Importanti Dipinti Antichi

19 APRILE 2016

Importanti Dipinti Antichi

Asta, 0170
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17.00
Esposizione
FIRENZE
15-18 Aprile 2016
orario 10 – 13 / 14 – 19 
Palazzo Ramirez-Montalvo 
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   4000 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 46
45

Heinrich Schmidt

(Ottweiler 1740 - Darmstadt 1821)

LA MORTE DI CLEOPATRA

olio su tela, cm 97x112

firmato e datato "Schmidt Roma 1797" in basso a sinistra sulla base della colonna

 

Corredato da attestato di libera circolazione

An export licence is available for this lot

 

Provenienza

Collezione privata, Napoli

 

 

Attivo a Roma dal 1787, Heinrich Schmidt fu evidentemente sensibile al gusto egittizzante che alla fine del settimo decennio del secolo aveva trovato la sua più stravagante e sofisticata manifestazione nelle Diverse maniere di ornare i camini, pubblicato da Giovan Battista Piranesi nel 1769 e nella realizzazione della sala Egizia di Villa Borghese, disegnata da Tommaso Conca, nel 1778-79.

Sebbene depurata dal rigore neoclassico e giustificata dal soggetto dell’opera, questa tendenza è evidente nel dipinto qui offerto, che precede di alcuni anni la più ampia diffusione “retour d’Egypte” all’inizio del nuovo secolo.

In significativo anticipo su manufatti realizzati a Napoli alla corte di Gioacchino Murat, presso la quale Schmidt fu attivo dopo il 1811, il dipinto qui offerto mostra ad esempio il trono di Cleopatra ornato da sfingi che ne sorreggono i braccioli, in tutto simile a una serie di sedie realizzate nei primi anni dell’Ottocento, ora nel Palazzo Reale di Napoli (cfr. E. Colle, Il mobile Impero in Italia. Arredi e decorazioni d’interni in Italia dal 1800 al 1843, Milano 1998, p. 52, ill., p. 394, 9 a). Altre sfingi in bronzo dorato ornano la base del versatoio sul tavolo, e una divinità egizia (Iside?) si intravvede in una nicchia sullo sfondo.

 

Stima   € 25.000 / 30.000
41

Giuseppe Zocchi

(Firenze 1716 - 1767)

CAPRICCI CON FIGURE IN RIPOSO TRA ROVINE CLASSICHE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 48x33,5

(2)

 

Nella sua attività multiforme, Giuseppe Zocchi seppe alternare con versatile facilità l’obiettività rigorosa del vedutista in grado di definire l’immagine della città moderna alla vena apparentemente svagata dell’inventore di capricci di rovine e paesaggi bucolici.

Quest’ultimo aspetto trova la sua espressione più felice nelle numerose invenzioni, condotte a penna e talvolta ripetute a olio su tela, destinate all’Opificio delle Pietre Dure presso il quale, a partire dal 1754, Zocchi ebbe il ruolo di “Pittore dei Quadri e Lavori da farsi”, ovvero disegnatore e progettista, ottenendo così il riconoscimento ufficiale di una attività esercitata per la Galleria fin dal 1750.

È in questo contesto che nascono i suoi paesaggi d’invenzione popolati da “macchiette” alludenti alle Stagioni o ai Cinque Sensi, o semplici presenze tra rovine classicheggianti. Suoi modelli, in quest’ultimo caso, gli artisti romani del secondo Seicento, come Giovanni Ghisolfi, o esatti contemporanei come Giovanni Paolo Panini e Andrea Locatelli, di cui talvolta Zocchi riprese testualmente le invenzioni, come nel Paesaggio con una Sibilla e la piramide Cestia. Non a caso, due tra i suoi paesaggi più belli arricchiti da scene popolari a piccole figure, vere e proprie “bambocciate”, furono attribuiti a Locatelli fino al ritrovamento delle incisioni che ne certificavano la paternità di Zocchi e la committenza dei marchesi Gerini.

È del 1751 il pagamento per la coppia di Rovine con figure tuttora conservate presso l’Opificio delle Pietre Dure a Firenze (A. Tosi, Inventare la realtà. Giuseppe Zocchi e la Toscana del Settecento, Firenze 1997, p. 142; riprodotte a colori alle pagine 144-45) di cui i dipinti qui offerti costituiscono la replica sostanzialmente fedele, o comunque priva di varianti significative. La delicata gamma cromatica, tutta giocata su toni freddi e luminosi in relazione alle tarsie marmoree che dai dipinti sarebbero derivate, è l’elemento distintivo del paesismo di Zocchi rispetto all’austero modello romano.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
40

Giuseppe Zocchi

(Firenze 1716 - 1767)

L’INCONTRO DI JEPHTE CON LA FIGLIA

olio su tela, cm 47x61,5

Il dipinto è offerto insieme al relativo disegno preparatorio ad inchiostro bruno e acquerello su carta mm 190x260

 

Provenienza

Collezione privata;

New York, Colnaghi, fino al 1987;

collezione privata;

Londra, Sotheby’s, 11 dicembre 2003, n. 202;

Roma, Alfredo Pallesi;

Roma, collezione privata;

 

Bibliografia

G. Sestieri, Il Capriccio Architettonico in Italia nel XVII e XVIII secolo, Roma 2015, III, pp. 332-333, figg. 5 e 5,1.

 

Protagonista del vedutismo fiorentino ma ricercato altresì come frescante, paesista, disegnatore e incisore, Zocchi legò la sua fortuna e il suo nome al mecenatismo del marchese Andrea Gerini, cui fu debitore della formazione tra Roma e Venezia e della committenza della sua opera più nota, le due serie di vedute dedicate alla città e alle ville di Firenze, incise dai suoi disegni originali e pubblicate a partire dal 1744.

Alla committenza dei marchesi Gerini rimanda, se pure indirettamente, il dipinto qui offerto, legato nel tema vetero-testamentario, nelle dimensioni e nello stile al Trionfo di David da tempo riconosciuto come proveniente da quella raccolta. Nel pubblicare il dipinto (passato in asta da Christie’s a Londra nel dicembre 1987) Alessandro Tosi ne proponeva giustamente l’identificazione con il Trionfo di David: Architettura, e alquante figure descritto al n. 65 del catalogo di vendita della collezione Gerini redatto nel 1825 da Pietro Benvenuti e François-Xavier Fabre, con le stime di Giuseppe Bezzuoli (A. Tosi, Inventare la realtà. Giuseppe Zocchi e la Toscana del Settecento, Firenze 1997, pp. 118-19). Il dipinto citato reca la firma dell’autore e la data da Venezia nel 1749: un’indicazione cronologica che sarà opportuno estendere anche al nostro, che solo l’andamento compositivo da sinistra a destra, coincidente con quello del Trionfo di David, impedisce di considerare suo effettivo pendant. Nella collezione Gerini la tela citata si accompagnava invece al Trionfo di Giuditta, apparentemente non ancora riemerso. Entrambi i soggetti citati, insieme a quello più raro del dipinto qui offerto e ad altri relativi ai cicli di Giuseppe e di Mosè, furono ripresi da Zocchi nelle illustrazioni del Vecchio Testamento incise da Francesco Bartolozzi e pubblicate a Venezia da Giuseppe Wagner nel 1758. Appena variato nello sfondo ma per il resto in tutto corrispondente al dipinto, il disegno che lo accompagna fu probabilmente eseguito ai fini della presentazione al committente. Anche il Trionfo di Davide già in collezione Gerini era stato preceduto da un disegno in tutto simile al nostro: diviso ormai dal dipinto, passò in asta da Sotheby’s a Londra nel 1991.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
36
Stima   € 60.000 / 80.000
35

Niccolò o Angelo Stanchi

(Roma, seconda metà del XVII secolo)

VASO DI ROSE E FRUTTA SU LASTRA DI PIETRA

VASO DI GAROFANI E FRUTTA SU LASTRA DI PIETRA, CON UN UCCELLINO

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 55,5X100 ciascuno                   

(2)                                                      

 

 

Sebbene la presentazione di frutta e fiori su fondo oscuro richiami il primo tempo della natura morta romana, la sapiente articolazione di volumi e colori sulle lastre di pietra nei dipinti qui offerti rimanda alla maturità del genere nella seconda metà del secolo, quando la presentazione di frutta e fiori all’aperto era ormai prevalente.

Entrambi i modelli convivevano nella bottega romana di Niccolò (1623 – circa 1690) e Angelo Stanchi (1626 – dopo il 1673), ricercatissima a Roma per dipinti su tela e per decorazioni a fresco documentate da inventari e documenti di pagamento anche se non più conservate.

Il confronto con la produzione da cavalletto degli artisti romani, analizzata da Maria Silvia Proni (in G. e U. Bocchi, Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630 – 1750, Viadana 2005, pp. 245-328) con grande varietà di esempi, suggerisce di attribuire alla loro attività piuttosto che a quella del fratello più anziano Giovanni l’esecuzione della coppia qui presentata. È infatti vicina per composizione e cromìa a tele catalogate dalla Proni al periodo tardo della bottega “Stanchi” probabilmente diretta da Niccolò, i cui modelli oltrepasseranno la soglia del Settecento attraverso l’allievo Giovanni Paolo Cennini.

 

 

                

Stima   € 30.000 / 40.000
34

Scuola napoletana, prima metà del sec. XVII

LA PARTENZA DI AGAR E ISMAELE

olio su tela, cm 120x150

 

Provenienza

Christie’s, Londra, 8 luglio 1988, lotto 88

Napoli, collezione privata.

 

Implacabile, Abramo indica ad Agar e al piccolo Ismaele la via del deserto a cui la nuova, legittima discendenza li condanna: nel moto divergente delle braccia, le pieghe sontuose del suo abito scarlatto riempiono lo spazio scuro della porta trovando richiamo nell’identica tonalità del corpetto di Agar, in contrasto con il chiarore eburneo delle carni. Il piccolo Ismaele riunisce in sé la bellezza classica dei lineamenti regolari e delle membra scolpite a un dettaglio che ci riconduce a quell’attenta osservazione del vero che segna il primo naturalismo napoletano: il “tortano” ossia la grande ciambella infilata al braccio come provvista per il viaggio, mentre un recipiente appena visibile in primo piano allude alla fonte miracolosa che disseterà madre e figlio nel deserto.

Passato in asta da Christie’s con un riferimento alla cerchia di Massimo Stanzione sulla traccia di un antico suggerimento di Giuliano Briganti, il dipinto qui offerto fu poi attribuito da Ferdinando Bologna (comunicazione orale) al Maestro della Giuditta di Salerno autore, secondo lo studioso, di un esiguo numero di opere appunto riunite intorno alla tela nel Museo Diocesano di quella città, presentate in occasione della mostra dedicata nel 1991 a Battistello Caracciolo e al naturalismo napoletano.

Sebbene il confronto con quel dipinto risulti piuttosto convincente, almeno per quanto riguarda il volto di Ismaele, pressoché sovrapponibile a quello dell’eroina biblica, la fondata attribuzione della Giuditta al giovane Guarino da parte di Riccardo Lattuada e il sostanziale smembramento del gruppo ha interrotto questa linea di indagine.

Priva di seguito è apparsa anche l’attribuzione del nostro dipinto alla primissima attività di Mattia Preti all’inizio del quarto decennio del Seicento, seguita a un ipotetico primo soggiorno napoletano, espressa da Sebastian Schuetze nel recensire la mostra dedicata all’artista nel 1999 (Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta. Napoli, Museo di Capodimonte, in “The Burlington Magazine” CXLI, 1999, p. 436 e fig. 68).

Assai più convincente appare invece l’opinione di Nicola Spinosa (comunicazione orale) che ritiene trattarsi di un’opera giovanile di Massimo Stanzione, al crocevia tra il naturalismo di Battistello e di Filippo Vitale e una nuova misura classica. Molto persuasivi sono infatti i confronti con opere del primo tempo dell’artista napoletano, intorno alla metà degli anni Venti. Tra queste, in particolare, citiamo l’Adorazione dei Magi in collezione privata a Filadelfia, e più ancora una Sacra Famiglia con Sant’Anna e San Giovannino di raccolta privata, per quanto può intuirsi da una vecchia fotografia (S. Schuetze – T. Willette, Massimo Stanzione. L’opera completa, Napoli 1992, A 12 3 fig. 110; B 6 e fig. 360, rispettivamente).

 

Stima   € 50.000 / 70.000
32

Viviano Codazzi  (Taleggio, Bergamo, 1606 circa - Roma 1670)

e Filippo Lauri  (Roma 1623-1694)

PALAZZO CON GIARDINO E FONTANA, CON EPISODIO BIBLICO

olio su tela, cm 74x100

 

Bibliografia

G. Briganti, Viviano Codazzi, in I Pittori Bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Seicento, I, Bergamo 1983, p. 704, n. 128; p. 736, fig. 2.

D. R. Marshall, Viviano and Niccolò Codazzi and the Baroque Architectural Fantasy, Milano – Roma 1993, p. 324, VC 191.

G. Sestieri, Il capriccio architettonico in Italia nel XVII e XVIII secolo, Roma 2015, I, p. 363, fig. 117.

 

Pubblicato da Giuliano Briganti, il primo ad occuparsi di Viviano Codazzi dopo l’apertura longhiana nel 1955 e a stendere un primo catalogo delle sue opere, il dipinto qui offerto è stato nuovamente riprodotto da David Marshall sulla base della stessa fotografia e descritto come di ignota ubicazione: solo recentemente, infatti, la tela è riemersa dalla raccolta privata che da tempo la custodiva, consentendoci di ammirare un’opera finora malnota e di confermare senza riserve l’opinione degli studiosi citati.

Tipica di Viviano Codazzi è infatti la prospettiva architettonica in cui i volumi aggettanti di un porticato e le sue ombre portate disegnano un partito geometrico rigoroso sull’austera facciata di una villa, appena movimentata da nicchie che si alternano ai profili delle finestre. Piccoli tocchi di realtà – imposte socchiuse e persone affacciate su uno sfondo di cielo appena intravisto – impediscono alla scena di trasformarsi in puro esercizio di prospettiva. Sugli scalini che dalla terrazza conducono al giardino le figurine dipinte da Filippo Lauri mettono in scena un episodio vetero-testamentario che solo l’esame diretto consente oggi di identificare come facente parte dell’epopea di Giuseppe in Egitto, qui in atto di accogliere i fratelli e di farsi riconoscere da loro. Lo stesso episodio, indubbiamente assai raro, era stato dipinto da Pier Francesco Mola su una delle pareti brevi della galleria affrescata per volere di Alessandro VII nel palazzo pontificio di Montecavallo: un’impresa coordinata da Pietro da Cortona, cui si deve il progetto di insieme documentato da disegni preparatori e da recenti ritrovamenti, e portata a termine da artisti diversi per rango e per formazione, autori di varie storie dell’antico Testamento. Tra questi, per l’appunto, Filippo Lauri, autore di due scene figurate (Sacrificio di Caino e Abele; Gedeone) e, secondo le fonti, di una parte dell’ornato, ossia la cornice monocroma che ad esse faceva da ideale supporto. E’ probabile quindi che, nella scelta di un episodio a piccole figure con cui animare la solenne prospettiva di Viviano, Lauri si ricordasse della scena monumentale che aveva visto dipingere a Montecavallo, e decidesse di ripeterne la composizione, sebbene in controparte e con molte varianti. Un dato, questo, che costituisce un sicuro termine di datazione del nostro dipinto dopo il 1657, peraltro in linea con la cronologia proposta per il gruppo di opere eseguite in collaborazione da Lauri e Codazzi. Oltre che dalla serie di dipinti oggi conosciuti e a loro assegnati da David Marshall (Viviano and Niccolò Codazzi…. cit., VC 182-194) il loro sodalizio è documentato dagli inventari di molte fra le più importanti collezioni romane: prospettive di Viviano animate da figure di Lauri risultano, ad esempio, nella raccolta del Marchese del Carpio, ambasciatore del Re di Spagna a Roma (1682); in quella di Filippo II Colonna (1714); in quella, raffinatissima e probabilmente organizzata da Giovanni Paolo Panini, del cardinale Silvio Valenti Gonzaga (1763); in quella, infine, di Camillo Rospigliosi (1769).

 

Stima   € 40.000 / 60.000
31

Simone Pignoni

(Firenze 1611-1698)

RUTH E BOOZ

olio su tela, cm 48,5x97

 

Provenienza

Firenze, Luca Serantoni, 1729

Già Firenze, collezione Lia Cisbani

Collezione privata

 

Esposizioni

Firenze, Chiostro della Santissima Annunziata 1729

Firenze, Palazzo Strozzi, 21 dicembre 1986 - 4 maggio 1987

 

Bibliografia

G. Cantelli, Mitologia sacra e profana nella pittura fiorentina della prima metà del Seicento, (I), in "Paradigma", 3, 1980, p. 167, fig. 84

G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole (Firenze), 1983, p. 122, fig. 646;

Il Seicento Fiorentino, Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Pittura, catalogo della mostra, Firenze, 1986, p. 424, scheda 1.236;

F. Baldassari, Simone Pignoni (Firenze, 1611 - 1698), Torino, 2008, pp. 151-152, scheda 91a, fig. 91a

 

Passata sul mercato antiquario romano all’inizio degli anni Ottanta con l’attribuzione a Cecco Bravo, la tela è stata giustamente ricondotta da Giuseppe Cantelli alla mano di Simone Pignoni e successivamente messa in relazione con il pendant, per formato e argomento, raffigurante Rachele al pozzo (Il Seicento Fiorentino cit. p. 425, scheda 1.237). Le due tele sono inoltre citate nella Nota de’Quadri che sono esposti per la festa di San Luca degli Accademici del Disegno nel Chiostro della SS Annunziata del 1729 come di proprietà di Luca Serantoni.

Il soggetto del quadro qui offerto è tratto dal libro di Ruth, uno dei libri più brevi dell’Antico Testamento ma di prosa brillante ed efficace, che offre, in seguito al matrimonio dei due protagonisti, un messaggio di pace e speranza, nonché un rimando alla genealogia illustre della stirpe dei re davidici. Ruth è una giovane donna moabita rimasta vedova che rifiuta però di risposarsi per non abbandonare la suocera Noemi a cui è molto legata. Mentre spigola in un campo viene notata dal proprietario del terreno, Booz, che è anche parente di Noemi, ed è proprio questo il momento che viene rappresentato nella tela (2,5).

Noemi, desiderosa di fare di nuovo felice la nuora, le consiglia di persuadere Booz a prenderla in moglie: “Figlia mia, non devo io cercarti una sistemazione, così che tu sia felice?” (3,1) cosa che avviene dopo la rinuncia di un altro pretendente alla sua mano. Dall’unione di Ruth e Booz nascerà Obed, padre di Iesse e padre a sua volta di re David (4,17).

La qualità materica del quadro si presenta estremamente ricca e condotta con tocchi veloci, soprattutto nel paesaggio e nel cielo tempestoso, influenzato senz’altro dalla pittura sciolta e sfaldata di Cecco Bravo a sua volta tratta da suggestioni venete. Questa vicinanza con Cecco Bravo permette di datare l’opera agli inizi degli anni Cinquanta del Seicento, periodo a cui risale la loro collaborazione (G. Cantelli, Repertorio cit., p. 122)

La pennellata morbida, la gradevolezza del soggetto, nonché il formato contenuto, seppure con figure d’aspetto quasi monumentale, permettono di ascrivere l’opera al genere del quadro da stanza erudito e ricercato, secondo una tipologia molto amata nella pittura fiorentina del Seicento.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
30

Gioacchino Assereto e bottega                                  

(Genova 1600-1649)                                                       

FUGA DI ENEA                                                              

olio su tela, cm 225x146                                                  

senza cornice   

 

Tradizionalmente riferito a Gioacchino Assereto nella raccolta di provenienza, l’inedito dipinto qui presentato costituisce un episodio isolato nel corpus del pittore genovese almeno per quanto riguarda il soggetto, eccezionalmente tratto dal poema virgiliano. Sebbene non rintracciato né documentato altrimenti, “un fatto cavato dall’Eneide” è però ricordato da Carlo Giuseppe Ratti (1780) nella sala del palazzo di Stefano Franzone in via Luccoli, insieme a un “Apollo che scortica Marsia” che, sulla scorta di altri esemplari asseretiani, possiamo immaginare (come il nostro dipinto) a figure intere e di formato verticale.

Sebbene imperfettamente leggibile nel suo stato conservativo attuale, la tela qui offerta appare riconducibile all’attività estrema dell’artista, o comunque alla seconda metà degli anni Quaranta. Inconfondibile, e prossima a molte eroine vetero-testamentarie dipinte dall’Assereto la figura di Creusa, forse lievemente decurtata, mentre quella, possente, di Enea ripete la posa lievemente sbilanciata dell’Arcangelo Raffaele di raccolta privata, databile negli anni Quaranta (Tiziana Zennaro, Gioacchino Assereto 1600-1650 e i pittori della sua scuola, Soncino, 2011, A 159).

La stesura pittorica larga e indefinita riscontrabile nella figura del giovane Ascanio potrebbe suggerire l’intervento di un aiuto, forse il cosiddetto “Maestro di San Giacomo alla Marina”, ipoteticamente identificabile (Zennaro) con Giuseppe Assereto, per l’appunto il miglior allievo di suo padre Gioacchino.

                                                         

Stima   € 25.000 / 35.000
29

Attribuito ad Alberto Carlieri

(Roma 1672-1710)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA CON LA MORTE DI SENECA                                                     

olio su tela, cm 175x240          

                                                                                       

Tradizionalmente riferita alla produzione giovanile di Giovanni Paolo Panini, l’imponente prospettiva qui offerta rimanda indubbiamente al mondo della scenografia teatrale fiorito in Emilia e in particolare a Bologna nel primo quarto del Settecento, e poi diffuso nelle principali corti d’Europa. A quell’ambiente, e in particolare ai modelli di Francesco Bibiena adottati, tra gli altri, da Antonio Joli e Francesco Battaglioli, fanno infatti riferimento la fuga “per angolo” dei portici colonnati, il lessico architettonico fantasioso e libero da preclusioni accademiche e, non ultimo, il drammatico episodio di storia romana posto abilmente all’intersezione dei due porticati, dai quali accorrono, vere e proprie comparse nello spettacolo teatrale, personaggi secondari a commentare il tragico evento.

Sono proprio queste figure, molto precise nella fisionomia e negli accordi cromatici, a suggerire il nome di Alberto Carlieri, generalmente conosciuto per prospettive architettoniche simmetriche e accademizzanti, ma aperto occasionalmente a soluzioni impreviste. Come suggerisce Giancarlo Sestieri, che ringraziamo per l’opinione espressa da fotografia, le figure nella tela qui offerta devono paragonarsi, in particolare, a quelle dipinte dal Carlieri nella serie di prospettive architettoniche con scene sacre e profane ora riunite nel museo dell’abbazia di Montecassino (cfr. G. Sestieri, Il capriccio architettonico in Italia nel XVII e XVIII secolo, Roma 2015, I, pp. 177-78, figg. 27 a-c). Ne troviamo di simili anche nella Cacciata dei mercanti dal Tempio e nella Prospettiva con Sansone e Dalila dell’artista romano (Sestieri, 2015, cit. p. 169, fig. 19 e p. 173, fig. 23, rispettivamente) e in altre tele (ibidem, figg. 30 a-b) che, come la nostra propongono soluzioni scenografiche più complesse del consueto e un uso più libero e ridondante dell’ornato.

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
28

Pittore fiorentino nella cerchia di Fabrizio Boschi, metà sec. XVII

ABRAMO SERVE MENSA AGLI ANGELI

LA RACCOLTA DELLA MANNA

olio su tela, cm 145x184

(2)

 

Provenienza

collezione privata

 

I due grandi dipinti da sala, che formano un pendant, rappresentano scene tratte dall’Antico Testamento.

La seconda tela narra l’episodio della Raccolta della manna inserito nel libro dell’Esodo (16, 15-19 ). A sinistra, Mosè, presentato di profilo, indica con un gesto solenne la miracolosa discesa del  cibo divino che il popolo ebreo raccoglie entro recipienti preziosi o, come la figura femminile sulla destra, servendosi della veste.

Nel primo dipinto è presentato invece l’episodio tratto dal libro della Genesi (18, 8-15) in cui si narra che Abramo servì a mensa tre angeli che gli erano apparsi come pellegrini. Proprio in questa occasione gli angeli annunciarono ad Abramo che la moglie Sara, nonostante l’età avanzata, avrebbe avuto un figlio, Isacco, assicurando pertanto la sua discendenza. Nella tela il patriarca incede portando un piatto colmo di cibo verso il tavolo al quale sono seduti i tre angeli, mentre alla sua sinistra Sara, il volto non più fresco in accordo con il testo biblico, viene raffigurata mentre ascolta la predizione della sua maternità. 

Le due tele sono legate fra loro sia per i temi ripresi dall’Antico Testamento, ma anche per le misure, per la stessa cornice riccamente intagliata e dorata e per lo stile. Entrambe infatti rivelano i tratti stilistici della scuola fiorentina del Seicento e sono da attribuire a una stessa mano influenzata dalla lezione di Fabrizio Boschi.

La tela con la caduta della manna si avvicina alla nota trattazione dello stesso soggetto siglata dal Boschi e che appartiene alle Gallerie fiorentine (inv. 1890 n. 3810). Il nostro dipinto si rivela tuttavia molto variato, ed è da ritenersi di alcuni decenni posteriore, come suggerito dalla stesura più morbida e atmosferica nonché dai toni ribassati rispetto allo squillante cromatismo della giovanile tela boschiana. La figura di Mosè è ripensata nella posa e nell’atteggiamento e anche le due figure femminili al centro nel nostro quadro sono invertite e anch’esse variate rispetto alle figure corrispondenti nel capolavoro boschiano.

Sembra trattarsi, comunque, di un omaggio intenzionale al Boschi, da parte di uno stretto allievo operante nella sua bottega e che aveva accesso ai suoi disegni o comunque conosceva l’opera del maestro.

La composizione raffigurata nel dipinto con Abramo che serve mensa agli angeli rimanda invece a un disegno della collezione Santarelli al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi n. 1610 S, già attribuito al Poccetti, al Bilivert e a Bartolomeo Salvestrini, sebbene non manchino elementi di contatto proprio con lo stile disegnativo di Fabrizio Boschi.

Al di là dell’attribuzione di questo disegno, le due tele mostrano rapporti stringenti proprio con Fabrizio Boschi, tanto da indurre a ricercare l’autore fra gli allievi più stretti del maestro fiorentino. Filippo Baldinucci stila un breve elenco di allievi tra cui sono presenti i figli di Fabrizio, Francesco e Giuseppe, dei quali non si conoscono opere,  Simone Pignoni e Jacopo Chiavistelli, con nessuno dei quali tuttavia i nostri dipinti mostrano relazione stilistica. Sempre nel Baldinucci troviamo però notizia di un interessante artista, di cui ad oggi purtroppo si conoscono solo poche opere, e al quale il biografo dedica un profilo elogiativo in calce alla vita di Fabrizio, di cui fu il più diretto e importante e collaboratore (p. 652-653). Si tratta di Giovanni d’Angelo Rosi “uomo d’amabili qualità” che “stette col Boschi per lungo tempo, e l’aiutò nell’opere” (p. 652).

Confronti significativi si possono istituire tra Abramo serve a mensa gli angeli e le opere note del Rosi tra le quali si segnalano la pala firmata con la Madonna del Rosario nella Chiesa priorale di Tirli (Firenzuola, Firenze) e le due tele laterali della cappella di San Gregorio nella cattedrale di Colle Val d’Elsa (Siena), raffiguranti rispettivamente la Sacra Famiglia con San Nicola e San Girolamo, San Carlo Borromeo, Sant’Agostino e San Francesco in gloria, documentate tra il 1662 e il 1663.

I due dipinti potrebbero pertanto costituire il primo esempio noto di quadri da sala riferibili a Giovanni Rosi. L’ambientazione all’aperto della scena sembra rimandare a una prerogativa dell’arte del Rosi evidenziata da Baldinucci, ovvero la sua abilità “nel colorire scene boschereccie” (p. 652). Non sappiamo con certezza le date anagrafiche dell’artista, ma il Baldinucci riporta che Rosi visse settantasei anni e che morì nel 1673 da cui si può dedurre che il pittore nacque verso il 1597. Il pittore risulta comunque documentato tra il 1628, anno in cui si immatricolò nell’Accademia del Disegno di Firenze, e il 1671 (cfr. S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700, I, Biografie e opere, Firenze, 2009 , p. 239). Si ringrazia Giovanni Pagliarulo per il riferimento attributivo e le preziose indicazioni.

 

 

 

Stima   € 60.000 / 80.000
27

Margherita Volò Caffi                                                     

(Milano ? 1647 - 1710)    

COMPOSIZIONE FLOREALE CON TULIPANI, ROSE E NARCISI

COMPOSIZIONE FLOREALE CON TULIPANI, NARCISI E GELSOMINI ENTRO VASI E CORBEILLE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 89x138

(2)                                                                       

 

Capolavori dell’artista milanese, le tele qui offerte propongono, anche in virtù dell’importante formato, un’ampia campionatura dei fiori da lei prediletti e delle soluzioni adottate per la loro presentazione. Disposti all’aperto e appena sfalsati su un piano, si alternano infatti vasi metallici riccamente sbalzati, semplici contenitori in ceramica e cesti intrecciati, mentre corolle di gelsomino sono disposte in un piatto.

La raffigurazione di fiori diversi (rose, anemoni, tulipani, giunchiglie e gelsomini) anche al di là della verosimiglianza stagionale appare in funzione dell’alternanza dei loro colori luminosi e vibranti contro il fondo scuro.

Tipiche della fortunata produzione della Caffi, le tele qui proposte si confrontano agevolmente col corpus riunito a titolo di esemplificazione nel volume di Ulisse e Gianluca Bocchi (Naturaliter. Nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, pp. 78-101).

 

                                               

 

Stima   € 60.000 / 80.000
23

 

Scuola emiliana, prima metà del sec. XVII

RITRATTO DI GENTILDONNA CON VASO DI FIORI                                 

olio su tela, cm 196x123

 

Provenienza

Collezione privata

 

La tela qui proposta, proveniente da una importante collezione privata, mostra il ritratto a figura intera di una gentildonna vestita con un elegante abito di velluto nero. Nell’impaginazione solenne con la figura in piedi, leggermente ruotata nel busto in modo da rendere la posa più dinamica, nella sobrietà dell’ambientazione e dei toni scuri, rischiarati solo dalle luci sul volto e sulle mani, è possibile riconoscere i codici di rappresentazione della ritrattistica aulica in voga in Emilia nella prima metà del Seicento.

Vi sono elementi che avvicinano la grande tela al naturalismo rigoroso e malinconico di Ludovico Carracci, ai modelli femminili di Agostino e di Lavinia Fontana e alla resa pittorica dei ritratti per gli Este di Matteo Loves.

I dettagli dell’abbigliamento dell’effigiata, come i polsini a lattughe inamidate e l’ampio colletto di pizzo a palmette con doppie volute, permettono di datare più precisamente la nostra opera intorno agli anni trenta del Seicento, considerando anche le affinità stilistiche con il ritratto di Francesco I d’Este del Musées d’Art et d’Histoire di Ginevra dipinto intorno al 1633 da Matteo Loves (La pittura in Emilia Romagna. Il Seicento, tomo secondo, a cura di J. Bentini, L. Fornari Schianchi, Milano, 1993, fig. a p. 225).

 

 

 

 

Stima   € 20.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

 

Giovanni della Robbia

(Firenze, 1469 - 1529/30)

QUATTRO ANGELI TRASPORTANO IN VOLO LA MANDORLA MISTICA, 1515 circa

lunetta in terracotta invetriata policroma; cm 97,5 x 138 x 13 in cornice ornata da un festone di frutti sostenuto da due vasi ad anfora

sulla cornice in basso a sinistra iscritto “E. 618” (probabile numero d’inventario del Kunstgewerbe Museum di Colonia).

 

 

Provenienza

Parigi, mercato antiquario; Oppenheim, collezione privata; Colonia, Kunstgewerbe Museum (1888/1890 - 1930); Firenze (?), collezione privata; Firenze, vendita Sotheby’s, 10-11 maggio 1984, n. 927; Londra, vendita Christie’s, 24 aprile 1986, n. 63.

 

Bibliografia

W. Bode, relazione inedita (?), ante 1890; C. de Fabriczy, Un’opera di Giovanni della Robbia, in “Archivio storico dell’arte”, III, 1890, p. 162; A. Springer, Handbuch der Kunstgeschichte. III. Die Renaissance in Italien, Leipzig 1896, p. 71, fig. 83; M. Cruttwell, Luca and Andrea della Robbia and their Successors, London - New York 1902, p. 336; A. Marquand, Giovanni della Robbia, Princeton 1920, pp. 87-88, n. 87; U. Middeldorf, relazione inedita, 28 giugno 1969; R. Joppien, ‘Die geistige Haltung der eigenen Zeit’. Konrad Adenauer, Karl With und die Neuaufstellung des Kölner Kunstgewerbemuseums (1932), in “Wallraf-Richartz-Jahrbuch”, 42, 1981, pp. 237-266 (alle pp. 252-255); Sotheby Parke Bernet Italia, catalogo della vendita, Firenze 10-11 maggio 1984, n. 927; Christie, Manson & Woods Ltd., catalogo della vendita, Londra 24 aprile 1986, p. 39, n. 63; G. Gentilini, in Il Museo Bandini a Fiesole, a cura di M. Scudieri, Firenze 1992, pp. 179-180.

 

Bibliografia di riferimento

G. Gentilini, I Della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, Firenze 1992, pp. 279-328.

 

 

Quest’animata, rutilante lunetta invetriata, che vanta una cospicua letteratura critica concorde nell’assegnarla a Giovanni della Robbia e una ragguardevole vicenda collezionistica essendo appartenuta al Kunstgewerbe Museum di Colonia, si pone fra le più rappresentative testimonianze del maestro confluite sul mercato antiquario negli ultimi decenni. Giovanni - che fu il più autonomo e prolifico tra i numerosi figli ed eredi nell’arte di Andrea della Robbia, dal quale si distingue per una spiccata esuberanza cromatica e ornamentale, ma anche per una maggiore vivacità formale di matrice verrocchiesca - rivela infatti in quest’opera le sue doti migliori, immune dalle frequenti contaminazioni di un’operosa bottega. Le cogliamo nella notevole qualità del modellato, forbito nella definizione arguta dei volti ricciuti, vibrante nello sviluppo dei panneggi sbattuti dal vento, nella fantasiosa e raffinata vena decorativa delle vesti, impreziosite da monili e ricami, nel rigoglioso festone vegetale che percorre la cornice sorgendo da due eleganti vasi all’antica, come pure nelle tonalità vivide e nel virtuosismo tecnico dell’invetriatura, che ottiene effetti naturalistici negli incarnati e cangianti screziature nelle ali, tinteggiando nel cielo cirri vaporosi.

Il rilievo (sezionato nella parte narrativa in sei pezzi dissimulando le commettiture lungo i profili, in modo da agevolare la cottura e il trasporto, secondo le consuetudini tecniche della produzione robbiana) raffigura quattro sorridenti angeli in volo che recano e innalzano sullo sfondo di un cielo turbinoso un’aurea ‘mandorla’ raggiata, sorretta e coronata da due paffuti serafini (oggi priva dell’immagine in essa racchiusa). Si tratta della Mandorla Mistica (Vesica Piscis), diffuso simbolo di vita e d’intersezione fra due mondi, ossia di comunicazione tra il divino e l’umano, tradizionalmente associata nell’iconografia cristiana alla figura di Cristo (perlopiù in Maestà) o della Madonna (spesso Assunta, ma talora anche col Bambin Gesù). Gli angeli, che indossano ampie vesti diaconali di foggia simile, differiscono nei diversi colori delle tuniche (rosso, azzurro, verde, giallo) allusivi forse alle Virtù cristiane - ma li associa in due coppie una medesima colorazione delle maniche, dei nastri e dei colletti (giallo, azzurro) -, nella forma sofisticata dei monili e degli ornati che ne impreziosiscono lo scollo, nell’articolata gestualità, nei tratti fisionomici ed espressivi individuati e variati con sottile acume, così come nella vaporosa acconciatura delle chiome ricciute, in un caso arricchita da un nastrino giallo.

Espressione di una ben calibrata varietà inventiva e di un notevole magistero tecnico è anche il lussureggiante festone di frutti, verzure e fiori che ravviva l’ampia cornice di tipo marmoreo, profilata da modanature a ovoli e intreccio (sezionata in sette pezzi). Il serto, costituito da dodici mazzi di specie vegetali diverse (grappoli d’uva, limoni, cetrioli, agrumi, melograni, spighe, castagne, carciofi, mele, zucche, pigne, etc.), cadenzati dai fiocchi di un nastro azzurro, è sostenuto da due ricercati vasi ad anfora, con corpo sbaccellato e finemente ornato da motivi all’antica, invetriati d’azzurro a imitazione del lapislazzuli, che posano su basi di gusto archeologico.

L’opera, donata al Kunsgewerbe Museum di Colonia (all’indomani della sua istituzione nel 1888) da un collezionista di Oppenheim il quale l’aveva acquistata presso un mercante di Parigi, venne presentata nel 1890 da Cornelius von Fabriczy in un contributo monografico dove già si formulava con efficaci motivazioni la paternità di Giovanni della Robbia, sulla scorta dell’autorevole parere di Wilhelm Bode, direttore del museo di Berlino, che aveva rettificato una precedente attribuzione orale ad Andrea sottolineandone altresì la derivazione compositiva dal Monumento Forteguerri del Duomo di Pistoia scolpito nella bottega del Verrocchio. Tale riferimento, confermato nel 1920 da Allan Marquand nel volume dedicato a Giovanni della Robbia del suo fondamentale repertorio robbiano, è stato in seguito ampiamente condiviso (in ultimo Gentilini 1993), anche dopo la vendita del rilievo da parte del museo tedesco nel 1930, e ribadito nel 1969 da Ulrich Middeldorf in una comunicazione ai privati proprietari dell’opera, ricomparsa negli anni Ottanta sul mercato antiquario internazionale (Firenze, Sotheby’s, 10-11 maggio 1984; Londra, Christie’s, 24 aprile 1986).

La paternità di Giovanni della Robbia, quale si evince con chiarezza dagli aspetti formali e dalle invenzioni decorative che abbiamo indicato - dove spiccano le eleganti anfore all’antica’conformi a una tipologia ricorrente nella sua produzione di vasi ornamentali -, è infatti dichiarata con assoluta evidenza dall’impianto compositivo d’ispirazione verrocchiesca riproposto con minime varianti nei numerosi rilievi del maestro che raffigurano la Vergine Assunta, assisa entro una mandorla portata in cielo da quattro simili angeli, talora in atto di donare la cintola a San Tommaso (San Giovanni Valdarno, Madonna delle Grazie, 1513-15; Pisa, Campo Santo, 1518-20; Volterra, Sant’Antonio e Seminario di Sant’Andrea, 1520/25 ca.; Pistoia, Ospedale del Ceppo, etc.). Tra questi la spettacolare Madonna della Cintola di San Giovanni Valdarno, frutto della prestigiosa committenza delle famiglie Salviati e Buondelmonti verso il 1515, costituisce il riferimento più efficace, sia per gli aspetti tipologici, come evidenzia anche il festone vegetale, sia per l’elevata qualità della modellazione, che appare addirittura più sostenuta nel rilievo in esame al punto da garantire una sua modellazione autografa e suggerire una datazione anteriore.

Inoltre, i riscontri indicati sembrano attestare che la Mandorla Mistica (ritagliata al suo interno in un momento successivo all’invetriatura) accogliesse in origine anche in questo caso l’immagine della Madonna Assunta, ma le proporzioni più contenute e l’assenza delle due teste di cherubini che solitamente fiancheggiano Maria come un cuscino sovrapponendosi ai raggi, lasciano spazio ad altre ipotesi. Si può dunque pensare, come già prospettato (Gentilini 1992), che la mandorla racchiudesse la figura del Bambin Gesù benedicente, come nei rilievi di Giovanni della Robbia (tratti da composizioni smembrate) conservati oggi nel Museo Bandini di Fiesole e nel Musée des Antiquités di Rouen; ma anche che la lunetta fosse stata concepita per incorniciare una più antica immagine venerata, pertanto priva sin dall’origine del rilievo centrale e resecata durante la messa in opera per meglio adattarsi alla figura preesistente.

 

 

                                                                                                          Giancarlo Gentilini

                                                                                                                    

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
21

Teodoro Filippo di Liagno detto Filippo Napoletano

(Roma 1589 – 1629)

PAESAGGIO COSTIERO CON CASCINALE E PESCATORI

olio su tela, cm 46,5x73,3

 

Provenienza

Sotheby’s, Firenze, 17 giugno 1987, lotto 65

 

Bibliografia

M. Chiarini, Alcuni disegni di Filippo Napoletano nelle collezioni della Biblioteca Marucelliana, in “Copyright 1988-90. Rivista della Biblioteca Marucelliana” 1990, pp. 24 e s.; M. Chiarini, Teodoro Filippo di Liagno detto Filippo Napoletano 1589-1629. Vita e opere, Firenze 2007, pp. 170, 172, fig. 149; p. 324, n. 105; p. 364, n. 151 (per il disegno preparatorio).

 

Passato in asta a Firenze come opera di Francesco Bott, malnoto artista del XVIII secolo, il dipinto fu riconosciuto da Marco Chiarini come opera di Filippo Napoletano e posto, più precisamente, in relazione con un foglio nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, studio dal vero per il cascinale che, al centro del paesaggio, ne è il vero protagonista. Sebbene questo dato tipicamente toscano rimandi al soggiorno fiorentino dell’artista, è possibile che l’esecuzione del dipinto qui offerto debba essere ritardata ai primi anni Venti, quando Filippo era ormai tornato a Roma. Numerosi sono infatti i confronti istituibili con gli affreschi eseguiti a Roma nel palazzo del cardinal Bentivoglio (ora Rospigliosi-Pallavicini) probabilmente nel 1622-23, per lo più raffiguranti paesaggi costieri. Nelle sale del palazzo si misurarono in quell’occasione i pittori di paesaggio più moderni e aggiornati, sebbene diversi per formazione: Filippo Napoletano, per l’appunto, Pietro Paolo Bonzi e Agostino Tassi.

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
18

Girolamo Siciolante, detto Siciolante da Sermoneta                        

(Sermoneta 1521  c. 1580)                                                 

CRISTO CROCEFISSO CON I DOLENTI                                           

olio su rame, cm 45x33,5                                                  

                                                                          

Provenienza                                                               

Firenze, Pandolfini, asta del 14-15 ottobre 2002, lotto 539, come cerchia 

di Giovanni Bizzelli.                                                     

                                                                          

Bibliografia                                                              

M. Chiarini, Un dipinto di Girolamo Siciolante da Sermoneta: Cristo in    

croce con la Madonna e San Giovanni, in Commentari darte 6, 2000, 15/17,  

pp. 47-48.                                                                

Stima   € 12.000 / 15.000
1 - 30  di 46