capolavori da collezioni italiane

9 NOVEMBRE 2016

capolavori da collezioni italiane

Asta, 0187
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
Ore 19.00
Esposizione
FIRENZE
4-8 Novembre 2016
orario 10 –19 
9 Novembre 2016
orario 10 - 13
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
 
 
 
Stima   10000 € - 130000 €

Tutte le categorie

1 - 27  di 27
1

ARA

PRODUZIONE ROMANA, II-III SEC. D.C.

in marmo bianco a grana fine, scolpito, levigato e rifinito a trapano, cm 58x46x42

 

 

Bibliografia

G. Wilmans, Exempla inscriptionum latinarum in usum praecipue academicum, Berlino 1870, p. 172 n. 2542;

Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, Inscriptiones Urbis Romae Latinae, pars II, Berlino 1882, n. 9889;

H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae Berlino 1906, vol. III, n. 7590

 

L’ara si presenta oggi priva del piano superiore; sul fronte, iscrizione su nove linee

diis manibus

d•avonio

thalamo

segmentario

patrono•bene

merito

d•avonius

heuretus•l•

fecit

 

Agli Dei Mani (e) a Decimo Avonio Thalamo, sarto, padrone benemerito,

Decimo Avonio Heuretus liberto fece

 

Nella parte alta sugli spigoli si trovano due teste di Ammone nella sua ipostasi di ariete con folta capigliatura e barba a riccioli, fortemente caratterizzate nel viso molto chiaroscurato e con grandi corna di ariete ritorte dalle quali pendono lunghe tenie. Negli spigoli inferiori si trovano invece arpie con corpo leonino e testa femminile, grandi ali piegate, raffigurate sedute sulle zampe posteriori con quelle anteriori erette, mentre le code si avvolgono sulle facce laterali del piccolo monumento. Sui lati sono scolpite ad altorilievo da una parte un’oinochoe e dall’altra una patera ombelicata, riferimenti alla libagione funeraria in onore del defunto. In entrambi gli spigoli posteriori è scolpita una parasta con capitello ionico e fusto decorato a piccole foglie lanceolate. La base si presenta modanata.

Stato di conservazione: priva della mensa, la protome di Ammone e l’arpia del lato destro lacunosi; piccola lacuna alla base della parasta del lato sinistro.

 

La piccola ara risulta pubblicata a livello epigrafico ben tre volte, dal Wilmans nel 1870 nel suo Exempla inscriptionum latinarum in usum praecipue academicum, in cui se ne dà la collocazione a Roma e si specifica che è stata descritta da Giovan Battista de Rossi e dal Lanciani, pubblicata una seconda volta nel 1873 nel Corpus Inscriptionum Latinarum , vol. VI al n. 9889 da Johann Heinrich Henzen, direttore dell'Istituto germanico di corrispondenza archeologica in Roma, con la provenienza da vigna Corsi del Pinto fra il cimitero di Callisto e la chiesa di San Sebastiano, ed infine dal Dessau nel 1906 in Inscriptiones Latinae Selectae.

Si può quindi desumere che l’ara dopo il suo ritrovamento fosse giunta sul mercato antiquario dove è probabile sia stata acquisita dal Barone Blanc per essere successivamente utilizzata non tanto come monumento a sé stante ma come base per la statua di Artemide presentata al lotto precedente.

Non avendo immagini antiche non è dato sapere se lo spianamento della mensa dell’ara sia dovuto ad un suo cattivo stato di conservazione o invece per avere una superficie che corrispondesse quasi perfettamente alla base inferiore della statua di Artemide.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
2

STATUA DI ARTEMIDE
PRODUZIONE NEOATTICA, FINE PRIMO SEC. A.C.

in marmo bianco a grana media, scolpito e levigato, alt. cm 130

La dea è raffigurata in posizione frontale con il piede sinistro leggermente avanzato e il destro arretrato ed insiste su una base quadrangolare; indossa un lungo chitone che arriva fino a terra e che ricade in pieghe cannellate di aspetto quasi metallico, aderendo al corpo e sottolineandone le forme; sopra il chitone è drappeggiato un mantello che scende a coprire in parte la veste con ricche pieghe a zig-zag ed è fermato sulla spalla sinistra da piccole fibule. I capelli scendono sui seni in lunghe trecce mosse e sono invece raccolti insieme sulla nuca. La dea indossa di traverso sul torace il balteo destinato a sostenere la faretra. Il braccio destro aveva l’avambraccio proteso, oggi perduto, mentre il sinistro era disteso lungo il fianco a sostenere l’abito. I piedi, accuratamente modellati, calzano sottili sandali; la parte posteriore della statua è sommariamente lavorata, probabilmente in quanto originariamente non visibile, ma i glutei sono messi in evidenza.

La dea è raffigurata in maniera iconica e concepita per una visione essenzialmente frontale e l’attenzione dell’osservatore è immediatamente catturata dal ricco panneggio del mantello che assume un’importanza quasi superiore alla figura della dea.

Stato di conservazione: priva della testa, dell’avambraccio destro e del sinistro; tracce di una grappa in bronzo per l’ancoraggio del braccio sinistro.

La statua che presentiamo può essere confrontata con due statue simili, sempre raffiguranti la dea Artemide e conservate rispettivamente una al Museo Archeologico Nazionale di Venezia n. inv. 59 (fig. 1), proveniente dal Legato Grimani del 1587 e l’altra al Museo Nazionale di Napoli, n. inv. 6008 (fig. 2), proveniente dalla Casa degli Olconii di Pompei e rinvenuta nel 1760.

La statua veneziana, proveniente dalla Collezione di Giovanni Grimani, patrizio veneziano e patriarca di Aquileia, fu donata alla Repubblica assieme al resto della collezione ed era nota già in antico; si tratta di un’opera di dimensioni inferiori alla statua qui in catalogo, essendo alta 111 cm, mentre l’Artemide della Collezione Blanc si può considerare a grandezza naturale, con i suoi 130 cm conservati, pur mancando della testa.

La scultura da Pompei è di dimensioni identiche a quella Grimani e conserva anche la testa sulla quale è stato fatto il calco per la scultura veneziana che ne era priva.

Ambedue le sculture raffigurano la dea in posizione gradiente, al contrario della nostra che è invece stante, ma l’abbigliamento della figura femminile identico nelle tre opere, la resa degli abiti con pieghe regolari e schematiche, in cui si nota l’interesse dell’artista per il particolare che assume esso stesso valore decorativo, assieme alla tendenza a schiacciare i volumi rivelano chiaramente le caratteristiche delle officine statuarie neoattiche, in particolare di quegli scultori avvicinabili alla cerchia di Pasiteles.

Il Neoatticismo è una corrente scultorea nata alla fine del periodo repubblicano ed è stato Heinrich Brunn a coniare questo termine nella sua Geschichte der griechischen Künstler pubblicata nel 1853, nella quale contrapponeva ai maestri dell'Atene classica, gli artisti attici i cui nomi comparivano in una serie di iscrizioni, trovate per lo più in Italia, seguiti dall'apposizione di ᾿Αϑηναῖος, qualificandoli scultori "neoattici". La produzione di questi scultori varia dalle opere plastiche a tutto tondo ai vasi in marmo ed anche ad altri oggetti con ornamenti a rilievo e si data principalmente al I sec. a. C.

Già a metà del II sec. a. C. nelle corti ellenistiche, come quella degli Attalidi a Pergamo e quella dei Tolomei ad Alessandria, si guarda alla scultura del periodo classico, del V e del IV sec. a. C. come ad un modello di riferimento; di conseguenza le opere antiche vengono copiate ed in parte rielaborate secondo un gusto tardo ellenistico dando così origine ad una peculiare serie di sculture in cui stili diversi sono avvicinati e fusi in una nuova unità. Una produzione caratteristica della corrente neoattica è costituita dalle statue ritratto: si tratta di opere dove, partendo da un tipo statuario classico ben noto, si inserisce sul corpo una testa ritratto del committente. Tra gli esemplari più famosi si possono prendere ad esempio la statua dell'imperatore Adriano al Museo Capitolino, il cui corpo riproduce il tipo dell'Ares Borghese di Alkamenes e la statua dell'imperatrice Sabina ad Ostia che si serve del tipo dell'Afrodite del Frejus di Kallimachos.

Dal momento che la nostra statua è priva della testa non si può sapere con certezza se raffigurasse la dea Artemide con i suoi attributi o una cittadina romana desiderosa di farsi effigiare con le vesti di una divinità.

 

 

Bibliografia di riferimento

G. Traversari, Sculture greche e romane del Palazzo Reale di Venezia, Venezia 1970;

Pompeii A.D. 79, catalogo della mostra, Boston 1978, p. 147, n. 82;

L. Sperti, Rilievi greci e romani del Museo Archeologico di Venezia, Roma 1988;

Le Collezioni del Museo Nazionale Archeologico di Napoli, Roma 1989, I, 2, p. 146 n. 257;

I. Favaretto, M. De Paoli, M.C. Dossi (a cura di), Museo Archeologico Nazionale di Venezia, Milano 2004

 

 

Stima   € 80.000 / 120.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

Pittore di Amykos

(attivo 430-410 a.C.)

GRANDE ANFORA PSEUDOPANATENAICA A FIGURE ROSSE, PRODUZIONE LUCANA

in argilla arancio, vernice nera, suddipinture in bianco e giallo, coloritura arancio, modellata a tornio veloce. Alto bocchello troncoconico rovescio, collo troncoconico a profilo concavo con anello plastico, spalla obliqua, corpo ovoide con estremità inferiore allungata, anse a nastro  impostate dalla base del collo alla spalla, piede ad echino; alt. cm 68; diam. orlo cm 18,9

 

Reperto dichiarato di eccezionale interesse archeologico ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004

 

Corredata da lettera autografa di A.D. Trendall con attribuzione al Pittore di Amykos, in data 2 marzo 1965 e di certificato di termoluminescenza eseguito da Arcadia – Milano in data febbraio 2016

 

Il vaso si presenta con la parte inferiore allungata ed il fondo del piede risparmiati; sul collo catena di palmette a sette petali aperte a ventaglio e inquadrate da girali; sulla spalla e alla base delle anse  motivo a falsa baccellatura, sotto le anse grande palmetta a undici petali, aperta a ventaglio fra due coppie di girali ed infiorescenze; sotto alla prima fascia figurata un kyma ionico, sotto alla seconda meandro destrorso, interrotto da motivo a croce; all’attacco col piede motivo a raggera.

La decorazione è divisa in due fasce sovrapposte, divise fra i due lati. Lato A: sulla spalla è una figura di guerriero nudo, di profilo e gradiente a destra, con elmo corinzio dal lungo cimiero, sollevato sulla fronte, himation drappeggiato sulle spalle e ricadente sugli avambracci con lunga lancia e scudo circolare campeggiato da un polipo con i tentacoli in movimento; il giovane è raffigurato fra due fanciulle, vestite in maniera analoga con tenia fra i capelli ricci, peplo plissettato fermato sulle spalle da due fibule e cinto in vita, himation drappeggiato sulle spalle e sulle braccia in movimento una a destra e l’altra a sinistra. Chiudono ai lati la scena due giovani nudi con lancia, himation  sugli avambracci, uno dei due con elmo conico, che guardano verso la figura centrale. Lato B: scena di palestra, al centro un giovane nudo, volto a destra, con l’himation drappeggiato sulle braccia e lunga lancia nella mano sinistra è in atto di stringere la mano al pedagogo raffigurato anziano e calvo, volto a sinistra verso il giovane, con una parte del torace nudo lasciato scoperto dal chitone ed un lungo bastone terminante a T nella mano sinistra. Dietro a lui un altro giovane nudo, volto a sinistra di tre quarti, con una coppia di lance nella mano sinistra ed il piede destro rappresentato arditamente in prospettiva. Dal lato opposto della scena si trova una coppia affrontata di atleta e giovane donna con peplo plissettato ed una piccola oinchoe nella destra, in atto di versare il vino nella patera ombelicata che il giovane uomo le porge. L’atleta è raffigurato come di consueto nudo, con tenia fra i capelli, himation sugli avambracci, lancia nella sinistra e grande scudo circolare appoggiato sul terreno e all’inguine.

Nella fascia inferiore, partendo da una colonna dorica situata sotto una delle anse e che vuol richiamare la trabeazione di un edificio, si svolge una scena complessa in cui figure maschili di atleti nudi con mantelli drappeggiati sulle braccia e con lance o bastoni in mano sono rappresentati in corsa all’inseguimento di giovani donne abbigliate con pepli plissettati e tenie nei capelli, alcune con tralci vegetali nella mano destra. Al centro un erote alato e nudo, volto a sinistro rincorre una fanciulla con un tralcio vegetale nella sinistra; sotto ad una delle anse un giovane nudo seduto a destra su una roccia e retrospicente, con un bastone nella destra, osserva una donna in movimento verso di lui con uno specchio nella mano destra.

Si possono istituire confronti puntuali per forma e decoro con un’anfora panatenaica conservata a Napoli, inv. 2416 e 2418 ed un’altra a Monaco di Baviera inv. 3275.

Stato di conservazione: integra, alcune incrostazioni, lievi scheggiature e filature.

 

Il Pittore di Amykos è il più importante fra i pittori protolucani, come dichiarato dallo stesso A. D. Trendall, massimo studioso della ceramografia magno greca ed operò nell’ultimo trentennio del V secolo avanti Cristo. I vasi di sua produzione oggi conosciuti sono quasi duecentocinquanta e sono stati rinvenuti su buona parte del territorio italiano, da Siracusa fino a Marzabotto, ma ne sono conosciuti alcuni provenienti anche dall’Albania.

Si ritiene che il pittore fosse originario di Atene dove avrebbe cominciato l’attività di ceramografo per poi trasferirsi in Magna Grecia, probabilmente a Metaponto, dove avrebbe proseguito a lavorare sotto la guida del Pittore di Pisticci.

La prima fase di attività è, per stile e per contenuto, assai vicina alla produzione del Pittore di Pisticci, tanto che è difficile distinguere le due mani, in seguito la produzione del Pittore di Amykos rivela una più netta individualità, che sviluppa un proprio manierismo e si allontana dai modelli originari attici. Le frequenti scene d’inseguimento amoroso e di carattere dionisiaco mostrano immagini femminili slanciate e rigide nel loro abbigliamento, come nell’anfora che presentiamo in questo catalogo

La produzione più tarda del Pittore di Amykos dimostra quanto egli si sia allontanato dal Pittore di Pisticci: tuttavia fra le prime opere e le ultime c'è una continuità senza interruzione: tanto da spingere Trendall ad affermare che il Pittore di Pisticci e quello di Amykos siano in realtà solo due fasi di una sola personalità; allo stato attuale degli studi, però, mancano gli elementi materiali per affermare che i vasi del Pittore di Pisticci siano le prime opere del Pittore di Amykos.

Il vaso eponimo del Pittore di Amykos è una bellissima hydria conservata al Cabinet des Médailles di Parigi, n. inv. 442 (figg. 1-2) sulla quale è raffigurato il gigante Amykos legato ad una roccia, circondato da Medea e dagli Argonauti assieme a satiri e menadi, che sono le figure preferite dal pittore.

Nella leggenda greca Amykos risultava figlio di Apollo e di una ninfa della Bitinia ed era re dei Bebrici. Amykos non permetteva ad alcuno straniero di approdare alla sua terra e di attinger acqua alla sorgente prossima all'approdo, se prima non si fosse misurato con lui nel pugilato. All'arrivo degli Argonauti però venne vinto dal dioscuro Polluce; quindi legato o, secondo alcune versioni, ucciso. Al gigante era anche attribuita l'invenzione dei legacci (cesti) per il pugilato.

 

 

 

Bibliografia di confronto

N. Moon, in Papers of the British School at Rome, XI, 1929, p. 37;

C. Watzinger, in Furtwängler-Reichhold, III, 1932, pp. 346 ss.;

F. Magi, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, XI, 1935, p. 119 ss.;

A. D. Trendall, Frühitaliotische Vasen, Lipsia 1938, pp. 12 ss.;

A. D.Trendall, Handbook to the Nicholson Museum, Sydney 1948, pp. 317 ss.;

A. D.Trendall, Vasi antichi dipinti dal Vaticano: Vasi italioti ed etruschi a figure rosse, Città del Vaticano 1953, pp. 2 ss;

A. D.Trendall, A. Cambitoglou, The Red-figured Vases of Lucania, Campania and Sicily II, Vol. I, Oxford 1967, p. 45 n. 218a;

A. D.Trendall, Red-figured Vases of South Italy and Sicily, London 1989, pp. 20-21 nn. 11-19

Stima   € 30.000 / 50.000
Aggiudicazione  Registrazione
4

David Willaume I

(Metz 1658-Londra 1744)
MESCI ACQUA AD ELMO, LONDRA, 1700

in vermeil, alt. cm 30, g 2075

 

Il versatoio poggia su base circolare con profilo baccellato. Il corpo ha il la parte inferiore ornata da foglie e la parte centrale decorata da stemma araldico inciso tra serti vegetali. La fascia sovrastante presenta un volto di putto incorniciato da una foglia. La presa è finemente modellata come una sirena

 

Bibliografia di riferimento

H. Honour, Orafi e argentieri, Milano, 1972, pp. 138-140.  

                                            

David Willaume nacque nel 1658 da Adam Willaume, orefice di Metz in Francia. La famiglia, di religione protestante, migrò in Inghilterra dalla Francia durante le persecuzioni degli Ugonotti da parte di Luigi XIV.

La sua prima menzione a Londra risale al 1687 anno in cui gli furono concessi i documenti di naturalizzazione inglese. Nel 1688 registrò il suo marchio, le iniziali D W tra fiordalisi e nel 1693 fu ammesso nella corporazione degli orafi.

A differenza di altri orefici ugonotti immigrati in Inghilterra Willaume non usufrì mai dei fondi della clemenza reale, per la sua attività. Nel 1690 sposò Marie Mettayer.

Fu un raffinato argentiere che potè godere della protezione delle più importanti famiglie inglesi per cui produsse opere in cui è evidente la sua impeccabile capacità esecutiva. Permane nelle sue creazione lo stile ugonotto fatto di ricche modanature ed elementi fusi modellati a figure fantastiche.

Tra i pezzi più importanti di questo artista oggi conservati, si possono citare un secchiello per tenervi in fresco il vino e una fontana

da vino, eseguiti per il quinto conte di Meath nel 1708, in seguito acquistati da Giorgio II quando eta ancora principe di Galles. Oggi queste due opere fanno parte della collezione del duca di Brunwick.

Tipico della sua produzione è il mesciacqua che qui proponiamo e che trova un confronto preciso in quello oggi conservato al Victoria and Albert Museum di Londra (Fig. 1)

 

 

 

 

 

                                            

 

 

 

                         

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
6

Paul Storr

(Westminster 1771 - Tooting 1844)

CENTROTAVOLA, LONDRA, 1805

in argento, alt. cm 27, diam cm 38, g 3710

 

Il centrotavola poggia su una base quadrata con quattro piedini a voluta terminanti a zampa ferina. La coppa è decorata da baccellature e stemma araldico inciso con motto iscritto BE MINDFUL, due anse unite al corpo da teste ferine.

 

Paul Storr fu il più importante argentiere inglese in attività nella prima metà del XIX secolo.

Svolse il suo apprendistato presso Andrew Fogelberg, un argentiere di origini svedesi che aveva la sua bottega presso Soho.

Dal 1792 entrò in società con William Frisbee e registrarono il loro marchio come WF iscritto sopra a PS. La partnership durò poco tanto che dal 1793 Storr registrò il suo marchio PS che mantenne con poche modifiche  fino al 1838.

Dal 1796 Storr stabilì la sua bottega in Piccadilly al 20 di Aire Street, St.James, dove vi rimase per undici anni. A questo periodo risalgono i primi  ordini di oggetti in argento da parte delle più importanti famiglie inglesi e fra tutti si ricorda la Coppa della Battaglia sul Nilo per l’Ammiraglio Nelson, in commemorazione dell’importante battaglia guidata dall’Ammiraglio nell’agosto del 1798.

Dal 1803 cominciò la collaborazione con Philip Rundell, noto e apprezzato orefice e argentiere londinese che dal 1806 ottenne l’onoreficenza reale dalla Corte inglese

Questa collaborazione  lo portò, nel 1807, a trasferirsi al  53 di Dean Street. Nel 1819 lasciò la manifattura  Rundell, Bridge and Rundell per riaprire una sua bottega dove potè creare oggetti incentrati su caratteri naturalistici di splendida fattura in cui le curve di gusto rococò si affiancarono alle linee di gusto neoclassico.

Nel 1822 si mise in società con John Mortimer in New Bond Street, una società che ebbe bisogno dell’ingresso di capitale da parte di John Hunt nel 1826 a causa di una grossa crisi finanziaria. Da questo momento in poi Paul Storr collaborò con Hunt  e Mortimer  fino al 1838, anno in cui decise di ritirarsi dall’attività.

 

 

 

 

 

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
7

Gio Ponti

(Milano 1891-1972)

TAVOLINO, 1937

radica di noce e cristallo

Realizzato da Giordano Chiesa

alt. cm 40, diam. cm 108

Opera accompagnata da un certificato di expertise rilasciato da Gio Ponti Archives datato 7 settembre 2016

 

Provenienza

Gio Ponti. Una Collezione, Sotheby’s, Milano 18 aprile 2005, lotto 48;

Milano, Collezione privata

 

Figura chiave delle vicende del design italiano, Gio Ponti è l’artefice del rinnovamento delle arti decorative italiane negli anni venti e trenta. In un periodo di grande incertezza stilistica, fa proprio il richiamo al ritorno alla classicità serpeggiante nel mondo artistico europeo, accompagnandolo però alla sperimentazione di nuovi materiali. Dedicò la sua creatività inesauribile sia alla progettazione architettonica che alla creazione di oggetti ed arredi, diventando presto un punto di riferimento ed un modello per i contemporanei.

Nel suo progettare rimase sostanzialmente fedele ai princìpi di comfort ed eleganza, proponendo però di continuo forme nuove – il reticolo, la serpentina, la smerlatura – che segnano l’epoca e sono immediatamente imitati dalla produzione corrente.

A metà degli anni 1930 Ponti progettò per l’arredo di poche ma significative commissioni residenziali un tavolino caratterizzato appunto da un reticolo intricato. La sua forma, elegante e complessa, dà l’impressione della solidità, ma allo stesso l’incrocio di spazi pieni e vuoti conferisce al tavolo una leggerezza relativa, sottolineata e in qualche modo rafforzata dal piano in cristallo. E se questo motivo a reticolo, che tornò spesso nei suoi lavori tra gli anni trenta e cinquanta declinato in diverse forme, rappresenta un’invenzione pontiana, il dettaglio della gamba affusolata rimanda chiaramente all’ispirazione neoclassica che dominò i suoi disegni nel periodo a cavallo del 1930.

Ma il suo essere artista fu anche nel riuscire ad integrare elegantemente materiali classici, quali ad esempio le bellissime radiche di noce, con risorse moderne ed eleganti come il cristallo.

Sappiamo che in quegli anni Ponti inserì varianti di questo tavolo in diverse importanti commissioni, tra cui la residenza della famiglia Cantoni a Mantova (1935), Casa La Porte (1935) e Casa Borletti (1936) a Milano. Ogni volta però con sottili variazioni di scala e di materiali, ottenendo sempre nuovi ed eleganti sviluppi pur all’interno dello stesso stile e della stessa ispirazione classica.

 

LA CASA DI MODA

Tanti ci chiedono: dunque non si usa più l’arredamento “in antico”? Si usa l’arredamento moderno?

Se fossi un sarto per appartamenti io direi: Sì, a Parigi tutti fanno arredamenti moderni: i raffinati fanno degli interni meccanico-razionali arredati anche con mobili 1830, i raffinatissimi fanno camere tappezzate in pergamena, in “glauchat”, in paglia… Questo, Signore e Signori, è l’arredamento di moda per il 1928.

Ma io non sono un sarto, io sono un Architetto. Non è il moderno di moda che mi interessa, è stato di moda che mi interessa; è stato di moda anche il “liberty”, tutto è stato di moda e quelle che ci paion oggi le più brutte cose sono anch’esse state di moda: l’accedere ad una cosa attraverso la moda è la via più superficiale, irresponsabile, vile, indegna di noi.

 

Un’altra cosa vi chiedo o vi dico come Architetto: non fatevi la Casa secondo la moda ma secondo l’intelligenza e con un’amorosa cultura ed un nostrano buon senso.

La casa serve per la nostra vita materiale, deve avere tutti gli accorgimenti di costituzione e di funzionamento per essere utile, pratica, comoda, igienica, semplice a governarsi.

La casa accompagna la nostra vita, è il “vaso” delle nostre ore belle e brutte, è il tempo per i nostri pensieri più nobili, essa non deve essere di moda, perché non deve passare di moda.

 

Voluta, costituita, arredata con amorosa comprensione di queste sue funzioni materiali ed etiche, la nostra abitazione sarà la vera nostra casa, sarà la dignitosa dimora dell’Uomo e rappresenterà non le tracce di mode caduche e successive ma la testimonianza della nostra intelligenza, della nostra vita, della nostra cultura e della nobiltà delle cose che amiamo.

 

GIO PONTI, in “Domus”, Agosto 1928

 

 

 

 

Bibliografia di riferimento

“In visita alle case”, Domus, maggio 1937 n. 113, p. 41 fig. 5;

U. La Pietra (a cura di), Gio Ponti, Milano 1995, p. 58 fig. 133; p. 61 fig. 139 (per esemplari simili);

F. Irace (a cura di), Gio Ponti, Milano 1997, p. 33 (esemplare analogo, citato come “tavolo per l’appartamento del signor B.”);

I. de Guttry, M.P. Maino, Il mobile déco italiano, Milano 2006, p. 221 fig. 37 (esemplare simile, fotografato nella casa di Ponti a Milano);

U. La Pietra, Gio Ponti. L'arte si innamora dell'industria, New York 2009, p. 61 fig. 139

 

Stima   € 30.000 / 45.000
Aggiudicazione  Registrazione
8

Giovanni Battista Piazzetta

(Venezia 1683 – 1753)

COPPIA DI MUSICANTI

Gessetto nero e rialzi a gessetto bianco su carta vergellata. mm 397x310

 

Provenienza

Collezione privata, Roma

 

Bibliografia di rferimento

A. Mariuz, Opera completa del Piazzetta, Milano 1982.

G. Knox, Piazzetta, Washington, 1983.

AA.VV., G. B. Piazzetta. Disegni, Incisioni, Libri, Manoscritti, Vicenza 1983.

 

 

Il primo ventennio del XVIII secolo fu testimone di un cambiamento di gusto della grande committenza privata veneziana. Le grandi composizioni di genere storico o religioso, fino ad allora testimonianza di fedeltà ai canoni etici stilistici degli illustri antenati, iniziarono a decadere in favore di un gusto più estetico e decorativo, funzionale ad un ruolo dell’arte più orientata all’intimità e all’eleganza dei ricchi ambienti domestici dell’aristocrazia e dell’alta società mercantile della Repubblica Veneta.

Questa sorta di riconversione al nuovo gusto, non fu indolore per molti grandi artisti dell’epoca. Giambattista Tiepolo, dopo aver ultimato le decorazioni per il grande salone Dolfin, si trovò per quasi dodici anni privo di committenze significative, impreparato all’evolversi del gusto delle classi emergenti.

Più pronto a cogliere il cambiamento fu invece Piazzetta che, sull’onda già percorsa dalla ritrattistica di Rosalba Carriera, si cimentò, già intorno alla seconda metà degli anni Venti, nella produzioni di ritratti e soggetti di genere, oltre ad assumere un ruolo, prontamente recepito e consacrato, di illustratore di libri nel gusto rococò.

L’adeguamento al nuovo genere fu profondamente influente in una nuova concezione del disegno e delle motivazioni del suo collezionismo. Le opere su carta assunsero inatti il connotato di opere autonome;

svincolate dalla funzione propedeutica alla pittura e, affrancate dal collezionismo “di gabinetto”, risolsero la funzione di oggetti da esporre dietro i “cristalli”, i costosi vetri vanto delle “fornase da speci” delle manifatture veneziane. A chi non poteva permettersi i preziosi pastelli della Carriera o i piccoli olii di Pietro Longhi, venne in soccorso la prolifica produzione di incisioni di Marco Ricci, Canaletto e Marieschi o i d’après Pitteri, numerosi nelle ricche dimore veneziane.

Proprio la traduzione dei disegni di Piazzetta in incisione fu uno dei segnali più evidenti del nuovo corso. Nel 1739 Pietro Monaco nel primo volume della “Raccolta” inserì 4 tavole da Piazzetta. Nel 1742 Marco Alvise Pitteri ottenne il privilegio privativo per la riproduzione delle celebri 15 teste (fra le quali quelle degli apostoli), mentre l’anno seguente Giovanni Cattini eseguì 14 tavole nel suo Icones ad vivium expressae con il ritratto di Piazzetta derivato dal disegno acquistato dal console John Smith, oggi a Windsor (Inv. 0754). Infine, Johann Lorenz Haid, e Johann Gottfried Haid, ispirati alle traduzioni di Cattini e a nuovi fogli del maestro. Il grande successo editoriale delle incisioni dalle teste di carattere, durò ben oltre la morte di Piazzetta; Teodoro Viero infatti intorno al 1760 ottenne ancora il privilegio per la pubblicazione di 12 “teste capricciose”, durata fino al 1780.

La Coppia di musicanti, fino ad oggi mai pubblicata, si colloca esttamente in questo contesto storico ed estetico. Il registro compositivo della coppia di figure, giustapposte in ravvicinata prospettiva fino al riempimento del foglio, è comune ad un corpus nutrito di altri disegni del maestro veneziano e della sua bottega.

La struttura tonale, resa con sapiente e modulata pressione del gessetto nero e netta lumeggiatura bianca, risponde coerentemente allo scopo di creare un’opera dotata di propria autonomia compositiva.

La figura del giovane flautista in primo piano, ritrae Giacomo Piazzetta, il figlio dell’artista intorno ai 17 anni; circostanza che consente una datazione dell’opera intorno al 1742. Lo stesso impianto con la figura del giovane figlio ricorre nel Il suonatore di violino e in Giovanetta e ragazzo con trappola, entrambi presso la Galleria dell’Accademia a Venezia (Inv. 323 e 321), mentre in figura singola offre il profilo nel Ragazzo con il flauto (Knox, 33A) della collezione Mongan datato da Knox fra il 1743 ed 1745 e ritenuto vicino al dipinto di Dresda Giacomo recante uno stendardo (Mariuz, 87).

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
9

Maestro limosino della metà del secolo XVI

GIUNONE RESPINGE PSICHE

piatto in rame con smalto e oro, diam. cm 21

Sul retro monogramma tra rami fogliati sormontato da corona dipinto in oro

 

Privo di piede, il piatto presenta largo cavetto piano ed ampia tesa orizzontale, interamente dipinta in policromia con dorature a freddo. Il centro della scena è occupata da due divinità femminili, poste davanti ad un palazzo con alberi fogliati sullo sfondo e un cielo stellato: Giunone riceve Psiche, inginocchiata supplicante davanti a lei, ma la deve respingere per non fare un torto a Venere. La scena è incorniciata da una fascia dipinta in oro a motivo di nastro ritorto, intorno al quale si sviluppa la decorazione a grottesche della tesa, con otto salamandre dal viso satiresco affrontate a coppie tra quattro volti femminili, il tutto contornato da rami dorati.

 

La scena riproduce in maniera fedele un’incisione del Mastro del Dado (fig. 1) tratta dalla serie “Storia di Psiche” (n. 20), opere derivanti da disegni di ispirazione rafaellesca attribuiti dal Vasari a Michiel Coxie, che il Maestro del Dado conobbe a Roma nel 1523, epoca in cui si data la serie. Tali disegni riprendono gli affreschi analoghi nella Loggia della Farnesina, distrutti nel sacco di Roma del 1527. Il mito, narrato da Apuleio all’interno delle Metamorfosi (Libri IV-VI) e inserito da Boccaccio nella Genealogia Deorum, racconta di Psiche e Amore. Venere, gelosa della grande bellezza di Psiche, incarica il figlio Eros di farla innamorare dell’uomo più brutto della terra: la missione però non riesce, ed anzi è proprio Eros ad innamorarsi di Psiche, che con l’intercessione di un oracolo riesce a rinchiuderla in un castello magico, dove gli fa visita solo con le tenebre. Psiche però, istigata dalle sorelle, contravviene al divieto di vedere in faccia l’amante, il quale si sente tradito e l’abbandona. Straziata dal dolore cerca più volte il suicidio, sempre salvata dagli dei, fino alla decisione di recarsi al tempio di Venere per chiedere aiuto: la dea, madre di Amore, sottopone allora Psiche a diverse prove con cui recuperare l’amore del figlio. Solo alla fine, lacerata nel corpo e nella mente, Psiche riceve l'aiuto di Giove, che mosso da compassione fa in modo che gli amanti si riuniscano: Psiche diviene una dea e sposa Eros durante un banchetto nell’Olimpo.

 

Il retro del piatto, decorato al centro con un monogramma tra rami d’alloro sormontato da una corona gigliata, rimanda immediatamente al re di Francia Enrico II (fig. 2) e alla sua amante Diana di Poitiers, oltre che castello di Anet. Diana, primogenita di Giovanni di Poitiers, sposò nel 1515 Luigi di Brézé, conte di Maulevrier, al quale diede due figli. Rimasta vedova nel 1531, divenne qualche anno dopo la favorita del duca d’Orléans, successivamente re sotto il nome di Enrico II, riuscendo a trarre il massimo profitto dalla propria posizione di favorita del re, al punto che persino Caterina de' Medici, moglie di Enrico II, dovette cedere al suo ascendente. Non solo ricevette in dono il ducato del Valentinois e il castello di Chenonceau, ma dal re fu finanziata anche la costruzione di un nuovo castello ad Anet, affidandone il progetto al più celebre architetto di Francia, Philibert Delorme, nel 1547 (fig. 3). Sul portale d'ingresso di questa reggia extraurbana fu posta la riproduzione di un altorilievo in bronzo di Benvenuto Cellini (l'originale è oggi al Louvre) raffigurante una ninfa o forse la dea Diana, nuda e bellissima, prostrata dalla caccia (con chiaro riferimento alla bella castellana).

 

La preziosità dell’oggetto è confermata anche dalla tecnica di esecuzione, lo smalto, che accoppia paste vitree a superfici metalliche, impiegate come supporto, attraverso un processo di fusione al forno; una tecnica che si colloca tra quella del vetro e l'oreficeria, sorta dalla necessità di aggiungere colore ai metalli preziosi. La placca viene ricoperta di fondente su entrambe le facce e subisce una prima cottura: il rovescio viene così protetto e il dritto è pronto a ricevere la decorazione. Quest’ultima si ottiene tramite la sovrapposizione di strati di smalto colorato, steso a spatola, e da altrettante cotture che permettono di fissarlo. L’applicazione dei colori al pennello, permette di marcare alcuni dettagli, mentre sottili foglie d’oro o d’argento, chiamate “paillons”, conferiscono una particolare luminosità. Conosciuta fin dall’antichità, la tecnica dello smalto si evolve nei secoli, per arrivare nel corso del XII secolo all'introduzione dello “champlevé”, pratica che segna il prevalere dello smalto sul metallo, fino al punto di farlo scomparire dalla figurazione. Verso la metà del Quattrocento quindi si afferma lo smalto dipinto, che per la sua caratteristica appunto pittorica si avvale di modelli ed iconografia della pittura, anche attraverso stampe e disegni: in genere il disegno veniva tracciato a pennello sulla base «fondante» di smalto bianco, con nero di bistro, e su questa falsariga si applicava quindi a spatola lo smalto colorato, ottenendo dopo la cottura quasi l’effetto di un disegno a penna. E proprio la città di Limoges, nel centro della Francia, fu dal medioevo fino al seicento uno dei principali centri di produzione di smalti in Europa: di particolare rilievo sono gli smalti del rinascimento, prodotti soprattutto durante il cinquecento, quando l'arte dello smalto fu rinnovata in chiave rinascimentale da veri e propri artisti quali Léonard Limosin che inventarono une tecnica di pittura allo smalto su tavole di rame.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
10

Manifattura Ginori, Doccia

TABACCHIERA DETTA "DEGLI ERESIARCHI", 1760-1765 CIRCA

porcellana dipinta in policromia con montatura in rame dorato, cm 4,2x9,4x7,3

Iscritta su corpo: Erasmo è allato del Nassavio Duca / e dalla destra, e da sinistra parte / a Renata. Calvin parla in disparte / E Luter par che il Sassone conduca (fronte); ... qui son gli Eresiarche / Color seguaci d'ogni Setta, e molto / Più che non credi Son le tombe carche / Inf. IX,127 (lato destro); Gaetano, e Sadoleto Cardinali / Echio, Bilichio, Eichstat, Panigarola / Sostengano di Dio l'alta parola (retro); Dentro vi Sono gli amorosi drudi / Della Fede Cristiana i Santi Atleti / Benigni a suoi, ed a'nemici crudi / adattamento da Par. XII, 55 (lato sinistro)

 

Esposizioni

Lucca e le porcellane della Manifattura Ginori. Commissioni patrizie e ordinativi di corte, Lucca, 28 luglio – 21 ottobre 2001 (n. 193)

 

Bibliografia

A. Mottola Molfino, L'arte della porcellana in Italia, Milano 1976, tav. LXIII/LXIV;

A. d’Agliano, A. Biancalana, L. Melegati, G. Turchi (a cura di), Lucca e le porcellane della Manifattura Ginori. Commissioni patrizie e ordinativi di corte, cat. della mostra, Lucca 2001, p. 255 n. 193;

A. Biancalana, Porcellane e maioliche a Doccia. La fabbrica dei Marchesi Ginori. I primi cento anni, Firenze 2009, pp. 173-174

 

La tabacchiera, in realtà definita come "una vera e propria scatola" da Leonardo Ginori Lisci per le sue notevoli dimensioni (L. Ginori Lisci, La porcellana di Doccia, Milano 1963, p. 53, con riferimento ad un esemplare analogo oggi conservato al Museo Duca di Martina di Napoli), si presenta nella sua forma ellittica completamente dipinta in policromia: il corpo della scatola infatti è decorato con i versi sopra riportati racchiusi e intervallati da sottili cartigli tratteggiati in monocromo violetto, che fanno riferimento alle miniature dipinte sul coperchio, a suo tempo identificate come segue: all'esterno i "Principi" della Riforma protestante Erasmo da Rotterdam, Giovanni Calvino e Martin Lutero con Jean VI di Nassau[1], Giovanni Federico di Sassonia e la duchessa di Ferrara Renata[2], mentre all'interno i sei difensori della fede cattolica, i cardinali Jacopo Sadoleto e Tommaso de Vio, Johannes Mayer, Eberhard Billick, Leonhard Halle[3] e Francesco Panigarola (per la tradizionale identificazione dei personaggi si veda B. Beaucamp Markowsky, Boites en porcelaine des manufactures europeennes au 18° siècle, Friburgo 1985, pp. 521-522). Sul fondo della tabacchiera è dipinta una bibbia chiusa ed irradiante raggi di luce, entro eleganti cartigli rocaille, iscritta Bibbia Sacra. 

Non ci sono notizie certe sul pittore di questa splendida tabacchiera, perché se Leonardo Lisci Ginori nel 1963 propose di assegnarla al pennello di Giovacchino Rigacci, capo dei pittori di Doccia tra il 1757 e il 1771, basandosi su una notizia riportata nella relazione dell'economista Joannon de St. Laurent (L. Ginori Lisci, op. cit. 1963, p. 142), nel 2009 Alessandro Biancalana definisce questa attribuzione "forse erronea" (A. Biancalana, op. cit. 2009, p. 173).

Il tema dotto di questa tabacchiera[4], certo inconsueto per le galanterie prodotte dalla manifattura di Doccia, ebbe comunque successo, al punto da essere replicato almeno in altri due esemplari, dei quali uno oggi al Museo Duca di Martina di Napoli (inv. n. 2836) e l'altro ricordato dal Ginori Lisci nella collezione della Contessa Ancillotto a Roma (L. Ginori Lisci, op. cit. 1963, p. 142).

 

Crediamo che nessun gruppo di oggetti della manifattura di Doccia sia stato tanto ignorato quanto le tabacchiere.

Infatti, se scorriamo le numerose pubblicazioni sulla porcellana europea e quelle poche apparse sulla porcellana italiana, noi troviamo illustrate ed attribuite a Doccia soltanto due tabacchiere... mentre la produzione di tabacchiere fu in realtà abbondantissima, e gli esemplari rintracciati presentano una grande varietà di forme e di tipi, ed hanno un notevole pregio.

Possiamo dire che le tabacchiere nacquero con la stessa fabbrica di Doccia. Infatti, già ai primi del 1739, cioè pochi mesi dopo la prima "cotta", con le tazzine, i piattini e i vassoietti, furono prodotte alcune scatole per il tabacco, perché fra le spese figurano quelle relative a "una cerniera d'argento dorato per una tabacchiera di porcellana".

Col tempo, la lavorazione di questi oggetti prese un tale sviluppo, che nel 1741 ne furono prodotte ogni mese a centinaia: il modellatore Pietro Orlandini, nel solo mese di agosto, modellò ben 485 tabacchiere, e nel settembre altre 488. Tali cifre illustrano chiaramente l'importanza di questo settore nella produzione.

 

Leonardo Ginori Lisci, in La porcellana di Doccia, Milano 1963, p. 51

 

 

 



[1] Proponiamo in forma di ipotesi data l’importanza dell’opera la seguente osservazione in merito al "Nassavio duca". Dal momento che Nassau diventò ducato nel 1806, essendo stata sempre una contea, si può dedurre che "duca" debba intendersi nell'accezione di capo militare. In tal caso l'identificazione, considerando il ritratto, potrebbe ipotizzarsi con Guglielmo I d'Orange (1533-1584), che partecipò alla guerra contro gli spagnoli per l'indipendenza dei Paesi Bassi. Non ci sembra che possa identificarsi con il fratello minore di Guglielmo, Giovanni VI di Nassau Dillenburg (1536-1606), che non ebbe ruoli militari importanti;

[2] Renata di Valois-Orléans (1510-1575), principessa di Francia, sposata con Ercole II d'Este e divenuta duchessa di Ferrara. Strenua difenditrice della fede protestante è giustamente inserita tra i cosiddetti Eresiarchi poichè rivestì un ruolo storicamente molto importante; tra i molti eventi che riguardano la sua vita nel 1536 ricevette anche la visita, sotto mentite spoglie, di Giovanni Calvino, che aveva già pubblicato a Basilea la sua Christianae religionis institutio, e con il quale Renata manterrà fino alla morte del riformatore ginevrino una regolare corrispondenza; pagò anche personalmente la sua scelta religiosa - il marito la fece imprigionare - e continuò a proteggere i protestanti fino alla sua morte;

[3]  Nel testo dei versi "Eichstat". Si ipotizza che il riferimento sia alla prestigiosa università cattolica di Eichstätt-Ingolstadt il cui rettore più famoso all'epoca fu Pietro Canisio (1524-1597), primo tedesco fondatore dell'ordine dei Gesuiti. Fu uno dei più strenui difensori della Controriforma e scrisse un catechismo in chiara opposizione alle tesi di Lutero. Fu proclamato Dottore della Chiesa nel 1925 e oggi venerato come santo il 21 dicembre. Non ci sembra plausibile far coincidere "Eichstat" con  Leonhard Haller (1500-1570) che visse principalmente a Eichstätt, ma fu un personaggio di secondo piano rispetto agli altri, essendo un vescovo suffraganeo di tale città e in seguito fu mandato  presso la diocesi dell'antica Philadelphia d'Arabia (oggi Amman). L’immagine di Canisio ci pare inoltre coincidere con il ritratto sulla tabacchiera;

[4] Si  è notato nell’analisi dell’opera come anche l’uso del testo sia frutto di una particolare ricerca e adattamento. Il testo che incorpora la citazione dantesca: Erasmo è allato del Nassavio Duca / e dalla destra, e da sinistra parte / a Renata. Calvin parla in disparte / E Luter par che il Sassone conduca (fronte); ... qui son gli Eresiarche / Color seguaci d'ogni Setta, e molto / Più che non credi Son le tombe carche / Inf. IX,127. Il riferimento dantesco è agli eretici identificabili con gli Epicurei; in questo caso, esso viene adattato alla situazione contingente, intendendo eretici i padri protestanti, in ossequio ai dettami del Concilio di Trento. Gli altri versi riferiti ai difensori della Feda Gaetano, e Sadoleto Cardinali / Echio, Bilichio, Eichstat, Panigarola / Sostengano di Dio l'alta parola (retro); Dentro vi Sono gli amorosi drudi / Della Fede Cristiana i Santi Atleti / Benigni a suoi, ed a'nemici crudi / adattamento da Par. XII, 55 si riferiscono alla nascita di San Domenico, inteso come amante della fede cristiana ("drudo"). Qui tutti i versi sono stati girati al plurale per farli concordare con i sei difensori in questione.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
11

Manifattura imperiale delle pietre dure
COPPIA DI VASI DECORATIVI, RUSSIA, PRIMO QUARTO SECOLO XIX

lastronati in malachite montati in bronzo dorato; la coppa, di forma rotonda e sagomata, è unita ad un piede tornito che poggia su di una base a plinto; le varie parti sono legate e abbellite da una montatura in bronzo finemente cesellato e dorato; alt. cm 53,5, diam. cm 41, base cm 25x25

 

Provenienza

Collezione Bittheuser, Germania

Collezione privata

 

Gli oggetti in malachite caratterizzano il ricco e raffinato gusto d’inizio XIX secolo in Russia. I maestri-artigiani lavoravano questo materiale con la tecnica del “mosaico russo”, la tagliavano cioè in piccole placche che poi univano insieme e lucidavano, creando l’illusione che l’oggetto provenisse da un unico blocco, grazie anche al fine gioco di linee ottenuto dalle venature della pietra. Spesso questi manufatti venivano abbelliti con ricche montature in bronzo dorato, creando dei fantastici effetti di luci e contrasti.

Fondata nel 1725 nei pressi della residenza estiva di Peterhof, grazie al crescente sfruttamento dei giacimenti di pietra impiegata per realizzare tanto gli splendidi palazzi quanto le chiese, la Manifattura imperiale delle pietre dure raggiunge nel secolo XIX il suo momento di massimo splendore, al punto che le opere vengono presentate anche alle Esposizioni russe e internazionali, riscuotendo un grande successo di pubblico.

Affiancata dai nuovi laboratori di Ekaterinburg e Kolivan, fondati nella zona degli Urali e dei Monti Altaj per lavorare le pietre in una zona più vicina ai giacimenti, la Manifattura di Peterhof realizza nel corso dell’Ottocento molteplici opere, in gran parte destinate alla corte imperiale e più raramente commissionati per privati.

All’interno di questa prestigiosa produzione, la malachite diventa uno dei materiali preferiti dagli Zar, che la fanno conoscere all’estero, portandola spesso come dono di nozze o di rappresentanza ai regnanti di tutta Europa (fig. 1), e in particolare in Germania. Proprio dalla Germania provengono le due coppe proposte in asta, essendo appartenute a Matteo Bittheuser, che a Firenze fu Consigliere Intimo del Granduca Leopoldo II.

Altro esempio di prezioso dono proveniente da regnanti russi è la grande coppa regalata dallo Zar di Russia a Vittorio Emanuele II e che si trova oggi a Palazzo Reale di Torino, oltre agli oggetti che possiamo ammirare al Salone della malachite del Grand Trianon a Versailles (fig. 2) o sparsi nei principali musei del mondo.

 

Bibliografia di confronto

D. Ledoux-Lebard, Le Grand Trianon, Meubles et objets d’art, Paris 1975, pp. 107 e 112;

V.B. Semyonov, Malachite, Sverdlovsk 1987;

A. Gaydamark, Empire Russe, Moscou-Paris 2000, p. 85;

N. Mavrodina, The Art of Russian Stone Carvers 18th-19th Centuries, St. Petersburg 2007;

E. Kalnitskaya (a cura di), Meraviglie degli Zar. I Romanov e il Palazzo Imperiale di Peterhof, catalogo della mostra Reggia di Venaria Reale, Sale delle Arti 16 Luglio 2016 - 29 Gennaio 2017, Torino 2016, pp. 75-77 e fig. 4.

 

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
12

MONETIERE, NAPOLI, SECONDA METÀ SECOLO XVII

in legno intagliato, lastronato in ebano e tartaruga con applicazioni in bronzo dorato; di forma architettonica su base modanata, fronte aggettante al centro scandito da otto cassetti che inquadrano un’edicola sorretta da colonne tortili impreziosite alla base da un motivo traforato a racemi in bronzo dorato; le colonne racchiudono un portale sormontato da un timpano spezzato sovrastato da due putti alati in bronzo dorato; fronte ornato con pannelli in vetro dipinti ad olio a raffigurare scene mitologiche e classiche; su basamento in legno scolpito ed ebanizzato di epoca successiva; cm 111,5x178x47,5; la base cm 92x191,5x55

 

Diffuso fin dall’epoca di Tutankhamon, nella cui tomba nel 1922 sono stati rinvenuti numerosi esemplari di stipi, e passato poi attraverso il mondo classico per approdare, attraverso evoluzioni di forma e destinazioni d’uso, alla cultura occidentale, in Italia l’impiego dello stipo diventa significativo a partire dal secolo XV, trattandosi di un mobile connesso alla nascita dello Studiolo, luogo strettamente privato del palazzo dove l’umanista può ritirarsi per dedicarsi ai suoi studi e ai suoi interessi culturali. Lo studiolo si popola presto di mirabili raccolte d'arte e oggetti rari divenendo un luogo via via più complesso, un piccolo microcosmo in grado di riflettere la complessità del mondo circostante. È in questo contesto, prefigurazione della successiva Wunderkammer, che trova particolare diffusione il cabinet, o stipo, nel quale trovano posto i contenuti più preziosi, divenendo, grazie a questa prestigiosa funzione, mobile per eccellenza di ogni studiolo, prezioso nella fattura quanto il suo contenuto.

Nel corso dei secoli, in Italia così come nel resto d’Europa lo stipo esce dal contesto racchiuso dello studiolo per diventare sempre più un mobile di rappresentanza, meuble de parade et d’apparad volto a esprimere gli interessi politici e dinastici dei regnanti europei e utilizzato spesso come dono prestigioso tra regnanti. Con la sua realizzazione vengono chiamati a confrontarsi i migliori artisti del tempo i quali, a seconda delle tecniche di realizzazione impiegate, possono essere orafi e argentieri così come intagliatori di pietre dure, di corallo e di avorio, scultori, pittori, fonditori di bronzo. I materiali utilizzati sono i più ricchi e svariati, con l’unico intento di creare ogni volta qualcosa di eccellente e capace di impressionare. Al contempo, sotto l’influenza della grandiosità barocca, le proporzioni si fanno sempre più imponenti e monumentali, attraverso impianti che si sviluppano in architetture quanto più complesse; una complessità, questa, che si riflette anche negli interni del mobile, dove accanto a cassetti e vani che creano quasi dei palazzi in miniatura si aggiungono una serie di tiretti e di scomparti segreti. 

Nell’ambito di questa ricerca del materiale più prezioso e raro, a partire dal 1640 diventa sempre più frequente l’uso della tartaruga, materiale molto pregiato e capace di creare un effetto di grande preziosità risplendendo con forza sul nero del legno ebanizzato, e al tempo stesso facilmente reperibile dalle colonie spagnole. In virtù della dominazione spagnola, l’impiallacciatura in tartaruga si diffonde, in Italia, in particolar modo a Napoli, divenendo il carattere distintivo degli stipi partenopei realizzati a metà Seicento.

Assieme all’uso della tartaruga si diffonde a Napoli, in una costante ricerca di preziosismo e raffinatezza, l’uso di decorare il fronte degli stipi con vetri dipinti a olio raffiguranti scene della mitologia classica, racconti allegorici e, meno frequentemente, episodi biblici. Una tecnica, quella della pittura su vetro, che risulta essere particolarmente apprezzata da nobili e regnanti tra la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo; un esempio su tutti è quello di Ferdinando de’ Medici, che nel 1702 sceglie di inserire all’interno della sua collezione di dipinti alcuni quadretti su vetro realizzati da Luca Giordano. Numerosi documenti del tempo testimoniano proprio come siano allievi e seguaci del pittore napoletano Luca Giordano a specializzarsi, in questi anni, nella decorazione di grandiosi mobili: nel 1679, ad esempio, Giovan Battista Tara viene pagato per aver realizzato “un paro di scritori di ebano intarsiato con diverse pitture su cristalli”, mentre Carlo Garofalo, allievo di Luca Giordano e considerato come il miglior pittore su vetro attivo a Napoli nella seconda metà del Seicento, viene “preposto dal suo maestro al Re Carlo II in Ispagna; onde fu dal quel sovrano chiamato a dipingere i cristalli che dovevano servire per gli scrigni, e per altri adornamenti delle stanze Regali”; ancora, Domenico Coscia viene menzionato come pittore “che faceva assai bene quei cristalli, che si usavano nelli scrittorj”. La lista di pittori napoletani discepoli del Giordano ricordati per la loro attività pittorica su vetro può inoltre essere arricchita da numerose altre personalità, tra le quali sono Domenico Perrone, Francesco della Torre, Andrea Vincenti.

Nella seconda metà del Seicento numerosi sono gli stipi nati da questa fortunata congerie artistica in cui manifatture altamente specializzate nel creare architetture di grande complessità e lastronate in materiali preziosi come la tartaruga collaborano con i migliori pittori su vetro del tempo. L’opera proposta in questa sede trova infatti riscontri con opere simili dipinte da allievi di Luca Giordano. Tra gli esemplari più significativi è lo stipo, in tutto simile al nostro ma di dimensioni ancor più monumentali, datato al settimo decennio del Seicento ed entrato a far parte della collezione di Palazzo Pitti a Firenze grazie al dono di Emmy Levy (fig. 1); altri confronti possono essere avanzati con lo stipo di Palazzo Barberini a Roma e con il cabinet del Victoria and Albert Museum di Londra (fig. 2), acquisito dal museo nel 1870; manufatti analoghi sono infine catalogati e descritti nei documenti d’inventario del Principe di Avellino e del Cardinal Carafa, membri dell’aristocrazia napoletana.

 

Bibliografia di riferimento

A. González-Palacios, Il Tempio del Gusto. Le Arti Decorative in Italia fra Classicismi e Barocco, II, Roma e il Regno delle Due Sicilie, Milano 1984, p. 223;

M. Riccardi Cubitt, Mobili da Collezione. Stipi e Studioli nei secoli, Milano 1993, pp. 10-12 e 87-89

E. Colle, Il Mobile Barocco in Italia, Milano 2000, pp. 66-67;

G. Baffi, Il mobile napoletano nella storia e nell’arredamento, dal 1700 al 1830, Portici 2011, pp. 14-15

 

 

Stima   € 80.000 / 120.000
13

COPPIA DI GIRANDOLES, FRANCIA, EPOCA LUIGI XVI, 1775 CIRCA

in granito verde e bronzo cesellato e dorato; vasi decorati da catene perlinate sormontati da volute fogliacee, al centro delle quali è un ramo terminante in un ananas, base modanata su zoccolo squadrato, complessive quattro luci, alt. cm 85

 

Realizzate spesso in coppia per andare ad adornare con le loro movimentate volute commode e console così come camini e tavoli da gioco, le girandoles trovano nel corso del secolo XVIII una vastissima diffusione. A caratterizzare questa particolare tipologia di candélabre è sempre un grande senso di ricercatezza; al centro di un trionfo di bracci dalle fogge più svariate si erge, a stupire e sedurre l’occhio dell’osservatore, un lume centrale che si eleva dal centro quasi fosse un improvviso fuoco d’artificio a creare un gioco a effetto. Se numerosi sono i materiali con cui vengono foggiate, spaziando da oro, argento, vetro e cristallo, durante il regno di Luigi XVI trova particolare accoglienza l’uso del bronzo dorato, spesso montato su basi in porcellana o su marmi quali il porfido o l’alabastro. Così, nel 1777 Maria Antonietta commissiona a Piton la doratura di due putti in rame che dovevano andare ad adornare le girandoles per il Petit-Trianon; tra il 1782 e il 1783 Remond consegna al conte d’Artois numerose girandoles decorate ad arabeschi, “figure de nègre” e cammelli; infine, piccole catene, decori fogliacei e motivi a perle arricchiscono un paio di piccole girandoles a tre braccia montate su vasi in porcellana bianca che Gallien fornisce nel 1789  a Madame Élisabeth per il suo château de Montreuil.

Accanto a pomposi ed elaborati decori di reminiscenza ancora Rococò, a partire dal terzo quarto del secolo XVIII, sotto il regno di Luigi XVI, inizia a diffondersi un gusto che impiega linee più dritte e nette. Noto come goût grec, per l’ispirazione dalle architetture dell’antica Grecia, il nuovo stile trova diffusione così rapida che, nel 1763, “ ...tout est à Paris à la grecque”, osserva il barone de Grimm. È in questo contesto di transizione che modella le sue opere Jean-Claude-Thomas Chambellan-Duplessis, nato a Torino ma francese di formazione e figlio dello scultore, bronzista e direttore artistico della manifattura di Vincennes-Sèvres Jean-Claude Duplessis.

Fondata nel 1740 nello château royal di Vincennes e successivamente trasferitasi in locali appositamente costruiti a Sèvres, grazie al supporto e alla protezione di Luigi XV e di Madame Pompadour la manifattura riesce in breve tempo ad assicurarsi le eccellenze francesi del tempo a livello di tecnici, artisti, scultori e designers: Duplessis padre ricopre il ruolo di direttore dei modelli dal 1748 al 1774, Jean-Jacques Bachelier dirige la decorazione nei decenni 1751-1793, Etienne-Maurice Falconet è a capo della scultura negli anni 1757-1766; questi artisti, assieme al pittore François Boucher, danno il loro fondamentale contributo nel condurre la manifattura a dettare le nuove regole dell’arte francese, distinguendosi per la capacità di fornire modelli sempre all’avanguardia in grado di adeguarsi e prevedere i gusti in continua evoluzione della propria clientela. Sotto la guida di Duplessis padre, la manifattura di Sèvres è tra le prime a lasciarsi sedurre dal nuovo stile antesignano del Neoclassicismo in Francia e a farsene rappresentante, ed è accanto a lui che si forma il figlio Jean-Claude-Thomas, che a partire dal 1752 inizia ad assisterlo nella creazione dei modelli destinati alla produzione della manifattura.

Divenuto maître fondeur en terre et sable nel 1765, Duplessis si specializza in varie tipologie di vasi, realizzando due serie tra il 1775 e il 1780. A lui si rivolge la più illustre clientela francese del secolo XVIII, potendo vantare committenti di prestigio come Maria Antonietta, per la quale nel 1775 realizza la montatura di una coppia di vasi oggi nella Royal Collection di Buckingham Palace a Londra, o la Comtesse du Nord Maria Feodorovna, su richiesta della quale foggia nel 1782 la montatura di un servito da toilette.

Tra le sue commissioni più illustri, si ricordano quattro grandi candelabri neoclassici in bronzo dorato, eseguiti intorno al 1775 per il Fermier Général Laurent Grimod de La Reynière (1733-1793) per la sua residenza a Parigi fatta costruire nello stesso anno.

Davillier, Julliot e Paillet, nel catalogo Le Cabinet du duc d'Aumont et les amateurs de son temps, ricordano le quattro girandoles come una delle migliori opere dell’artista citando, a supporto dell’attribuzione a Duplessis, l’Almanach des Artistes del 1777: "Ces candélabres, dont le travail est très-soigné, ont été exécutés, lisons-nous dans un ouvrage du temps, par M. Duplessis, fameux Ciseleur de Paris, bon dessinateur qui travaille d'après ses dessins".

Se due di tali girandoles sono già state identificate nella coppia passata in un’asta di Christie’s del 2007 (fig. 1), il lotto qui presentato - in tutto simile a questa ad eccezione del colore del granito, nel nostro caso verde anziché grigio - potrebbe andare a completare il gruppo di quattro commissionato da Laurent Grimod per adornare il suo palazzo realizzato dall’architetto Jean-Benoît-Vincent Barré, considerato tra i fondatori dello stile Luigi XVI in architettura.

A supporto della paternità a Duplessis delle girandoles proposte in questa sede è il confronto con la coppia di girandoles pubblicata da Kjellberg con un’attribuzione a Duplessis (fig. 2), nella quale si ripetono quasi identici sia il motivo dei bracci foggiati a tralcio fogliaceo centrati da un ampio ramo terminante in ananas sia la base in granito verde che va a poggiarsi su uno zoccolo quadrato in bronzo dorato; il numero dei bracci, ridotto nel nostro caso rispetto agli esemplari presi a confronto, e la composta catena perlinata che sostituisce il ricco decoro fogliaceo che dalle anse scende fino alla base sembrano ricondurre i due manufatti qui presentati a una fase in cui il gusto neoclassico inizia a prevalere in modo più deciso.

 

Bibliografia di riferimento

J.-C. Davillier, P.-F. Julliot, A.-J. Paillet, Le Cabinet du duc d'Aumont et les amateurs de son temps : catalogue de sa vente avec les prix, les noms des acquéreurs et 32 planches d'après Gouthière, accompagné de notes et d'une notice sur Pierre Gouthière, sculpteur, ciseleur et doreur du Roi, et sur les principaux ciseleurs du temps de Louis XVI, par le baron Ch. Davillier, 1870;

P. Verlet, Les bronzes dorés français du XVIIIe siècle, Parigi 1987;

P. Kjellberg, Objets montés du Moyen-âge à nos jours, Parigi 2000;

G. Campbell, The Grove Encyclopedia of Decorative Arts, I, Oxford University Press 2006, p. 336

 

 

Stima   € 80.000 / 120.000
14

RARA SCRIVANIA DA CENTRO, LOMBARDIA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVIII

impiallacciata in noce e radica di noce, di forma mossa e bombata, quattro grandi cassetti più tre sulla fascia, su otto piedi in legno di noce intagliato, cm 84x164x77

 

Il passaggio della Lombardia dal dominio spagnolo a quello austriaco determinò, oltre ad un cambiamento dei confini del ducato, anche un’evoluzione del gusto estetico, con un progressivo abbandono dello stile barocco a favore del nuovo stile, il rococò, subito adottato nelle residenze delle famiglie lombarde più importanti dell’epoca come i Borromeo, i Litta, i Sormani o i Clerici. Vennero chiamati artisti di fama internazionale, che diffusero presso la ricca committenza lombarda la decorazione a rocaille, già adottata dagli architetti e decoratori d’oltralpe, caratterizzata dalle linee mosse e frastagliate che facevano da cornice alle pitture. Questo motivo a cartouche divenne la caratteristica principale del rococò lombardo e veniva utilizzata dalla gran parte degli artisti e decoratori dell’epoca, compresi i maestri ebanisti che affiancarono alle cornicette nere, decorazione tipica lombarda, una divisione del mobile in eleganti riquadri abbelliti da raffinati intarsi a motivo di rocaille, ispirandosi agli equivalenti modelli francesi e tedeschi, dando quindi agli arredi anche un carattere più internazionale. Tra i maggiori interpreti di questo stile possiamo nominare Pietro Canevesi, Giuseppe Colombo detto il “Mortarino” (fig. 1), Pietro Antonio Mezzanotti nonché un giovanissimo Giuseppe Maggiolini.

È senz’altro in questo contesto culturale e artistico che dobbiamo inserire la nostra scrivania da centro, che per dimensione, proporzioni ed unicità è certamente stata eseguita da un grande ebanista per una facoltosa famiglia lombarda; un preludio del lotto qui presentato può essere riconosciuto nella scrivania della prima metà del XVIII secolo proveniente da Villa Borromeo d’Adda ad Arcore (pubblicata da Clelia Alberici in Il mobile lombardo fig. 2), con una divisione frontale in tre pannelli intarsiati.

Essa è sorretta da otto robusti piedi finemente intagliati a volute intrecciate, da cui partono otto montanti bombati che ammorbidiscono il mobile eliminandone gli angoli e terminano con raffinati riccioli su cui appoggia il piano, sagomato e con bordura a becco di civetta. Di forma “a cattedra”, questa scrivania offre quattro grandi cassetti oltre a tre più piccoli nella fascia ed è decorata su tutti i lati, sui montanti e sul piano, da eleganti riquadri intarsiati che incorniciano la radica di noce negli spazi grandi mentre decorano gli spazi più piccoli. Questi intarsi, eseguiti in legno di bosso con motivi di rocaille sfrangiate, sono da riferire al decoro “a pelle di rapa” usato in Lombardia e di derivazione austro tedesca. Sul fronte presenta al centro uno stemma gentilizio, senz’altro da riferirsi alla committente originale.

 

Bibliografia di riferimento

C. Alberici, Il mobile lombardo, Milano 1969, p. 102;

R. Bossaglia, V. Terraroli, Settecento lombardo, Milano 1991, V.26

 

 

 

Stima   € 60.000 / 90.000
15

COPPIA DI SPECCHIERE, VENEZIA, SECONDO QUARTO SECOLO XVIII

in legno ebanizzato, laccato e dorato con intarsi in madreperla e fregi in legno scolpito e dorato, cm 168x98

 

La coppia di cornici proposta in questa sede è una tipica quanto raffinata espressione del clima di inizio Rococò che si respira a Venezia intorno al secondo quarto del secolo XVIII. Un momento, questo, nel quale lo specchio decorato, da accessorio impiegato soprattutto per la toeletta, inizia a diventare un elemento di arredo a sé, in un progressivo processo di emancipazione. In questa fase ancora di transizione, in cui ogni città si esibisce nelle proprie tecniche di decorazione, Venezia diventa una delle protagoniste assolute, gettando le basi di uno stile decorativo che influenzerà i decenni successivi.

Nel corso del XVIII secolo, infatti, la creazione di questi manufatti nella laguna veneziana è così radicata che all’interno della corporazione dei “marangoni”, o falegnami, nasce una particolare branca di maestri intagliatori, i “marangoni da soaza”, altamente specializzati; al contempo, si moltiplicano le botteghe di artigiani attivi nell’arte della “soaza”: 36 botteghe con 94 capimastri, 124 lavoranti e 24 garzoni sono le botteghe attestate in una statistica del 1773 promossa dalla magistratura dei Savi della Mercanzia.

I maestri veneziani non mancano di sbizzarrire la loro fantasia utilizzando la tecnica di ornamentazione nella quale eccellono, quella della lacca, in cui il decoro, disegnato su un fondo a tinta unita preparato in stucco, viene poi lustrato con uno strato di vernice, detto “sandracca”. È così che gli stessi tipi di decori che ornano cassettoni e altri tipi di arredi vanno a popolare anche le cornici degli specchi, che si animano di temi esotici, o “alla cinese”. Particolare predilezione è riservata a ornamenti in foggia di fiori e foglie di derivazione orientale che, disegnati con vivezza e gusto narrativo, spiccano coloratissimi su fondi neutri, spesso scuri, alternati a rami e foglie a creare un insieme esuberante ma sempre di composta eleganza. Qualora la commissione sia particolarmente importante, tali decori possono inoltre essere impreziositi da suggestivi intarsi in madreperla: è il caso della cornice il legno laccato rosso e oro realizzata a Venezia alla fine del secolo XVII e oggi alla Gemäldegalerie di Berlino (fig. 1), di quella, probabilmente di inizio Settecento, proveniente da collezione privata (fig. 2), ed è il caso anche delle nostre cornici, la cui commissione è forse da ricondursi a una importante famiglia o a un’occasione significativa. Un connubio, quello di lacca e madreperla, che risulta essere una prerogativa di Venezia tra fine Seicento e inizio Settecento, e che vede attivi molti intagliatori, tra i quali è certamente da ricordare l’architetto, incisore, intagliatore e intarsiatore Domenico Rossetti, noto per “lavori alla chinese e madreperla”.

Alla ricchezza pittorica corrisponde una equivalente vivacità scultorea che si esprime, oltre che nel realizzare le cornici nelle fogge più svariate e ricche, nel fregiarle di elementi in legno intagliato. Ai quattro lati esterni della cornice vengono spesso applicati inserti in legno scolpito e dorato, presente nella nostra coppia in foggia di motivo ogivale, a creare una sorta di controcornice atta a far risaltare con forza la specchiera sul muro. Ma importanza maggiore è certamente affidata alla cimasa, irrinunciabile coronamento della parte superiore dello specchio, nel cui intaglio la fantasia dei maestri veneziani mette in mostra tutto il proprio repertorio di foglie, conchiglie, festoni e, come nel nostro caso, cartigli, spesso realizzati per contenere al proprio interno lo stemma di famiglia o, nelle specchiere qui proposte, decorato con i medesimi motivi pittorici arricchiti di madreperla che si riscontrano anche sul corpo.

Quasi in risposta ai motivi floreali dipinti, la cimasa si popola di elementi in legno dipinto e intagliato con una maestria che ben compete con quella degli esperti e fantasiosi maestri “depentori”: nelle nostre specchiere, fiori e frutti alternati a volute fogliacee inquadrano la cimasa centrale, la cui posizione asimmetrica crea quell’effetto di decentramento tipico del secondo quarto del secolo XVIII, mentre i quattro angoli delle cornici sono segnati, stavolta simmetricamente, da piccole cartelle scolpite e illuminate al centro dalla madreperla. E se spesso in questa tipologia di specchiere l’elemento scultoreo sembra prevalere su quello pittorico, concentrando nella cimasa il punto focale dove l’attenzione va a fissarsi, nei nostri esemplari a caratterizzare la composizione è un grande equilibrio, in cui tutti gli elementi, scultorei e pittorici, convivono a creare un complesso armonioso.

In questo senso, le specchiere qui proposte possono essere a pieno titolo inserite nella produzione di inizio Rococò, quando il fastoso e rocambolesco Barocco si evolve in linee che, pur sempre dominate da una forza inventiva e una esuberanza capricciosa, riflettono il nuovo gusto aggraziato e raffinato del tempo. In questi anni, sono molti gli scultori e gli intagliatori in legno che prestano la propria arte a servizio della realizzazione di cornici, come Antonio Gai, Antonio Corradini o Andrea Brustolon, noto per aver realizzato, oltre alla serie di mobili per la famiglia Venier oggi a Palazzo Rezzonico, molteplici cornici. Su suo disegno, agli inizi del secolo XVIII viene realizzato il fastoso tronetto della chiesa dei Gesuati a Venezia (fig. 3), i cui preziosi intarsi in madreperla, unitamente alle volute e ai ricchi fiori scolpiti in legno e dorati, costituiscono uno dei primi esempi di un gusto decorativo che troverà ampio riscontro nei decenni successivi, e nella cui corrente anche le nostre specchiere possono inserirsi.

 

 

Bibliografia di riferimento

G. Mariacher, Specchiere italiane e cornici da specchio, dal XV al XIX secolo, Milano 1963, pp. 16-24;

E. Colle, Il mobile barocco in Italia, Milano 2000, p. 332;

C. Santini, Mille mobili veneti. L’arredo domestico in Veneto dal sec. XV al sec. XIX, III, Modena 2002, pp. 246-247 nn. 424-426

 

 

 

Stima   € 70.000 / 100.000
16

Regia Scuola di incisione sul corallo

STIPO IN EBANO, PIETRE LAVICHE, METALLO DORATO, MADREPERLA, TARTARUGA E CORALLO

Torre del Greco, 1891, cm 164x142x74

 

Il mobile poggia su otto zampe a obelisco rovesciato, divise in due gruppi con pedane e raccordi a transenna; nella parte alta sono ospitati cassetti con rilievi in foggia di sirene, pomelli con teste di Medusa e sfingi ai lati. Sotto il piano di scrittura è una sottile fascia con altri cassetti rivestiti in tartaruga, con bordi in corallo e madreperla. Il corpo superiore poggia su una fascia con rilevi raffiguranti eroti ed è tripartito da colonne in pietra lavica chiara con inserti verdi e rossi, binate al centro. Gli sportelli hanno rilievi, circondati da ranghi di perline in corallo e fasce di tartaruga: quello al centro raffigura Venere su una conchiglia, con un delfino fra i flutti e Eros che scocca una freccia; gli altri, ai lati e sui fianchi, delle figure in atto di danzare con gli attributi delle Stagioni.  La cornice superiore ripete cromie e motivi della base, con maschere e festoni ed è sormontata da piccoli vasi e un gruppetto scultoreo su una base recante la scritta SCUOLA DI INCISIONE SUL CORALLO TORRE DEL GRECO NAPOLI; altre scritte sui plinti laterali.

L’interno reca un foglio iscritto:

Scrittoio nuziale decorato di Coralli, Tartaruga e Sculture in Pietre Antiche di Pompei e Lave del Vesuvio ecc; a colori tutti naturali – eseguito nel 1891dalla R a Scuola d’Incisione sul Corallo in Torre del Greco (Napoli) come saggio di un nuovo tipo di Mobiglio artistico in Stile Neo-Pompeiano; premiato con Medaglia d’oro all’Esposizione Nazionale di Palermo -1891- e con altra Medaglia d’oro nella Esposizione Italo-Americana in Genova -1892.

Invenzione e disegno del Prof Enrico Taverna di Torino, Direttore della Scuola, = Esecuzione degli alunni Palomba Vincenzo, Porzio Francesco, Betrò Vincenzo, Porzio Vincenzo, di Torre del Greco, e Ferrer Alessandro, di Napoli, e del tagliatore di pietre  Ferrer Gaetano di Napoli sotto la direzione dell’insegnante d’incisione Prof. Giuseppe A. Giansanti, di Trani

Il Presidente Comm. Antonio Brancaccio di Torre del Greco

 

La storia di questo lavoro è perfettamente tracciata dalla lunga iscrizione nel foglio, sopra riportata, dalla quale risulta che esso venne realizzato in una celebre scuola professionale istituita a Torre del Greco, storico centro della lavorazione del corallo. Lo Stipo risulta essere il frutto delle fatiche di alcuni maestri che lavoravano sotto la guida del direttore Enrico Taverna (1864-1945 – fig. 1) che operò grandi riforme tese all’emancipazione della scuola e al suo riconoscimento internazionale.

Il Catalogo generale dell’Esposizione nazionale di Palermo del 1891 descrive i numerosi manufatti presentati dalla Regia Scuola di Torre del Greco a quella manifestazione. Non si trattava solo di oggetti in corallo, essi comprendevano infatti svariati album di disegni di ornato, fogli di architettura e meccanica, alcuni modelli in gesso, creta, cera, sessantotto pezzi incisi in corallo, lava, madreperla, conchiglia, avorio o legno, diversi manufatti e infine uno “scrittoio con stipo, in stile pompeiano, in ebano con decorazioni di corallo, lava, tartaruga e madreperla incisa” (1). Alcune foto dell’epoca (2) mostrano il nostro scrittoio e un gruppo di altri mobili, due poltrone e un tavolo scrivania, eseguiti con la stessa tecnica e lo stesso stile e presentati all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898.

 

La Regia Scuola di incisione sul corallo, di arti decorative e industriali (questo il suo nome completo) era stata fondata nel 1878 con decreto ministeriale: le intenzioni erano quelle di addestrare nuovi lavoranti in una tecnica che era vanto della regione ma che apparentemente stentava per numero di addetti e per novità delle proposte. Situata nell’ex convento dei Carmelitani a Torre del Greco, dopo alcuni anni difficili essa venne completamente rinnovata dal torinese Enrico Taverna, che la diresse dal 1886 al 1934.

Pittore e architetto versatile, a lui si deve il disegno dello scrigno in madreperla, corallo e metalli acquistato da Umberto I all’Esposizione Internazionale di Milano nel 1906, e un altare con marmi, bronzi e coralli per la chiesa di S. Teresa a Torre del Greco (3). La sua riforma trasformerà la scuola di Torre del Greco in una moderna scuola d’arte con officine specializzate in vari tipi di materie. Nonostante le opposizioni e le difficoltà in questa sua opera di modernizzazione, nel 1888 Taverna istituì un Corso di Arte Decorativa Pompeiana. La scoperta a Pompei, nel 1890, del Frigidarium del Sarno condurrà alla realizzazione da parte di Taverna e di alcuni allievi, di una ricostruzione grafica che ottenne un notevole successo all’Esposizione di Architettura di Torino. Il corso restò in funzione fino al 1898 e il suo frutto più famoso è lo Stipo che stiamo qui esaminando in cui si coniugano varie delle tecniche praticate nella Scuola.

Alcuni degli artefici che presero parte alla realizzazione di questo lavoro, e i cui nomi sono testimoniati nell’iscrizione sopra trascritta, sono noti. Antonio Giansanti e Gaetano Ferrer, intagliatori, figurano nell’organico dal 1879. Giansanti (1827-1900) risulta autore di una traduzione in pietra lavica del rilevo con La Notte di Berthel Thorvaldsen (4) e collaborò alla realizzazione di un piano in marmo nero con intarsi di rilevi in pietra lavica, corallo, e con cammei (1884). Ferrer doveva appartenere ad una famiglia di origine spagnola che diede i natali ad un suo omonimo, Gaetano Ferrer, uno dei professori di intaglio nel Real Laboratorio delle Pietre dure di Napoli dagli anni Settanta del Settecento almeno fino al 1805 (5). Vincenzo Palomba è autore di un Bacco, conservato nel Museo del Corallo a Torre del Greco (6). Il cognome Porzio, infine, è comune a molti artefici del luogo, il più noto dei quali è Domenico che lavorò assiduamente fra Otto e Novecento.

 

Il gusto architettonico e ornamentale dell’Ottocento che si ispirava agli interni e agli arredi di epoca romana sembra avere un avvio marcato verso il quarto e quinto decennio del secolo. Nel Römischen Bäder di Potsdam, ideato da Ludwig Persius e dal più importante architetto tedesco dell’epoca, Karl Friedrich Schinkel, per il futuro Federico Carlo IV di Prussia, allora principe erede e ideatore egli stesso del programma architettonico dell’edificio, gli interni vennero definiti sul finire degli anni Trenta come una evocazione di una villa pompeiana.  Questo particolare interesse per l’antichità classica, iniziato già nel Settecento, viene portato al suo apice in quell’epoca. Nel 1840 J.-A.-D. Ingres portò a termine a Roma il dipinto Antioco e Stratonice (Chatilly, Musée Condé) la cui ambientazione ricostruisce interno e arredi romani basandosi su disegni dell’architetto Victor Baltard. Ancora Ingres collaborò con l’architetto J.-I. Hittorff nel cosidetto Tempio di Empedocle, un edificio commissionato dal Principe Girolamo Napoleone Bonaparte per l’attrice Rachel nel 1855 (7). Pochi anni dopo, nel 1860, veniva inaugurata una dimora per lo stesso Principe, epiteticamente nota come la Maison pompéienne, progettata dall’architetto Alfred-Nicolas Normand con il decoratore Charles Rossigneux (8). Normand alla metà del secolo aveva eseguito una serie di rilevi fotografici a Pompei, Roma e altri siti archeologici e su questi basò la costruzione e decorazione di quella casa di cui oggi restano solo i disegni e qualche rara foto.

L’elenco di esempi sarebbe ancora nutrito ma vorremmo almeno qui ricordare i casi più prossimi per data come l’edificazione, compiuta nel 1891, dell’Achilleion di Corfù per l’Imperatrice Elisabetta d’Austria, ad opera dei napoletani Raffaele Carito e Antonio Landi, o la costruzione della Villa Kerylos per Theodor Reinach a Beaulieu-sur-Mer, su progetti di Emmanuel Pontremoli, edificata ai primi del Novecento. In quest’ultimo edificio compaiono diversi arredi ispirati, come nel caso del nostro Stipo, al gusto pompeiano ma rivisti in una chiave scenografica con vaghe citazioni dalle fonti. Sul nostro scrittoio, ad esempio, le figure allusive alle Stagioni sono tratte più o meno fedelmente da una serie di pitture ritrovate nel Settecento ad Ercolano e da allora adoperata su mobili e porcellane, come era accaduto nelle pitture e negli arredi della Villa Favorita a Resina, in cui vennero impiegate per decorare un gruppo di arredi fra cui alcune poltrone e un divano oggi a Capodimonte, tutte opere databili fra la fine del Settecento e i primissimi anni del nuovo secolo (9).

Il nostro Stipo può essere considerato una delle ultime manifestazioni del gusto neoclassico iniziato nel XVIII secolo: assomiglia molto di più, ed è per questo che coincide col gusto d’oggi, al fare del Neoclassicismo che al fare un po’ più pomposo del tardo Ottocento. L’opera è ancora eseguita a regola d’arte, il mobile è considerato oggetto di studio che viene disegnato da un gruppo di artisti ed eseguito da artigiani di estrema perizia. Il gusto è quello che imposta la punta più alta dell’arte napoletana in quegli anni che trova un esempio mirabile nelle sculture neoalessandrine di Vincenzo Gemito.

 

Settembre 2016

Alvar González-Palacios

 

 

 

Bibliografia di riferimento

Esposizione Nazionale Palermo 1891-1892. Catalogo generale, repr. Palermo 1991, pp. 410-411;

C. Ciavolino, La Scuola del Corallo a Torre del Greco, Napoli 1988

 

 

Esposizione Nazionale Palermo 1891-1892. Catalogo generale, repr. Palermo 1991, pp. 410-411.

2 C. Ciavolino, La Scuola del Corallo a Torre del Greco, Napoli 1988, p. 109.

3 Ibidem, p. 90.

4 Ibidem, pp. 66, 67, 77.

5 A. Gonzalez-Palacios, “Il Laboratorio delle Pietre Dure dal 1737 al 1805” in Le Arti Figurative a Napoli nel Settecento. Documenti e ricerche, a cura di N. Spinosa, Napoli 1979, pp. 103, 106, 108, 112, 114, 115, 143, 151.

6 A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese, L’arte del corallo. Le manifatture di Napoli e di Torre del Greco fra Otto e Novecento, Napoli 1989, fig. 37, p. 86.

7 R. Rosenblum, Transformations in late Eighteenth Century Art, Princeton 1967, pp. 134 sqq.

8 M.-C. Dejean de la Batie, “ La Maison pompéienne du Prince Napoléon Avenue Montaigne” in Gazette des beaux-arts, 87, 1976, pp.127-134

9 A. Gonzalez-Palacios, il Tempio del Gusto, Milano 1984, p. 370, figg. 603, 605, 607

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
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RARO OROLOGIO DA POLSO CON CRONOGRAFO PATEK PHILIPPE, REF. 130, MOV. N. 867’038, CASSA N. 630’157, ANNO DI PRODUZIONE 1946, IN ACCIAIO E ORO ROSA, CON ESTRATTO DI ARCHIVIO PATEK PHILIPPE

Cassa in acciaio con fondello a scatto, lunetta e corona in oro rosa 18 kt, pulsanti cronografici rettangolari. Quadrante rosè con indici e numeri arabi applicati oro, scala tachimetrica e divisione dei cinque minuti periferiche, due quadranti ausiliari ad ore 3 e 9 rispettivamente con registro dei 30 minuti e secondi continui, lancette a foglia oro, secondi cronografici neri al centro. Movimento a carica manuale calibro 13''', cassa, quadrante e movimento firmati

diam. mm 33,5

 

Corredato di Estratto d’Archivio Patek Philippe datato Marzo 2013 che conferma la produzione di questo orologio nel 1946 e la sua successiva vendita il 6 Novembre 1947.

 

AN EXTREMELY FINE AND RARE STAINLESS STEEL AND 18K PINK GOLD CHRONOGRAPH WRISTWATCH, PATEK PHILIPPE , REF. 130, MOVEMENT NO. 867’038, CASE NO. 630’157, MANUFACTURED IN 1946, WITH PATEK PHILIPPE EXTRACT FROM THE ARCHIVE

circular stainless steel case with 18 K pink gold bezel, gold crown, stainless steel snap on back, two rectangular chronograph buttons in the band. Pink dial, applied gold baton and Arabic numerals, outer hard enamel five minute divisions and tachymetre scale, two subsidiary dials for constant seconds and 30 minutes register Patek Philippe. Cal. 13''' mechanical movement, case, dial and movement signed
33.5 mm. diam. 

 

With Patek Philippe Extract from the Archives dated March 2013, confirming production of the present watch in 1946 and its subsequent sale on November 6th, 1947.

Stima   € 130.000 / 180.000
18

Domenico Pellegrini

(Galliera Veneta 1759 - Roma 1840)

RITRATTO DI FILIPPO E COSTANZA DE MARINIS COME AMORE E PSICHE

olio su tela, cm 134x174

firmato e datato "D:co Pellegrini F:it Napoli / 1790" in basso a destra

 

Provenienza

Marchese Giovann'Andrea De Marinis, Napoli

Principi Sangro di Fondi, Napoli

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Pavanello, Domenico Pellegrini 1759-1840. Un pittore veneto nelle capitali d'Europa, Venezia 2012, p. 17

 

Protetto da Antonio Canova, il giovane pittore veneto Domenico Pellegrini (1759-1840) si reca da Roma a Napoli, con l'intenzione di perfezionare i suoi studi e di farsi conoscere in un ambiente artistico di prim'ordine. Da Napoli, poi, farà ritorno a Roma, quindi si recherà a Venezia, per trasferirsi quindi a Londra, sede privilegiata, con Lisbona, della sua attività. Tornerà quindi a Roma negli ultimi anni di vita e gratificherà l'Accademia di San Luca di un lascito corposo di dipinti: primo fra tutti, il Capriccio architettonico di Canaletto.

L'artista, che si era già segnalato a Roma, si apprestava dunque ad allargare le sue esperienze, e, quale pretesto per quel soggiorno, era l'incarico, da parte di Canova, di realizzare una copia della Danae di Tiziano conservata a Capodimonte. Si era verso la fine del nono decennio del secolo XVIII. Un passo di Antonio d'Este nelle sue Memorie getta luce su questo momento:

 

Fu intorno a quel tempo, che l'artista [Canova] venne a conoscere Domenico Pellegrini, a cui era cessato un sussidio che in Roma godeva da un patrizio veneto, e trovavasi senza risorse, con un avvenire luttuoso per le vicende politiche di quei tempi. Egli per soccorrerlo lo inviò a sue spese a Napoli, a dipingere una replica della Danae di Tiziano: così il Pellegrini che si distinse nel colorito, cominciò la sua carriera, e il Canova provvide ai bisogni di un artista che poi col suo pennello seppe far dei risparmi, co' quali comodamente visse.

 

Quel soggiorno si rivelò azzeccato, avendo alle spalle il nome di Canova, all'epoca capofila nelle committenze di statuaria in città, a partire dal gruppo, modellato già nel 1789, di Adone e Venere, collocato dal marchese Francesco Berio in un tempietto nel giardino del suo palazzo di via Toledo.

Canova, ancora, significava l'appoggio di Ranieri de Calzabigi, il celebre letterato che prese il giovane pittore sotto la sua tutela, introducendolo nell'ambiente artistico partenopeo, in cui figura di punta era  William Hamilton, l'inviato straordinario a Napoli di Sua Maestà Britannica, collezionista e studioso di vasi greci e di antichità classiche: i magnifici quattro volumi della sua raccolta di vasi figureranno nella biblioteca di Canova. Pellegrini farà subito anche il ritratto di Emma Hart, Lady Hamilton.

Quindi, il conte Giuseppe Lucchesi Palli di Campofranco, collezionista e scrittore di libretti, impresario teatrale, e Carlo Castone della Torre di Rezzonico, letterato e critico d'arte, panegirista dell'Adone e Venere canoviano: tutti affiliati, come il marchese Berio, alla massoneria. Le affermazioni non mancano, e Napoli si conferma quale centro all'avanguardia in questi anni, meta di personaggi di primo piano, viaggiatori e artisti, Canova in primis, che vi soggiorna nel 1780 e nel 1787, subito dopo l'inaugurazione del Monumento funerario di Clemente XIV.

Oltre a dipinti mitologici, Pellegrini esegue numerosi ritratti, filone privilegiato nella produzione dell'artista, mentre il contatto ravvicinato con la pittura tizianesca fu certo di stimolo per inoltrarsi su quel percorso di approfondimento coloristico che sarà una costante nei decenni a venire.

Dalla lettera di Calzabigi a Canova del 2 ottobre, veniamo a sapere che

 

Egli ha molti lavori da far qui a mia premura. Ne tiene già tre cominciati: quello del conte Rezzonico da lei conosciuto presidente dell'Accademia delle Belle Arti di Parma: quello di madamigella Hart bellezza inglese che sta in casa del cavalier Hamilton ministro brittannico in Napoli; quel ritratto egli lo fa a confronto di altro che ne dipinge madama Le Brun a lei nota; ed un altro per un mio amico. Giovedì ne comincia (parola data) uno istoriato di due ragazzi di uno de' primarj signori di questo paese, il quale doppo vuole anche il suo; ed in breve altro pure istoriato dovrà farne di una delle principali dame di questa corte con 3 ragazzi suoi figli.

 

L'aristocrazia napoletana – "uno de' primari signori di questo paese" – è qui rappresentata da Giovann'Andrea de Marinis, marchese di Genzano, il quale, oltre al ritratto "istoriato di due ragazzi [...] vuole anche il suo". Abbiamo la certezza che nella galleria degli eredi del marchese, i principi di Fondi, esistevano, di Pellegrini, un Ritratto di famiglia e un dipinto raffigurante Amore e Psiche. Un testo di metà Ottocento informa che nel palazzo napoletano si con- servava "un bel quadro, a grandezza naturale che rappresenta un'Allegoria, opera di un pittore del tempo, certo Pellegrini, ove son due figure i cui tratti rammentano il fratello e la sorella de Marini".

Si è ipotizzato che quei personaggi menzionati nelle carte d'archivio non siano altro che i "due ragazzi" del "ritratto istoriato" citato da Calzabigi, vale a dire i figli del marchese Giovann'Andrea de Marinis, Filippo e Costanza, raffigurati come Amore e Psiche.  Possiamo ora, grazie al recupero di questo importante dipinto, confermare quell'ipotesi. Reali sono, infatti, i volti dei due giovani personaggi, compaginati secondo la moda del ritratto di gruppo "istorico", alla Kauffmann,  esplosa pure all'ombra del Vesuvio. Palese l'omaggio alla pittrice e al mondo di Canova: ambedue avevano effigiato, nel solco del ritratto allegorizzante, il giovane Henryk Lubomirski come Eros, e ancora la Kauffmann sceglierà quella trasposizione mitologica per ritrarre i bambini Plymouth nel 1795.

Ne avremo un secondo esempio di un simile doppio ritratto allegorico - Caterina e Vettor Pisani come Amore e Psiche - nel dipinto, tuttora conservato in palazzo Pisani Moretta, eseguito da Pellegrini a Venezia per Vettor Pisani.

Nulla di archeologico o di erudito nella coppia dei ragazzi de Marinis e dei bambini Pisani, in cui Pellegrini di mostra aggiornato sulle moderne tendenze, sciogliendo ogni ingessatura accademica: ricorrere all'allegoria era un modo per combinare grazia e buon gusto, ciò che la committenza ormai richiedeva, sulla spinta della ritrattistica internazionale: dopo Angelica Kauffmann, Elisabeth-Louise Vigée Le Brun, anch'essa presente a Napoli con pari successo.

La nostra coppia viene presentata in un'ambientazione di natura, su un rialzo roccioso dove sono state adagiate delle stoffe, in particolare un vistoso drappo rosso, di memoria giorgionesco-tizianesca. Anche la quinta arborea, con apertura in lontananza laterale, richiama soluzioni di primissimo Cinquecento veneziano, i Tre filosofi in testa. Se i bambini Pisani, nella loro infantile innocenza, ben si prestavano alla trasposizione mitologica, qui va evidenziato un più smaliziato ricorso al velo dell'allegoria per la raffigurazione dei due preadolescenti. Si potrebbe dire, volendo, che l'aria di Napoli non era quella di Venezia: forse pure con l'intendimento di voler trasporre nella modernità un ideale classico di cui la città partenopea era allora uno dei massimi centri artistici d'Europa.

Canova allora stava applicandosi a terminare il gruppo di Amore e Psiche che si abbracciano, modellato già nel giugno 1787 per il colonnello John Campbell (poi Lord Cawdor), conosciuto dallo scultore a Napoli nel corso del soggiorno del 1787: gruppo che qui Pellegrini echeggia pur nelle diversità compositive, ma si noti la presenza della stoffa stesa a terra come dello stesso rialzo roccioso, del velo sul corpo di Psiche, davvero minimale. Psiche, pur essa alata, richiama il gesso canoviano del Metropolitan Museum of Art, in correlazione peraltro con la seconda versione del gruppo, scolpita per il principe russo Nicola Jusupov.

Ma non sfugga l'intensità degli sguardi e di quell'abbraccio fra i personaggi, di timbro realmente affettivo, senza cioè quelle stilizzazioni che siglano invece il gruppo canoviano, e che Pellegrini riproporrà nel Venere e  Adone di Lisbona: tonalità che ben si addice a un doppio ritratto di tal genere, ‘familiare', vero centro espressivo del dipinto che viene ad accrescere il fascino di questo piccolo capolavoro.

 

Giuseppe Pavanello

Stima   € 60.000 / 80.000
19

Antonio Fontanesi

(Reggio nell'Emilia 1818 - Torino 1882)

IL GUADO

olio su tavola, cm 78,5x115

firmato in basso a sinistra

sul retro della cornice: cartigli delle mostre di Torino (1932), Parigi (1935), New York (1949), Roma (1951-1952), Milano (1954), Tokyo - Kyoto (1977-1978), cartiglio con "Monti & Gemelli Milano 81", cartiglio con il numero "427", iscritto "Esposiz. Int. Venezia 1901 N. 574" e "1901 Venezia N. 427".

 

Provenienza

Collezione Cristiano Banti, Firenze

Collezione Conte P. Gazelli Brucco, Firenze

Collezione Luigi Cora, Rapallo

Collezione Gran Uff. Rag. Mario Rossello, Milano

Collezione Paolo Stramezzi, Crema

Collezione privata, Milano

Collezione privata

 

Esposizioni

Salon de 1861, Palais des Champs-Élysées, Parigi, 1861, Peinture, n. 1140

Ouvrages de peinture, sculpture, architecture, dessin, etc. exposés au Palais électoral, Palais Électoral, Ginevra, 1861, n. 108

Esposizione delle opere di Belle Arti nelle Gallerie del Palazzo Nazionale di Brera per l'anno 1861, Palazzo Nazionale di Brera, Milano, 1861, n. 340

Quarta Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, Palazzo dell'Esposizione, Venezia, 1901, Sala O - Mostra retrospettiva di Antonio Fontanesi, n. 16

Antonio Fontanesi 1818-1882, Galleria d'Arte Moderna, Torino, 1932, Sala Prima, n. 11

L'Art Italien du XIXe et XXe siècles, Musée des Écoles étrangères contemporaines - Jeu de Paume des Tuileries, Paris (?), 1935, Peinture, n. 100

Exhibition of Italian XIX Century Paintings, Galleria Wildenstein - Metropolitan Museum, New York,1949, n. 37

VI Quadriennale Nazionale d'Arte di Roma, Roma, 1951-1952, Sale 57-58, n. 1

Il paesaggio italiano - Artisti italiani e stranieri, Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano, 1954, Sala IV, n. 48

Fontanesi, Ragusa e l'arte giapponese nel primo periodo Meiji, Museo Nazionale d'Arte Moderna, Tokyo - Kyoto, 1977-1978, n. 10

 

Bibliografia

Explication des ouvrages de peinture, sculpture, gravure, lithographie et architecture des artistes vivants, catalogo della mostra, (Parigi, Palais des Champs-Élysées), Parigi 1861, p. 137 (con il titolo Le gué)

Ouvrages de peinture, sculpture, architecture, dessin, etc. exposés au Palais électoral, catalogo della mostra, (Ginevra, Palais Électoral), 1861, (con il titolo Le gué)

Esposizione delle opere di Belle Arti nelle Gallerie del Palazzo Nazionale di Brera per l'anno 1861, catalogo della mostra, (Milano, Palazzo Nazionale di Brera), Milano 1861

Catalogo illustrato. Quarta Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo della mostra (terza edizione), (Venezia, Palazzo dell'Esposizione), Venezia 1901, p. 128

M. Calderini, Antonio Fontanesi. Pittore Paesista 1818-1882, Torino 1901, p. 86 ill.

M. Bernardi, Antonio Fontanesi 1818-1882, catalogo della mostra, (Torino, Galleria d'Arte Moderna), Torino 1932, pp. 7-8, 20, tav. f.t.

mar. ber., Cronaca cittadina. Rievocazione di un grande artista. Torino per Antonio Fontanesi, in "La Stampa", 19 agosto 1932

M. Bernardi, I maestri della pittura italiana dell'Ottocento. Antonio Fontanesi, A. Mondadori Editore, Milano 1933, pp. 37, 39, 67, 245, tav. XVI

Catalogue. L'Art italien des XIXe et XXe Siècles, catalogo della mostra, (Parigi, Musée des Écoles étrangères contemporaines - Jeu de Paume des Tuileries), 1935, p. 53 (con il titolo En Dauphiné)

R. Calzini, 800 Italiano. 12 opere di Maestri italiani nella Raccolta Stramezzi, Milano 1948, s.p., tav. 2 (con le misure 116 x 80,5 cm)

E. Somaré, Pittori Italiani dell'Ottocento, catalogo della mostra, (New York, Galleria Wildenstein - Metropolitan Museum), New York 1949, p. 54 (con le misure 80,5 x 126 cm), tav. 37

VI Quadriennale Nazionale d'Arte di Roma, catalogo della mostra, (Roma), Roma 1951, p. 122

G. Castelfranco, Pittori italiani del Secondo Ottocento, Roma 1952, p. 45, tav. XXXVII

Il paesaggio italiano - Artisti italiani e stranieri, catalogo della mostra, (Milano, Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente), Milano 1954, pp. 32, 176 (con le misure 115 x 80,5 cm e con la tavola come supporto), tav. 67

E. Somaré, Pittori Italiani dell'Ottocento, catalogo della mostra (seconda edizione), (New York, Galleria Wildenstein - Metropolitan Museum, 1949), Milano 1957, p. 54, tav. 37

C. Maltese, Storia dell'arte in Italia, 1785-1943, Einaudi, Torino 1960, p. 191, tav. 83

L. Mallé, La pittura dell'Ottocento piemontese, Torino 1976, p. 209 ill., tav. 259

Fontanesi, Ragusa e l'arte giapponese nel primo periodo Meiji, catalogo della mostra, (Tokyo - Kyoto, Museo Nazionale d'Arte Moderna), a cura di A. Dragone, K. Adachi, M. Kawakita, Tokyo 1977, s.p. (con i titoli Il guado o The Ford), tav. f.t.

R. Maggio Serra, "Antonio Fontanesi pittore paesista". Un artista italiano in Europa, in Antonio Fontanesi 1818-1882, catalogo della mostra, a cura di R. Maggio Serra, (Torino, Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea), Torino 1997, pp. 70 (con il titolo Le gué), 77 (con i titoli Le gué o Il guado) - 78, 80 ill., 84

E. Canestrini, Cronologia, in Antonio Fontanesi 1818-1882, catalogo della mostra, a cura di R. Maggio Serra, (Torino, Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea), Torino 1997, p. 245 (con il titolo Le gué)

P. Sanchez, X. Seydoux, Les Catalogues des Salons - VII - (1859-1863), Dijon 2004, s.p.

E. Staudacher, La collezione Rossello. Storia di una raccolta d'arte leggendaria, in La collezione segreta. Raccolta Mario Rossello, a cura di F.L. Maspes, E. Staudacher, Gallerie Maspes, Milano 2016, pp. 73 ill., 78

E. Staudacher (scheda), in La collezione segreta. Raccolta Mario Rossello, a cura di F.L. Maspes, E. Staudacher, Gallerie Maspes, Milano 2016, pp. 286 ill. - 288

 

Il 1861, l'anno dell'Unità dell'Italia, fu un anno felice per Fontanesi: a Parigi le opere che espose al Salon a maggio Il guado, del 1861, e Il prato (già esposto a Torino nel 1859) –  e che inviò poi a Milano per una mostra a dicembre, furono molto apprezzate da Corot e Troyon. I suoi dipinti esposti a Firenze alla prima Esposizione Nazionale furono ammirati dai macchiaioli ed acquistati l'uno dal re Vittorio Emanuele II (Dopo la pioggia, ora alla Galleria d'Arte Moderna di Firenze) e l'altro dal Ministero della Pubblica Istruzione (La Quiete), che nel 1863 lo destinò alla Civica Galleria d'Arte Moderna di Torino.

All'età di 43 anni l'artista otteneva così una piena affermazione, con dipinti in cui dimostrava di aver del tutto raggiunto un linguaggio artistico maturo e molto originale.

 

Dopo aver partecipato alla prima guerra di indipendenza nel 1848-1849 con i volontari garibaldini, egli aveva trovato rifugio in Svizzera, prima a Lugano e infine a Ginevra. Qui si era ben presto ambientato, sia acquisendo e affinando diverse tecniche espressive (oltre alla pittura e al pastello, si dedicò molto al disegno come dimostrano i numerosi taccuini e i fusain, i disegni a carboncino di cui a Ginevra era maestro François Diday; ma, per rispondere ad alcune importanti commissioni, acquisì pure notevole maestria nella litografia; dal 1858 si applicò all'acquaforte, e sin dal 1862 realizzò poi cliché-verre di straordinario fascino), sia sviluppando un suo riconoscibile linguaggio formale (basta osservare il grande disegno Cour de St. Pierre del 1851 per riconoscere l'atmosfera e alcuni elementi tipici della sua poetica).

A partire dal fondamentale soggiorno a Parigi per visitare nel 1855 l'Esposizione Universale, ospite di Troyon, rinnovò i suoi modi pittorici ispirandosi alle più avanzate esperienze francesi degli ultimi decenni. Un'evoluzione favorita dai frequenti soggiorni nel Delfinato dove, a partire dal 1858, fu ospite di François-Auguste Ravier, frequentando la colonia di artisti lionesi antiaccademici che si ritrovavano attorno a lui. Ma Fontanesi, dipingendo en plein air tra Crémieu, Creys, Optevoz e Morestel, anno dopo anno, diede espressione a un suo sentimento della natura che andava ben al di là dei modi degli altri artisti che frequentavano quei luoghi: è tanto più raffinata ed intensa la poesia con cui egli sa interpretare il paesaggio, così come è più originale la sua stesura e la lavorazione della materia cromatica. Le opere di Fontanesi mostrano infatti un linguaggio e uno stile assai personale che suscitò ammirazione tra gli esperti e gli innovatori, ma pure sconcerto da parte del pubblico più tradizionalista, spettatore "pigro” nelle sue abitudini, impreparato a osservare senza pregiudizi quanto di nuovo gli artisti più sensibili erano in grado di proporre, guardando sì ai grandi dei secoli passati, ma rinnovando la loro ispirazione confrontandosi – con mente ed occhi del tutto "liberi”, impegnando i loro più profondi sentimenti – con la realtà che caratterizzava il tempo.

Se osserviamo quei dipinti di Fontanesi, ritroviamo un'intensità lirica ed elegiaca, con un clima da intimo idillio, che affonda le sue radici nella poesia classica e nella pittura dei secoli passati, tradotta però in una materia pittorica di sconcertante freschezza ed essenzialità di stesura – gestuale, verrebbe persino da dire – che riesce ad esaltare i valori della luce nel modo di raffigurare il paesaggio, le figure, il senso di una armonia che fissa "il momento” ed insieme sa collocarsi in una dimensione "fuori del tempo”, quasi eterna.

L'artista ritrae e fissa nei suoi dipinti una natura ampia ed ariosa, che pare avere un respiro di tale vastità da sfidare la caducità del tempo ma da essere in grado – al contempo – di suggerire sin da ora (nei decenni successivi sarà proprio questo l'aspetto che si andrà accentuando, sino alla Bufera imminente del 1874) quella sottile inquietudine che nasce dalla consapevolezza che di un istante si tratta – colto nella sua più intensa e vibrante bellezza – e non di un tempo infinito, pur apparendolo.

 

Eppure, in questo felice 1861 – quando l'artista può sperare di aver superato le ferite subite nel suo animo sensibile dalla feroce esperienza della guerra e degli scontri sanguinosi sui campi di battaglia e di poter raccogliere i frutti di un impegno artistico vissuto senza requie e con una serietà di lavoro davvero ammirevole – il tono dei suoi dipinti è improntato a una serenità pienamente elegiaca.

Ciò vale per La Quiete del 1860, magistrale composizione giocata nell'equilibrio tra la parte sinistra del dipinto, con le due eleganti figure (tridimensionali silhouette accampate su uno spazio che si spinge sino all'infinito), e la parte destra, di piena natura, quasi in un dialogo tra quella roccia di materica pittura e il quieto specchio d'acqua; mentre al centro l'asse verticale è segnato, in basso, dalla tipica figuretta china sulla fonte ed, in alto, dalla luce che sgorga tra le fronde degli alberi.

Stima   € 130.000 / 160.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

Eugene Boudin

(Honfleur 1824 - Deauville 1898)

TROUVILLE, LE RIVAGE

olio su tela, cm 55,5x92,5

firmato e datato "1896" in basso a sinistra

 

Provenienza

Gérard, Parigi 

Collezione privata

 

Esposizioni

Eugène Boudin 1824-1898, Kunsthalle, Brema, 23 settembre - 4 novembre 1979, n' 73, ill. a colori p. 75

Eugène Boudin 1824-1898, Galerie Schmit, Parigi, 7 maggio - 12 luglio 1980, n' 49, ill. a colori

Eugène Boudin 1824-1898, Knoedler & C°, New York, 10 novembre-12 dicembre 1981, n' 32, ill. a colori

Eugène Boudin 1824-1898, Galerie Schmit, Parigi, 10 maggio - 20 luglio 1984, n' 39, ill. a colori

 

Bibliografia

R. Schmit, Eugène Boudin, Paris 1973, III, n' 3584, ill. p. 369

G. Jean-Aubry, Eugène Boudin, intr. e doc. di R. Schmit, Neuchâtel 1987, p. 229


L'opera è inclusa nell'Archivio Schmit con il numero B-T.1897/383/3584.Siamo grati a Manuel Schmit per aver confermato la paternità dell'opera.
 

È Eugène Boudin, prima di Claude Monet, di Camille Pissaro e di Alfred Sisley, a sfidare la tradizione pittorica spostando il cavalletto dallo studio all'aria aperta dei meravigliosi paesaggi della Normandia e di Le Havre, sulla scia delle esperienze pittoriche già esplorate dalla Scuola di Barbizon, dove il soggetto principale erano lo spazio paesaggistico e le campagne popolate da contadini e animali da pascolo.

Boudin però non è orientato verso un'interpretazione realista-romantica del paesaggio ma è incantato dai mutevoli effetti della luce, delle meraviglie naturali, dalle campagne e dalle spiagge che prendono vita sulle sue tele.

Nato a Honfleur in Normandia nel 1824, Boudin scoprì tardi la sua vocazione di pittore. Dopo aver lavorato come marinaio, aprì un negozio di cornici che gli consentì di conoscere molti degli artisti che frequentavano quei luoghi, da Courbet a Corot. In seguito, per amore della pittura, abbandonò tutto per recarsi a Parigi, dove, anziché frequentare l'Accademia, preferì copiare, al Louvre, i grandi maestri veneti e olandesi.

Quando possibile, tornava in Normandia, spostandosi col suo cavalletto da una spiaggia all'altra. Dipingere all'aperto fu per lui l'unico modo di lavorare: era convinto che "due colpi di pennello a contatto con la natura valgano più di due giorni di lavoro in uno studio".
A volte, nelle sue escursioni pittoriche, veniva seguito da un ragazzo molto più giovane, di cui aveva intuito le grandi qualità: Claude Monet. Insieme vagavano con il cavalletto, cercando di fissare sulle tele quei cieli cangianti che si riflettevano, differenti ad ogni istante, sulla superficie del mare. In un periodo in cui il pubblico prediligeva una pittura nitida e precisa, Boudin dipingeva senza definire le forme e con una tavolozza sempre più chiara ed evanescente, tanto che i suoi quadri hanno spesso l'aria di essere appena abbozzati. Ciò che contava per lui era afferrare l'attimo, l'istante preciso in cui un riflesso cambiava o la luce variava di colore, un obiettivo che perseguì per tutta la vita. Nel 1920 Claude Monet confessò al suo biografo Gustave Geffroy di dovere tutto il suo successo ad Eugène Boudin che definì “il re dei cieli”. Attraverso lui aveva imparato a leggere la natura e ad educare il proprio occhio; gli riconosceva il dono dell'immediatezza, qualità fondamentale che lo affascinò sempre. Proprio questo suo interesse per la natura e per la resa del paesaggio aprirà le porte alla grande rivoluzione impressionista.

Boudin espose per la prima volta al Salon di Parigi, con l'opera Le Pardon. Nell'estate del 1862 dipinse la sua prima spiaggia, e sono proprio le spiagge descritte nelle loro infinite variazioni atmosferiche a caratterizzare la sua opera. Nel tempo, le tele di Boudin continuarono a rappresentare gli stessi soggetti, ma variandoli a seconda delle ore del giorno: a questo genere appartengono, ad esempio, Plage aux environs de Trouville (1864) o Concert au casino de Deauville (1865). A queste si affianca l'esercizio costante nella raffigurazione della borghesia nei momenti di svago, soprattutto nella fase matura del suo lavoro, intorno agli Anni Settanta dell'Ottocento. Le principali location di queste opere furono le spiagge e le nuove strutture ricreative nelle quali il circolo di benestanti si ritrova: è dunque nuovamente la Normandia, dove Boudin trascorse in genere metà dell'anno, recandosi a Parini solo d'inverno, il soggetto di questi suoi dipinti. A dicembre del 1870 si trasferì a Bruxelles, chiamato dal mercante d'arte Gauchez, e vi lavorò per tutto il 1871, spostandosi anche ad Anversa, a Bordeaux e nei Paesi Bassi, per variare un po' la produzione. Con la crisi del mercato dell'arte alla metà degli anni '70, viaggiare diventò per lui più difficile; ricominciò a farlo poi negli anni '80, finché si trasferì nella casa che si era fatto costruire a Deauville, nella bassa Normandia, dove i colori della sua tavolozza continuarono a mantenere una certa cupezza riflettendo il tempo atmosferico di quelle terre del Nord. Nel 1874 partecipò alla mostra degli Impressionisti nello studio di Nadar. Alcuni anni dopo, nel 1883, Paul Durand-Ruel, il primo mercante d'arte a capire l'importanza degli Impressionisti e grande estimatore del lavoro di Boudin, gli dedicò una mostra di grande successo nella sua nuova galleria in Boulevard de la Madeleine a Parigi. Solamente nel 1892, quando, per motivi di salute Boudin si spinge a Sud, nella Costa Azzurra, la sua tavolozza si schiarì, pur sentendosi incapace di tradurre in pittura la luce di quelle terre e di quel mare. Passerà gli anni successivi tra la Costa Azzurra, Venezia, Firenze, per morire poi nell'amata Deauville nell'agosto del 1898.

 

Stima   € 100.000 / 150.000
Aggiudicazione  Registrazione
21

Sir William Hamilton

(Henley-on-Thames 1730 – Londra 1803)

CAMPI PHLEGRAEI. OBSERVATIONS ON THE VOLCANOS OF THE TWO SICILIES

Naples, [Pietro Fabris], 1776.

 

[Rilegato con:]

 

Supplement to the Campi Phlegraei. Being an Account of the Great Eruption of Mount Vesuvius in the Month of August 1779.

Naples, [Pietro Fabris], 1779.

In folio (460 x 335 mm). Frontespizio tipografico; mappa della Baia di Napoli a doppia pagina, incisa nel 1776 da Giuseppe Guerra su disegno di Pietro Fabris e colorata a mano; [1] carta con "References to Plate I"; frontespizio calcografico colorato a mano, raffigurante sei quadretti con le Isole Eolie; pp. 3-90; [1] carta con licenza; frontespizio tipografico; [53] carte di testo alternate a [53] tavole calcografiche numerate II-LIIII e colorate a mano; frontespizio tipografico del Supplement; [1] carta con "References to Plate I"; frontespizio calcografico colorato a mano, raffigurante sei quadretti con l'eruzione del Vesuvio; pp. 1-29 [1]; [1] carta con la dedica a Ferdinando IV; [4] carte di testo alternate a [4] tavole calcografiche numerate II-V e colorate a mano. Completo. Legatura coeva in mezzo marocchino rosso a grana lunga con angoli, dorso a sei nervi e sette scomparti con fine decorazione dorata, titoli in oro al secondo scomparto, piatti, tagli e sguardie marmorizzati, rotella di fiori e foglie dorati ai piatti. Pagine occasionalmente ingiallite e tracce del tempo alla legatura, ma nel complesso copia ottima. 

 

Titolo e testo in inglese e in francese, su due colonne.

 

Provenienza

Lyons Library (ex libris araldico al contropiatto anteriore)

Asta Pregliasco, Torino, dicembre 1940 (scheda bibliografica)

Collezione privata

 

Bibliografia

Brunet III 31

Graesse III 205

Jenkins and Sloan, Vases and Volcanoes. Sir William Hamilton and His Collection, British Museum Press, 1996. Lewine 232. Lowndes II 989. Rudwick, Bursting the limits of time, 2005, p. 30

 

MAGNIFICO ESEMPLARE DELLA PRIMA EDIZIONE DELLA CELEBRE OPERA DI SIR HAMILTON SUI VULCANI ITALIANI, SPLENDIDAMENTE ILLUSTRATA DA 59 ACQUEFORTI CON FINE COLORITURA COEVA.

 

Unanimemente considerato un capolavoro editoriale ed uno dei libri più belli di tutto il Settecento, i Campi Phlegraei di Hamilton sono una pietra miliare sia nel campo dell'arte dell'illustrazione, sia nell'ambito della ricerca geofisica e vulcanologica.  

 

Il nome "Campi Flegrei", ovvero "terre bruciate dal fuoco", indica la vasta zona che comprende Napoli e i suoi dintorni, caratterizzata sin dall'antichità da vivace attività vulcanica. Difatti, il Vesuvio e le sue spettacolari eruzioni, e i luoghi che lo circondano, sono i protagonisti indiscussi di questa opera. Tuttavia, va rimarcato fin da subito che l'attenta ricerca vulcanologica condotta da Hamilton coinvolse anche altri vulcani del sud Italia, in particolare quelli delle Eolie e l'Etna, cui egli volle dedicare tavole e commenti.

 

Del modernissimo approccio di Hamilton all'indagine scientifica, che rese l'opera un testo rivoluzionario nell'ambito della vulcanologia, ci parla lui stesso nella lettera introduttiva dei Campi Phlegraei, indirizzata a Sir John Pringle, presidente della Royal Society di Londra, di cui Sir William era membro dal 1766. A differenza dei naturalisti del passato, le cui teorie erano state per lo più elaborate a tavolino, secondo Hamilton, apostolo della mentalità illuminista, la natura deve essere studiata con accurate e approfondite osservazioni dal vivo, che vanno poi raccontate nel modo più fedele e comprensibile.

 

Quindi, il testo dei Campi Phlegraei, costituito dalla serie di lettere inviate da Hamilton alla Royal Society tra il 10 giugno 1766 e il primo ottobre 1779, è sostanzialmente una cronaca dettagliatissima delle sue numerose ascensioni al Vesuvio ed escursioni alle zone limitrofe, attraverso la quale egli registrò ogni fenomeno vulcanico degno di rilievo e pervenne all'innovativa e fondamentale conclusione che l'attività dei vulcani ha un impatto determinante sulla superfice terrestre e sul modellamento del paesaggio.

 

Nella medesima lettera a Pringle, Hamilton descrive anche la genesi delle spettacolari tavole che adornano l'opera e la storia editoriale del libro. Fedele alla sua moderna metodologia scientifica, egli desiderava che la sua relazione fosse accompagnata da immagini che riproducessero in modo preciso e particolareggiato quanto da lui osservato. Commissionò il lavoro a Pietro Fabris, da lui definito "a most ingenious and able artist", e gli chiese di disegnare ogni località vulcanica visitata, oltre a campioni di rocce vulcaniche e a particolari eruzioni, come quelle del Vesuvio avvenute a cavallo tra il 1760 e il 1761, nella notte del 20 ottobre 1767 e dell'11 maggio 1771, e nell'agosto 1779, che è oggetto dell'intero Supplement ai Campi Phlegraei.

 

Hamilton supervisionò direttamente l'opera di Fabris, che lo accompagnava nelle sue escursioni. Infatti, i due uomini sono ritratti in molte tavole, il primo con un cappotto rosso, il secondo in blu. Pienamente soddisfatto del lavoro dell'artista, eseguito con "the uttermost fidelity" e "as much taste as exactness", Hamilton decise che quanto aveva inizialmente richiesto per sua personale soddisfazione fosse invece pubblicato a beneficio di un più vasto uditorio. Affidò nuovamente l'impresa a Fabris e se ne accollò le ingenti spese, richiedendo che le tavole riproducessero i disegni originali "with such delicacy and perfection, as scarcely to be distinguished from the original drawings themselves".

 

Non a caso, chiunque ancora oggi sfogli un esemplare dei Campi Phlegraei non può fare a meno di restare affascinato dal virtuosismo coloristico delle sue tavole, che, come scrisse Hamilton, sembrano davvero disegni originali. Ma le immagini di Fabris colpiscono anche perché interamente permeate dal concetto di "sublime", ottenuto mediante il contrasto tra una natura ritratta in tutta la sua vastità e potenza e le minuscole dimensioni delle figure umane che la abitano. Molte vedute includono infatti piccole scene di vita quotidiana, oltre a minute raffigurazioni di costruzioni, trasporti e flora locali.

 

I soggetti delle tavole includono: numerose immagini di crateri e stratificazioni laviche sul Vesuvio ed altri vulcani; panorami di varie località vulcaniche del territorio campano; illustrazioni di laghi e ampi scorci di paesaggio; spettacolari e drammatiche eruzioni notturne e diurne; vedute del golfo di Napoli e di Posillipo, di Pozzuoli, della Solfatara, di Porto Paone all'isola di Nisida, di Ischia, Ventotene, e Stromboli, dell'Etna da Catania, degli scavi al tempio di Iside a Pompei. Le tavole dalla 42 alla 54 riproducono campioni di tufo, pietra pomice, tipi di lava, marmo, curiose rocce vulcaniche. Le tavole del Supplement, a giusto titolo le più famose e riprodotte, sono ancora più scenografiche e meravigliose nella loro rappresentazione della straordinaria eruzione del Vesuvio nel 1779.

 

Ciascuna della 54 tavole dei Campi Phlegraei e delle 5 tavole del Supplement è accompagnata da una pagina di didascalie che descrivono con esattezza scientifica ogni dettaglio raffigurato da Fabris. In molte didascalie, Hamilton volle anche aggiungere quale fosse lo scopo di quella determinata tavola e cosa desiderasse dimostrare attraverso di essa.

 

Nobile di sangue scozzese e uomo dagli interessi poliedrici, Sir William Hamilton fu un illustre diplomatico, vulcanologo, archeologo, antiquario e collezionista. Crebbe alla corte di re Giorgio II, di cui la madre era l'amante. Inizialmente, intraprese una carriera militare, che abbandonò quando sposò la prima moglie, Catherine Barlow. Data la salute cagionevole di quest'ultima, nel 1764 chiese ed ottenne il ruolo di Ambasciatore Britannico presso il Regno delle Due Sicilie, carica che ricoprì fino al 1800. Si trasferì dunque a Napoli, dove, oltre ad adempiere ai suoi compiti diplomatici e ad accogliere presso le sue ville ospiti celebri come Mozart, Goethe e Horatio Nelson, si dedicò attivamente alle sue due passioni: il collezionismo di vasi antichi e lo studio dei vulcani.

 

Nel 1766, inviò alla Royal Society di Londra una prima cronaca dell'eruzione del Vesuvio avvenuta nell'estate di quell'anno, saggio grazie al quale fu nominato membro della prestigiosa società. Nel 1770, la relazione del suo viaggio all'Etna gli valse anche la medaglia Copley, il più elevato premio in ambito scientifico conferito dalla Royal Society.

 

L'amata Catherine morì nel 1782. Hamilton si risposò in seguito con Emma Hart, di 35 anni più giovane, rinomata per la sua bellezza e per la sua liaison con l'Ammiraglio Nelson. Lo scandalo ha ispirato il romanzo di Susan Sontag The Volcano Lover (1992).

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
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GRANDE VENTAGLIO DECORATO DA DUE ACQUARELLI DI GIACOMO FAVRETTO (1849 – 1887) E IMPREZIOSITO DA OLTRE 60 IMPORTANTI AUTOGRAFI E DEDICHE, DI CUI 14 AD OPERA DI CELEBRI MAESTRI DI MUSICA, LETTERATI E ATTORI, 1883 – 1993

 

in carta bianca con bordi superiore e inferiore dorati, intelaiatura in legno laccato di rosso con decorazioni floreali in verde e oro solo sulle stecche portanti; larghezza del ventaglio aperto 91 cm, altezza 50 cm, conservato in apposita scatola di legno con coperchio (53,2 x 4 x 6,5 cm) con sopra intestazione manoscritta "Gentil Signora Amalia Tibaldi, Verona" e sigilli in ceralacca (uno con iniziali "G.V."); l'interno del coperchio reca, su striscia di carta bianca incollata, una lista parziale dei nomi degli autori di dediche e autografi, presumibilmente stilata dalla proprietaria del ventaglio, e completata da due fogli sciolti con elenchi di nomi custoditi sul fondo della scatola. Tracce d'uso.

 

 

Nei secoli, il ventaglio è stato un'arma di seduzione tipicamente femminile. La gestualità ad esso associata costituiva addirittura un "linguaggio" che permetteva di comunicare in segreto con l'universo maschile. Questo particolare ventaglio, tuttavia, forse troppo grande per assolvere al suo compito tradizionale, fu invece adibito dalla proprietaria, Amalia Martinez Tibaldi, ad inusuale supporto per una straordinaria collezione di "souvenir" artistici, musicali e letterari di grandi protagonisti della cultura italiana dal 1883 in poi. Trasformato dunque in un oggetto unico e magnifico, ecco che il ventaglio di Amalia si fa portatore di un tipo di un tipo di seduzione più sottile e più nobile: quella del piacere estetico e intellettuale.

 

I "souvenir" più antichi risalgono al 1883. Tra essi figurano due acquerelli di Giacomo Favretto, uno per ogni lato del ventaglio: il ritratto di dama giapponese in kimono reca appunto la data "1883" sotto alla firma del pittore. L'ornamentazione di questo lato del ventaglio, affidata a campiture di colore piatte, include anche una decorazione floreale costituita da tralci di fiori e foglie argentei e verdi, e da un piccolo passero in volo. Sul lato opposto, Favretto dipinse invece un intenso ritratto femminile (forse la stessa Amalia?) caratterizzato da tenui sfumature, e tralci viola disseminati di grandi fiori e uccelli fucsia e oro. L'espressione della donna, che ha i capelli scuri raccolti ed indossa uno scialle color lilla, è languida, con gli occhi quasi assonnati e le labbra appena dischiuse in un sorriso.    

 

Appartiene al 1883 anche il primo degli importanti autografi del ventaglio, ovvero quello di Giuseppe Giacosa, drammaturgo e librettista, che vi scrisse versi della commedia La sirena, rappresentata per la prima volta proprio nell'ottobre di quell'anno. A seguire, uno dei nostri più grandi scrittori ottocenteschi, Giovanni Verga, intervenne sul ventaglio di Amalia citando anch'egli una delle sue opere teatrali, il dramma In portineria, portato sulle scene milanesi nel 1885.

 

Gli anni successivi, ed in particolare l'ultima decade dell'Ottocento, videro l'avvicendarsi di dediche di illustri maestri di musica, tra cui: Pietro Mascagni nel 1892, con battute musicali dalla Cavalleria Rusticana; Giacomo Puccini nel 1893, con le celebri battute "Manon Lescaut mi chiamo"; Ruggero Leoncavallo nel 1896, con le battute del suo "ridi pagliaccio"; Arrigo Boito, senza data ma presumibilmente nello stesso periodo, con battute da Il primo Mefistofele; Don Lorenzo Perosi nel 1901, con battute da Il Natale del Redentore.

 

Arricchiscono il ventaglio di Amalia anche numerosi "souvenir" di artisti teatrali, tra cui spicca Eleonora Duse, che vi appose la sua firma nel 1922. Un'altra celebre attrice, Sarah Bernhardt, nel 1899 vi scrisse in francese "sono le donne che rendono gli uomini affascinanti, pieni di attenzioni e buoni, e vostro marito è tutto questo". Nome e attività del marito di Amalia, Eugenio Tibaldi, tenente, si desumono da altre dediche, dalle quali si intende anche che, occasionalmente, fosse proprio lui a chiedere agli artisti che ornassero della loro presenza il ventaglio della moglie. Ne è brillante esempio il "souvenir" del pittore Cesare Pascarella, che nel 1885 scrisse un sonetto in romanesco seguito dalla frase "Caro Tibaldi mi chiedi così per la tua signora un sonetto ed un somaro. Il sonetto l'hai letto ... Eccoti il somaro..." E qui Pascarella aggiunse un piccolo autoritratto con monocolo e pipa.

 

I grandi del Novecento che figurano sul ventaglio sono: Gabriele D'Annunzio, con un autografo datato 1919; Ignacy Jan Paderewski, pianista, compositore e politico polacco, autografo datato 1932; Richard Strauss, firma in inchiostro verde non datata; Arturo Toscanini, grande autografo in inchiostro rosso datato 1955; e, infine, Luciano Pavarotti, con la sua tipica dedica "per caro ricordo", datata 1993.

  

Non è chiaro chi abbia proseguito l'opera di Amalia Tibaldi fino ad anni così recenti (presumibilmente i suoi discendenti), né si sono ritrovate notizie precise in merito a questa signora e al marito. Tuttavia, dalle dediche si intuisce molto della loro vita. Amalia ed Eugenio erano ben inseriti nell'alta società dell'epoca e appassionati di teatro ed opera. Che Amalia amasse raccogliere dediche su questo ventaglio era risaputo, come dimostrano le parole del giornalista Baldassarre Avanzini "O la frase o la vita! – mi domanda Amalia dalle stecche, in imboscata. Ecco la frase! ... No! ... Non l'ho trovata ... Ma la mia vita è qui, se la comanda". Intervenne similmente, aggiungendo una bella citazione di La Rochefoucauld, Giacinto Gallina, commediografo: "Mi chiedi un pensiero, mio caro Eugenio? Eccotene uno di La Rochefoucauld che vale anche per l'amicizia: L'absence diminue les médiocres passions, et augmente les grandes, comme le vent éteint les bougies et allume le feu."

 

Consapevoli di aggiungersi ad un nutrito gruppo di personaggi celebri, alcuni "souvenir" rimarcano in modo scherzoso la propria inadeguatezza. Ferruccio Benini, attore, nel maggio 1900, scrisse in grafia minuta, poco distante dall'autografo di D'Annunzio, "In questo ventaglio vi sono tante illustrazioni sublimi dell'arte che io mi metterò qui, mogio mogio ... in modo da passare inosservato!" Armando Falconi, attore e comico teatrale, nel novembre 1933, sbottò in uno spassoso: "Qui ci sto come un cane in chiesa!"

 

Tra le altre numerose dediche argute si segnalano quella di Augusto Sindici, poeta, "La donna nasce donna, e nelle sue pupille / Nascendo l'uomo guarda, e diventa imbecille", quella di Enrico Panzacchi, poeta e critico, "Il Cor disse al Cervello: / – Perché stai lassù in vetta? – / Fu risposto – Fratello, / Per essere in vedetta, / E d'alto sorvegliare / tutta la grulleria che tu sai fare", e, infine, quella bellissima di Renato Fucini, poeta e scrittore, che così chiosa sul ventaglio e la vita "Chiese al ventaglio un detto Archimandrita: / – Dimmi, Ventaglio, che cos'è la vita? / – E il ventaglio, con molto ondeggiamento: / – E' tutto vento, vento, vento vento".

 

 

 

AUTOGRAFI IN SEQUENZA SUL LATO DELLA DAMA GIAPPONESE

 

Gabriele D'ANNUNZIO (1863-1938, scrittore): "Ch'l tenerà legato", maggio 1919. Accanto, verso l'interno, in grafia minuta, Ferruccio Benini (1854-1916, attore), che scrisse "In questo ventaglio vi sono tante illustrazioni sublimi dell'arte che io mi metterò qui, mogio mogio ... in modo da passare inosservato! Roma, 30-5-900"

Sarah BERNHARDT (1844-1923, celebre attrice francese): "Ce sont les femmes qui qui rendent les hommes charmantes et attentionnés et bons. Votre mari est tout cela. Merci Madame. 1899"

Virginia Marini (1844-1918, attrice teatrale): "Nell'arte come nella vita il cuore intuisce assai prima dell'intelletto. Bisogna obbedire sempre alle sue ispirazioni".

Giovanni Emanuel (1847-1902, attore teatrale): "Ahimè quante braccia l'arte mia ha sottratte all'agricoltura! Si poteva bonificare tutto l'agro romano. Aprile 1901".

Enrico Panzacchi (1840-1904, poeta e critico): "Il Cor disse al Cervello: / – Perché stai lassù in vetta? – / Fu risposto – Fratello, / Per essere in vedetta, / E d'alto sorvegliare / tutta la grulleria che tu sai fare. Roma, 22 dic. 83".

Giovanni VERGA (1840-1922, scrittore): "In memoria di un portinaio. Milano, 13 Maggio 85", probabile riferimento al dramma In portineria, portato sulle scene milanesi proprio nel 1885.

Ruggero LEONCAVALLO (1857-1919, compositore): "Alla gentile signora Amalia Tibaldi Martinez. Roma, 16 marzo 1896" Seguono le due battute musicali "Ri-di Pagliac-cio!"

Tommaso Salvini (1829-1915, attore teatrale e patriota): "Io son colui che Otello .. fu!  (Shakespeare) atto 5°."

Eugène Silvain (1851-1930, attore comico): "En souvenir reconnaissant de la première représentation d'Horace, du grand poète français Pierre Corneille, à Rome. Rome le 9 Février 1899".

Richard STRAUSS (1864-1949, compositore): autografo in inchiostro verde.

Baldassarre Avanzini (1840-1905, giornalista): "O la frase o la vita! – mi domanda Amalia dalle stecche, in imboscata. Ecco la frase! ... No! ... Non l'ho trovata ... Ma la mia vita è qui, se la comanda".

Cesare Pascarella (1858-1940, poeta e pittore): sonetto in dialetto romanesco, datato "Roma, 24 luglio 1885", seguito da dedica "Caro Tibaldi mi chiedi così per la tua signora un sonetto ed un somaro. Il sonetto l'hai letto .. Eccoti il somaro ...". Segue piccolo autoritratto con monocolo e pipa.

Antonio Cotogni (1831-1918, baritono): "Il genio fa l'arte".

Octave Feuillet (1821-1890, scrittore e drammaturgo), su biglietto da visita applicato al ventaglio: "27 Aout 83 ... avec ses félicitations les plus vives et les vœux les plus sincères pour la signorina Amalia".

Leopoldo Marenco (1831-1899, librettista): poesia.

Ruggero Ruggeri (1871-1953, attore e doppiatore): autografo datato "1926".

Andrea Maffei (1798-1885, poeta): poesia.

Gabrielle Réjane (1856-1920, attrice): "souvenir de Rome, 1899".

Ermete Novelli (1851-1919, attore teatrale): "Lo scrivere molto nuoce alla propria fama ed è per questo che io non scrivo mai!"

Agnes Sorma (1865-1927, attrice): autografo.

Stima   € 20.000 / 30.000
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Andrea Scacciati

(Firenze 1642-1710)

VASO DI FIORI ALL'APERTO, SU UNA PIETRA; SULLO SFONDO, PIANTE SELVATICHE E UN TAPPETO, CON URNA E VASI METALLICI SU UN PIEDISTALLO

olio su tela, cm 125x180,5

firmato e datato: "A. Scacciatj 1679" in basso a destra su una pietra (le C incrociate)

 

Provenienza

New York, Sotheby’s, 19 Gennaio 1984, n. 62.

 

Bibliografia

L. Salerno, La natura morta italiana 1560-1805, Roma 1984, p. 297, fig. 84.1.

M. Cinotti, Catalogo della pittura italiana dal 300 al 700, Milano 1985, p. 307.

G. e U. Bocchi, Naturaliter. Nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, p. 498, fig. 626.

S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del 600 e 700: biografie e opere, Firenze 2009, I, p. 252.

S. Bellesi, Andrea Scacciati pittore di fiori, frutta e animali a Firenze in età tardobarocca, Firenze 2012, p. 110, n. 20.

 

Riemersa dopo più di trent'anni dalla raccolta privata che lo custodiva, questa importante composizione di Andrea Scacciati è stata ripetutamente celebrata come uno dei capolavori dell’artista fiorentino sebbene, fino a questo momento, fosse nota solo attraverso la vecchia fotografia in bianco e nero pubblicata per la prima volta da Luigi Salerno.

Come è stato osservato da Sandro Bellesi, che ha ricostruito le vicende e il catalogo del pittore e in particolare la storia del nostro dipinto, la tela qui offerta va confrontata con un gruppo di opere strettamente coeve, di cui condivide l’imponente formato e l’impianto compositivo. Si tratta in particolare della coppia di tele di cui una firmata e datata del 1678 già presso Nystad all’Aja che, esposte nel 1964 alla storica mostra sulla natura morta italiana tenuta a Napoli, a Zurigo e a Rotterdam, segnarono in qualche misura la riscoperta di Andrea Scacciati, fino a quel momento confuso con altri fioranti, e della sua posizione tra i protagonisti della natura morta barocca (La natura morta italiana. Catalogo della mostra, Milano 1964, pp. 79-80, nn. 166-167, tavv. 76 a-b).

Al pari del nostro dipinto, le tele citate accostano infatti uno scapigliato bouquet di fiori variopinti raccolti in un vaso scolpito a una pianta selvatica, fiorita spontaneamente nel terreno sassoso: una sofisticata variazione sul tema del paragone tra natura e artificio, così familiare all’estetica del Barocco. Il nostro dipinto la ripropone, estendendola all’universo dei manufatti, e in particolare agli oggetti preziosi creati dall’uomo per mostrare la ricchezza e il gusto raffinato dei potenti. Ecco dunque, raro ma non unico esempio nella produzione nota di Andrea Scacciati, i vasi in metallo istoriato e il tappeto dalla frangia dorata che a sinistra concludono la composizione. Motivi che tradiscono la competizione con la scuola romana e in particolare con la fortunata produzione di nature morte cresciuta intorno all’esempio del cosiddetto Maltese, ora identificato con Francesco Noletti, e soprattutto con Carlo Manieri: ma, vorremmo dire, qui spogliati di ogni intento puramente decorativo e ricondotti a una necessità tematica più scoperta. Elementi che ricorrono comunque in altri quadri eseguiti dall’artista fiorentino nel corso del nono decennio del Seicento, confermando la relazione da lui sempre intrattenuta con la scuola romana, sottolineata per la prima volta da Mina Gregori nel 1964 a proposito della sua produzione di fiori.

Il nostro dipinto si distingue tuttavia dalla coppia citata (divisa in occasione di un passaggio sul mercato antiquario; si veda in proposito Bellesi 2012, nn. 12-13, tav. VI) e da altre tele coeve di Andrea Scacciati ad esso confrontabili (i vasi di fiori già a Bergamo presso Previtali, catalogati e più volte riprodotti da Sandro Bellesi, 2012, n. 14) per l’ambientazione notturna, che non riscontriamo nelle altre sue composizioni all’aperto fin qui note. Una scelta atta a far risaltare la brillante cromìa dei suoi fiori recisi, anemoni e tulipani in tutte le gradazioni del rosa, le pieghe sontuose del panno dalla frangia dorata e il bagliore dei vasi metallici. Ancora una volta, un richiamo all’esempio di Mario dei Fiori, condiviso anche da Bartolomeo Bimbi che insieme a Scacciati fu protagonista a Firenze del genere della natura morta.

 

 

Note biografiche

 

Nato a Firenze nel 1644, Andrea Scacciati si iscrive nel 1669 all’Arte del Disegno, avendo compiuto il proprio apprendistato. A partire dall’anno successivo è documentata la sua attività per lavori di decorazione eseguiti nel palazzo dei marchese Riccardi a via Larga; risale invece al 1672 il suo primo dipinto datato, un Vaso di fiori ad olio su tela.

Accademico del Disegno nel 1676, Scacciati alterna la sua produzione di pittore di fiori, con varie opere datate più o meno coeve al dipinto qui offerto, a quella di decoratore per la corte medicea e in particolare per Vittoria della Rovere, documentata a partire dal 1680 e proseguita nell’ultimo decennio del Seicento. Tra le opere certificate da pagamenti e descrizioni inventariali (tra cui specchi dipinti, secondo il modello romano proposto da Mario dei Fiori a palazzo Colonna) resta probabilmente un orologio dalla cassa di ebano dipinta a fiori identificato da Alvar Gonzales-Palacios e da lui posto in relazione con un documento del 1692: un’attività proseguita dal figlio, Michele Scacciati, costantemente operoso per le botteghe granducali.

Attivo in collaborazione con pittori di figura in una serie di scene all’aperto o nei festoni di fiori con figure di gusto romano, fra il 1683 e il 1687 Andrea Scacciati dipinse insieme a Pier Dandini un fregio dedicato alle stagioni per la villa di Poggio Imperiale.

I numerosi dipinti restituiti al suo catalogo da Sandro Bellesi, molti dei quali firmati e datati, lo confermano tra i protagonisti della natura morta italiana, e non solo fiorentina, del secondo Seicento, tra i pochi in grado di coniugare gli accenti fortemente scenografici che distinguono il genere in epoca barocca alle intenzioni naturalistiche che all’inizio del secolo avevano presieduto alla sua nascita.

 

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
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Maestro della lunetta di via Romana,

alias Bernardo di Stefano Rosselli

(Firenze 1450-1526)

MADONNA COL BAMBINO

tempera e oro su tavola, cm 49,5 x 34,8, superficie dipinta cm 47 x 33, spessore originale cm 2

 

Questa tavoletta presenta sui quattro lati la barba del gesso che risaliva sulla cornice originale, perduta quando il supporto, in spessore originale, venne rifilato, a segno che la superficie dipinta non è ridotta e il taglio, sia della valva in alto sia del bracciolo del faldistorio in basso, è quello illusionistico pensato ad arte dal pittore, per potenziare lo squarcio di ambiente. Il legno presenta un nodo in basso a destra, che non si è ripercosso in maniera significativa sulla superficie, molto ben conservata, anche in alcune finiture, come i tocchi di luce sulla veste rossa damascata della Vergine, e nelle lamine dorate, limitate ai due nimbi, a polsini e scolli e al laccio del mantello, fittamente operate coi punzoni e profilate con nero a vernice, di spettacolosa integrità. L'opera venne pubblicata da Bernard Berenson (Homeless paintings of the Renaissance, London 1969, pp. 178-179, fig. 320), come "homeless", con un'attribuzione dubitativa a Pier Francesco Fiorentino, mentre va ricondotta ad un gruppo di dipinti che Offner raggruppò sotto il nome di Master of the Via Romana Lunette, da una lunetta affrescata sul portale di una casa di via Romana (al nr. 27r), raffigurante la Madonna col Bambino fra due angeli, già pertinente ad un ospizio della compagnia del Bigallo, gruppo di opere che Everett Fahy ha ristudiato nel 1989 sotto il nome di "Argonaut Master" (E. Fahy, The Argonauti Master, in "Gazette des Beaux-Arts", CXIV, 1989, pp. 285-299; in quella sede, p. 292, lo studioso riporta il raggruppamento operato da Offner tra 1923 e 1927, con annotazioni nella Frick Art Reference Library di New York). Everett Fahy in quell'occasione raggruppava numerosi dipinti intorno a uno dei due cassoni del Metropolitan Museum con le storie delle Argonautiche (essendo il compagno di Biagio d'Antonio). In un secondo tempo lo studioso ha poi maturato la convinzione, come mi ha confermato oralmente, che in questo gruppo si nasconda la giovinezza di Jacopo del Sellajo, grazie al trait-d'union offerto dalla Madonna adorante il Bambino del Musée Tessé a Le Mans, ma anche che alcuni numeri del suo folto catalogo vadano scorporati, in quanto spettanti ad un alter ego di profilo minore, in sostanza il Master of the Via Romana Lunette offneriano, per cui si può prospettare con solidi argomenti un'identità invece con la fase iniziale del più giovane Bernardo di Stefano Rosselli.

Del dipinto in esame esiste una seconda versione, al Musée Bonnat di Bayonne (inv. 887: Musée Bonnat. Catalogue sommaire, Paris 1952, p. 79), che si differenzia per l'inserimento di un angelo nel varco della finestra di destra, già riferita da Everett Fahy a Bernardo di Stefano Rosselli. Come per la tavola Bonnat si possono infatti individuare palmari rispondenze con un pugno di dipinti, oltre alla sciupata lunetta di via Romana, ormai leggibile solo in una vecchia foto Alinari, in particolare con: una Madonna col Bambino e due angeli già nella pieve di Santa Maria a Fagna in Mugello, ora esposta nel Museo d'arte sacra Beato Angelico di Vicchio; una Madonna col Bambino dell'Academy of Arts di Honolulu (inv. 3046); una Madonna col Bambino della Strossmayerova Galerija di Zagabria; una Natività con due angeli del Museum of Fine Arts di Boston (inv. 03.562: cfr. L. B. Kanter, Italian Paintings in the Museum of Fine Arts Boston. I. 13th – 15th century, Boston 1994, pp. 165-167, cat. 47, come dell'Argonaut Master) e una Madonna adorante il Bambino e un angelo dello stesso museo (inv. 17.3223: cfr. Kanter, op.cit., pp. 163-165, cat. 46, come di Bernardo di Stefano Rosselli). Questo pittore, un tempo confuso nel grande raggruppamento berensoniano del Maestro di San Miniato, sembra guardare intensamente alla fase lippesca giovanile di Jacopo del Sellajo e contaminarla con attenzioni anche ad Alesso Baldovinetti, evidenti specialmente nel vasto paesaggio della Madonna adorante il Bambino di Boston, che ha pure delle misteriose tangenze col gruppo del ferrarese Maestro della Madonna Cambo, a sua volta connesso con la formazione fiorentina di Francesco del Cossa nel settimo decennio del Quattrocento. Uguale è la pittura pastosa delle carni, con intensi arrossamenti, il segno stemperato sui volumi netti e taglienti dei volti, le palpebre marcate, l'illusione pittorica dei damaschi, la semplice freschezza con cui sono interpretati i veli lippeschi trapunti di semplici rosette, l'impasto di luce nelle bionde capigliature. Ci sono poi dei riscontri puntuali nello stesso gusto paesaggistico, in particolare nella Madonna adorante il Bambino e un angelo di Boston, nelle rocce scheggiate di tonalità cretosa fra torrenti copiosi di acque dalla superficie increspata, e identiche in entrambe le opere sono le operazioni dell'oro, pur declinate con combinazioni e fantasie diverse (si noti il ricorso dell'identico punzone, una rosetta a sei punte incluso in un bollo, ma anche il modo di sovrapporre i bolli per creare un effetto di collana, sullo scollo della nostra Madonna come lungo l'orlo del nimbo del Bambino di Boston, dove più impegnato è il tentativo di illudere lo spessore del piattello dell'aureola).

Il gusto assai vistoso per carnati luminosi e rosati, per stoffe sgargianti pittoricamente illuse, per paesaggi copiosi e fantastici, richiama anche il modello fondamentale di un pittore versatile e affatto particolare come Neri di Bicci, cui deve tanto, pur temperandone i modelli con quelli più aulici di fonte lippesca e peselliniana, mediati verosimilmente dal rapporto col giovane Jacopo del Sellajo. L'inserzione del gruppo sacro in una camera vistosamente aperta sui lati verso il paesaggio, da varchi architravati che sfondano le pareti laterali, collegandosi ad una grande valva absidale al centro, dipende da soluzioni sceniche care a Neri di Bicci, che così scomponeva e rimontava le suggestioni lippesche, e si ritrova in una Madonna col Bambino passata ad un'asta di Christie's a Londra il 1 aprile 1960, lotto 88, che potrebbe appartenere pure a Bernardo Rosselli, anche se non è immediatamente riconoscibile, probabilmente per estensive ridipinture (vedila riprodotta come di "ignoto fiorentino", ma a fianco della Natività di Boston, in Il 'Maestro di San Miniato', a cura di G. Dalli Regoli, Pisa 1988, pp. 98-99, fig. 73). Il semplice telaio architettonico aperto lateralmente sul paesaggio ricorda in particolare l'ideale pergula marmorea, traforata sull'oro, squadernata da Neri di Bicci nella Madonna col Bambino e quattro santi del Museo d'Arte sacra di Peccioli, del 1463, quando Bernardo aveva 13 anni ed era nella bottega di Neri. Aperture comparabili, seppur stagliare sul fondo oro, si trovano anche in alcune Annunciazioni di Neri, come quella assai suggestiva di Certomondo presso Poppi. Gustose sono le digressioni che animano gli squarci laterali sul paesaggio: cacciatori alla rincorsa di animali selvatici, un ponte di legno su un torrente gonfio d'acque, castelli sui poggi, filari di cipressi e conifere lungo la riva, e nelle nubi scherzi di pennello che delineano la testa di un drago. Non manca, in poco spazio, lo scorcio a sinistra di un poggiolo rosso, con un vaso di fiori in bilico, e sulla pertica della finestra, una colomba che si è poggiata un istante, giustificata come allusione allo Spirito Santo, ma alla fine tradotto in notazione aneddotica.

Come Neri di Bicci era avvezzo a policromare stucchi e terrecotte degli scultori contemporanei, così questo pittore deve avere intrattenuto rapporti analoghi con le botteghe dei principali scultori contemporanei, verosimilmente policromando prodotti seriali e ricavandone importanti suggestioni compositive. La composizione richiama immediatamente modelli scultorei post-donatelliani dell'ambito di Antonio Rossellino, per il taglio stesso un po' di tralice, con un solo bracciolo del faldistorio a vista. Questo rapporto può essere circostanziato. Il dipinto infatti riproduce in sostanza, con qualche variante di dettaglio (ad esempio nel diverso rapporto tra la mano destra della Madre e quella del Bambino) una invenzione ricondotta al lucchese Matteo Civitali, verso il 1461-1462, da Francesco Caglioti (in Matteo Civitali e il suo tempo. Pittori, scultori e orafi a Lucca nel tardo Quattrocento, catalogo della mostra di Lucca, Cinisello Balsamo 2004, pp. 296-301), nell'ipotesi di una sua giovanile frequentazione fiorentina della cerchia di Antonio Rossellino, di cui esistono un marmo bellissimo nella chiesa di San Vincenzo Ferrer e Caterina de' Ricci a Prato e numerose repliche in terracotta e stucco policromi. Il pittore ha reinventato giusto il velo stretto da un cercine, riproposto nel solco della tradizione lippesca-donatelliana, ma riprende la posa del Bambino che accavalla i piedi in maniera identica e gioca con una lunga collana di perle di corallo che gli passa tra le mani. Egli riprese anche l'idea di un cordiglio con nappe alle estremità e una fibbia sul petto che ferma i lembi del mantello. Va notato che un'altra Madonna col Bambino del gruppo giovanile del probabile Bernardo Rosselli (già Londra, Christie's 5 luglio 1990, lotto 185) è derivata en revers da un celebre prototipo in marmo di Antonio Rossellino, attestato dal marmo dell'Ermitage e da numerose repliche.

È probabile che questa derivazione non abbia tardato di molti anni rispetto alla elaborazione e riproduzione del prototipo nei primissimi anni sessanta. Se è giusta l'identificazione del Maestro della lunetta di via Romana con Bernardo di Stefano Rosselli questi, nato nel 1450, frequentava dal 1460 la bottega di Neri di Bicci e potrebbe avere dipinto un'opera simile, appena affrancato e autonomo, poco dopo il 1465. Bernardo, cugino di Cosimo di Lorenzo Rosselli e del pittore e incisore Francesco di Lorenzo Rosselli, figlio di un fornaciaio, aveva bottega tra via Porta Rossa e piazza Santa Trinita ed ebbe poi una lunga carriera, che è stata ricostruita da Anna Padoa Rizzo (Ricerche sulla pittura del ‘400 nel territorio fiorentino: Bernardo di Stefano Rosselli, in "Antichità viva", XXVI, 1987, 5-6, pp. 20-27; Ead., in Maestri e botteghe. Pittura a Firenze alla fine del Quattrocento, catalogo della mostra a cura di M. Gregori, A. Paolucci e C. Acidini Luchinat, Milano 1992, pp. 104-105, 2001, p. 82). Tra 1472 e 1474 è documentato operoso nella Badia di Passignano, dove affrescò le lunette con le Storie dei progenitori del refettorio. Come Neri di Bicci con le Ricordanze, anche Bernardo ha lasciato un Libro di bottega, scoperto in collezione privata da Anna Padoa Rizzo e purtroppo ancora inedito. Rispetto alle opere sicure sue ci sono affinità morfologiche, ma anche obiettivamente uno scarto qualitativo. Nei dipinti della maturità di Bernardo, in genere di destinazione provinciale,  i tipi si fanno più stereotipi e vacui e i panneggi più piatti, anche se le scene ripropongono paesaggi tersi e marmi luminosi, indizi di un'educazione nel settimo decennio del secolo, tra Neri di Bicci e il cugino Cosimo Rosselli, allora imbevuto in parte degli ideali ancora della "pittura di luce" (si veda ad esempio la pala col Compianto di Cristo e santi di Santa Maria a Lamole presso Brucianesi, o la pala della chiesa dei SS. Bartolomeo e Jacopo a Terrossola presso Bibbiena, datata 1497).

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
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INTAGLIO, CINA, FINE DINASTIA QING, SEC. XIX
Corallo rosso, alt. cm 24,5, gr. 1965.
Poggiante su base in avorio intagliato, alt. cm 5,5

Importante ramo di corallo rosso finemente intagliato, raffigurante il tema di WangMuZhuShou (王母祝寿), che significa l’Anniversario Celeste della Regina Madre dell’Ovest.
La figura principale, Wangmu è abbigliata con una maestosa veste ed un’imponente acconciatura; tra le mani tiene un grande tralcio di peonie fiorite. Le figure secondarie sono vestite sontuosamente e tengono a loro volta fiori e lanterne con le quali accompagnano la Regina Madre. Al centro, in primo piano, vi è una divinità maschile in adorazione, inginocchiata per celebrare l’avvenimento; nella cinta della veste porta delle pesche, simbolo di lunga vita.

Il tema rappresentato è un omaggio alla religione taoista ed alla leggenda de ‘‘Il viaggio in Occidente’’ (西游记): tra le figure femminili più importanti troviamo la Regina Madre dell’Ovest, simbolo universale di lunga vita e di prosperità, nonché protettrice della vita matrimoniale.

Le prime notizie storiche sull’identità della divinità celeste risalgono alle iscrizioni oracolari su ossa databili alla dinastia Shang (1766-1122 B.C.), che descrivono pienamente questa figura nella fisionomia che nel suo status.
La Regina Madre dell’Ovest è solitamente rappresentata nel suo palazzo sul monte Kunlun, dove ospita e convoca tutte le divinità taoiste. Ella è venerata da tutti per l’animo puro e pieno di misericordia.

Il terzo giorno del terzo mese di ogni anno lunare, la Regina Madre celebra il suo anniversario di nascita con la famosa ‘’festa delle pesche’’, in occasione della quale convoca tutte le divinità per donare loro l’immortalità, per questo motivo questa figura è molto adorata e citata nelle leggende della civiltà orientale.
Questa leggendaria ed affascinante figura la ritroviamo anche in un intaglio in giada bianca al Victoria & Albert Museum, Londra, Gran Bretagna. Inv. n.VA07056.


王母祝寿珊瑚摆件,中国,晚清年间, 十九世纪

Provenienza

Collezione privata, Milano

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
27

GRANDE SCULTURA, CINA, DINASTIA MING, SEC. XVII 
bronzo laccato e dorato, alt. cm 81,5

raffigurante il Bodhisattva Trascendente Samantabhadra, assiso sul dorso di un elefante con tre coppie di zanne.
Il braccio destro è piegato ad angolo con l'indice e il mignolo estesi nel gesto del karaṇamudrā, mentre il sinistro è adagiato sulla gamba con il palmo delle mani rivolto verso l'alto; i piedi incrociati poggiano su un fiore di loto.
L’intera figura è adornata da un’elegante veste drappeggiata e impreziosita da gioielli.
La testa della divinità è sormontata dalla nobile corona, decorata con la figura del Buddha Trascendente Amitābha in posizione Padmasana.

Samantabhadra in cinese (Pǔxián), che significa virtù universale; è il Bodhisattva Trascendente della Verità, in Asia Orientale è il protettore di tutti coloro che praticano la meditazione, mentre nel Tibet rappresenta la compassione attiva (Kurana).
È ricordato come patrono del Sūtra del Loto, e nell'Avatamsaka Sūtra è colui che pronunciò i dieci grandi voti per elevarsi a Bodhisattva, ossia l’illuminazione dell’essere.
Nelle differenti tradizioni buddiste, Samantabhadra viene ricordato come Bodhisattva, ma in altre viene citato come Buddha Primordiale, cioè colui che è nato illuminato.
Secondo la più famosa leggenda popolare buddista Tang, il Bodhisattva Samantabhadra si reincarnò in un orfano che poi venne portato nel tempio GuoQing (国清寺) dal monaco Feng Gan ChanShi (reincarnazione del Buddha Trascendente Amitābha), dove crebbe con il nome di Shide (拾得), divenne poi uno dei più famosi monaci buddisti insieme a Handa Shi (寒大师), reincarnazione del Bodhisattva Manjusri. I tre monaci verranno ricordati nella cultura buddista come i "Tre Santi di Huayan" (华严三圣, Huayansansheng).

Nell’iconografia tradizionale Samantabhadra è rappresentata con abiti ed altri caratteristiche comuni ad alcune rappresentazioni di Guanyin, come i gioielli, la corona e l’abito drappeggiato.
La figura è sempre assisa su un elefante bianco a sei zanne, che simboleggiano i sei modi in cui il Bodhisattva perseguono la spiritualità, per raggiungere l'illuminazione e salvare gli esseri viventi, o rappresentare le sei virtù della perfezione (Paramita): carità, la morale, la pazienza, la diligenza, la contemplazione e la saggezza.

Le prime tracce del culto del Bodhisattva Samantabhadra si rintracciano in Cina durante le dinastie del Nord e del Sud (420 al 589 d.C.), per poi diffondersi nell'epoca di pace della dinastia Sui (581-618) e raggiungere quindi il suo apice nella dinastia Tang (618-907).
Per rendere omaggio a questa importante figura nel buddismo cinese, il Monte Emei (峨眉山) è stato consacrato a Samantabhadra; il primo tempio a lui dedicato vi venne costruito nel 399; nella dinastia Song, il secondo imperatore Song Taizong vi fece erigere una statua di bronzo in suo onore.

 

铜鎏金普贤菩萨坐像, 中国, 明代年间, 十七世纪

Provenienza

Collezione privata, Roma

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
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