilia Romagna i dipinti qui offerti costituiscono uno splendido esempio della produzione matura dell’artista romano intorno alla metà del secolo.

A lungo appesantito da opere a lui riferite solo in virtù della sua straordinaria reputazione di pittore di fiori, il catalogo di Mario Nuzzi è stato ricostruito in maniera rigorosa e convincente a partire dalle opere firmate o documentate conservate nel monastero dell’Escorial, nel palazzo Chigi di Ariccia e in palazzo Colonna a Roma (si veda Laura Laureati in La natura morta in Italia, Milano 1989, I, pp. 759-767); a queste si è aggiunta la serie di vasi di fiori già nella collezione Mansi a Lucca (G. e U. Bocchi, Mario Nuzzi detto Mario dei Fiori, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630 – 1750, Viadana 2005, pp. 67-142, in particolare figg. 43-50).

Questo nucleo di opere documentate ha consentito di rintracciarne altre attribuibili per fondati confronti stilistici, restituendo così un’immagine più convincente del maggiore specialista del suo tempo e di comprendere meglio l’importanza esercitata dai suoi modelli su artisti spagnoli e francesi. Tra le recenti acquisizioni al suo catalogo la nostra coppia di vasi di fiori trova motivi di confronto specifico con  quella di formato ottagonale pubblicata dai Bocchi (2005, cit., p. 121, figg. 54-55): simile l’impianto del bouquet, i rilievi che ornano il vaso, le corolle bagnate di rugiada delle rose antiche sul punto di sfiorire. Ulteriori confronti, soprattutto per quanto riguarda i vasi, rimandano alla coppia nel Museo Civico di Como (Bocchi 2005, pp. 124-25, figg. 59-60) e a un dipinto d raccolta privata esposto a Fano nel 2001 (L’anima e le cose. La natura morta nell’Italia pontificia del XVII e XVIII secolo, Fano 2001, n. 36, illustrato in catalogo a p. 115).

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
51

λ

Giovanni Battista Vanni

(Firenze 1600 - Pistoia 1660)

CARDINALI A CAVALLO, 1653-1657

olio su tela, cm 109x216,5

firmato e datato in basso a destra "Gio.B.Vanni. F. 165(..) "

 

Provenienza

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Firenze, 1937, p. 18 e p. 67

D. Pegazzano, I "Cardinali guerreggianti": dipinti inediti di Giovan Battista Vanni per monsignor Lorenzo Corsi, in "Prospettiva", 153/154.2014 (2015), pp. 74-94, figg. 1-4, fig. 11

 

Il grande e fascinoso dipinto qui presentato testimonia l’ultima tappa di un proficuo sodalizio tra monsignor Lorenzo Corsi e il pittore Giovan Battista Vanni che per lui realizzò molte opere.

Donatella Pegazzano dedica un recente e nutrito articolo a questi due personaggi e al quadro qui offerto.

Come per la Caccia del cardinale Giovan Carlo dei Medici (presentato nell’asta Pandolfini del 23 novembre 2016 con il lotto 28) anche i Cardinali a cavallo sono ricordati nell’inventario della nobile famiglia di appartenenza: “sei ritratti di Cardinali che hanno comandato in guerra” e ancora “Due quadri grandi che uno di Braccia 4 e ½ di larghezza dipintovi una Caccia del Serenissimo Cardinale Giov. Carlo dei Medici alla villa di Cafaggiolo e l’altro Braccia 4 incirca ove sono dipinti sei Cardinali a cavallo" (in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, p.18 e p. 67).

La scena rappresentata è strettamente legata alla vita e alle aspirazioni di monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) che stava avviando una brillante carriera ecclesiastica che lo avrebbe portato al cardinalato se non fosse morto precocemente di peste durante l’epidemia che aveva colpito Roma.

L’anno successivo alla morte di Lorenzo, nel 1657, il Vanni venne pagato per il nostro dipinto con un primo acconto di 22 scudi e saldato con 64 scudi; la voce di pagamento infatti parla di “diversi cardinali guerreggianti servito per la Galleria di Sesto” (Pegazzano cit. pp. 79-80. nota 53) e fu l’abate Domenico Maria, nipote di Lorenzo e figlio di Giovanni Corsi, a pagare il pittore.

Ci troviamo comunque di fronte ad una committenza di Lorenzo Corsi e non di Domenico Maria in quanto i personaggi effigiati sono in relazione con le vicende della sua vita tra Roma e la Francia. Per quanto riguarda il periodo di realizzazione del quadro è possibile che il Vanni lo abbia ideato e cominciato nel 1653, appena dopo il rientro del Corsi da Avignone (dove era stato dal 1645 come vice legato per conto di papa Innocenzo X), e terminato quattro anni dopo quando Domenico Maria aveva provveduto al saldo dell’opera.

Il grande quadro, che si contraddistingue per una studiata composizione scenografica, per i colori brillanti e i dettagli vividi, rappresenta un gruppo di sei figure a cavallo con due paggi vestiti all’orientale. Le figure si stagliano monumentali sotto un cielo tempestoso, nel paesaggio in lontananza si vedono un accampamento militare e una città fortificata.

Sono gli zucchetti color porpora sulle teste delle figure che ci permettono di identificarli come cardinali, almeno per cinque delle sei figure. Sotto ogni personaggio è visibile un numero tracciato a pennello che doveva rimandare ad una iscrizione in cui erano riportati i nomi per identificarli. L’iscrizione purtroppo non è più presente nel quadro anche se, analizzandolo con la lampada di Wood, si intravedono nella parte superiore le gambe di quelli che potevano essere Vittorie alate in atto di sostenere un cartiglio con i nomi dei cardinali. Probabilmente il quadro è stato ridotto nell’altezza e le figure delle Vittorie ridipinte e nascoste da nubi cariche di pioggia.

La presenza del cartiglio ci viene suggerita anche da un’incisione di François Chauveau del 1655 (Pegazzano, cit., p. 79, fig. 7) che riproduce Mazzarino su un cavallo impennato in atto di sedare il conflitto tra l’esercito imperiale e quello francese durante la guerra del Monferrato. Nella parte soprastante della scena si vede infatti un doppio cartiglio inneggiante alla sua fama e alla sua gloria.

L’avvenimento della Guerra dei Trent’Anni, che pose fine alla difficile successione dello stato di Mantova e Monferrato, è ricordato come un’azione eroica in cui si dimostrarono tutte le doti diplomatiche di Mazzarino, non ancora cardinale, ma in procinto di diventarlo; infatti l’occasione fu propizia per mettere in luce la sua abilità politica intuita subito da Richelieu che di lì a poco lo avrebbe chiamato in Francia come suo successore. Proprio questo avvenimento presso Casale Monferrato, nonché l’incisione di Chauveau, ci aiuta a riconoscere nel cavaliere al centro del nostro dipinto un "vittorioso" Giulio Mazzarino. Invece nel primo personaggio sulla sinistra con la chioma bianca e il volto magro si riconosce facilmente il cardinale Richelieu, il cui volto era noto in Europa per il bellissimo ritratto di Philippe de Champaigne adesso presso la National Gallery di Londra.

Insieme a queste due personalità di spicco è possibile rintracciare anche gli altri personaggi presenti nel quadro. Secondo quanto ricostruito da Pegazzano, in base alle frequentazioni romane di Lorenzo Corsi e ai confronti fisionomici, i due cavalieri sul lato destro del dipinto sono i cardinali Antonio iuniore (1670-1671) e Francesco Barberini (1597-1679) nipoti di Urbano VIII.

Antonio ha appuntata sul petto la croce dell’Ordine di Santo Spirito, che ricevette nel 1653, onorificenza che spettava alle personalità particolarmente vicine al re di Francia e interessante termine post quem del dipinto.

Proprio la presenza di Antonio induce a pensare che l’altro cardinale in armatura, quello più esterno, sia Francesco Barberini anche lui coinvolto nell’ambasceria papale e in contatto epistolare con Lorenzo Corsi.

Gli ultimi due cavalieri potrebbero essere Carlo I Gonzaga Nevers (accanto a Richelieu) che ebbe il dominio del ducato di Mantova dopo la pace di Casale, e Giulio Sacchetti (tra i due Barberini) anch’egli coinvolto nello stesso avvenimento (Pegazzano cit. p. 83).

Il dipinto potrebbe essere stato commissionato dal Corsi come dono ad Antonio Barberini per celebrarne il rientro a Roma dalla Francia, dopo aver ricucito i rapporti con papa Pamphilj, e per sottolineare la fedeltà al partito filo-francese grazie alla presenza di Richelieu e Mazzarino.

E sono proprio queste due personalità che dimostrano infine il forte desiderio di ascesa di Lorenzo Corsi e le sue aspirazioni al cardinalato. In particolare la brillante carriera di Mazzarino costituì certo un modello di riferimento per lui, considerando che furono entrambi vice legati ad Avignone.

Tuttavia la morte impedì al Corsi di raggiungere l’importante carica ambita; fu però il nipote Domenico Maria a raccogliere l’eredità dello zio e a diventare nel 1686 cardinale e in seguito vescovo di Rimini e Ferrara continuando inoltre ad incrementare le fortune e le collezioni della famiglia e a dimostrare una spiccata predisposizione all’arte e al collezionismo.

 

 

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 80