Dipinti e sculture antiche

16 MAGGIO 2017

Dipinti e sculture antiche

Asta, 0203
FIRENZE
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15:30
Esposizione
FIRENZE
12-15 Maggio 2017
orario 10-13 / 14–19 
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   1500 € - 80000 €

Tutte le categorie

31 - 60  di 80
32

Domenico Cresti detto il Passignano e aiuti

(Tavarnelle Val di Pesa 1559 – Firenze 1638)

RESURREZIONE DI CRISTO

olio su tela, cm 105,5x85,5

firmato "Opus Dominici Passignani MDC"

 

Bibliografia di riferimento
M. Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana, Venezia 1674
F. Baldinucci,
Notizie dei Professori del Disegno da Cimabue in qua [6 voll, Firenze 1681-1728], ed. a cura di F. Ranalli, 5 voll, Firenze 1845-1847, ristampa anastatica a cura di P. Barocchi, Firenze 1974-1975, III, 1974, pp. 430-451  
C. Ridolfi,
Le meraviglie dell’Arte, Venezia 1646, 2 voll.
J. L. Nissman,
Domenico Cresti (Il Passignano), 1559 - 1638: a Tuscan painter in Florence and Rome,
Phil. Diss., Columbia University, New York, [S.l.], 1979, con bibliografia
F. de Luca, S. Vasetti,
La cappella Del Giglio in Santa Maria Maddalena dei Pazzi, in Altari e committenza. Episodi a Firenze nell’età della Controriforma, Firenze 1996, pp. 159-172
F. Berti,
Domenico Cresti, il Passignano, "fra la natione fiorentina e veneziana": viatico per il periodo giovanile con una inedita Sacra Famiglia, Firenze 2013, con bibliografia
F. de Luca,
L’impresa del Passignano per "accomodare e ridurre in bellezza e vaghezza la cappella maggiore", in Arte nella chiesa di San Michele Arcangelo (secc. XV - XIX), a cura di I. Moretti, Firenze 2014, pp. 173-188


Nonostante il piccolo formato, questa
Resurrezione di Cristo del Passignano è improntata a un’ampia monumentalità, sostenuta dallo slancio della figura di Cristo che balza fuori dal sepolcro col vessillo crocesignato, simbolo della sua vittoria sulla morte. L’esplosione di luce, angeli e serafini che lo accompagna è potentemente evocativa di un “gran terremoto” riportato nel Vangelo di Matteo. In realtà i  testi evangelici non descrivono il momento della resurrezione, ma riferiscono l’apparizione sovrannaturale, tra bagliori e scosse che atterrirono gli uomini di guardia, di un angelo  vestito di bianco dall’aspetto “come folgore” che si sedette sulla pietra divelta dell’ingresso alla tomba, e che annunciò a Maria di Magdala, a Maria madre di Giacomo e a Salomè convenute al sepolcro per ungere il corpo del Signore con olii aromatici, la preannuciata resurrezione di Gesù (Mt 28, 1-7). Sullo sfondo dell’alba livida di un nuovo giorno, il Passignano descrive il colloquio fra l’angelo (che indica sia Cristo sia il sepolcro aperto) e le donne, secondo un’iconografia antica ripresa in età della Controriforma (si veda, per esempio, la Resurrezione di Santi di Tito in Santa Croce della prima metà degli anni Settanta del Cinquecento), mentre, in preda al terrore, un soldato fugge e un altro cade al suolo.

Infrequente nella produzione del Passignano, il tema della resurrezione è quello in cui nel 1598-1599 l’artista diede la sua prova migliore, ovvero la sua celebrata tela per la cappella della Madonna del Soccorso (di patronato dell’amico Giambologna) nella Santissima Annunziata di Firenze. Prova che lui stesso, secondo il racconto del biografo Filippo Baldinucci, avrebbe in seguito dichiarato di non poter credere che fosse di sua mano "tanto mi pare che siano risolute l’attitudini, e nobile l’invenzione” (Baldinucci III, p. 439). Il dipinto dell’Annunziata è più grande e slanciato verticalmente (cm 350x200) di quello in esame, ma la composizione è molto simile. Le differenze si concentrano nella maggiore tornitura dei volumi, nel contorno angelico di Cristo che in quel dipinto è brulicante anche di putti; nella nitida descrizione dell’ingresso al sepolcro con tre gradini; nella visione frontale del soldato in piedi, e nell’ingombro, in basso, della catasta dei corpi delle guardie rimaste al suolo “come morte” per lo spavento.  Si può capire per quale motivo quest’opera, copiata anche da Andrea Boscoli, godette di grande fama: sfolgorante di una ricca tavolozza (riemersa prepotentemente dopo il recentissimo restauro) che deriva dall’esperienza veneziana del pittore e del suo studio dell’arte di Federico Barocci, è un’armonica combinazione fra l’equilibrio classico della composizione e l’effetto barocco dell’apparizione di Cristo, fra la potenza del disegno anatomico e il patetismo dei gesti e delle espressioni. 
L’invenzione trova uno stretto riferimento nella formazione veneziana del pittore, che soggiornò nella città lagunare dal 1582 al 1587 circa, e in particolare nella produzione estrema della bottega del Veronese, frequentata in quegli anni da valenti collaboratori fra cui Alvise del Friso e Antonio Vassillachi detto l’Aliense, la cui affinità con la maniera del Passignano è nota. In questa piccola tela, il tono bruciato della preparazione è preponderante, soprattutto nella parte dello sfondo, dove si intravede appena l’accesso al sepolcro.

La Resurrezione in esame, destinata a una committenza al momento sconosciuta, è firmata e datata 1600, e sembra una versione abbreviata di quella maggiore, con qualche modifica, concepita per uso domestico o per una cappellina privata. Alcuni elementi, come l’articolazione un po’ faticosa dell’attitudine della guardia in fuga, il fremito frivolo delle frange della sua lorica, una sfumatura ingenua nella disposizione delle gambe del militare sdraiato al suolo, il trattamento più sintetico delle anatomie con il rimpicciolimento delle estremità, fanno pensare a una collaborazione della bottega, che negli anni Novanta del secolo contava nomi illustri come Giovanni Nigetti, Nastagio Fontebuoni, Fabrizio Boschi, Nicodemo Ferrucci, Ottavio Vannini e il bolognese Alessandro Tiarini. Lo stesso atteggiamento enfatico, quasi danzante, sottolineato dallo svolazzamento della tunica, si riscontra nella figura del boia nella pala d’altare della cappella di Nereo Neri nel complesso di Santa Maria Maddalena de’Pazzi col Martirio dei Santi Nereo e Achilleo (post 1598) che secondo Baldinucci (III, p. 437; IV, p. 436) fu preparato da un giovanissimo Ottavio Vannini. Nel 1600 il Passignano era all’apice della carriera ed era  sovraccarico di impegni anche fuori dalle mura della città (fra cui l’impresa decorativa della cappella maggiore nella chiesa della Badia a Passignano, dove impiegò Nicodemo Ferrucci; la Madonna della Misericordia e Santi oggi nella chiesa di san Giorgio a Livorno, il Battesimo di Santa Priscilla per Santa Prisca a Roma): è possibile che abbia affidato, sotto il suo stretto controllo, la preparazione della composizione a un aiuto, che avrebbe avuto a disposizione i disegni preparatori della pala dell’Annunziata (Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, nn. 9166F (studio della composizione) e 9099F (studio per il Cristo), Nissman 1979, p. 273, n. 35; Gabinetto Nazionale delle Stampe, Roma, n. 124223, L. Bencini, scheda OA, Catalogo Generale n. 00299058, 1988), portando poi personalmente il dipinto a compimento e firmandolo. 

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

Giusto Sustermans

(Anversa, 1597 – Firenze, 1681)

RITRATTO DI COSIMO III DE' MEDICI (1642-1723)

olio su tela ottagonale, cm 84,5x69

 

Inedito e non documentato, il bellissimo ritratto qui offerto si aggiunge alla “galleria” di Cosimo III de’ Medici, qui raffigurato non ancora adolescente, verosimilmente verso i dieci anni di età. L’identità dell’effigiato è confermata dal confronto con il ritratto, quasi sovrapponibile nei suoi tratti essenziali sebbene tagliato all’altezza dei fianchi, conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna (inv. 8157) in cui il giovane principe indossa un abito rosso in tessuto operato a motivi geometrici e poggia la sinistra su un elmo apparentemente privo delle piume che, nel nostro dipinto, ripetono i colori dell’abito e delle trine (K. Langedijk, The Portraits of the Medici, I, Firenze 1981, pp. 591-92, n. 29,13). E che si tratti proprio di Cosimo, figlio del Granduca Ferdinando II e di Vittoria della Rovere, è documentato da un’incisione di Pietro Anchini dedicata alla Granduchessa e riproducente un altro ritratto del figlio giovinetto con in mano una lettera (Langedijk cit., 1981, I, 29,10-11). La forte somiglianza con Vittoria, evidente nel nostro dipinto, si accentua nel noto ritratto della galleria Palatina che ritrae Cosimo, ancora principe, nel 1658.

Succeduto al padre nel 1670, Cosimo III proseguì nella committenza di ritratti dinastici e famigliari al fiammingo Giusto Sustermans, che per Ferdinando aveva lavorato dal 1631 fino alla morte del Granduca: una carriera celebrata dallo stesso Cosimo che nel 1678 espose una selezione delle sue opere conservate nelle raccolte granducali (Un Granduca e il suo ritrattista. Cosimo III de’ Medici e la “stanza dei quadri” di Giusto Sustermans. A cura di Lisa Goldenberg Stoppato, Firenze, Palazzo Pitti, giugno – ottobre 2006).

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
35

λ

Lorenzo Sabatini, detto Lorenzino da Bologna

(Bologna 1530 circa-Roma 1576)

LA GEOMETRIA

olio su tela, cm 174x123

 

L’opera qui presentata è replica autografa della tela, quasi identica per dimensioni, conservata nella Galleria Sabauda a Torino.

A lungo riferita a Francesco Salviati e ancora catalogata a suo nome da Luisa Mortari (Francesco Salviati, Roma 1992, p. 121, n. 34) la raffinata figura allegorica (che la studiosa legge come Prudenza) è stata correttamente restituita da Daniele Benati a Lorenzo Sabatini e, più precisamente, datata intorno al 1570 (Una Lucrezia e altre proposte per Bartolomeo Passerotti, in “Paragone” 1981, p. 34, nota 17; più specificamente in Lorenzo Sabatini: quadri con “donne nude”, in Studi di storia dell’arte in onore di Jürgen Winkelman, Napoli 1999, pp. 51 e 55, nota 5 p. 58, fig. 1); nuovamente in “Un quadro grande con donne nude” da Joachim Wtewael a Lorenzo Sabatini, in Il più dolce lavorare che sia. Studi per Mauro Natale, Cinisello Balsamo 2009, p. 118 e nota 11, fig. 2).

Nell’accogliere questa proposta per la tela della Sabauda, Jürgen Winkelman, primo e maggiore studioso del pittore bolognese (Lorenzo Sabatini, in Pittura bolognese del Cinquecento, a cura di Vera Fortunati Pietrantonio, Bologna 1986, II, p. 601) ne citava senza riprodurla una replica autografa e di uguali dimensioni già sul mercato antiquario a Milano: un’opera che per motivi di provenienza geografica potrebbe in effetti identificarsi con il dipinto qui presentato.

Sofisticato esempio della Maniera, la raffinata figura allegorica mostra gli esiti dell’esperienza fiorentina di Lorenzo Sabatini, collaboratore del Vasari nella decorazione di Palazzo Vecchio e negli apparati per le nozze di Francesco de’Medici con Giovanna d’Austria nel 1566. Documentato a Bologna nel 1569, egli si fece tramite degli stilemi della Maniera tosco-romana nella città natale, un fatto che giustifica l’attribuzione a Francesco Salviati per questa invenzione, nell’esemplare di Torino, e l’accostamento, nel gusto più che nello stile, alla Pazienza di Giorgio Vasari nella Galleria Palatina.

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
39

λ

Jacob van Huchtenburgh

(Haarlem 1639 ca.-Amsterdam 1675)

VEDUTA DI CAMPO VACCINO

olio su tela, cm 82x111,5

firmato “Jacob Huchtenburgh” in basso a sinistra su una pietra

 

Provenienza

Londra, Christie’s, 4 aprile 1986, n. 119;

Parigi, J.O. Legenhoek;

Roma, collezione privata

 

Bibliografia

Illustrato in "La Revue du Louvre" 1987, 10;

L. Salerno, I pittori di vedute in Italia (1589-1830), Roma 1991, p. 110 (non riprodotto)

 

Splendido esempio della produzione olandese italianizzante, il dipinto qui offerto propone un soggetto più volte affrontato da Jacob van Huchtenburgh, a Roma nel 1670 secondo la biografia di Arnold Houbraken.

L’ampia veduta presenta il Foro romano – allora noto come Campo Vaccino – prima degli scavi di inizio Ottocento: a sinistra riconosciamo in sequenza l’arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina, il cosiddetto tempio di Romolo annesso alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano, la chiesa di Santa Francesca Romana; sullo sfondo, il Colosseo e la Basilica di Massenzio. A destra, il muro di cinta degli Orti Farnesiani con il portale di Vignola conduce all’arco di Tito; più vicino, la distrutta chiesa di Santa Maria Liberatrice alle pendici del Palatino. Di tutti i monumenti del Foro solo le colonne del tempio dei Castori sono visibili, con accanto la grande vasca circolare poi rimontata da Valadier accanto ai Dioscuri di Montecavallo.

Riproponendo in modo più esteso e completo vedute già note costruite con lo stesso punto di vista, a cui si aggiunge una veduta del Foro verso la torre delle Milizie già a Roma presso la Galleria Megna (vedi L. Salerno, I pittori di vedute in Italia cit., pp. 110-111) il nostro dipinto se ne distingue per proporzioni più ampie e soprattutto per le bellissime figure in primo piano, la cui luminosa cromìa è esaltata da un ottimo stato conservativo.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
42
λ
Giovanni Battista Vanni
(Firenze 1600 - Pistoia 1660)
AGAR, ISMAELE E L'ANGELO NEL DESERTO
olio su tela, cm 175x235,5
reca sul retro etichetta e targhetta in metallo con la scritta "Proprietà Guicciardini Corsi Salviati in consegna alla parrocchia di S. Martino a Sesto"

Provenienza
Già collezione Corsi
Collezione privata

Bibliografia
F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728, ed. a cura di F. Ranalli, Firenze 1845-1847, IV, 1846, pp. 534-548S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento e Settecento. Biografie e opere, Firenze, 2009, I, p. 265 (Agar, Ismaele e l’angelo, Firenze, collezione privata, non riprodotto) D. Pegazzano, I "Cardinali guerreggianti": dipinti inediti di Giovan Battista Vanni per monsignor Lorenzo Corsi, in "Prospettiva", 153/154.2014 (2015), pp. 74-94, p. 84, fig. 14, p. 86, fig. 16

La grande tela qui offerta mette in scena la storia di Agar e Ismaele raccontata nel libro della Genesi.Sara, la moglie di Abramo, non potendo avere figli, offre al marito la sua schiava Agar, dalla cui unione nascerà Ismaele. La giovane donna e il figlio verranno poi ripudiati e allontanati da Abramo dopo la nascita miracolosa di Isacco, figlio di Sara.   Agar «se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l'acqua dell'otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d'arco, perché diceva: “Non voglio veder morire il fanciullo!”. Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse. Ma (…) un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione». Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d'acqua. Allora andò a riempire l'otre e fece bere il fanciullo. E Dio fu con il fanciullo» (21,8-21)Il momento rappresentato è proprio quello appena narrato nel passo della Genesi in cui Agar e Ismaele, soli nel deserto, senza più acqua (la borraccia in primo piano infatti è vuota) sono prossimi alla morte. Madre e figlio però verranno soccorsi da un angelo bellissimo che indica una sorgente d’acqua che scaturisce dalla roccia.Il dipinto, pubblicato in D. Pegazzano cit. p. 84 fig. 14, è stilisticamente accostabile alle opere di Giovan Battista Vanni, pittore fiorentino di cui Filippo Baldinucci ci tramanda un ritratto puntale e lusinghiero. Vanni fu una personalità di spicco nella Firenze seicentesca, molto gradita ai suoi committenti non solo per il suo bell’aspetto ma anche per gli innumerevoli interessi che coltivò, dalla musica al teatro.Figlio dell’orafo Orazio Vanni, Giovan Battista fu avviato sin da giovane allo studio della pittura presso la bottega di Empoli e in seguito sotto la guida di Cristofano Allori e Giovanni Bilivert. Al 1617 risale l’immatricolazione all’Accademia del Disegno e già negli anni Venti partecipa a diversi importanti cantieri tra cui quello per la villa Medicea di Poggio Imperiale e per il Casino di San Marco. Baldinucci riporta con precisione anche la variegata committenza dell’autore tra cui vengono ricordati i Del Turco, i Tornaquinci, gli Acciaiuoli e soprattutto i Corsi. Per monsignor Lorenzo Corsi Vanni realizzò moltissimi quadri, tra cui il nostro, e fu ospite in più occasioni presso la sua abitazione romana, cosa che gli permise di studiare le opere degli artisti in voga nell’urbe. A Roma è documentato dal 1624 e, ad eccezione di alcuni ritorni in Toscana e un viaggio a Parma nel 1629, vi rimase fino al 1632.Al terzo soggiorno romano, intorno agli anni trenta del Seicento, possiamo far risalire la nostra Agar, da collocare con sicurezza dopo il ritorno da Parma nel 1629 per le evidenti influenze dell’opera di Correggio.Il quadro appare inoltre stilisticamente molto vicino al San Sebastiano curato dalle pie donne della cappella Montauto in San Giovanni dei Fiorentini a Roma datato tra il 1630 e il 1632, finora unica opera certa del periodo romano del Vanni. La modella utilizzata per Agar è la stessa della pia donna che estrae la freccia dal corpo di San Sebastiano; ma anche il corpo esangue di Ismaele cita nella posa quello morente del santo. Il quadro non può essere inoltre all’oscuro dell’opera di Giovanni Lanfranco, stringenti infatti sono i confronti con la sua Agar conservata al Musée National de Château di Versailles. Lanfranco fu una delle personalità artistiche più rappresentative del barocco romano. Il Vanni può essersi ispirato a questo maestro, geniale nell'invenzione e amante degli scorci audaci, che lavorò più volte per la famiglia Barberini, con cui anche monsignor Corsi, committente del Vanni, aveva forti legami.Al Lanfranco rimandano la scelta cromatica del panneggio, i forti effetti di luce che investono le figure, la composizione con la monumentale Agar seduta in primo piano dinanzi alla roccia; mentre invece l’affabile angelo che incoraggia la donna a non perdere la fiducia si trasforma in Vanni in una scattante vittoria alata avvolta in una veste metallica di memoria bronzinesca.
Stima   € 20.000 / 30.000
43

Attribuito a Giovan Battista Ghidoni

(Firenze 1599- Vienna? post 1650)

RITROVAMENTO DI MOSE'                                                     

olio su tela, cm 175x233                                                  

reca sul retro etichetta e targhetta in metallo con la scritta "Proprietà Guicciardini Corsi Salviati in consegna alla parrocchia di S. Martino a Sesto"

                                                     

Provenienza

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

R. C. Proto Pisani, Appunti su alcuni pittori poco conosciuti del Seicento: Francesco Ligozzi, Giovan Battista Ghidoni e altri, in “Arte cristiana”, 1993, pp. 423-438 (Ghidoni, pp. 430-433)

 

La grande tela con il Ritrovamento di Mosè, da considerarsi, per le dimensioni, per le cornici coeve e per la stessa provenienza riportata al retro della cornice, come un pendant dell’Agar e Ismaele di Giovan Battista Vanni presentato al lotto precedente, si può accostare stilisticamente alle opere di Giovan Battista Ghidoni, autore meno conosciuto del Seicento fiorentino.

L’artista fu introdotto allo studio della pittura sotto la guida del padre Galeazzo, pittore cremonese allievo di Antonio Campi, e di Sigismondo Coccapani.

Nel 1615 Ghidoni debuttò a Firenze lavorando ad uno dei pannelli allegorici del soffitto di Casa Buonarroti; l’opera che raffigura una Pietà cristiana risente sia del Coccapani per la plasticità delle forme che delle novità di Artemisia Gentileschi, anche lei impegnata in quel cantiere. Lavorando a Casa Buonarroti ebbe modo di conoscere anche i pittori Bartolomeo Salvestrini e Filippo Tarchiani con cui aveva stretto un rapporto di amicizia.

Tra le opere di Ghidoni si ricordano anche la lunetta con Susanna per la Villa di Poggio Imperiale e le due tele, firmate, raffiguranti un’Annunciazione e un Battesimo di Sant’Agostino per la chiesa San Martino alla Scala, adesso presso il convento delle suore carmelitane di via de’ Bruni a Firenze.

Questi dipinti colpiscono, come indica Caterina Proto Pisani (cit. p. 431), per “la loro bellezza e il sapiente uso della luce” ed è proprio questa caratteristica del Ghidoni, “di una luminosità in chiaro” derivata dallo studio di Caravaggio, che ci spinge ad accostare il nostro Ritrovamento di Mosè alla mano di questo pittore.

In particolare si notano punti di contatto con il dipinto che Giovan Battista realizzò per la chiesa di Santa Verdiana a Castelfiorentino che raffigura la Reclusione di Santa Verdiana, opera commissionata nel 1632 e terminata nel 1637 (l’opera è firmata e datata 1637). Cronologicamente siamo inoltre vicini al dipinto del Vanni con Agar e l’angelo dipinta proprio intorno agli anni trenta del Seicento, come segnalato nella scheda qui in catalogo (lotto 42).

I colori tenui, l’attenzione alle fisionomie, la luce che batte e illumina con giochi di cangiantismo gli abiti di Bithia e delle sue ancelle sono tratti tipici di questo interessante pittore; le stesse caratteristiche le ritroviamo infatti nel dipinto di Castelfiorentino in cui la luce investe analogamente i paramenti liturgici dei personaggi in processione sulla destra.

Anche i volti delle fanciulle che si trovano ad assistere al ritrovamento di Mosè appartengono allo stesso tipo fisiognomico delle due donne presenti sul lato sinistro della tela di Santa Verdiana, una più giovane e una più matura.

Lo stile pittorico morbido e delicato, le figure accordate quasi musicalmente secondo una studiata poesia dei colori, consentono di proporre l’attribuzione al Ghidoni, aggiungendo un ulteriore dipinto al suo catalogo.

 

 

Stima   € 18.000 / 22.000
44

λ

Alessandro Rondoni

(Roma 1644 ca. - 1710 ca.)

BUSTO DI ANTONIO CORSI

marmo, alt. cm 73, altezza complessiva con la base in pietra serena cm 128

 

Provenienza                                                               

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia

A. Bacchi, F. Berti, D. Pegazzano, Rondoni e Balassi, I ritratti del marchese Giovanni Corsi, Milano 2015, p. 19 fig. 6

 

L’imponente busto qui presentato raffigura un personaggio di spicco della famiglia Corsi, il marchese Antonio (1630-1679) fratello maggiore del cardinale Domenico Maria (1635-1697) che fu il committente della serie dei quattro busti che immortalavano appunto i suoi più stretti (e celebri) congiunti: il padre Giovanni (1600-1661), lo zio Lorenzo (1601-1656), il fratello Antonio e Domenico Maria stesso.

Il riferimento ad Alessandro Rondoni (o Rondone) come autore del busto di Antonio Corsi deriva dalla ricerca documentaria operata da Donatella Pegazzano; sarebbe stato altrimenti complesso attribuirgli le opere solo attraverso l’analisi stilistica data la rarità delle sculture a lui riferite. Il pagamento per il busto di Antonio Corsi è registrato il 30 ottobre del 1685: «scudi 35 di moneta per detto pagati ad Alessandro Rondone per un ritratto in marmo della buona memoria del signor marchese Antonio Corsi» (in Archivio di Stato di Firenze, Guicciardini Corsi Salviati, Libri di amministrazione 552, c. 75).

Come sostiene Donatella Pegazzano Domenico Maria Corsi entrò in contatto con il Rondoni per tramite di Livio Odescalchi (1658-1713), nipote di papa Innocenzo XI, collezionista e personaggio di rilievo a Roma alla fine del Seicento. I rapporti a Roma tra il Corsi e l’Odescalchi sono sicuri e altrettanto lo sono quelli tra Livio Odescalchi ed Alessandro Rondoni di cui si conoscono pagamenti e commissioni già dagli anni Ottanta del Seicento (Rondoni cit. pp. 31-32).

È quindi possibile che il Corsi, prossimo in quegli stessi anni alla famiglia del papa Odescalchi, avesse richiesto a Livio uno scultore esperto, e magari non troppo costoso, al quale affidare la realizzazione dei ritratti marmorei della sua famiglia.

Questo spiega l’incarico al romano Rondoni che è abbastanza inaspettata se si considera invece la collocazione fiorentina delle opere.

L’attribuzione delle quattro sculture permette di ampliare anche il catalogo dell’artista e di aggiungere un altro rilevante episodio alla sua attività. Il busto di Antonio Corsi è un esempio di classicismo con influenze barocche prive però di eccessi retorici; Rondoni si propone come un corrispettivo scultoreo della ritrattistica di Carlo Maratta riuscendo a fondere elementi di classica compostezza, ravvisabili nell’eleganza quasi grafica della veste, ad uno stile più espressivo e potente come si vede nello sguardo “fiammeggiante” dell’effigiato.

Il busto di Antonio Corsi è qui offerto con la sua base, una colonna in pietra serena con base a plinto. Questo sostegno era sicuramente lo stesso con cui era presentato nella Galleria della Villa Corsi Salviati a Sesto Fiorentino insieme agli altri busti. Ce lo conferma infatti una fotografia Alinari che riproduce un particolare della Galleria nel 1855 (Rondoni cit. p.14, fig. 2).

 

Stima   € 60.000 / 80.000
45

λ

Franz Werner Tamm, detto Daprait

(Amburgo 1658 - Vienna 1724)

FRUTTA, ORTAGGI E FIORI ALL'APERTO, CON UNA FIGURA FEMMINILE

NATURA MORTA CON SELVAGGINA E UN CACCIATORE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 98x135

(2)

 

Le sontuose, e inedite, nature morte qui presentate costituiscono un’interessante aggiunta al catalogo del periodo italiano di Franz Werner Tamm, documentato a Roma fra il 1685 e il 1696 e indicano, più precisamente, un suo recupero del fortunato modello proposto da Abraham Brueghel fin dal 1669 (data che compare nel dipinto al museo del Louvre, oltre che in altri non datati) in cui  composizioni di frutta e fiori disposte su piani in pietra con sfondo di paesaggio sono accompagnate da figure femminili di altra mano.

Sebbene la collaborazione di Franz Werner Tamm con Carlo Maratta sia ben documentata dalle tele con putti tra festoni di fiori e frutta nella Galleria Pallavicini e da altre da tempo note, non conoscevamo fino a questo momento composizioni di frutta con figure femminili  simili a quella qui offerta, che contribuisce dunque a una migliore conoscenza di un artista raffinato e versatile, spesso sorprendente nella varietà delle sue invenzioni (per cui si veda G. e U. Bocchi, Franz Werner Tamm detto Daprait o Dapper, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti stranieri 1630 – 1750, Viadana 2005, pp. 199-250).

Numerosi sono invece i motivi di confronto per quel che riguarda gli elementi che compongono la natura morta, ove riconosciamo la consueta frutta autunnale (zucca e  melograni spaccati accanto a grappoli di uva nera) insieme alle inconfondibili rose bianche di molte composizioni da tempo note, talvolta accostate a funghi come nella più rara natura morta all’aperto resa nota da Gianluca e Ulisse Bocchi (p. 205, fig. FT6) e all’altra, molto simile, in asta da Sotheby’s a Milano, erroneamente come opera di Spadino (9 giugno 2009, n. 61).

Meno comuni, e in larga parte circoscritti al periodo viennese gli animali e i motivi venatori nel dipinto compagno qui al lotto successivo, che trova però motivi di confronto specifico nella Natura morta con selvaggina e due cacciatori nel Kunsthistorisches Museum a Vienna (Bocchi, 2005, p. 220, fig. FT 24).

 

 

 

Stima   € 40.000 / 55.000
Aggiudicazione  Registrazione
46

Francesco Zuccarelli                                                      

(Pitigliano 1702 - Firenze 1788) 

PAESAGGIO CON PASTORE AL GUADO, LAVANDAIE E MUCCHE

olio su tela, cm 48,5x75,5                                                  

                                                                          

Provenienza                                                            

Già asta Semenzato, novembre 1989, Venezia

                                                                          

Bibliografia                                                    

F. Spadotto, Francesco Zuccarelli, Milano 2007, p. 165, n. 362       

 

 

Il dipinto qui proposto, già comparso in asta Semenzato nel novembre del 1989, è pubblicato da Federica Spadotto nella monografia dell'artista edita nel 2007. Secondo la studiosa l'opera, eseguita dopo il 1775, risente dell'influsso stilistico della pittura romana di paesaggio, riferimento imprescindibile per la formazione artistica di Francesco Zuccarelli. Questi accostamenti sono visibili soprattutto nelle figure di contadine sulla sinistra, dai modi eleganti e dal contegno quasi solenne. La raffigurazione riprende gli elementi tipici della pittura di soggetto bucolico dove si evidenzia una perfetta armonia tra uomo e natura.

Inizialmente formatosi nella bottega di Paolo Anesi l'artista studiò anche con i pittori di figura Giovanni Maria Morandi e Pietro Nelli.

I dipinti di soggetto arcadico, che il pittore eseguì durante il suo soggiorno a Venezia iniziato nel 1732, furono molto apprezzati dai suoi contemporanei in Italia e in Europa. Sempre a Venezia collaborò spesso con artisti come Gaspare Diziani, Bernardo Bellotto e Antonio Visentini soprattutto nell'esecuzione di capricci architettonici. Ebbe notevole successo fuori dall'Italia, specialmente in Inghilterra, dove ricevette molte commissioni da facoltosi mecenati tra i quali il console Joseph Smith, oltre a dare notevole ispirazione ad artisti come Joshua Reynolds e Richard Wilson; tra i suoi committenti più importanti possiamo anche ricordare Francesco Algarotti e il Maresciallo Schulenburg. Nel 1768 il pittore fu anche uno dei membri fondatori della Royal Academy of Arts.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
49

Agostino Ciampelli

(Firenze 1565- Roma 1630)

CROCIFISSIONE CON LA MADDALENA

olio su tavola, cm 44x33,5

In aggiunta a quanto riportato in catalogo si segnala che il lotto 49 è stato ripubblicato nel 2011 da Alessandro Nesi con una nuova attribuzione a Girolamo Macchietti in A. Nesi, Le opere tarde di Girolamo Macchietti tra maniera e controriforma, in “Arte cristiana”, 99.2011,866, pp. 337-350, illustrato a pagina 343

 

Bibliografia

La bella maniera in Toscana. Dipinti dalla collezione Luzzetti e altre raccolte private, a cura di F. Berti e G. Luzzetti, Firenze, 2008, pp. 162-165, scheda di Alessandro Nesi

 

 

 

Il dipinto qui proposto, pubblicato per la prima volta con una scheda di Alessandro Nesi nel 2008, si può datare probabilmente intorno alla metà degli anni ottanta del Cinquecento.

Lo studioso analizza vari aspetti stilistici dell'opera come la pennellata densa e corposa tipica di Agostino Ciampelli e le molte similitudini sia con la cultura tardomanieristica che con quella della Controriforma per la forte carica emotiva e devozionale che pervade l'opera; ulteriori elementi che ci avvicinano all'artista si trovano nel forte contrasto cromatico tra le figure di Cristo e  Maddalena, rese con colori vivaci, avvolte da un chiaroscuro che ne mette in risalto le forme, e nel cupo paesaggio dello sfondo che ci comunica tutta la drammaticità della scena rappresentata.

Il Cristo crocifisso può essere accostato a quello dipinto alcuni anni dopo dallo stesso Ciampelli nella Chiesa di Santa Prassede a Roma per la pala con il Miracolo di San Giovanni Gualberto mentre il volto di Maddalena è vicino a quello delle donne presenti nella Natività di San Michele Visdomini a Firenze (1593).

Inizialmente allievo di Santi di Tito, dal maestro apprese gli stilemi tipici della Controriforma fondati su una maggiore semplificazione delle forme con un chiaro messaggio di tipo devozionale. Nel 1589 lavorò all'interno della bottega del maestro per gli apparati decorativi in occasione delle nozze di Ferdinando I dei Medici e Cristina di Lorena eseguendo su un arco di trionfo provvisorio al canto dei Carnesecchi la scena con il Duca di Guisa che assale Calais. Dopo aver eseguito a Palazzo Corsi, intorno al 1593, un ciclo di affreschi con Storie di Caino e Abele e di Ester ed Assuero, ottenne l'apprezzamento del cardinale Alessandro de' Medici (futuro papa Leone XI), che divenne suo protettore; si trasferì quindi a Roma dove rimase fino alla morte nel 1630.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
50

Bartolomeo Cavarozzi

(Viterbo 1587-Roma 1625)

MADONNA CON BAMBINO

olio su tela ovale, cm 105x80

 

Bibliografia

I. Faldi, in “Il Tempo” 25 ottobre 1985;

G. Papi, Bartolomeo Cavarozzi, Soncino 2015, pp. 48, 203, 219; n. 35, fig. 11.

 

Rivisitazione post-caravaggesca della Madonna della Seggiola di Raffaello, il bel dipinto di Bartolomeo Cavarozzi ripete parzialmente, a fini di devozione privata, l’imponente Sacra Famiglia a figure intere già in raccolta privata a Torino, dalla collezione Zerbone (G. Papi 2015 cit., p. 139, tav. XLIII). La probabile provenienza originaria da palazzo Spinola a Genova suggerisce, per il prototipo della nostra composizione, una datazione al breve soggiorno genovese del Cavarozzi nel 1617, poco prima del viaggio in Spagna al seguito del marchese Crescenzi. Lo confermano in ogni caso gli esiti stilistici e compositivi di questa invenzione in ambito genovese, percepiti immediatamente nelle opere di Domenico Fiasella, di Giovanni Andrea de Ferrari e addirittura di Andrea Ansaldo, a riprova della fortuna di questa immagine, peraltro ampiamente replicata in area ligure.

La sola figura del Bambino, sorretto dalla madre rivolta invece frontalmente ritorna poi nella celebre Sacra Famiglia della Galleria Spada a Roma, e ancora in una Madonna col Bambino di formato circolare, già in collezione privata a Madrid (G. Papi, 2015, p. 215, fig. 7, n. 24).

È probabile che queste repliche ridotte, variate anche nelle scelte cromatiche, siano state eseguite da Bartolomeo Cavarozzi dopo il ritorno a Roma, se non nei primi anni Venti, a riprova della prolungata fortuna di un’invenzione in grado di aggiornare l’ideale maternità serena di Raffaello alla luce del naturalismo seicentesco.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
51

λ

Giovanni Battista Vanni

(Firenze 1600 - Pistoia 1660)

CARDINALI A CAVALLO, 1653-1657

olio su tela, cm 109x216,5

firmato e datato in basso a destra "Gio.B.Vanni. F. 165(..) "

 

Provenienza

Già collezione Corsi

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Firenze, 1937, p. 18 e p. 67

D. Pegazzano, I "Cardinali guerreggianti": dipinti inediti di Giovan Battista Vanni per monsignor Lorenzo Corsi, in "Prospettiva", 153/154.2014 (2015), pp. 74-94, figg. 1-4, fig. 11

 

Il grande e fascinoso dipinto qui presentato testimonia l’ultima tappa di un proficuo sodalizio tra monsignor Lorenzo Corsi e il pittore Giovan Battista Vanni che per lui realizzò molte opere.

Donatella Pegazzano dedica un recente e nutrito articolo a questi due personaggi e al quadro qui offerto.

Come per la Caccia del cardinale Giovan Carlo dei Medici (presentato nell’asta Pandolfini del 23 novembre 2016 con il lotto 28) anche i Cardinali a cavallo sono ricordati nell’inventario della nobile famiglia di appartenenza: “sei ritratti di Cardinali che hanno comandato in guerra” e ancora “Due quadri grandi che uno di Braccia 4 e ½ di larghezza dipintovi una Caccia del Serenissimo Cardinale Giov. Carlo dei Medici alla villa di Cafaggiolo e l’altro Braccia 4 incirca ove sono dipinti sei Cardinali a cavallo" (in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, p.18 e p. 67).

La scena rappresentata è strettamente legata alla vita e alle aspirazioni di monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) che stava avviando una brillante carriera ecclesiastica che lo avrebbe portato al cardinalato se non fosse morto precocemente di peste durante l’epidemia che aveva colpito Roma.

L’anno successivo alla morte di Lorenzo, nel 1657, il Vanni venne pagato per il nostro dipinto con un primo acconto di 22 scudi e saldato con 64 scudi; la voce di pagamento infatti parla di “diversi cardinali guerreggianti servito per la Galleria di Sesto” (Pegazzano cit. pp. 79-80. nota 53) e fu l’abate Domenico Maria, nipote di Lorenzo e figlio di Giovanni Corsi, a pagare il pittore.

Ci troviamo comunque di fronte ad una committenza di Lorenzo Corsi e non di Domenico Maria in quanto i personaggi effigiati sono in relazione con le vicende della sua vita tra Roma e la Francia. Per quanto riguarda il periodo di realizzazione del quadro è possibile che il Vanni lo abbia ideato e cominciato nel 1653, appena dopo il rientro del Corsi da Avignone (dove era stato dal 1645 come vice legato per conto di papa Innocenzo X), e terminato quattro anni dopo quando Domenico Maria aveva provveduto al saldo dell’opera.

Il grande quadro, che si contraddistingue per una studiata composizione scenografica, per i colori brillanti e i dettagli vividi, rappresenta un gruppo di sei figure a cavallo con due paggi vestiti all’orientale. Le figure si stagliano monumentali sotto un cielo tempestoso, nel paesaggio in lontananza si vedono un accampamento militare e una città fortificata.

Sono gli zucchetti color porpora sulle teste delle figure che ci permettono di identificarli come cardinali, almeno per cinque delle sei figure. Sotto ogni personaggio è visibile un numero tracciato a pennello che doveva rimandare ad una iscrizione in cui erano riportati i nomi per identificarli. L’iscrizione purtroppo non è più presente nel quadro anche se, analizzandolo con la lampada di Wood, si intravedono nella parte superiore le gambe di quelli che potevano essere Vittorie alate in atto di sostenere un cartiglio con i nomi dei cardinali. Probabilmente il quadro è stato ridotto nell’altezza e le figure delle Vittorie ridipinte e nascoste da nubi cariche di pioggia.

La presenza del cartiglio ci viene suggerita anche da un’incisione di François Chauveau del 1655 (Pegazzano, cit., p. 79, fig. 7) che riproduce Mazzarino su un cavallo impennato in atto di sedare il conflitto tra l’esercito imperiale e quello francese durante la guerra del Monferrato. Nella parte soprastante della scena si vede infatti un doppio cartiglio inneggiante alla sua fama e alla sua gloria.

L’avvenimento della Guerra dei Trent’Anni, che pose fine alla difficile successione dello stato di Mantova e Monferrato, è ricordato come un’azione eroica in cui si dimostrarono tutte le doti diplomatiche di Mazzarino, non ancora cardinale, ma in procinto di diventarlo; infatti l’occasione fu propizia per mettere in luce la sua abilità politica intuita subito da Richelieu che di lì a poco lo avrebbe chiamato in Francia come suo successore. Proprio questo avvenimento presso Casale Monferrato, nonché l’incisione di Chauveau, ci aiuta a riconoscere nel cavaliere al centro del nostro dipinto un "vittorioso" Giulio Mazzarino. Invece nel primo personaggio sulla sinistra con la chioma bianca e il volto magro si riconosce facilmente il cardinale Richelieu, il cui volto era noto in Europa per il bellissimo ritratto di Philippe de Champaigne adesso presso la National Gallery di Londra.

Insieme a queste due personalità di spicco è possibile rintracciare anche gli altri personaggi presenti nel quadro. Secondo quanto ricostruito da Pegazzano, in base alle frequentazioni romane di Lorenzo Corsi e ai confronti fisionomici, i due cavalieri sul lato destro del dipinto sono i cardinali Antonio iuniore (1670-1671) e Francesco Barberini (1597-1679) nipoti di Urbano VIII.

Antonio ha appuntata sul petto la croce dell’Ordine di Santo Spirito, che ricevette nel 1653, onorificenza che spettava alle personalità particolarmente vicine al re di Francia e interessante termine post quem del dipinto.

Proprio la presenza di Antonio induce a pensare che l’altro cardinale in armatura, quello più esterno, sia Francesco Barberini anche lui coinvolto nell’ambasceria papale e in contatto epistolare con Lorenzo Corsi.

Gli ultimi due cavalieri potrebbero essere Carlo I Gonzaga Nevers (accanto a Richelieu) che ebbe il dominio del ducato di Mantova dopo la pace di Casale, e Giulio Sacchetti (tra i due Barberini) anch’egli coinvolto nello stesso avvenimento (Pegazzano cit. p. 83).

Il dipinto potrebbe essere stato commissionato dal Corsi come dono ad Antonio Barberini per celebrarne il rientro a Roma dalla Francia, dopo aver ricucito i rapporti con papa Pamphilj, e per sottolineare la fedeltà al partito filo-francese grazie alla presenza di Richelieu e Mazzarino.

E sono proprio queste due personalità che dimostrano infine il forte desiderio di ascesa di Lorenzo Corsi e le sue aspirazioni al cardinalato. In particolare la brillante carriera di Mazzarino costituì certo un modello di riferimento per lui, considerando che furono entrambi vice legati ad Avignone.

Tuttavia la morte impedì al Corsi di raggiungere l’importante carica ambita; fu però il nipote Domenico Maria a raccogliere l’eredità dello zio e a diventare nel 1686 cardinale e in seguito vescovo di Rimini e Ferrara continuando inoltre ad incrementare le fortune e le collezioni della famiglia e a dimostrare una spiccata predisposizione all’arte e al collezionismo.

 

 

 

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
52

Mario Nuzzi detto Mario de' Fiori

(Roma 1603-1673)

VASI DI FIORI

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 66,8x50

(2)

 

Opere dichiarate di interesse culturale particolarmente importante con Decreto Lesislativo 490/1999 del Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali dell’Emilia Romagna del 21 ottobre 2002.

 

Provenienza

Collezione Bizzini, Vignola;

Porro & C., Milano, 25 febbraio 2004, n.11

 

Da tempo acquisiti al catalogo di Mario dei Fiori, e come tali sottoposti a vincolo da parte della Soprintendenza dell'Emilia Romagna i dipinti qui offerti costituiscono uno splendido esempio della produzione matura dell’artista romano intorno alla metà del secolo.

A lungo appesantito da opere a lui riferite solo in virtù della sua straordinaria reputazione di pittore di fiori, il catalogo di Mario Nuzzi è stato ricostruito in maniera rigorosa e convincente a partire dalle opere firmate o documentate conservate nel monastero dell’Escorial, nel palazzo Chigi di Ariccia e in palazzo Colonna a Roma (si veda Laura Laureati in La natura morta in Italia, Milano 1989, I, pp. 759-767); a queste si è aggiunta la serie di vasi di fiori già nella collezione Mansi a Lucca (G. e U. Bocchi, Mario Nuzzi detto Mario dei Fiori, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630 – 1750, Viadana 2005, pp. 67-142, in particolare figg. 43-50).

Questo nucleo di opere documentate ha consentito di rintracciarne altre attribuibili per fondati confronti stilistici, restituendo così un’immagine più convincente del maggiore specialista del suo tempo e di comprendere meglio l’importanza esercitata dai suoi modelli su artisti spagnoli e francesi. Tra le recenti acquisizioni al suo catalogo la nostra coppia di vasi di fiori trova motivi di confronto specifico con  quella di formato ottagonale pubblicata dai Bocchi (2005, cit., p. 121, figg. 54-55): simile l’impianto del bouquet, i rilievi che ornano il vaso, le corolle bagnate di rugiada delle rose antiche sul punto di sfiorire. Ulteriori confronti, soprattutto per quanto riguarda i vasi, rimandano alla coppia nel Museo Civico di Como (Bocchi 2005, pp. 124-25, figg. 59-60) e a un dipinto d raccolta privata esposto a Fano nel 2001 (L’anima e le cose. La natura morta nell’Italia pontificia del XVII e XVIII secolo, Fano 2001, n. 36, illustrato in catalogo a p. 115).

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
56

Antonio Joli

(Modena 1700 - Napoli1777)

VEDUTA DEL TEVERE CON CASTEL SANT’ANGELO E SAN PIETRO

olio su tela, cm 40x112

 

Provenienza

Christie’s, Londra, 10 luglio 1981, n. 62

 

Bibliografia

M. Manzella, Antonio Joli. Opera pittorica, Venezia 2000, p. 91, R8; fig. 57.

 

Proposta per la prima volta da Gaspar van Wittel nei primi anni del nono decennio del Seicento, la veduta del Tevere a Castel Sant’Angelo fu certo tra le più replicate su richiesta dei collezionisti italiani e dei viaggiatori del Grand Tour che in quest’immagine di Roma trovavano una vera e propria icona della città antica e moderna, classica e cristiana.

Il successo di questa veduta è appunto documentato dalla sua persistenza, ancora alla metà del Settecento, per opera di Antonio Joli, l’artista – scenografo riconosciuto nelle principali capitali d’Europa come uno dei seguaci più dotati ed originali di Vanvitelli. Non a caso, il catalogo dell’artista modenese stilato da Ralph Toledano riunisce venticinque versioni di questo soggetto, eseguite tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Settecento. Tra queste, la bella veduta eseguita intorno al 1747 per la sala da pranzo di Chesterfield House, scelta insieme a un’immagine di piazza del Popolo per rappresentare Roma.

Variabili per dimensioni, occasionalmente rilevanti come nel caso della tela di oltre tre metri venduta da Christie’s a Londra nel 1993, tutte le versioni note coincidono sostanzialmente nel punto di vista e nei dettagli dei monumenti raffigurati, il mausoleo di Adriano sulla riva destra del fiume, ponte Sant’Angelo con le statue berniniane degli angeli, e al centro la facciata e la cupola di San Pietro. Sommaria e di probabile invenzione nei suoi dettagli la riva sinistra; animate da barche e figurine simili tra loro ma mai identiche le acque del fiume.

Unica nel suo genere, la tela qui proposta ripete questo celebre soggetto nel formato, davvero inconsueto, di un sovrapporta, probabilmente accompagnato in origine da altre tele di uguali dimensioni ancora da rintracciare.

Pubblicata da Manzella (con riferimenti imprecisi) sulla base di una foto scarsamente leggibile, e per questo motivo assente nella più completa monografia di Ralph Toledano (Antonio Joli. Modena 1700 – 1777 Napoli, Torino 2006), la versione qui offerta è stata confermata a Joli da quest’ultimo studioso sulla base di fotografie in alta risoluzione.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
59

 

Attribuito a Giuseppe Volò, detto Giuseppe Vicenzino

(Milano 1662-notizie fino al 1700)

NATURA MORTA CON FIORI E VOLATILI

olio su tela, cm 147x219, le misure complessive con la cornice sono cm 190x261.

 

Bibliografia di riferimento

M. Mosco, Cornici dei Medici. La fantasia barocca al servizio del potere, Firenze, 2007

 

Questa grande Natura morta con fiori e volatili viene presentata all'interno di un'importante cornice fiorentina dorata a mecca della metà del secolo XVII.

Si tratta di una rara cornice, battuta a gole lisce su fascia rilevata intagliata a motivi di fogliette nervate sovrapposte e ricorrenti che si dipartono dai centri segnati da volute e girali a inquadrare quattro mascheroni a grottesca che decorano la fascia esterna dipinta nei toni del marrone. Agli angoli le medesime volute e i girali inquadrano grandi foglie aperte rivolte verso l’esterno a decorare la fascia il cui bordo si presenta intagliato a motivo di nastro fogliaceo ritorto. Questa eccezionale cornice è da annoverare fra le opere dei grandi artigiani, disegnatori e intagliatori che operarono per le botteghe medicee.

Per quanto riguarda i mascheroni che scandiscono la cornice non vi è dubbio che l’intagliatore si sia ispirato non solo ai mascheroni del Buontalenti che sono presenti sulle finestre di alcuni palazzi fiorentini, ma anche ai fantasiosi disegni di Stefano della Bella come quello conservato a Roma presso l’Istituto Nazionale per la Grafica, inv. FC 126096, collocazione scatola 38, provenienza vol. 157 G10 (fig. 1).

 

 

Stima   € 25.000 / 35.000
60

λ

Giuseppe Recco

(Napoli 1634-Alicante 1695)

PESCI, RECIPIENTI DI RAME E UN GATTO SU UN PIANO DI PIETRA

olio su tela, cm 71,2x96

firmato "Gios. Recco" in basso al centro sulla pietra

 

Provenienza

Collezione don Antonio Martinez de Pinillos (1856-1923), Cadice;

per eredità alla figlia, Doña Carmen Martinez de Pinillos, Cadice, e ai suoi discendenti;

Jean-Luc Baroni, Ltd. Londra;

Collezione privata, Milano

 

 

Opere tipiche di Giuseppe Recco, la cui firma compare per esteso nel primo dipinto qui offerto, le inedite tele qui presentate offrono numerosi confronti con la produzione certa dell’artista napoletano ragionevolmente ascrivibile al settimo decennio del secolo.

Numerose opere datate a partire dal 1659 e fino agli anni estremi della sua attività consentono in effetti di ricostruirla secondo un percorso cronologico scandito da date certe, cosa abbastanza eccezionale nel panorama di questo genere pittorico.

Gli elementi compositivi della prima  “natura in posa” qui in esame e la loro disposizione sul piano di pietra, come del resto le dimensioni – importanti ma ancora relativamente contenute – suggeriscono una serie di confronti con opere datate dalla critica nella seconda metà degli anni Sessanta: in primo luogo con la Natura morta con pesci, crostacei e recipienti di rame nella raccolta Molinari Pradelli, anch’essa siglata, ma anche, per quanto attiene gli aspetti compositivi, con l’Interno di cucina in collezione privata a Napoli che, come il nostro dipinto, raccoglie su un piano di pietra una serie di alimenti rustici e un rinfrescatoio (per entrambe le opere citate e per ulteriori confronti si veda la voce monografica curata da Roberto Middione in La Natura Morta in Italia (a cura di Federico Zeri), Milano 1989, II, pp. 903-911, in particolare le figg. 1091 e 1093). La presenza del gatto sullo sfondo del nostro dipinto lo accosta altresì alla tela siglata di Giuseppe Recco offerta in questa sede il 19 ottobre 2016 (lotto 89) nell’ambito della vendita della collezione Romano.

Il secondo dipinto presenta invece i pesci all’aperto su uno sfondo di cielo: soluzione più rara ma non certo priva di precedenti, e destinata a lunga fortuna attraverso l’attività dei figli di Giuseppe Recco, in particolare Nicola.

Nonostante la diffusione dei motivi da lui proposti e che la nuova generazione continuerà a praticare nel Settecento, Giuseppe Recco resterà ineguagliato nel virtuosismo dei suoi riflessi rossi e argentei, uniti a una singolare capacità mimetica che lo colloca a pieno diritto tra i naturalisti napoletani.

 

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
31 - 60  di 80