Dipinti antichi

23 NOVEMBRE 2016

Dipinti antichi

Asta, 0189
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
Ore 16.30
Esposizione
FIRENZE
18-21 Novembre 2016
orario 10 – 13 / 14 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   2000 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 57
3

Agnolo di Polo de'Vetri

(Firenze 1470- Arezzo 1528

BUSTO DI CRISTO

1500-1510 ca.

busto in terracotta con tracce di policromia, cm 53x52x25

 

Bibliografia di riferimento

L. Lorenzi, Agnolo di Polo. Scultura in terracotta dipinta nella Firenze di fine Quattrocento, Ferrara, 1998.

L. Lorenzi, in Filippino Lippi. Un bellissimo ingegno, catalogo della mostra, Milano-Firenze, 2004, pp. 45, 68, 69-70.

 

L'esemplare in terracotta modellata e dipinta mostra l’effigie a mezzobusto del Nazareno (non comprensivo di braccia e mani) impostato per una visione frontale. Il volto modellato accuratamente delinea zigomi tondeggianti, naso regolare ma pronunciato, occhi languidamente espressivi, labbra disunite e semiaperte; il tutto incorniciato da leziosi baffi e da una barba a piccoli riccioli per tutta la zona mandibolare. La capigliatura è contrassegnata da una scriminatura centrale dalla quale scendono fluenti e vaporosi ciuffi morbidamente ritorti e adagiati sulle spalle. La tunica, che conserva tracce di cromia rossa, è drappeggiata e bordata di passamaneria in corrispondenza del collo, il manto un tempo azzurro e modellato di sbieco, fascia completamente la spalla sinistra e l’avambraccio destro.

L’iconografia rimanda all’età della predicazione savonaroliana antimedicea poiché il Cristo, come uomo nuovo, doveva essere esempio per la Firenze corrotta e paganeggiante; questo canone devozionale ebbe successo nel campo delle arti a partire dal 1498 fino a tutta la prima metà del secolo XVI, grazie a Filippino Lippi e Lorenzo di Credi – in ambito pittorico –, Andrea del Verrocchio, Agnolo di Polo, Giovanni della Robbia in quello scultoreo. I prototipi di riferimento risiedono nel gruppo bronzeo dell’Incredulità di San Tommaso (1466/67-1483) per la chiesa fiorentina di Orsanmichele e nell’immagine del Cristo Giudice (1480 ca.) del marmoreo Cenotafio Forteguerri nella cattedrale di Pistoia, entrambi di Andrea del Verrocchio, che probabilmente ebbe a ispirarsi a una tavoletta del 1438, con medesimo soggetto, unanimemente attribuita a Beato Angelico (Livorno, Museo Civico).

Questo busto in terracotta è sicuramente riferibile ad Agnolo di Polo, vissuto fra il 1470ca. e il 1528, allievo del Verrocchio e collaboratore di Giovanni della Robbia negli anni venti del Cinquecento, autore di una serie di busti-ritratto di Gesù il primo dei quali (documentato e risalente al 1498) conservato al Museo Civico di Pistoia. La particolarità dello scultore si manifesta soprattutto nella predilezione del soggetto riproposto per tutto l’arco della sua carriera senza apprezzabili variazioni, tanto che l’opera qui discussa risulta palmare perlomeno a tre esemplari di 50 cm di altezza, datati fra il 1510 e il 1520 circa, conservati rispettivamente al Museo della Fondazione Horne (Firenze), in collezione privata e New York (già collezione Corsini), proponenti la medesima soluzione figurativa e stilistica. Per i tre chi scrive ha avanzato il nome di Agnolo di Polo confermato dalle successive pubblicazioni scientifiche al riguardo (G. Gentilini, I Della Robbia..., Firenze, 1998).

La cifra dell’artista caratterizza inequivocabilmente questo Cristo, il quale, rispetto agli esemplari dianzi citati, presenta maggiori raffinatezze nel trattamento dei capelli a riccioli spiraliformi, nei baffi simmetrici e ben curati (tipici di un gentiluomo rinascimentale), nella bocca aperta dialogante, nello zigomo alto e ben sottolineato a creare l’avvallamento dell’epidermide in corrispondenza della parte bassa della guancia, modalità questa messa in atto dal Verrocchio in persona per il volto di Bartolomeo Colleoni nella scultura bronzea veneziana (1480-88); per quanto esposto propendiamo per una datazione entro il primo decennio del Cinquecento in stretta connessione stilistica e cronologica col busto pistoiese.

 

                                                                                                                                                                                              Lorenzo Lorenzi

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
2

λ

Maestro del 1416

MADONNA CON BAMBINO IN TRONO

tempera su tavola, cm 163,5x50, ingombro totale cm 170x59

 

Provenienza

Christie's, Londra, 11 luglio 1980, lotto 92 (come Rossello di Jacopo Franchi)

 

Referenze fotografiche

Fototeca Zeri, Bologna, busta 0134; fasc. 4, scheda 10116, come "Maestro del 1416", Ravello Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

F. Zeri, Sul catalogo dei dipinti toscani del secolo XIV nelle Gallerie di Firenze, in "Gazette des Beaux-Arts", 71 (1968), pp. 66-70

 

Catalogata da Federico Zeri nella cartella della sua fototeca intitolata al Maestro del 1416, la tavola qui presentata sarebbe, secondo lo studioso, la parte centrale di un trittico i cui scomparti laterali, raffiguranti  San Giacomo Maggiore, San Michele Arcangelo, San Giovanni Battista e San Matteo Evangelista si trovano al Museo Czartoryski di Cracovia (sezione del Museo Nazionale). Secondo Zeri le tre tavole rappresentano l’ultima fase artistica del pittore che si concluse probabilmente entro il terzo decennio del XV secolo. Il nome dell’artista, formatosi probabilmente nella bottega di Lorenzo di Niccolò, deriva dall’unica opera datata (1416) che si trova alla Galleria dell’Accademia a Firenze, una Madonna con Bambino tra quattro Santi e nella parte apicale Cristo benedicente con due angeli.

Più recentemente Alessandro Tomei (comunicazione scritta al proprietario) ha attribuito il dipinto al Maestro della Madonna Strauss secondo alcuni identificabile con Ambrogio di Baldese, attivo a Firenze tra la fine del XVI e gli inizi del XV secolo.

 

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

λ

Francesco Albotto

(Venezia 1721 - 1757)

IL CANAL GRANDE ALLA CONFLUENZA DEL RIO DI CANNAREGIO

olio su tela, cm 62x97

sul telaio, tre etichette frammentarie a stampa e a inchiostro riportano l’attribuzione a Marieschi e la presenza in collezioni inglesi nel 1927 e nel 1961

 

Provenienza

Sotheby's, Londra, 10 dicembre 1986

 

Bibliografia

R. Toledano, Michele Marieschi: l’opera completa, Milano 1988, p. 105, V 28,5 (come Michele Marieschi)

 

 

Presa dalla riva destra del Canal Grande, la veduta raffigura l’ingresso al rio di Cannaregio e palazzo Labia sulle omonime Fondamenta: l'inquadratura è basata su una nota incisione di Michele Marieschi pubblicata nel 1741 e sulla veduta dipinta dallo stesso artista veneziano conservata a Berlino, Gemaeldegalerie (GK n. 5680) e replicata in altre versioni autografe in collezione privata inglese e nella raccolta del Conte di Malmesbury, quest'ultima del 1742 (cfr. F. Montecuccoli degli Erri – F. Pedrocco, Michele Marieschi. La vita, l’ambiente, l’opera, Milano 1999, pp. 408-9, n. 177; pp. 415-16, n. 185). Da qui, con ogni evidenza, l’antica attribuzione al Marieschi con cui il dipinto qui offerto è stato ripetutamente catalogato.

Confronti ancora più pertinenti, soprattutto per quel che riguarda le figure in primo piano, stilisticamente diverse da quelle del maestro, si devono però istituire con una veduta di uguale soggetto, peraltro identica alla nostra per dimensioni, conservata a Napoli nel museo di Capodimonte e ormai generalmente riconosciuta come opera di Francesco Albotto. Parte di una serie di dodici vedute di Venezia, la tela napoletana era documentata fin dalla metà del Settecento nella collezione reale con un’attribuzione a Canaletto, poi mutata a favore di Michele Marieschi. Questa attribuzione fu messa in dubbio per la prima volta da Antonio Morassi nel 1966, ma furono i numerosi studi di Mario Manzelli nel corso degli anni Ottanta, culminati nella monografia del 1991 (Michele Marieschi e il suo alter ego Francesco Albotto, II edizione, Venezia 2002) e più recentemente quelli di Dario Succi, a restituire la serie napoletana a Francesco Albotto, allievo di Marieschi ed erede della sua bottega alla morte del maestro nel gennaio 1743.

La ricostruzione del catalogo di Albotto, comprendente vedute di Venezia e capricci di rovine e paesaggio, era stata avviata nel 1960 da Rodolfo Pallucchini, sulla base di una veduta del Molo e del bacino di San Marco iscritta al retro col nome del pittore completo del suo indirizzo veneziano: un dato che per la prima volta consentiva di restituire l’immagine di un personaggio noto fino a quel momento solo attraverso il referto delle fonti coeve, che appunto lo ricordavano come allievo del Marieschi e successore nell’attività della bottega, avendone sposato la vedova.

Fedele alla "veduta per angolo" proposta dal maestro, Albotto ne differisce per una cromìa più chiara e luminosa e per figure più esili e sommarie, un dato che facilmente consente di trasferire al suo catalogo anche il dipinto qui offerto. Una sua datazione dopo il 1742 è suggerita dalla presenza della statua di S. Giovanni Nepomuceno, opera dello scultore Giovanni Marchiori eretta in quell’anno sulle fondamenta del canale, presente solo nell’ultima versione di questa veduta dipinta da Marieschi, e invece in quasi tutte quelle dell’allievo.

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Attribuito a Filippo Tarchiani

(Castello, Firenze 1575-1645)

SAN FRANCESCO IN MEDITAZIONE

olio su tela, cm 123x98

 

L'opera è corredata da parere scritto di Giuseppe Cantelli, Firenze, 24 febbraio 2006

 

Bibliografia di riferimento

Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Biografie, catalogo della mostra, Firenze 1986, pp. 172-174

 

 

Il dipinto qui presentato, raffigurante San Francesco in meditazione sul teschio, rientra tra i soggetti cari alla pittura fiorentina della prima metà del Seicento.

Giuseppe Cantelli, per quest'opera di "alta e rara qualità pittorica e di intensa concentrazione psicologica", propone un'interessante attribuzione a Filippo Tarchiani; gli elementi per cui la tela è avvicinabile al Tarchiani sono da ricercarsi nella presenza dei contrasti di ombre e luci di origine caravaggesca, insolite nella Firenze post 1630, ma presenti in un pittore come Tarchiani.

L’artista, per la cui vita si rimanda alle pagine di Claudio Pizzorusso citate in bibliografia, fu allievo di Agostino Ciampelli e ricordato anche presso lo studio di Gregorio Pagani; tra il 1608 e il 1615 la sua pittura si orientò verso una forma di purismo neocinquecentesco date le influenze della lezione di Jacopo da Empoli soprattutto nelle compatte e lucide superfici pittoriche.

Dal 1630 cominciò ad ammorbidire i passaggi chiaroscurali e a cercare soluzioni meno rigide “come si vede in questo San Francesco in meditazione, stilisticamente vicino ai tondi, con Santa Cecilia e Re David dipinti per l’organo della chiesa della Badia a Firenze nel 1635” che Cantelli ha ricondotto da Baccio del Bianco proprio al Tarchiani.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
38

Attribuito a Simone Pignoni

(Firenze 1611-1698)

GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE

olio su tela, cm 83,8x59

 

Esposizioni

Prima mostra mercato degli antiquari toscani, Fortezza da Basso, 2 - 17 giugno 1990, Pontassieve, Firenze 1990, p. 83, come Simone del Pignone

 

Bibliografia di riferimento

F. Baldassari, Simone Pignoni (Firenze 1611-1698), Torino 2008, p. 175, fig. 1a

 

L'opera è accompagnata da parere scritto di Mina Gregori che riportiamo integralmente:

 

"Il soggetto è indicato dalla presenza della spada, con cui l'eroina uccise il gigante. Gli echi dell'arte delicata del Furini inducono a indicare con certezza questa mezza figura femminile come opera di Simone Pignoni uno dei pittori più interessanti e raffinati della generazione attiva dopo il 1630.

(...) Le opere che conosciamo riconducono il Pignoni al clima morbido, pittoricamente evoluto dei decenni centrali del secolo, che rappresenta la risposta degli artisti fiorentini alle novità introdotte da Pietro da Cortona.

Anche in quest'opera il tocco del pennello sui bianchi e sul vestito, il contrato chiaroscurale e la libertà con cui è modellato il tre quarti del volto, confermano la partecipazione del Pignoni, da protagonista, a questa fase, ricca di soluzioni pittoriche originali".

Il soggetto con la giovane e bella fanciulla giudea che libera il suo popolo dal generale nemico Oloferne, seducendolo e decapitandolo, si presta bene pertanto a una pittura fondata sulla delicatezza dei colori degli incarnati, tipica del Pignoni, come ricorda anche Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica (1795-1796, I, p. 176) quando cita il pittore come migliore allievo del Furini.

Francesca Baldassari, nella monografia sul pittore, pubblica tra le opere d’invenzione pignoniana ma con interventi di bottega, una tela di ubicazione sconosciuta, analoga alla nostra.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
30

Bottega di Pietro da Cortona, sec. XVII

MADONNA COL BAMBINO E SANTA MARTINA

olio su tela, cm 124,5x147

sul telaio, etichette "399" e "B.K.H. Grebruder Heilhon n. 892/1"

 

Provenienza

Pandolfini, Firenze, 22 aprile 2013, lotto 169;

Collezione privata, Roma

 

L'inedito dipinto qui esaminato costituisce una versione originale e, per quanto risulta, non replicata di uno dei temi più cari a Pietro da Cortona, la cui devozione a Santa Martina fu all’origine di numerosi dipinti e sculture e, soprattutto, della chiesa dedicata ai SS. Luca e Martina alle pendici del Campidoglio.

Alla santa Pietro dedicò infatti una serie di pale che ne raffiguravano il martirio, la principale eseguita per la chiesa di San Francesco a Siena, e almeno due diverse composizioni dove la fanciulla è invece nell’atto di ricevere da Gesù Bambino, tra le braccia della Madre, il giglio o la palma, simboli di purezza e del martirio subito.

La più celebre di queste composizioni, più volte incisa, è senza dubbio la tela nel museo del Louvre (G. Briganti, Pietro da Cortona o della pittura barocca. Seconda edizione, Firenze 1982, fig. 219), replicata in un dipinto di raccolta privata (ibidem, tavola 285, n. 12); il soggetto è ripreso con varianti nella composizione in deposito dal Louvre al museo di Rennes (ibidem, fig. 244) dove i protagonisti compaiono a tre quarti di figura. Di entrambe sono note diverse repliche, per lo più eseguite con l’intervento più o meno importante degli allievi. La bottega assunse peraltro un ruolo sempre più significativo nel corso degli ultimi due decenni di attività del maestro, che si riservò in misura crescente la semplice fase progettuale, ed eventualmente un primo abbozzo delle opere commissionate, affidando in gran parte agli allievi la realizzazione delle sue invenzioni (cfr. il recente intervento di Giovan Battista Fidanza, A rediscovered altarpiece by Pietro da Cortona and insights into the collaboration between the master and his pupils, in "The Burlington Magazine" CLV, 2013, 1325, pp. 541-45).

L’inventario dello studio del Berrettini dopo la morte avvenuta nel 1669 evidenzia peraltro una serie di opere non finite e consegnate agli allievi affinché le completassero: come risulta dai documenti furono in particolare Ciro Ferri, Lazzaro Baldi e Lorenzo Berrettini a portare a termine i "pensieri” del maestro.

Come rivelano le articolate ricerche di Donatella Sparti (tra cui: La casa di Pietro da Cortona: architettura, accademia, atelier, officina, Roma 1997) tra i “Quadri cominciati nello studio, di diversi" (proprietari) non mancava ad esempio una "Santa Martina in piccolo principiata, del Sig. Girolamo Dacci, restituita", e una "Santa Martina sbozzata", poi venduta a Paolo Falconieri.

Tra gli allievi di Pietro fu probabilmente Ciro Ferri a dedicarsi, assai più dei colleghi, al tema prediletto dal maestro. A lui si deve ad esempio una paletta ora nella sacrestia della chiesa di San Marco a Roma. L’inventario di suo figlio Pietro Ferri, morto nel 1750, pubblicato da Cristina Paoluzzi ricorda, tra gli altri, una "Madonna col Bambino e Santa Martina" senza indicazione di autore; una "Madonna con Santa Martina copia da Pietro da Cortona fatta da Ciro" (forse la stessa legata al nipote Carlo Catucci e stimata 25 scudi); e ancora una "Madonna con Bambino e Santa Martina di Pietro da testa, scudi 20", insieme ad altre raffigurazioni della santa, originali o copie e di misure diverse, alcune non finite (Un inventario inedito per la quadreria di Ciro Ferri, in Cultura nell’età delle Legazioni, Firenze 2005, pp. 537-87)

È dunque probabile che il nostro dipinto, in cui la sintetica ampiezza delle figure richiama appunto le opere tarde della bottega cortonesca, e che appare completo in tutte le sue parti ma non del tutto finito nelle ultime velature (in particolare nella figura della giovane martire inginocchiata) si celi appunto tra le composizioni imperfette completate da uno dei più stretti collaboratori del Berrettini, forse per l’appunto Ciro Ferri, il più vicino al maestro e senza dubbio il più dotato.

 

Stima   € 20.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
28

λ

Scuola fiorentina, XVII secolo

LA CACCIA DEL CARDINALE GIOVAN CARLO DE’ MEDICI A CAFAGGIOLO, 1641-1644  

olio su tela, cm 164,5x313,5

sull'etichetta applicata alla cornice si legge: "Sc. Fiorentina del sec. XVII/Cacciata data a Cafaggiolo al card. Corsi"

 

Provenienza

Già collezione Corsi, Firenze

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Firenze, 1937, p. 18 e p. 67, fig. 28

D. Pegazzano, Corsi (parte prima), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto (Pisa), 2015, pp. 97-99, figg. 7-8

 

 

Il grande dipinto qui presentato mette in scena la caccia del cardinal Giovan Carlo de’ Medici presso la Villa Medicea di Cafaggiolo detta anche Castello di Cafaggiolo.

Il cardinale dei Medici è raffigurato al centro della composizione seguito dai battitori e da un corteo di nobili anch’essi a cavallo; sul lato sinistro invece, girato verso lo spettatore, è ben riconoscibile il committente dell’opera, monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) figlio di Jacopo e Laura Corsini, che fu protonotario apostolico a Roma dal 1626 al 1630 e vice legato ad Avignone dal 1645 al 1653.

Il quadro si presenta come chiara testimonianza del forte legame che nei primi anni Quaranta del Seicento intercorreva tra Lorenzo Corsi e Giovan Carlo dei Medici. I due personaggi condividevano infatti la passione per il collezionismo e il mecenatismo come per il teatro, la musica e i giardini, secondo quanto richiesto ad esponenti delle famiglie aristocratiche, per giunta insigniti delle più alte cariche della gerarchia ecclesiastica.

Ulteriore testimonianza di questo legame è dato anche dalla presenza di Lorenzo Corsi come sovrintendete ai lavori per il giardino del Casino di Giovan Carlo in via della Scala.

Monsignor Lorenzo si distinse per i suoi ampli orizzonti culturali che lo portarono ad interessarsi a diversi generi pittorici come la ritrattistica, la natura morta e le allegorie morali più che alla pittura sacra. Un tipo di gusto e di inclinazione che aveva maturato sicuramente durante il periodo romano ma anche per l’influenza della famiglia granducale: non è casuale infatti la scelta di acquistare o commissionare opere a determinati artisti fiorentini come Giovanni Martinelli, Mario Balassi, Francesco Furini e Salvator Rosa che gravitavano intorno ai Medici e a Giovan Carlo in particolare.

La collezione di famiglia venne così incrementata grazie alla spiccata sensibilità di Lorenzo Corsi che continuò quanto già iniziato con lungimiranza dal padre Jacopo alla fine del Cinquecento e dallo zio Bardo, ovvero l'accrescimento della quadreria e la valorizzazione degli spazi del palazzo di città (Palazzo Tornabuoni Corsi) e della villa di Sesto.

La caccia del cardinale è ricordata nell'inventario della nobile famiglia di appartenenza del 1747 (si veda in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, citato alla pagina 18 e riprodotto a pagina 67 fig. 28); la ritroviamo poi pubblicata da Donatella Pegazzano nell’ambito del suo studio sulla famiglia Corsi, qui citato in bibliografia.

In base ai documenti reperiti di committenza e pagamento, che iniziano nel novembre del 1641 e continuano fino al marzo del 1643, la studiosa restituisce anche un nome agli autori del quadro: Giovan Battista Stefanini, detto Battistone e Francesco Arrigucci; il primo pittore si occupò della realizzazione delle figure mentre il secondo del paesaggio; l’opera risulta terminata nel 1644 anche se nel 1646 lo Stefanini non l’aveva ancora consegnata a causa del mancato pagamento, complice probabilmente l’assenza da Firenze di Lorenzo Corsi  che era partito già da un anno ad Avignone per esercitare la vice legatura, anticamera al cardinalato.

Questa tipologia di opere che hanno per soggetto una veduta celebrativa rientra in un genere che ebbe molto successo dal Cinque al Settecento e che trova un illustre precedente nelle quattordici lunette raffiguranti le ville medicee dipinte da Giusto Utens tra il 1599 e il 1602. Si tratta di eleganti vedute delle ville di proprietà della famiglia Medici caratterizzate da una grande precisione descrittiva; oltre a costituire una preziosa testimonianza sull’aspetto originario di questi edifici, esse formano anche un vero e proprio inventario dei possedimenti granducali.

La scelta della villa di Cafaggiolo come sfondo per la caccia del nostro dipinto non è casuale: infatti dal 1537, quando divenne di proprietà del duca Cosimo I, vi venne realizzato un "Barco" murato ossia una riserva di caccia dove animali rari potevano girare liberamente.

L'utilizzo della villa come casino di caccia fu continuato anche dai figli di Cosimo, Francesco I e Ferdinando I, che vi soggiornarono soprattutto nei mesi autunnali.

La villa faceva parte dei possedimenti medicei già dalla metà del Quattrocento quando fu ristrutturata da Michelozzo su incarico di Cosimo il Vecchio.

Abitata generalmente in estate, fu un luogo assai amato anche da Lorenzo de' Medici che vi ospitò la sua corte di umanisti; secondo la tradizione compose proprio lì il poemetto La Nencia da Barberino.


Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
44

Cesare Dandini (Firenze 1596-1656) SAN SEBASTIANO olio su tela, cm 65x50 al retro presenta etichetta della "Mostra Nazionale Antiquaria Città di Firenze Palazzo Strozzi n. 584"   Bibliografia di riferimento F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua , Firenze, 1681-1728, 6 voll., ed. a cura di F. Ranalli, Firenze 1845-1847, 5 voll, IV, 1846, pp. 549-562 G. Cantelli, Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento , Fiesole (Firenze), 1983, pp. 56-58 S. Bellesi, Cesare Dandini , Torino 1996   Filippo Baldinucci tramanda che Cesare Dandini "era (…) giovanetto di vago aspetto, e di bellissime pittoresche proporzioni del volto" le stesse che si sono trasferite ai protagonisti dei suoi dipinti che rappresentano infatti poetici giovani a mezzo busto. Tra questi possiamo annoverare anche il San Sebastiano qui presentato, il cui dolore rende ancora più espressiva e toccante la delicatezza dei lineamenti. Una figura questa non estranea a precedenti colti: è infatti evidente il riferimento al patetismo della scultura pergamena, e in particolare alla testa marmorea dell’ Alessandro morente di arte greca conservata presso la Galleria degli Uffizi. Proprio da questa scultura sembra derivare l’espressione del santo con la fronte corrugata in una maschera di dolore che ne sublima la giovane bellezza incorruttibile. La biografia di Cesare è piuttosto movimentata: secondo Filippo Baldinucci, a soli dodici anni entra nella bottega di Francesco Curradi che per la sua avvenenza fisica lo utilizza come modello di molte sue figure. Dopo tre anni di scuola dal Curradi si sposta nella bottega di Cristofano Allori e poi in quella del Passignano che lo coinvolge alla realizzazione di una pala d’altare per Pisa, oggi riconosciuta in una tela che si trova nella cattedrale della città. Intorno al 1621, quando si immatricola all’Accademia del Disegno, Dandini avvia una sua propria attività legata principalmente alla pittura su rame di piccolo formato. Nonostante la vita irrequieta, di cui Baldinucci ci tramanda alcuni passaggi: "incominciò a dar bando agli studi, e poco meno al dipingere, ed in quella vece a’ spendere il suo tempo ne' passatempi e nella caccia", Cesare Dandini è stato un pittore assai prolifico avendo realizzato nature morte, ritratti, pale d’altare, soggetti sacri e quadri "da stanza". Tornato a Firenze dopo un soggiorno romano, a partire dal 1625 diventa uno dei pittori più richiesti dalla nobiltà fiorentina grazie a figure seducenti e ad una pittura metallica e brillante con influenze neomanieriste. A questa fase, durata quasi un decennio, può essere ricondotto il nostro scultoreo San Sebastiano con ascendenze bronziniane che si apprezzano nell’incarnato smaltato del viso e del busto.

Cesare Dandini

(Firenze 1596-1656)

SAN SEBASTIANO

olio su tela, cm 65x50

al retro presenta etichetta della "Mostra Nazionale Antiquaria Città di Firenze Palazzo Strozzi n. 584"

 

Bibliografia di riferimento

F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728, 6 voll., ed. a cura di F. Ranalli, Firenze 1845-1847, 5 voll, IV, 1846, pp. 549-562

G. Cantelli, Repertorio della Pittura fiorentina del Seicento, Fiesole (Firenze), 1983, pp. 56-58

S. Bellesi, Cesare Dandini, Torino 1996

 

Filippo Baldinucci tramanda che Cesare Dandini "era (…) giovanetto di vago aspetto, e di bellissime pittoresche proporzioni del volto" le stesse che si sono trasferite ai protagonisti dei suoi dipinti che rappresentano infatti poetici giovani a mezzo busto.

Tra questi possiamo annoverare anche il San Sebastiano qui presentato, il cui dolore rende ancora più espressiva e toccante la delicatezza dei lineamenti.

Una figura questa non estranea a precedenti colti: è infatti evidente il riferimento al patetismo della scultura pergamena, e in particolare alla testa marmorea dell’Alessandro morente di arte greca conservata presso la Galleria degli Uffizi. Proprio da questa scultura sembra derivare l’espressione del santo con la fronte corrugata in una maschera di dolore che ne sublima la giovane bellezza incorruttibile.

La biografia di Cesare è piuttosto movimentata: secondo Filippo Baldinucci, a soli dodici anni entra nella bottega di Francesco Curradi che per la sua avvenenza fisica lo utilizza come modello di molte sue figure.

Dopo tre anni di scuola dal Curradi si sposta nella bottega di Cristofano Allori e poi in quella del Passignano che lo coinvolge alla realizzazione di una pala d’altare per Pisa, oggi riconosciuta in una tela che si trova nella cattedrale della città.

Intorno al 1621, quando si immatricola all’Accademia del Disegno, Dandini avvia una sua propria attività legata principalmente alla pittura su rame di piccolo formato.

Nonostante la vita irrequieta, di cui Baldinucci ci tramanda alcuni passaggi: "incominciò a dar bando agli studi, e poco meno al dipingere, ed in quella vece a’ spendere il suo tempo ne' passatempi e nella caccia", Cesare Dandini è stato un pittore assai prolifico avendo realizzato nature morte, ritratti, pale d’altare, soggetti sacri e quadri "da stanza".

Tornato a Firenze dopo un soggiorno romano, a partire dal 1625 diventa uno dei pittori più richiesti dalla nobiltà fiorentina grazie a figure seducenti e ad una pittura metallica e brillante con influenze neomanieriste. A questa fase, durata quasi un decennio, può essere ricondotto il nostro scultoreo San Sebastiano con ascendenze bronziniane che si apprezzano nell’incarnato smaltato del viso e del busto.


Stima   € 8.000 / 12.000
47

λ Maestro anversese, 1590-1600 ca. IL TRIONFO DI DAVID olio su tavola, cm 254x121 tracce di firma nell’angolo inferiore destro: "Ruf (...)l"   Bibliografia di riferimento A. Baroni Vannucci, Jan van der Straet detto Giovanni Stradano, flandrus pictor et inventor , Milano 1997, p. 406, n. 702/7; M. Leesberg (a cura di), The New Hollstein Dutch & Flemish Etchings, Engravings and Woodcuts 1450-1700. Johannes Stradanus , Ouderkerk aan den IJssel 2008, vol. 1, n. 140. Il disegno preparatorio per la stampa si trova alla Biblioteca Reale Albert I di Bruxelles, inv. n. S IV 37872.   Dopo la vittoria su Golia, Davide fece il suo ingresso in Gerusalemme, portando la testa del gigante come trofeo. Tale momento costituisce il soggetto del dipinto in esame, in cui il giovane eroe, in compagnia di Saul, viene accolto da una folta schiera di donne. Nello specifico la scena dipinta s’ispira al passo biblico I Samuele 18, versetti 6-7: "E avvenne che al loro entrare, quando Davide tornò dall’aver abbattuto i filistei, le donne uscivano da tutte le città d’Israele con canto e danze incontro a Saul il re, con tamburelli, con allegrezza e con liuti…". L'imponente quadro, eseguito su tavola, è particolarmente ambizioso per quanto riguarda le dimensioni e la ricchezza dei materiali usati. Esso porta tutte le caratteristiche di un’opera realizzata ad Anversa sul finire del Cinquecento. Il supporto è costituito da cinque assi di legno di quercia, la qualità di legno preferito dai maestri di Anversa. Tipicamente fiamminghe sono pure la ricca tavolozza e la definizione dei volti con tocco leggero e trasparente. L’indagine riflettografica del dipinto (2013) ha evidenziato un impianto grafico assai accurato, eseguito sia a carboncino che a pennello. Tale disegno sottostante sta a dimostrare la particolare cura con la quale è stato realizzato il dipinto. Per la parte centrale della composizione, in cui figurano decine di personaggi, è possibile indicare una fonte precisa; essa trae ispirazione da un disegno di Giovanni Stradano (Bruges 1623 - Firenze 1605), tradotto in stampa da Adriaen Collaert (Anversa ca. 1560 - 1618) intorno al 1590. Lo Stradano originario di Bruges, trascorse quasi tutta la sua carriera nella Firenze granducale. Le prime commissioni importanti gli furono affidate da Cosimo I de' Medici intorno al 1555. A partire dal 1578 Giovanni Stradano mantenne stretti contatti con Philips Galle, editore di Anversa, fornendogli numerosi disegni di gusto prettamente manieristico (Baroni Vannucci 1997, p. 64). L’incisione di Adriaen Collaert raffigurante L'ingresso di Davide in Gerusalemme fa parte di una serie di stampe intitolata Encomium Musices , in cui storie tratte dal vecchio e dal Nuovo Testamento si susseguono per metter in evidenza lo straordinario potere della musica (per la serie di stampe e la sua datazione esatta vedasi Leesberg 2008, vol. 1, pp. 198-213, nn. 135-151 (con bibliografia). L'autore della tavola qui esaminata ha ingrandito la composizione su ambedue i lati. Sia la parte sinistra con gli alberi verdeggianti, come anche la parte destra con i due soldati in conversazione e il gruppo di cavalieri dietro, sono da considerare aggiunte di propria invenzione. Per la figura femminile in primo piano che regge un tamburello il pittore ha fatto ricorso ad un'altra incisione dell’ Encomium Musices , e cioè la stampa raffigurante Il canto di Mosè e Miriam nei presso del mar Rosso (Esodo 15:1-21) con, sulla destra, una suonatrice in atteggiamento simile (Baroni Vannucci 1997, p. 405, n. 702/5; Leesberg 2008, n. 137). Il rapporto con le due incisioni permette di circoscrivere la data di esecuzione della tavola tra il 1590 e il 1600 circa. Il dipinto è di grande effetto, grazie alle dimensioni, il numero delle figure, la sontuosità dei colori e l’ampia applicazione d'oro. È da evidenziare pure la ricca elaborazione dei vestiti più lussuosi. Accentuando la festosità della scena, il pittore ha messo il valore didattico della narrazione biblica in secondo piano, evocando con i propri mezzi artistici l’allegria dei canti e dei suoni.     Prof. Dr. Gert Jan van der Sman

λ

Maestro anversese, 1590-1600 ca.

IL TRIONFO DI DAVID

olio su tavola, cm 254x121

tracce di firma nell’angolo inferiore destro: "Ruf (...)l"

 

Bibliografia di riferimento

A. Baroni Vannucci, Jan van der Straet detto Giovanni Stradano, flandrus pictor et inventor, Milano 1997, p. 406, n. 702/7;

M. Leesberg (a cura di), The New Hollstein Dutch & Flemish Etchings, Engravings and Woodcuts 1450-1700. Johannes Stradanus, Ouderkerk aan den IJssel 2008, vol. 1, n. 140.

Il disegno preparatorio per la stampa si trova alla Biblioteca Reale Albert I di Bruxelles, inv. n. S IV 37872.

 

Dopo la vittoria su Golia, Davide fece il suo ingresso in Gerusalemme, portando la testa del gigante come trofeo. Tale momento costituisce il soggetto del dipinto in esame, in cui il giovane eroe, in compagnia di Saul, viene accolto da una folta schiera di donne. Nello specifico la scena dipinta s’ispira al passo biblico I Samuele 18, versetti 6-7: "E avvenne che al loro entrare, quando Davide tornò dall’aver abbattuto i filistei, le donne uscivano da tutte le città d’Israele con canto e danze incontro a Saul il re, con tamburelli, con allegrezza e con liuti…".

L'imponente quadro, eseguito su tavola, è particolarmente ambizioso per quanto riguarda le dimensioni e la ricchezza dei materiali usati. Esso porta tutte le caratteristiche di un’opera realizzata ad Anversa sul finire del Cinquecento. Il supporto è costituito da cinque assi di legno di quercia, la qualità di legno preferito dai maestri di Anversa. Tipicamente fiamminghe sono pure la ricca tavolozza e la definizione dei volti con tocco leggero e trasparente. L’indagine riflettografica del dipinto (2013) ha evidenziato un impianto grafico assai accurato, eseguito sia a carboncino che a pennello. Tale disegno sottostante sta a dimostrare la particolare cura con la quale è stato realizzato il dipinto. Per la parte centrale della composizione, in cui figurano decine di personaggi, è possibile indicare una fonte precisa; essa trae ispirazione da un disegno di Giovanni Stradano (Bruges 1623 - Firenze 1605), tradotto in stampa da Adriaen Collaert (Anversa ca. 1560 - 1618) intorno al 1590.

Lo Stradano originario di Bruges, trascorse quasi tutta la sua carriera nella Firenze granducale. Le prime commissioni importanti gli furono affidate da Cosimo I de' Medici intorno al 1555. A partire dal 1578 Giovanni Stradano mantenne stretti contatti con Philips Galle, editore di Anversa, fornendogli numerosi disegni di gusto prettamente manieristico (Baroni Vannucci 1997, p. 64).

L’incisione di Adriaen Collaert raffigurante L'ingresso di Davide in Gerusalemme fa parte di una serie di stampe intitolata Encomium Musices, in cui storie tratte dal vecchio e dal Nuovo Testamento si susseguono per metter in evidenza lo straordinario potere della musica (per la serie di stampe e la sua datazione esatta vedasi Leesberg 2008, vol. 1, pp. 198-213, nn. 135-151 (con bibliografia).

L'autore della tavola qui esaminata ha ingrandito la composizione su ambedue i lati. Sia la parte sinistra con gli alberi verdeggianti, come anche la parte destra con i due soldati in conversazione e il gruppo di cavalieri dietro, sono da considerare aggiunte di propria invenzione. Per la figura femminile in primo piano che regge un tamburello il pittore ha fatto ricorso ad un'altra incisione dell’Encomium Musices, e cioè la stampa raffigurante Il canto di Mosè e Miriam nei presso del mar Rosso (Esodo 15:1-21) con, sulla destra, una suonatrice in atteggiamento simile (Baroni Vannucci 1997, p. 405, n. 702/5; Leesberg 2008, n. 137).

Il rapporto con le due incisioni permette di circoscrivere la data di esecuzione della tavola tra il 1590 e il 1600 circa. Il dipinto è di grande effetto, grazie alle dimensioni, il numero delle figure, la sontuosità dei colori e l’ampia applicazione d'oro. È da evidenziare pure la ricca elaborazione dei vestiti più lussuosi. Accentuando la festosità della scena, il pittore ha messo il valore didattico della narrazione biblica in secondo piano, evocando con i propri mezzi artistici l’allegria dei canti e dei suoni.

 

  Prof. Dr. Gert Jan van der Sman

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
5

Attribuito a Pier Dandini

(Firenze 1646-1712)

LA MORTE DI CATONE

olio su tela, cm 143x194

 

 

Il dipinto qui presentato, raffigurante La Morte di Catone, mostra caratteri stilistici tali, uniti ad una freschezza nella pennellata, che permettono di accostare l’opera alla mano di Pier Dandini, uno tra i pittori più singolari e meritevoli di studio della seconda metà del Seicento fiorentino.

Il soggetto descrive il momento estremo di Catone Uticense, passato alla storia come campione delle virtù romane, fedele alla propria libertà politica e ai valori repubblicani di Roma.

Seguace della filosofia stoica e illustre oratore, Catone Uticense viene ricordato per rettitudine e fermezza ma soprattutto per essersi ribellato alla presa di potere di Cesare suo rivale, preferendo il suicidio all’arresto.

Catone trascorse le sue ultime ore leggendo alcuni passi del Fedone di Platone, il libro sulla sopravvivenza dell'anima dopo la morte, per poi trafiggersi il ventre con la spada esclamando: “Virtù, non sei che una parola”.

La scena descritta nel quadro è quella in cui alcune figure, accorse per medicare la ferita di Catone, assistono invece attoniti alla volontà dell’uomo di strapparsi le bende infierendo nervosamente contro i suoi visceri per arrivare prima alla morte.

La posa scorciata di Catone, la muscolatura possente resa con una pittura quasi sfrangiata, consentono di trovare punti di tangenza del nostro dipinto con opere note di Pier Dandini in alcune chiese fiorentine; in particolare con la figura del Battista nell’Assunzione della Vergine in Santa Verdiana e nella Decollazione di San Giovanni Battista in San Giovannino dei Cavalieri e con quella dell’infermo sanato nel Miracolo di San Vincenzo Ferreri in Santa Maria Novella.

Attento sempre alle novità artistiche, maturate attraverso i viaggi a Roma e Venezia, Pier Dandini fu sicuramente influenzato dalle opere di Luca Giordano da cui riprese il vigore e la prontezza esecutiva, mantenendo però un disegno, un tocco pittorico e una stravaganza tipicamente fiorentini.

Stima   € 12.000 / 15.000
8

Francesco Botti

(Firenze 1640-1711)

NATIVITA' DELLA VERGINE

olio su tela, cm 95x117

 

Bibliografia

S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento e Settecento. Biografie e opere, Firenze, 2009, I, pp. 92-93; II, p. 100, fig. 191 (Roma, collezione privata)

 

 

Non sono molte le notizie che riguardano questo interessante pittore, le più esaustive sono inserite nel Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento di Sandro Bellesi, qui citato in bibliografia, dove troviamo pubblicata anche la foto del nostro quadro.

Figlio del pittore Giacinto Botti, Francesco fu battezzato da Francesco Furini il prete-pittore amico del padre; probabilmente il suo nome è stato dato proprio in onore di colui che aveva celebrato il battesimo.

Botti iniziò la sua attività di artista inizialmente presso la bottega del padre e in seguito in quella di Simone Pignoni, maestro che prese come modello tanto che alcune delle sue prime opere furono a lungo attribuite al Pignoni stesso. Questo aspetto sicuramente non giovò al Botti che venne offuscato dalla fama del maestro per molto tempo.

L’inizio di una sua originale carriera al di fuori dell’atelier del Pignoni avvenne probabilmente intorno al 1678 anno in cui fu immatricolato presso l’Accademia del Disegno.

Il suo linguaggio stilistico, come è evidente anche nella nostra tela, risente di un intreccio lessicale in cui si leggono derivazioni dallo sfumato morbido del Furini, dalle accensioni luministiche del Pignoni e dalle opere tarde di Sebastiano Mazzoni, che studiò probabilmente durante un suo soggiorno a Venezia.

La Natività di Maria qui proposta va inserita in una fase matura dell’attività di Botti, quando iniziò a dedicarsi alle pale d’altare e ai soggetti religiosi. In essa si nota un colore steso per velature sottili tanto da ottenere effetti di trasparenza quasi lirici, soprattutto nelle delicate alternanze del rosa, dell’ocra e del blu.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
41

Francesco De Mura

(Napoli 1696-1782)

ASSUNZIONE DELLA VERGINE

olio su tela, cm 151,5x105,5

 

L'opera è corredata da parere scritto di Ferdinando Bologna, Napoli 1984

 

Provenienza

Christie's, Londra, 24 febbraio 1984, lotto 29;

Collezione privata, Napoli

 

Venduto a Londra con un’attribuzione a Francesco Solimena, il dipinto qui offerto è stato giustamente ricondotto al catalogo del giovane De Mura da Ferdinando Bologna in una circostanziata comunicazione al proprietario di poco successiva al passaggio in asta. Custodita per oltre tre decenni in una raccolta privata napoletana, l’opera è rimasta tuttavia del tutto inedita e quindi sconosciuta agli studi che in questo periodo hanno messo progressivamente a fuoco la figura dell’allievo più illustre di Francesco Solimena.

Modello della nostra paletta, riproposto con minori varianti compositive, è l'Assunzione della Vergine dipinta dal Solimena per la cattedrale di Capua, documentata come già in loco nel 1725. Un’opera a lungo studiata dal maestro napoletano, come indicano il disegno preparatorio identificato da Ferdinando Bologna al British Museum e il bozzetto conservato a Trapani nel Museo Pepoli, e immediatamente celebre tanto da essere riprodotta all’incisione e replicata a olio dalla bottega in un dipinto ora nei depositi della Galleria Nazionale di Arte Antica a Roma (F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958, I, pp. 194, 249-50; II, figg. 160-61).

Il nostro dipinto ne differisce per la forma rettangolare, priva dei profili sagomati che sui lati brevi caratterizzano la pala di Capua ma, soprattutto, per la raffinata gamma cromatica lontana dai colori accesi e dalle ombre risentite del modello. Una preferenza che appunto caratterizza fin dagli esordi la produzione di Francesco De Mura, che ne farà la sua cifra personalissima.

Presente nella bottega di Solimena a partire dal 1708, e tra gli allievi certamente il più dotato, fin verso la fine degli anni Venti De Mura resterà strettamente legato ai modelli del maestro, progressivamente divergendone tuttavia nella preferenza per composizioni più raffinate e leggere, già percepibili nelle prime prove per Montecassino, del 1731.

Sofisticata sperimentazione sulle possibili varianti dal modello solimeniano, la nostra tela deve quindi situarsi nel breve tratto di tempo che separa la pala di Capua (1725) dalle prime prove pienamente autonome di De Mura all’inizio del quarto decennio del Settecento.

 

 

 

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
35

Francesco Solimena

(Canale di Serino 1657 - Barra 1747)

LA PIETÀ E LA SPERANZA

olio su tela, cm 127x181

firmato in basso a sinistra "Fran.cus Solimena"

 

Provenienza

Sotheby's, Londra, 11 luglio 1979, lotto 330

 

Bibliografia

N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento. Dal Barocco al Rococò, Napoli 1988, p. 118, n. 54 e p. 213, fig. 62

 

Custodito da oltre trent’anni in una raccolta privata italiana, l'imponente dipinto qui offerto è stato pubblicato da Nicola Spinosa nella sua fondamentale ricognizione della pittura napoletana del Settecento, ma non è stato in realtà oggetto di studi più specifici in grado di documentarne l'antica provenienza e l’eventuale appartenenza ad un più ampio contesto.

Nel presentarlo a seguito del passaggio sul mercato antiquario inglese, Spinosa suggeriva trattarsi del "modello" per una possibile decorazione a fresco di evidente collocazione ecclesiastica, considerato il soggetto, non ricordata però da fonti o documenti. È probabile che le nostre figure femminili, personificazioni della Speranza e della Pietà (quest'ultima, decisamente infrequente, è riconoscibile grazie alla stretta adesione dei suoi attributi e colori alle indicazioni dell'Iconologia di Cesare Ripa) si accompagnassero almeno alle Virtù teologali, Fede e Carità, ed eventualmente alle quattro Virtù cardinali per comporre insieme un ciclo di otto figure divise in quattro campi: una soluzione proposta da Francesco Solimena nelle chiese napoletane di San Paolo Maggiore e del Gesù Nuovo fra la fine del nono decennio del Seicento e l’inizio degli anni Novanta e di cui anche il bozzetto con le sante Caterina e Cecilia qui riprodotto per confronto può darci un’idea per quanto riguarda la realizzazione finale.

La datazione proposta da Spinosa rimanda invece alla fine degli anni Venti del Settecento, in contiguità con gli affreschi eseguiti dal Solimena fra il 1727 e il 1730 nella cappella di San Filippo nella chiesa dei Gerolamini, dove le figure di santi nei peducci degli archi mostrano una ricerca di grandiosità accentuata dal colore a macchia molto vicina in effetti alle nostre Virtù.

Pur nella relativa sommarietà del "modello di presentazione" (nobilitato però dalla firma del pittore) le nostre figure femminili, che un opportuno restauro ricondurrà alla vivacità originaria, mostrano quella ricerca di monumentalità e rigore compositivo che segna l’impegno classicista di Francesco Solimena tra terzo e quarto decennio del Settecento, a partire dalla pala dell’Assunta nel duomo di Capua di cui, in questo catalogo, presentiamo la sofisticata rilettura di Francesco De Mura.

 

Stima   € 45.000 / 65.000
Aggiudicazione  Registrazione
31

Gaspare Lopez detto Gasparo dei Fiori

(Napoli - Firenze 1740)

VASO DI FIORI ALL'APERTO CON COLONNA E CERAMICHE

olio su tela, cm 88x117

 

Nato a Napoli nell’ultimo quarto del Seicento, Gaspare Lopez è stato un pittore naturamortista del periodo tardo-barocco. Secondo il biografo napoletano Bernardo De Dominici iniziò i suoi studi con il pittore Andrea Belvedere, per poi proseguirli con Jean-Baptiste Dubuisson. 

In seguito alle esperienze maturate con quest’ultimo, Lopez si orientò verso una pittura illusionistica che ha come soggetto squisiti trionfi floreali all’aperto. In seguito ai successi conseguiti nella città partenopea, Lopez si trasferì a Roma e poi a Venezia.

Dopo aver viaggiato anche in Polonia, Prussia e Portogallo, rientrò in Italia stabilendosi a Firenze dove rimase fino alla sua morte, nel 1740.

Si presume che sia arrivato a Firenze nel 1728, anno in cui si immatricolò all’Accademia del Disegno. Le sue eleganti composizioni floreali ebbero subito grande successo presso i Medici che lo nominarono pittore di corte; in particolare fu apprezzato dal granduca Gian Gastone e dalla sorella, l’elettrice palatina, Anna Maria Luisa.

Alla sua ascesa come pittore di fiori contribuì la mancanza di rivali importanti nella città granducale dopo la morte di Andrea Scacciati nel 1710 e quella di Bartolomeo Bimbi nel 1729; fu molto richiesto così dai nobili fiorentini per i quali realizzò raffinate composizioni in cui aveva fuso le esperienze maturate a Napoli e nei viaggi con quelle acquisite in Toscana. Ferito in seguito a una rissa durante un viaggio a Venezia, Lopez rientrò a Firenze dove morì il 15 ottobre del 1740. Fu seppellito nella chiesa di San Michele Visdomini.

La grande tela qui presentata, caratterizzata da una natura rigogliosa e fresca si può accostare al dipinto con Fiori, fontana, pappagallo e rovine sullo sfondo già a Casalmaggiore (Cremona), Galleria D’Orlane (pubblicato in S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento e Settecento, Firenze, 2009, p. 51, n. 922). In entrambe le composizioni si ritrovano fiori e frutta disposti all’aria aperta tra vasi e ceramiche secondo il gusto dominante a Napoli nel primo decennio del secolo.

Anche in quest’opera, contraddistinta dalla presenza del grande vaso ricco di fiori al centro, la fontana zampillante, le colonne e le ceramiche appoggiate al terreno, si evince l’amore del Lopez per le composizioni entro verdeggianti giardini con decorazioni combinate tra loro con studiata casualità; solo il cielo denso di nubi minaccia la serenità di questa ambientazione bucolica, resa con uno stile leggero e arioso.

 

 

Stima   € 12.000 / 15.000
21

Giovanni Bilivert

(Firenze 1585-1644)

I PROGENITORI

olio su tela, cm 92,5x74

 

Bibliografia di riferimento

R. Contini, Bilivert, saggio di ricostruzione, Firenze 1985, p. 126 e tav. XXI

 

 

L'inedita tela qui presentata raffigurante Adamo ed Eva in un Eden rigoglioso, che si intravede in alto a sinistra nella composizione, si può ricondurre al pittore Giovanni Bilivert, personalità artistica tra le più importanti a Firenze alla metà del Seicento, in virtù dei suoi caratteri stilistici, la conduzione pittorica e la peculiarità descrittiva delle figure.

I progenitori sono colti nell’abbraccio che precede la loro caduta: Eva seduce il giovane Adamo con un bacio malizioso, incantandolo con un volto di candida bellezza che contrasta invece con il corpo dalle sembianze serpentine.

L’albero della conoscenza e il corpo della donna sembrano fondersi in un’unica entità, solo il piccolo angelo cerca di salvare Adamo, aggrappandosi alla sua veste, dal compimento del peccato originale. Ma il volto molle del giovane non lascia dubbi sulla sua scelta, e l’attenzione cade così sulla mela che tiene nella mano sinistra.

Questa rara interpretazione dei Progenitori trova uno stretto riferimento nel bellissimo disegno di Bilivert - inv. 9654 F del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi - che presenta la stessa composizione con le due figure al centro in atto di abbracciarsi e l’inquieto angioletto in basso a sinistra.

Il disegno profilato a penna, che si distingue per il pittoricismo dato dall’uso di carboncino, sanguigna, acquerello nero e lumeggiature di biacca, ci consente di comprendere meglio il soggetto del dipinto in quanto, nella parte destra della scena, è ben visibile il serpente arrotolato intorno all’albero; la sua coda termina con il consueto volto di donna proprio vicino al frutto del peccato.

Giovanni Bilivert, figlio dell’orafo olandese al servizio dei Medici Jaques Bijlevelt, fu allievo del Cigoli con cui lavorò a Roma tra il 1604 e il 1608.

Immatricolato nel 1612 presso l’Accademia del Disegno, almeno fino al 1621 rimase sotto la protezione del granduca Cosimo II che lo aveva nominato disegnatore nell'officina granducale delle pietre dure. Alla sua scuola si formarono pittori del calibro di Furini, Fidani, Coccapani, Baccio del Bianco che ebbero con il maestro un rapporto di profonda stima date le biografie benevole che scrissero su di lui (conosciamo infatti tre biografie su di lui di cui una redatta da Filippo Baldinicci e le altre dagli allievi Orazio Fidani e Francesco Bianchi).

Giovanni Bilivert fu essenzialmente pittore di soggetti religiosi anche se non trascurò di dipingere quadri da camera con temi profani che piacevano ai suoi clienti aristocratici.

Dagli anni Trenta del Seicento la sua pittura si fa più delicata e sensuale complice senz'altro l'influenza di Francesco Furini; proprio a questa fase possiamo far risalire l'opera qui offerta che presenta infatti uno stile morbido e fiorito; si creano intriganti effetti di penombra che rendono la tela un lavoro di affabile dolcezza.

Ringraziamo Roberto Contini per aver confermato l’attribuzione sulla base di fotografie.

 

 

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
50

Giovanni Domenico Lombardi detto l'Omino

(Lucca 1682-1751)

ALLEGORIA DELLA FEDE

olio su tela, cm 172x210

 

L'opera è corredata da parere scritto di Alberto Crispo, Parma, 3 febbraio 2011

 

Bibliografia

V. Tani, "Paulo Borghese Guidotti humilmente prostrato alla felicissima patria avanti". Un affascinante messaggio di genio, follia, e luce caravaggesca per Pietro Paolini e la pittura lucchese del Sei-Settecento, "Rivista di archeologia, storia, costume", 39, 2011, n. 1-2, pp. 3-60, ill. p. 28.

 

Bibliografia di riferimento

P. Betti, Giovan Domenico Lombardi nei Musei Nazionali di Lucca, Lucca 2003

A. Crispo, Itinerari di Giovan Domenico Lombardi tra Lucca, Roma e il settentrione, in “Nuovi Studi”, VIII, 10 (2003), 2004, pp. 207-221

 

Artista sfaccettato e affascinante, dedito a vari generi pittorici tra cui si ricordano soggetti storici e religiosi, scene di genere, scene galanti, nature morte e ritratti, Giovanni Domenico Lombardi fu un importante protagonista del panorama artistico lucchese della prima metà del Settecento.

Lavorò principalmente per le chiese del territorio lucchese e per le famiglie più illustri del patriziato cittadino. Il suo apprendistato si svolse nella sua città natale presso il pittore Giovanni Marracci, ma furono le opere dei suoi concittadini Pietro Paolini e Girolamo Scaglia ad influenzare la sua pittura soprattutto nell’interesse per gli effetti luministici e la descrizione quasi teatrale degli ambienti.

Il Lombardi completò la propria formazione compiendo un viaggio di studio in Lombardia e nel Veneto dove acquistò una più profonda sensibilità per la ripartizione delle zone luminose grazie al contatto con le opere dei grandi pittori del Cinquecento quali Tiziano, Tintoretto, Veronese, e con le novità che andavano delineandosi nel panorama artistico lagunare. Il risultato di questa esperienza affiora ad esempio nell´Adorazione dei Magi oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi. Nel 1706 era già tornato a Lucca dove si sposò e iniziò a lavorare a diversi cicli pittorici.

La grande tela qui illustrata in catalogo, raffigurante un’elaborata allegoria della Fede sul carro trionfale accompagnata da Carità, Speranza e Prudenza, rientra tra le opere da assegnare al Lombardi.

Alberto Crispo riconosce le caratteristiche principali del pittore nel forte chiaroscuro, nei gesti esasperati e nelle figure vertiginosamente scorciate.

La composizione mette in scena così una complessa allegoria delle Virtù cristiane che sconfiggono i Vizi - i tre personaggi incatenati - e il Peccato - la figura distesa sulla sinistra assalita da un serpente che gli morde il cuore.

La datazione dell’opera ci porta verso gli anni Quaranta del Settecento, dopo un possibile viaggio del Lombardi a Roma e un rinnovato interesse per i modelli michelangioleschi scolpiti e dipinti.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

Jacques Courtois, il Borgognone

(Saint-Hyppolite 1621 - Roma 1676)

BATTAGLIA DI CAVALIERI

olio su tela, cm 52,5x78

 

Provenienza

Finarte, Milano, 8 giugno 1984, lotto 469

 

Bibliografia

G. Sestieri, I pittori di battaglie. Maestri italiani e stranieri del XVII e XVIII secolo, Roma 1999, p. 199, fig. 96

 

Da tempo celato alla vista in una raccolta privata milanese, il dipinto qui offerto si conferma oggi un autografo certo dell’artista borgognone, presentando in modo quasi paradigmatico le figure e l’impianto compositivo caratteristico del suo ricco catalogo di battaglie. La gamma cromatica luminosa e vivace suggerisce l’accostamento alla coppia di battaglie, di piccole dimensioni ed eccezionalmente dipinte su tavola, anch’esse vendute alla Finarte nel 1996 (G. Sestieri, 1999, p. 198, figg. 93-94).

Particolarmente interessante è poi, nel nostro dipinto, la presenza di motivi e soluzioni compositive che passeranno con ben poche varianti nelle tele di Francesco Monti, il Brescianino, che del Borgognone si conferma, insieme a Pandolfo Reschi, il seguace più brillante e dotato. Numerosi confronti consentono infatti di tracciare una linea precisa tra il dipinto qui offerto e le tele del Monti all’Accademia dei Concordi di Rovigo che, non a caso, Sestieri (1999, p. 208, figg. 1-2 e tav. I) conferma al Brescianino ipotizzando però una possibile derivazione da modelli non identificati di Jacques Courtois: modelli, possiamo aggiungere oggi, certo non lontani dalla battaglia che qui presentiamo.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
19

Livio Mehus

(Oudenaarde, Fiandra 1627 - Firenze 1691)

MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA

olio su tela, cm 97,5x85

 

Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi

 

Bibliografia di riferimento

M. Chiarini, I quadri della collezione del Gran Principe Ferdinando II, in “Paragone”, 1975, 301, p. 60

M. Gregori, Livio Mehus o la sconfitta del dissenso, in “Paradigma”, 1978, p. 206, nota 92, e fig. 103

M Chiarini, Livio Mehus, Un pittore barocco alla corte dei Medici (1627-1691). Catalogo della mostra, a cura di Marco Chiarini, Firenze, 2000

 

L'interessante tela qui proposta, raffigurante il Matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, presenta caratteristiche tali, oltre alla particolarità con cui sono condotte le figure, da poter essere assegnata con sicurezza al pittore olandese Livio Mehus.

Sono diversi gli elementi stilistici che consentono di individuare la sua mano: dall'influenza vaporosa di Pietro da Cortona, agli echi della pittura fiamminga coeva, fino alle reminiscenze correggesche.

Il nostro dipinto, come segnala Sandro Bellesi, è la redazione più accurata di una composizione già nota di Mehus che si trovava a Bergamo, presso Previtali e che è pubblicata dalla Gregori nell'articolo Livio Mehus o la sconfitta del dissenso alla figura 103. È ancora Mina Gregori a riportare in nota la presenza sul mercato fiorentino di un'altra versione analoga ma mai riprodotta (che potrebbe coincidere con la nostra) e a indicare come la composizione del Mehus sia in rapporto con un'opera del Volterrano di analogo soggetto, dipinta per Vittoria della Rovere nel 1661. Il dipinto di Volterrano, oggi di proprietà della Banca Popolare di Vicenza, ebbe grande successo grazie al fascino di una pittura morbida e delicata che deve aver influenzato anche Livio Mehus; quest'ultimo, proprio con Volterrano e Pier Dandini, era considerato già alla metà del secolo uno dei più importanti esponenti della pittura barocca fiorentina. Dal 1684 è documentato anche come Maestro dell'Accademia del Disegno insieme a questi due artisti.

La cifra stilistica con effetti nebbiosi e foschi per lo sfondo, ma con improvvise accensioni luministiche che fanno risaltare la tenerezza dell'incarnato della santa egiziana e del Bambino, ci portano a datare il quadro a una fase tarda dell'attività del Mehus, intorno agli anni Settanta-Ottanta del Seicento, quando sono più palpabili le influenze della lezione genovese del Grechetto. 

Nato nelle Fiandre nel 1627, Livio Mehus si trasferì con la famiglia a Milano quando aveva circa dieci anni, e iniziò lì i primi studi presso l'ignoto battaglista Carlo fiammingo. Le vicende turbolente della sua gioventù sono narrate dal Baldinucci (1681-1728, ed. 1845-1847, V, 1846, pp. 523-538) che racconta come a quindici anni decidesse di avviarsi a piedi verso Roma per studiare gli artisti che lì lavoravano. Arrivato però a Pistoia fu segnalato al principe Mattias de' Medici, fratello del granduca Ferdinando II, che gli permise di completare i suoi studi a Firenze presso Pietro da Cortona che in quel tempo - anni Quaranta del Seicento - stava completando la decorazione dei soffitti per le sale di Palazzo Pitti.

Il desiderio di apprendere nuovi linguaggi pittorici portò Mehus a intraprendere altri viaggi in Emilia e in Veneto oltre che a Roma, dove si recò nel 1650 insieme all'amico Stefano Della Bella; qui lavoravano ancora Claude Lorrain, Salvator Rosa (già cononsciuto a Firenze), Pietro Testa, artisti importanti per comprendere l'articolata miscellanea culturale che caratterizza la sua pittura.

Il percorso artistico del Mehus si è contraddistinto, fino alla fine del suo operato, per immagini percorse da emozioni mistiche e sublimi a cui possiamo accostare anche il nostro Matrimonio di Santa Caterina. Il dipinto spicca infatti per il forte pathos che trapela soprattutto dalla figura di Caterina chiusa nella sua silenziosa estasi mentre riceve da Gesù, secondo quanto tramandato nell'agiografia medioevale, l'anello nuziale simbolo dell'unione della giovane a Dio.

Come Stefano della Bella, e in seguito Stefano Magnasco, Mehus rappresentò, nel dissolvimento materico delle forme, l'aspetto del barocco meno sfarzoso e trionfale, rielaborando piuttosto, in forme del tutto originali, quanto imparato presso Pietro da Cortona. Fu per questo suo aspetto molto apprezzato dal Gran Principe Ferdinando che collezionò ben quarantacinque quadri del pittore, la metà di questi ancora conservati (si veda M. Chiarini, I quadri della collezione del Gran Principe Ferdinando II, in "Paragone", 1975, 301, p. 60).

 

Stima   € 10.000 / 15.000
4

Ottavio Vannini                                              

(Firenze, 1585-1644)                                                      

SAN GIOVANNI EVANGELISTA

SAN LUCA EVANGELISTA

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 64x61                               

(2)                           

 

 

L'inattesa comparsa di questo pendant vale come risarcimento alla emorragia di opere travasate, in questi ultimi anni, dal catalogo del Vannini in quello del suo non scarso alter ego Antonio Ruggieri, l'allievo che per un decennio almeno si prese la briga di perpetuarne la maniera, peraltro sempre – con una sola eccezione – in lavori di propria invenzione (quando, va da sé, egli non si trovasse a dar fine alle pendenze – tante – del maestro defunto). Al proposito, vale la pena di evocare il caso recentissimo del bel Giaele e Sisara del Seminario Arcivescovile fiorentino – parte della celebre serie d'ottagoni lasciata in eredità alla compagnia di San Benedetto Bianco da Gabriello Zuti –, dipinto che Maria Cecilia Fabbri ha potuto passare in toto, su base documentaria, tra le spettanze del Ruggieri – anno 1648 –, confermando sospetti già adombrati circa una partecipazione di quest'ultimo a quella che correntemente passava per una prova estrema d'Ottavio (M. C. Fabbri, in Il Rigore e la Grazia. La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino, catalogo della mostra (Firenze), a cura di A. Grassi, M. Scipioni, G. Serafini, Livorno, 2015, p. 148).  

Per tornare ai due dipinti che qui si presentano, in origine ovali, sono da credere parte  di una serie di quattro – mancano all'appello Matteo e Marco –, divisa in epoca imprecisabile.

Le notizie in possesso degli attuali proprietari non consentono di ricostruirne la storia più antica, e valgono soprattutto ad accertare la provenienza fiorentina delle due tele, che sarebbe piaciuto trovare listate nell'inventario dei quadri di qualcuno dei più affezionati collezionisti del Vannini, confortate dalla compagnia di altre opere del maestro: in casa Galli Tassi ad esempio, o in casa Del Rosso (meglio però sarebbe dire, in quest'ultimo caso,  nelle 'case'  Del Rosso, poiché anche il ramo cadetto della famiglia poteva vantare non poche pitture d'Ottavio: E. Arnesano, Del Rosso (ramo cadetto), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, I, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto, 2015, pp. 237-259).

Neppure ci viene in aiuto il referto biografico del Baldinucci, piuttosto avaro, a parte nel caso – macroscopico – dei tanti cimenti per i Del Rosso di via Chiara, nell'elencare lavori del pittore che non fossero murali o grandi pale d'altare di destinazione pubblica. Solo il ricordo generico di "più tele d'Apostoli" eseguite per i Da Bagnano può avere un qualche valore, nel testimoniare della consuetudine del Vannini con le mezze figure in serie.

A consolarci di questa – temporanea, vogliam credere – assenza di dati, interviene però la qualità  davvero superba dei due ex ovali, tale da meritar loro la palma tra i quadri da stanza (o comunque di minor formato) licenziati da Ottavio dopo il 1630. Anzi, a voler essere più circostanziati, dopo il 1632, l'anno del San Girolamo di Monsummano, ovvero il dipinto che per primo – almeno tra i databili con sicurezza – mostra compiutamente quei tratti di accresciuto spessore materico e ‘prestezza' di condotta che sono la novità più evidente dell'inoltrata attività del pittore: tratti che senza intaccare la lucidità della visione pittorica del Vannini si mostrano abbinati ad un generale registro di muscolare grandeur.

I due nostri Evangelisti –  l'uno, Giovanni,  in posa ispirata, l'altro, Luca, concentrato nella scrittura – certificano al meglio una tale svolta, in virtù anche dell'intatta pelle pittorica. Essi paion cavati di peso dalla colossale Madonna e Santi del San Domenico di Pistoia, massimo cimento sacro del pittore nel bel mezzo del quarto decennio (e quasi il manifesto d'una via vanniniana ad un 'barocco' iperdisegnato; in particolare Giovanni ha qui un quasi perfetto corrispettivo nell'angelo che accompagna Santa Francesca Romana); o ancora dall'Ultima Cena di Colle Valdelsa,  licenziata nel 1636.

La soluzione di posa del San Giovanni si ritrova poi con incidenza singolare – e varianti più o meno significative – in questa stagione matura del pittore. Segno di come il  “tornare e ritornare sopra una cosa sola tante volte” che il Baldinucci riferisce al pittore, si possa estendere dal piano meramente tecnico su cui lo confina il biografo, a quello di una continua, studiosa rimeditazione di propri pensieri formali.

È così che il giovane santo si può leggere d'un fiato, anche nel tono sentimentale severamente accorato, col San Sebastiano del convento di San Marco a Firenze, riconosciuto al Vannini in tempi relativamente recenti (Francesca Baldassari, Carlo Dolci, Torino, 1995, p. 56), e con le altre versioni autografe di tale soggetto: quella ad esempio passata di recente presso Cambi (2 dicembre 2013, lotto 369, olio su tela, cm 89x73, come lavoro del lucchese Pietro Sigismondi).

 

Filippo Gheri

 

                                           

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
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