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Filippo Carcano
(Milano 1840 - Milano 1914)
INTERNO DEL DUOMO DI MILANO
olio su tela, cm 129x167
firmato in basso a destra
sul retro: etichetta della mostra "Natura e realtà quotidiana nella pittura milanese e ticinese tra Ottocento e Novecento (1870-1910). Pinacoteca Cantonale Giovanni Zust - Rancate - TI - Svizzera"

Interno del Duomo di Milano, cui si riferisce questa nota, è identificabile, come documenta senza possibilità di errore la lettura dei quotidiani e delle pubblicazioni del tempo, con l'opera dal titolo omonimo presentata da Filippo Carcano alla rassegna nazionale di Brera del 1872 (cat. p. 66 n. 601) alla quale il pittore partecipa con più dipinti - esattamente cinque: Una partita al bigliardo, già visto a Brera nel 1867, Idillio, Interno della chiesa di Santa Maria presso San Celso in Milano, Un passatempo ed il citato Interno del Duomo. Quando dipinge questo Interno del Duomo, un soggetto caratteristicamente ambrosiano e perciò assai caro a un pittore genuinamente milanese come il Carcano, tanto è vero che egli tornerà su questo tema anche in seguito - interni del duomo di Milano figurano infatti a Milano, a Brera, nel 1874, alla esposizione nazionale di Napoli del 1877, alla Promotrice di Torino del 1879, ancora a Milano, alla Permanente, nel 1893 e, infine, alla IX biennale di Venezia, nel 1910, dove peraltro l'autore potrebbe aver inviato un lavoro già esposto in precedenza - Carcano ha superato da poco la trentina, essendo nato nel 1840, ma ha già alle spalle una brillante e movi-mentata carriera, costellata, come del resto puntualmente succede agli innovatori, di polemiche, anche aspre e violente, condotte principalmente dal Mongeri e, sulla scia di questo, dal Cosmate dalle colonne de "La Perseveranza" e de "Il Pungolo", polemiche in cui l'atto d'accusa ricorrente è l'utilizzazione da parte del pittore in certi suoi quadri del mezzo fotografico. Il che avviene soprattutto nel cuore degli anni Sessanta, fra il 1864 ed il 1867 - gli anni appunto in cui la polemica raggiunge i toni più accesi -, in occasione della presentazione di opere come La piccola fioraia, La scuola di ballo e Una partita al bigliardo, dove il radicale richiamo all'attualità ed al vero non poteva assolutamente piacere a un critico come il Mongeri, fervente sostenitore di regole accademiche non più proponibili e di fatto superate dalle richieste di una società in fase di trasformazione ed avviata ora verso differenti e più moderne forme di vita, di conoscenza e di gusto, quali appunto quelle della avanzante età positivista. Dove infatti, nel clima di una cultura artistica dominata dal progresso scientifico e da un fare pittorico riscoperto nell'attualità del vero e della realtà quotidiana, trova ampia legittimazione tra i pittori impegnati nella resa del vero l'utilizzazione della fotografia quale primo mezzo per impostare l'immagine e nel contempo quale strumento più adeguato per avvicinarsi alla realtà in modo non convenzionale, grazie alla singolarità ed alla concretezza di certi tagli ed alla possibilità, finora inedita, di catturare l'attimo. Come del resto suggeriva da tempo anche la critica d'arte di tendenza più avanzata, a cominciare da Pietro Selvatico che fin dagli anni Cinquanta si era fatto sostenitore del ricorso alla fotografia come aiuto e supporto della pittura in direzione del vero in più di uno scritto, uno dei quali emblematico anche nel titolo, Sui vantaggi che la fotografia può portare all'arte (cfr. P. Selvatico, in Scritti d'arte, Firenze 1859, pp.337-341). Pur se nel caso di Carcano, che aveva sperimentato l'uso della fotografia fin dagli anni Sessanta, forse anche a seguito della conoscenza di modelli francesi, il problema appare piuttosto complesso dal momento che lo spazio raffigurato nei suoi dipinti si rivela di tali dimensioni ed ampiezza da non poter essere il più delle volte inquadrato dall'obiettivo fotografico: una ulteriore prova che la fotografia per Carcano era ben altro che uno studio preparatorio da trasferire meccanicamente sulla tela mediante calcolati procedimenti di quadrettatura e di ingrandi-mento, come ha erroneamente scritto, senza prova alcuna, qualche critico del suo tempo provocando la risentita - e giustamente - reazione del pittore. Essa invece altro non era se non uno strumento introduttivo alla ricerca di un linguaggio nuovo, più vero ed immediato, in stretto rapporto con la realtà visiva, oltre che, naturalmente, un aiuto alla memoria nella ricostruzione di quanto visto in un determinato momento e in determinante condizioni ambientali. Un rapporto con la fotografia nei termini di cui si è detto è avvertibile anche nel taglio dinamico e di grande concretezza visiva di questo Interno del Duomo, in cui l'artista, spalle rivolte all'altare maggiore, riprende la navata di sinistra in tutta la sua profondità e parte del transetto focalizzando di questo un'ampia sezione della navatella mediana, chiusa sullo sfondo dalla cappella della Madonna dell'Albero, uno dei luoghi privilegiati della devozione milanese, e delimitata in primo piano dalle panche destinate ai fedeli e dal basamento di un pilastro. Una veduta, insomma, di grande effetto prospettico che si attua nell'allungarsi della navata fra i pilastri e la parete fino all'estremo del campo visivo, esaltato, come del resto il transetto, dalla luce che entra dalle vetrate lasciando intravedere, da un lato, i motivi pittorici delle medesime con Storie della Vergine eseguite fra il 1842 ed il 1847 da Giovan Battista Bertini, e facendo emergere, nel contempo, dalla penombra un insieme di particolari strettamente funzionali alla realistica articolazione spaziale dell'am-biente, quali i rilievi degli elementi plastici, gli oggetti dei pilastri, gli spigoli delle panche, gli sbalzi e le sporgenze della decorazione gotica del candelabro Trivulzio, vero e proprio fulcro della costruzione grazie alla sua collocazione centrale, ed ancora, infine, il brillio dei lumi accesi. Ed è ancora merito della luce, una luce viva e reale, strettamente connessa a concreti valori spaziali, ed infatti dif-ferentemente diffusa in un progressivo passaggio da zone di luminosità espansa a parti in penombra, se nel tessuto pittorico risalta con particolare evidenza, fra le plastiche e monumentali architetture, la precisa e nitida definizione dei motivi geometrici e delle linee dei marmi della pavimentazione che con la loro calcolata scansione prospettica permettono di misurare la profondità dell'edificio. E pertanto, da questo punto di vista, il dipinto si inserisce a pieno titolo nel fortunato filone di quella pittura prospettica di interni che a partire dai lontani tempi del Migliara aveva ottenuto in ambito lombardo grande successo di critica e di pubblica e che tale sarebbe rimasta almeno per altri due decenni, fino a tutti gli anni Ottanta, grazie anche alla presenza sulla cattedra di prospet-tiva a Brera di un interprete assai felice come Luigi Bisi, dei cui lavori Carcano ricusa tuttavia la messa in scena e gli aspetti più freddamente scenografici per dare vita invece, in sintonia con i tempi nuovi, a vedute più aderenti al vero. Con esiti che si riflettono anzitutto sul linguaggio, affidato ora a una pennellata libera e sciolta e ad un vibrante tessuto croma-tico-luminoso che avvolge ed assorbe nel realistico ambiente spaziale cose e persone evidenziando di queste la diversità degli atteggiamenti, volutamente caratterizzati, oltre tutto, da un senso di casualità che accentua la veridicità delle azioni raffi-gurate: a cominciare dalla bambina in primo piano, che il pittore, con rara pespicacía, sorprende in un atteggiamento caratteristicamente infantile mentre, distratta, rincorre i suoi pensieri, per proseguire con le persone che pregano, con il visitatore che al centro della navatella del transetto osserva attento, sguardo rivolto verso l'alto, le strutture architettoniche dell'edificio, e, infine, con il chierichetto che sembra procedere in direzione del pittore, piazzato appena al di qua del pilastro, per riportare l'azione in primo piano, sulla stessa linea con le due figure di sinistra le quali, altrimenti, grazie alla loro posizione privilegiata, finirebbero per calamitare l'occhio dell'osservatore e minare di conseguenza l'equilibrio compositivo del dipinto. E pertanto queste figure, che l'artista sembra aver colto quasi di sorpresa, come in una istantanea fotografica, suggerita, fra l'altro, anche dal taglio orizzontale dell'immagine - insolita, infatti, in questo genere di vedute, abitualmente verticali - e dalla singolarità del punto di vista, che permette al pittore di dare alla composizione un più arioso respiro spaziale, si rivelano una ulteriore testimonianza della capacità di Carcano di catturare con rara intuizione sensitiva tutto quanto cade sotto il suo occhio e di visualizzarlo con altrettanto rara sensibilità pittorica nel momento stesso in cui esso si presenta. Da qui la resa impressionistica dell'immagine, mossa e vibrante, introduttiva a una lettura del vero come realtà fenomenica e quindi "oltre" quella concezione aneddotica del quadro che era già stata propria della pittura di genere, ormai in fase calante: e di conseguenza la pittura di Carcano rivela più di un legame con la più avanzata cultura del tempo, avvicinata attraverso la frequentazione, fin dai primi anni Sessanta, del mondo artistico d'Oltralpe e un'attiva partecipazione ai problemi che agitavano la coeva pittura lombarda, dalle ricerche in ambito naturalista all'emergente fenomeno della Scapigliatura, la quale con il suo fare luminoso e sfrangiato, percorso da mobilissime vibrazioni dinamiche, costituisce il fatto centrale del mondo artistico milanese degli anni Sessanta-Settanta. Pur se poi Carcano resta Carcano mantenendo nei confronti della Scapigliatura una concreta solidarietà costruttiva dell'immagine, la quale, se mai, lo avvicina più a Ranzoni che a Cremona, come attesta nel dipinto anche la brillante vivacità cromatica, tutta carcaniana, grazie alla quale le due figure femminili emergono in tutta la loro mossa plasticità dalla calda atmosfe-ra dell'interno. Ed allo stesso modo Carcano mantiene una sua autonomia linguistica nei con-fronti dei protagonisti delle vicende del naturalismo lombardo, di Mosé Bianchi anzitutto, citato espressamente nella figura del chierichetto, emblematica dei lavori del pittore monzese intorno ai secondi anni Sessanta. Ma si tratta di una citazione puramente strumentale cui Carcano ricorre per rovesciare i termini della questione e riformulare il problema del vero in modo più radicale, dal momento che dei chierichetti di Mosé Bianchi Carcano contesta l'originaria appartenenza alla pittura di genere per vivere invece queste figure, come del resto anche le altre del dipinto, quali anonimi interpreti della realtà quotidiana, della vita di tutti i giorni.

 

Giovanni Anzani

 

 

Bibliografia e antologia critica

Seconda Esposizione Nazionale di Belle Arti, catalogo della mostra, Milano 1872 (p. 66 n. 601);

F. Martini, La Seconda Esposizione Nazionale di Belle Arti a Milano, Venezia, Tipografia della Gazzetta, 1872;

Appio D'Ara, Scorsa all'Esposizione, VII, in "II Sole", 7 settembre 1 872; F. Filippi, Esposizione Nazionale di Belle Arti, XII. Pittori milanesi, in "La Lombardia", 17 settem-bre 1872;

L. Chirtani, L'Esposizione Nazionale di Belle Arti, in "Corriere di Milano" 29 settembre 1872;

 Esposizione Nazionale di Belle Arti, VIII, in "La Perseveranza", 4 ottobre 1872;

F. Dall'Ongaro, Seconda Esposizione Italiana di Belle Arti. Paesi, marine, interni, in "Gazzetta di Milano", 6 ottobre 1872;

Un'altra mezz'ora all'Esposizione di Belle Arti, in "Lo Spirito Folletto", XII, 1872, n. 588, 5 settembre 1872;

V. Bersezio, L'Esposizione Nazionale di Milano, V. Pittura di genere, in "L'Universo Illustrato. Giornale per tutti", VII, 1873.

 

"... diamo subito un lungo e sincero mi rallegro al signor Filippo Carcano, un internista di molto merito, un colorista di gran polso. L'interno del Duomo di Milano è un'opera solida, compatta, in cui ambiente e figura si uniscono in una bellissima armonia. Quando il signor Carcano espose a Torino la Partita di bigliardo che ho rivista quest'anno a Milano, lo accusarono di essersi troppo giovato della fotografia, quanto sia di vero in quest'ac-cusa io non voglio indagare; fotografia o no, il sig. Carcano maneggia il pennello con una mano sicura, pacato qualche volta, qualche volta ardito, abilissimo sempre". F. Martini, La Seconda Esposizione Nazionale di Belle Arti a Milano, Venezia, Tipografia della Gazzetta, 1872, pp.91-92.

 

 "Fra i molti quadri in cui la prospettiva è la parte più interessante, io stimo di molto superiore a tutti, quello del signor Filippo Carcano: "Interno del Duomo di Milano". Credo che il pittore sia giovane di età, ma questo è certamente un dipinto degno d'artista provetto, per chiunque sappia quali grandi difficoltà racchiuda, lo studio della prospettiva, alla quale molti sono gli appli-canti, ma pochi quelli che hanno la costanza di studio necessaria per riuscire. E il quadro del signor Carcano ha questo merito di più, che fin le macchiette vi sono dipinte con arte e diligen-za. Non parliamo poi dei vetri del Duomo, dai quali si riflette sulla tela una luce bellissima e verissima. Mi pare che le colonne figurino un pochino troppo sporche. E un'inezia". Appio D'Ara, Scorsa all'Esposizione, VII, in "Il Sole", 7 settembre 1872.

 

 "... Ammiro e lodo senza restrizione l'Interno del Duomo di Milano: qui la verità è sorretta da qualche cosa d'intimo, di ideale, di religioso, non facile a definire, ma che pur si trova sotto le volte di quel tempio magnifico: questo sentimento lo produce anche il quadro del Carcano, e per giunta avvii una riproduzione così esatta dell'ambiente, dell'atmosfera, della luce, e di tutti i particolari, come, oso dire, non si è mai veduto in tutti gl'interni del Duomo fatti a forza di rettifilo e di compasso. Per farsi un concetto giusto del merito e dell'effetto del dipinto, uno sguardo di volo non basta, perché la prima impressione, se fuggitiva, è anzi sfavorevole. Bisogna sedersi sul divano che gli sta in faccia, e fermarsi a guardarlo con occhio riposato, in modo che a poco a poco il dipinto prenda tutte le apparenze della verità, sia nell'insieme che nei particolari. Le pietre acquistano lucidezza, le modanature prendono rilievo, i santi delle vetrate si disegnano, il pavimento si distende giù giù per la chiesa, e brillano i lumi sugli altari. Quella macchietta di touriste, nel mezzo, ritto colle gambe larghe e colla testa alta a rimirare la volta, è vivo, e par quasi mobile la sua ombra proiettata. Avvicinandosi, ogni contorno sparisce e non si vedono che sgorbi: non c'è una linea che vada diritta, e il pennello adoperato ad una sensibile distanza  lascia sulla tela mille impronte strane e capricciose. Il sistema del Carcano è precisamente all'opposto dei prospettici classici ed accademici i quali dettagliavano tutto in modo che a ben giudicare i lavori bisognava quasi mettere il naso sulla tela". Filippi, Esposizione Nazionale di Belle Arti: X111. Pittori milanesi, in "La Lombardia", 17 settembre 1872.

 

"Carcano Filippo di Milano è un colorista di polso, un pennello talora arrischiato e senza freno, talora calmo e pacato, ma sempre amoroso della luce, e sempre sicuro nei suoi andamenti. L'Interno del Duomo di Milano e l'Interno della chiesa di Santa Maria presso San Celso sono due pitture di mano maestra, e di colore succoso ...La disinvoltura del Carcano nel lavoro è veramente ammirabile; egli adopera i grossi impasti, le velature, le sfregature e la coltellina, le dita e l'unghie, il manico del pennello e credo anche il curadenti se cade in acconcio, e con tutto fa bene: è destro e riesce". Luigi Chirtani, L'Esposizione Nazionale di Belle Arti, in "Corriere di Milano", 29 settembre 1872.

 

 "Filippo Carcano ha voluto farci vedere di nuovo quel suo vecchio quadro: Una partita di bigliardo, eseguito con quel sistema tutto meccanico, d'un effetto ottico singolare, ma che ora il Carcano s'è persuaso che va lasciato allo stereoscopio. A questo ha aggiunto due quadri nuovi, un interno della chiesa di San Celso, e un interno del Duomo di Milano. Chi volesse giudicare questi due quadri considerandoli come lavori di prospettiva, si troverebbe non poco impacciato; tanto in essi mancano gli elementi dell'arte; particolarmente nel Duomo che è disordinato nelle proporzioni. Ma, riconosciuto questo difetto capitale, non si può negare che in essi il Carcano si mostra coloritore fino ed ardito. Nel San Celso tutta la parte lontana, coll'altare di valori così indefiniti e così fusi, col tono rosso dei parametri che vi dà risalto, è pienamente riuscita. Il gros-so pilone che è sul primo piano a destra non è abbastanza sostenuto di colore, per cui si sprofonda anziché staccarsi dal fondo. Nel Duomo, tutto di un colore bituminoso e che sente lo schizzo, ci hanno però delle parti di una verità grande; ed è tale la gran muraglia cogli altari appoggiati ad essa. Il quadro poi è animato da delle figurette, ricche di colore e collocate con molta arte a bilanciare le masse forti della parte opposta. Sono questi, insomma, due quadri, che se mostrano una imperdonabile negligenza di disegno prospettico, mettono però in eviden-za de' pregi pittorici non comuni". Esposizione Nazionale di Belle Arti: VIII, in "La Perseveranza", 4 ottobre 1872.

 

 "... vogliamo qui ricordare l'interno del Carcano, che ha saputo conservare all'immenso Duomo lombardo il suo carattere di grandezza". Dall'Ongaro, Seconda Esposizione Italiana dí Belle Arti. Paesi, marine, interni, in "Gazzetta di Milano", 6 ottobre 1872.

 

"Il Carcano conosciuto per la sua fotografia applicata alla pittura, ha tentato un nuovo genere, la prospettiva. C'è un interno di duomo nel quale, se togli il colore sporco che lo fa parere un duomo affumicato, è forse il migliore dei quadri da lui fatti finora". Un'altra mezz'ora all'Esposizione di Belle Arti, in "Lo Spirito Folletto", XII 1872, n.588, 5 settem-bre.

 

 

 

 

 

Nota biografica

Filippo Carcano, nato nel 1 840, iniziò a frequentare nel 1857 l'Accademia di Brera, dove fu allievo di Hayez e di Bertini e dove riscosse un notevole apprezzamento fin dalla sua prima presenza alle mostre dell'Accademia nel 1861; nel 1862, fra l'altro, vi ottenne il Premio Canonica con Federico Barbarossa e il duca Enrico II Leone a Chiavenna. Altra importante opera di tema storico è Margherita Pusteria che si incammina al patibolo esposta a Brera nel 1869 e acquista-ta da un collezionista d'oltreoceano. Negli anni successivi la critica gli riservò attenzioni diversificate e non sempre lusinghiere e in ambito ufficiale il riconoscimento pieno gli giunse nel 1874 quando divenne socio onorario di Brera. In questi stessi anni Carcano si dedicò anche a scene di genere oscillanti fra un oggettivo natu-ralismo, come nella Scuola di ballo e nella Partita al bigliardo, e temi ispirati talora a un pateti-co sentimentalismo come in Buon cuore di fanciulli. Acquisizioni importanti dei suoi lavori - nel 1881 dal Comune di Milano e nel 1882 dal Governo del Regno per la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma (con l'assegnazione del Premio Principe Umberto) - sancirono definitivamente la qualità del suo lavoro e contribuirono alla sua fama negli ambienti più interessanti del capoluogo lombardo. La sua attenzione fu, da allora, dedicata principalmente al paesaggio che, negli ultimi anni Ottanta, sviluppò in direzione fortemente naturalistica. Nell'ultimo decennio il suo lavoro trovò in temi di carattere mistico-simbolista gli stimoli per una nuova narrazione. Morì a Milano nel 1914.

Trattativa Privata 

Alberto Pasini

(Busseto (Parma) 1826 - Cavoretto (TO) 1899)

L'ASSEDIO

olio su tela, cm 78x148

firmato e datato "1861" in basso a destra

 

Bibliografia

Inedito

 

 

"Alla fine del 1851, la situazione politica, la mancanza di prospettive di lavoro e, d'altro canto, la fiducia riposta in lui dal grande Paolo Toschi, lo decisero a lasciare Parma per Parigi. Qui la fortuna, ma anche le sue notevoli capacità grafiche ed espressive gli fornirono l'opportunità di lavorare presso il maggior studio francese di litografia, quello di Charles ed Eugène Ciceri. Pasini si trovò, dunque, inserito in uno degli ambienti più ricchi di stimoli e possibilità cognitive della capitale culturale del XIX secolo.

I momenti di libertà, gli permettevano di scoprire le coste atlantiche a Etrétat, Dieppe e di riprendere scorci della foresta di Fontainebleau. Erano esperienze espresse con dipinti ad olio e la loro esecuzione s'ispirava alla cosiddetta Scuola di Barbizon. Questa, ponendosi tra i suoi obiettivi anche quello di innovare la pittura di paesaggio attraverso una più efficace adesione alla realtà, corrispondeva ad una esigenza particolarmente sentita dal nostro. Eppure, in seguito, il periodo di Fontainebleau fu tralasciato dal Pasini in quanto non così aderente al vero rispetto al modo, senz'altro più radicale, con cui egli venne, in seguito a percepire il problema relativo alla rappresentazione vedutistica.

La litografia La sera, del 1853, lo fece ammettere per la prima volta al Salon parigino di quell'anno. Dopo questa affermazione estremamente importante, Pasini lasciò i Ciceri, ed entrò nel 1854 nello studio del prestigioso Chassériau. Il validissimo e amabile maestro segnò il suo destino, per i suoi insegnamenti e per la possibilità che gli offrì di sostituirlo, come pittore addetto, nella Missione del Ministro Plenipotenziario P. Bourée, allora in partenza per la Persia. La Missione lasciò l'Europa a fine febbraio 1855 e, dopo due percorsi marittimi, (di cui uno fu il periplo della penisola arabica) ed una cavalcata di migliaia di chilometri, giunse il 2 luglio nella capitale persiana.

Pasini soggiornò dieci mesi a Teheran che riprese, con i dintorni, in moltissimi appunti. Il viaggio di ritorno nel 1856, avvenne in compagnia del linguista Barbier de Meynard. Questa volta egli attraversò il Nord della Persia e l'Armenia arrivando, infine, al Porto di Trebisonda per l'imbarco verso l'Europa. Durante tale straordinaria avventura per terra e per mare, davanti a lui si erano susseguiti scenari d'imponenza eccezionale, tappe di grande bellezza e suggestione che egli aveva puntualmente registrato con l'occhio attento e riportato con mani rapidissime, disegno dopo disegno su piccoli album portatili.

Tornato a Parigi, compose, con dodici tra le immagini più significative, l'ultima sua opera litografica: Viaggiando nell'Egitto in Persia e nell'Armenia (1857-1859 Parma e Parigi), quasi un'illustrazione del libro "Trois ans en Asie" che il Conte J. A. De Gobineau, altro componente della missione, aveva redatto dell'evento.

In seguito, Pasini mise a frutto quell'immenso patrimonio di memorie dando spazio e vita nei suoi dipinti ai piccoli caffè persiani sotto gli alberi, alle cavalcate sfrenate e alle fantasie delle scorte, alle cacce al falco, alle lunghe carovane. Nel lavoro sempre più si riaffacciò quello che egli prediligeva: la pietrosa Persia del sud, la Persia orrida la cui immensità e abbandono portava il suo animo "...ad una malinconia non disgiunta da una sensazione di calma e di pace...".

E proprio là, dove si era formata la sua contrattualità solitaria con lo spazio egli ritornerà negli ultimi lavori vivendone la nostalgia in un diverso tocco di mano. Alla fine del 1859 siamo al secondo viaggio nell'Oriente Mediterranico. Di questo itinerario daranno testimonianza gli studi eseguiti al Cairo, in cui Ugo Ojetti vedeva: "...non la convenzionale fornace ardente dai colori urlanti, incandescenti, ma tutta la mestizia di quella pallida afa canicolare..."; come pure resteranno gli studi del Deserto Arabico, del Sinai, delle coste libanesi e infine di Atene, meta finale.

Tutte opere che ispireranno quadri rifiniti, accurati così come imponeva la committenza del tempo, ma conserveranno efficacissima la trasposizione delle limpide profondità di campo, della vastità degli orizzonti, di quella luce ancora sconosciuta all'occhio europeo legato al cielo boreale. Pasini ne era rapito, come per esempio dalla vegetazione "…rara ma d'un verde d'uno splendore quale in Europa non possiamo avere idea [...] quel verde luce di bengala...".

Una volta terminato il viaggio, potè unirsi in matrimonio, nel 1860 con Mariannina Celi di Borgotaro. L'unione durerà sempre con intenso affetto e sarà allietata nel 1862 dalla nascita avvenuta a Parigi, dove ormai il Pasini risiedeva stabilmente, di Claire, la loro unica discendente. Mentre in Italia perdurava verso di lui una critica ufficiale piuttosto ostile, malgrado l'ospitalità datagli dalle Società Promotrici di Firenze e di Torino o dalla Società d'Incoraggiamento di Parma, Pasini nel 1865, era ormai esente da esami di accettazione al Salon e la sua attività era ben conosciuta attraverso le valutazioni dei critici, dai resocontisti e dalla Casa d'Arte Goupil. L'estate del 1865 portò una breve stagione a Cannes di cui rimarranno una quindicina di studi dominati dalla luminosità solare propria alle isole Lérins, che prediligeva come soggetti. Nell'ottobre del 1867, Pasini lasciò temporaneamente lo studio che condivideva con il Pittara, e si mise nuovamente in viaggio. La meta questa volta fu Stambul, allora Costantinopoli, perché Bourée, nominatovi ambasciatore di Francia, lo chiamava presso di sé. Bourée che era divenuto nel frattempo per lui un padre, un amico, un mecenate".

 

V. Botteri Cardoso, La sua vita: affetti, luce, colore, in Alberto Pasini: da Parma a Costantinopoli via Parigi, a cura di G. Godi, C. Mignardi, Parma 1996, pp. 11-21, in particolare 12-14

Trattativa Privata 

Alessandro Magnasco e Clemente Spera                        

(Genova 1667-1749)                                                        

(Novara 1661 ca.-Milano 1742)                                             

CRISTO TENTATO NEL DESERTO DAL DIAVOLO                                                

olio su tela ovale, cm 116,5x92,5    

 

Il dipinto è corredato da perizia scritta di Fausta Franchini Guelfi del 25 giugno 2013

 

Bibliografia di riferimento

Alessandro Magnasco (1667 -1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista, catalogo della mostra (Parigi 2015/Genova 2016) a cura di F. Franchini Guelfi, Parigi 2015.

F. Franchini Guelfi, Alessandro Magnasco, Genova 1077.


Le fluide e rapidissime pennellate che animano le figure di questo pendant sono senza dubbio quelle della peculiare scrittura pittorica del genovese Alessandro Magnasco.
Celebri e ricercati furono, sin da subito, i suoi frati, eremiti, viandanti e lavandaie inseriti all’interno di grandiosi paesaggi e imponenti rovine architettoniche.
In questo caso sono i protagonisti di due noti episodi evangeli ad abitare le architetture in rovina che si stagliano sul cielo luminoso dello sfondo.
Fausta Franchini Guelfi, analizzando le due tele, nota come il Magnasco abbia qui raggiunto un altissimo livello qualitativo e suggerisce una loro collocazione nella fase ormai matura della sua attività artistica, fra il 1725 e il 1730, poco prima del celebre Furto sacrilego, oggi al Museo Diocesano di Milano. La studiosa riconosce inoltre la mano del pittore oltre che nelle animate figure anche nei raggi luminosi che illuminano Gesù Cristo e nelle testine angeliche presenti in entrambi. Le scenografiche arcate in pietra dalle quali spunta una rigogliosa vegetazione sono invece opera di Clemente Spera, famoso proprio per la realizzazione di suggestive architetture in rovina. La sua collaborazione con Magnasco durò per più di quarant’anni e anche per quanto riguarda la sua produzione siamo di fronte a una delle sue realizzazioni più felici.

Trattativa Privata 

Alessandro Magnasco e Clemente Spera                        

(Genova 1667-1749)                                                        

(Novara 1661 ca.-Milano 1742)                                             

NOLI ME TANGERE                                                           

olio su tela ovale, cm 116,5x92,5


Il dipinto è corredato da perizia scritta di Fausta Franchini Guelfi del 25 giugno 2013


Bibliografia di riferimento
Alessandro Magnasco (1667 -1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista, catalogo della mostra (Parigi 2015/Genova 2016) a cura di F. Franchini Guelfi, Parigi 2015.
F. Franchini Guelfi, Alessandro Magnasco, Genova 1077.


Le fluide e rapidissime pennellate che animano le figure di questo pendant sono senza dubbio quelle della peculiare scrittura pittorica del genovese Alessandro Magnasco.
Celebri e ricercati furono, sin da subito, i suoi frati, eremiti, viandanti e lavandaie inseriti all’interno di grandiosi paesaggi e imponenti rovine architettoniche.
In questo caso sono i protagonisti di due noti episodi evangeli ad abitare le architetture in rovina che si stagliano sul cielo luminoso dello sfondo.
Fausta Franchini Guelfi, analizzando le due tele, nota come il Magnasco abbia qui raggiunto un altissimo livello qualitativo e suggerisce una loro collocazione nella fase ormai matura della sua attività artistica, fra il 1725 e il 1730, poco prima del celebre Furto sacrilego, oggi al Museo Diocesano di Milano. La studiosa riconosce inoltre la mano del pittore oltre che nelle animate figure anche nei raggi luminosi che illuminano Gesù Cristo e nelle testine angeliche presenti in entrambi.
Le scenografiche arcate in pietra dalle quali spunta una rigogliosa vegetazione sono invece opera di Clemente Spera, famoso proprio per la realizzazione di suggestive architetture in rovina. La sua collaborazione con Magnasco durò per più di quarant’anni e anche per quanto riguarda la sua produzione siamo di fronte a una delle sue realizzazioni più felici.

Trattativa Privata 

Bottega di Isaia da Pisa, Roma, seconda metà secolo XV
FIGURA FEMMINILE PANNEGGIATA ALL’ANTICA
scultura in marmo, cm 83x28 

Provenienza
Collezione privata

Bibliografia di riferimento
F. Caglioti, Precisazioni sulla Madonna di Isaia da Pisa nelle Grotte Vaticane, in “Prospettiva”, 47, 1986, pp. 58-64
F. Caglioti, Su Isaia da Pisa. Due Angeli reggicandelabro in Santa Sabina all’Aventino e l’altare eucaristico del Cardinal d’Estouville per Santa Maria Maggiore, in “Prospettiva”, nn. 89-90, ottobre 1998, pp. 125-160

L’interessante scultura qui presentata mostra una figura femminile vestita con una lunga tunica legata in vita e un mantello ampiamente panneggiato che dalle spalle passa davanti alle gambe e si appoggia al braccio sinistro. La capigliatura si dispone lungo il volto in due grossi boccoli laterali ricavati con un esteso lavoro di trapano.

L’opera, che proviene da un’importante collezione romana, è una rara testimonianza della bottega di Isaia da Pisa, scultore principe a Roma prima dell’avvento dei maestri moderni toscani come Mino da Fiesole e i Rossellino, o adriatici come Giovanni Dalmata.

I confronti più stringenti con Isaia da Pisa si possono fare con la lunetta del tabernacolo del corpo di Sant’Andrea nell’antica basilica di San Pietro a Roma, ora conservata nelle Grotte Vaticane. Il modo di panneggiare è analogo e l’ovale del volto quasi sovrapponibile con gli occhi sgranati (con cornea e pupilla incisa), i capelli pettinati in una forma regolare quasi astrattamente decorativa, la bocca e il naso piccoli.

La data di quell’altare, che fu rinnovato tra il 1463-64, è utile per collocare anche la scultura qui offerta che probabilmente apparteneva ad un complesso funerario o a un altare di difficile identificazione dopo che la scultura ha perso l’attributo iconografico che aveva nelle mani.

La fisionomia della figura si avvicina molto a quella delle virtù teologali per la tomba del cardinale Antonio Martinez de Chavez (1448-1450) in San Giovanni in Laterano, rimontate poi da Francesco Borromini nel Seicento.

Alcuni punti di contatto per quanto riguarda lo stile antiquario dei panneggi si trovano anche con l’altare di Eugenio IV e Pietro Bembo (altare degli Orsini) sempre nelle grotte Vaticane, del 1451, dove le pieghe del manto di San Paolo sono affini a quelle della nostra scultura.
Trattativa Privata 

Sebastiano Ricci
(Belluno, 1659 – Venezia, 1734)
ADORAZIONE DEI PASTORI
olio su tela, cm 117x90

Bibliografia
E. Martini, Note sul Settecento veneziano: Sebastiano Ricci, Pellegrini, Crosato, in “Arte Documento” 12, 1998, p. 111, fig. 3; A. Scarpa, Sebastiano Ricci, Milano 2006, p. 240, n. 276; p. 561, fig. 442.

Referenze fotografiche
Fototeca Federico Zeri, scheda 65785

Pubblicato per la prima volta da Egidio Martini, lo splendido dipinto qui offerto è stato analizzato più compiutamente da Annalisa Scarpa nel catalogo generale di Sebastiano Ricci, con una proposta di datazione al secondo decennio del Settecento.

Entrambi gli studiosi hanno sottolineato il riferimento al modello veronesiano sotteso a questa invenzione: più precisamente, il recupero da parte di Sebastiano Ricci – in anticipo su Giovan Battista Tiepolo, che appunto sull’esempio di Paolo rifonderà nel Settecento la grande pittura veneziana – dell’insegnamento del Caliari, da lui compiutamente interiorizzato piuttosto che citato testualmente, e reinterpretato in chiave contemporanea.

Non è dubbio infatti che le figure monumentali della Famiglia e dei testimoni della Natività che affollano il proscenio della nostra Adorazione tornino a proporre modelli di Paolo Veronese nelle loro proporzioni grandiose: si veda in particolare la bella figura femminile panneggiata all’antica, quasi una statua classica di quinta alla scena principale, e in realtà vera protagonista della composizione.

Anche l’ambientazione della scena, ridotta a pochi elementi, rimanda a modelli del Caliari: in particolare alla Adorazione dei pastori, di ignota provenienza ma forse documentata nel Seicento a Roma in collezione Ludovisi, che dopo vari passaggi in illustri raccolte è stata venduta da Sotheby’s a New York nel 1997 (asta del 30 gennaio, lotto 44).

Non sappiamo se Sebastiano Ricci avesse potuto vederla a Venezia, o comunque nel corso dei suoi viaggi di formazione. L’invenzione circolava comunque, tradotta in controparte, nell’incisione che ne aveva tratto Matteo Piccioni, con dedica a Fabrizio Piermattei, qui riprodotta nell’esemplare al British Museum.

La composizione veronesiana non è citata letteralmente nella nostra tela, da cui peraltro differisce anche per le esigue dimensioni: pur non potendo escludere l’esistenza di un modello specifico di Paolo Veronese non ancora rintracciato, quanti si sono occupati del nostro dipinto e più in generale dei recuperi veronesiani nella pittura del Settecento veneziano hanno preferito sottolinearne il valore di modello ideale, pienamente interiorizzato da Sebastiano Ricci e da lui liberamente ricreato.

Occasione di contatto prolungato con Paolo Veronese, i lavori compiuti da Sebastiano Ricci per la chiesa veneziana di San Sebastiano, dove fra il 1696 e il 1698 era stato chiamato a sostituire il perduto soffitto veronesiano: fu certo in quell’occasione che ebbe modo di studiare le ante d’organo dipinte dal Caliari dove, nel pannello centrale, ritroviamo il modello per la grandiosa figura femminile nel nostro dipinto.

Trattativa Privata 
Giuseppe Mazzuoli (attr.)
(Volterra 1644 - Roma 1725)
BUSTO DEL CARDINALE GIOVANNI BATTISTA BUSSI
marmo bianco, cm 92x72x34; completo di base a colonna in marmo, alt cm 105

Bibliografia
I. Faldi (a cura di), “Viterbo segreta”. Opere e oggetti d’arte di collezioni private dal XIII al XIX secolo, cat. della mostra, Viterbo 1983, pp. 32-33 n. 14

Giovanni Battista Bussi (Viterbo, 31 marzo 1657-Roma, 23 dicembre 1726) fu un cardinale, arcivescovo e nunzio apostolico italiano. Sotto il pontificato di papa Innocenzo XII ricoprì, tra il 1698 e il 1706, la carica di internunzio delle Fiandre. Con l’inclinarsi dei rapporti tra cattolici e giansenisti e la nomina nel 1700 di papa Clemente XI, Bussi fu eletto vescovo di Ancona (3 febbraio 1710) e in seguito elevato alla porpora cardinalizia (26 settembre 1712). Nel conclave del 1721, nel quale sarà eletto papa Innocenzo XIII, la sua candidatura fu esclusa per i forti rapporti che aveva con la famiglia del pontefice precedente, in particolare con il cardinale Annibale Albani. L’ Albani riproporrà la nomina di Bussi anche nel conclave del 1724, ma con esito negativo.Il riconoscimento del personaggio effigiato si basa sul ritratto del cardinal Giovan Battista Bussi conservato nel Museo Civico di Viterbo dipinto da Giuseppe Rusca. La somiglianza dei caratteri fisionomici tra scultura e dipinto è evidente, anche se nel busto il cardinale appare in un momento più avanzato della sua vita, e quindi probabilmente posteriore al 1714, anno di realizzazione del dipinto.

Trattativa Privata 
Marco Cardisco
(Tiriolo, 1486 circa – Napoli, 1542 circa)
MADONNA COL BAMBINO (al centro)
olio su tavola, cm 176x88,5I
SANTI GIOVANNI BATTISTA E SEBASTIANO (nei laterali)
olio su tavola, cm 176x61,5 ciascuno
ANNUNCIAZIONE E NATIVITÀ (nella lunetta)
olio su tavola, cm 130x248
CRISTO MORTO TRA GLI APOSTOLI (nella predella)
olio su tavola, cm 37x234
entro cornice originale, cm 400x275 complessivamente

Provenienza
Venezia, Semenzato, asta 11 dicembre 1988, n. 29

Bibliografia
P.L. Leone de Castris, Un pannello di Marco Cardisco alla Walters Art Gallery, in The Journal of the Walters Art Gallery 47, 1989, pp. 13-20 (specificamente pp. 18-19, fig. 13; p. 20, nota 13.

Passato in asta da Semenzato come opera di Andrea Sabatini, detto Andrea da Salerno (1480/90 – Gaeta 1530) e come tale dichiarato opera di particolare interesse storico-artistico dal Ministero per i Beni Culturali, l’importante polittico qui in esame è stato ricondotto più correttamente al catalogo di Marco Cardisco da Pier Luigi Leone de Castris, il più autorevole studioso della pittura del Cinquecento nel Regno di Napoli, che al pittore calabrese ha dedicato numerosi e illuminanti interventi ancor prima di riferirgli la tavola con i Dottori della Chiesa (Agostino, Girolamo e Gregorio) nella Walters Art Gallery di Baltimora, occasione per ritornare sulle opere tarde dell’artista, tra cui il polittico qui presentato.

Unico artista meridionale, insieme allo scultore Santacroce, a cui Vasari – a Napoli egli stesso nel 1544 – ritenne di dedicare una “vita”, Cardisco fu presumibilmente attivo fin dal secondo decennio del secolo, a giudicare dalle opere più antiche riferibili al suo catalogo, quali l’Adorazione dei Magi già in Santa Barbara a Castelnuovo (Napoli, Museo di San Martino), e la Madonna col Bambino presso la Galleria Sabauda di Torino. In quest’ultima convivono classicismo raffaellesco e motivi leonardeschi portati a Napoli circa il 1515 da Cesare da Sesto e da Pedro Fernandez, lo pseudo-Bramantino: elementi che torneranno ad affiorare nel suo lessico figurativo ancora alla metà degli anni Trenta, quando più verosimilmente può situarsi il nostro dipinto.

I documenti che si riferiscono all’attività di Marco Cardisco riguardano l’esecuzione di opere destinate alle chiese di Napoli e del Regno, molte delle quali – conservate nelle sedi originarie o ricomposte nel Museo Nazionale di Capodimonte – possono confrontarsi col polittico qui esaminato anche per la ricchezza e complessità dell’insieme: vere e proprie “macchine sceniche” su più piani, tra cui la più nota è quella portata a termine nel 1533 per la chiesa di Sant’Agostino alla Zecca (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte) in cui compare, nella Madonna in gloria d’angeli nel registro superiore, il tipo della Vergine ripetuto nell’Annunciata e nella Natività del nostro dipinto, mentre gli Apostoli nella predella costituiscono un immediato precedente per i nostri in analoga posizione.

Puntuali i confronti proposti da Leone de Castris tra la Natività al vertice della nostra pala e le due versioni dello stesso soggetto entrambe in raccolta privata, una proveniente da Leger Galleries a Londra, illustrate alle figg. 10 e 11 del suo intervento del 1989.

I confronti più persuasivi ai fini della datazione del polittico qui esaminato rimandano a opere documentate della prima metà degli anni Trenta, tra cui la Madonna con Bambino, scomparto centrale del polittico della cattedrale di Sessa Aurunca, e col polittico nel santuario di Santa Maria a Parete a Liveri (Nola), intorno al 1535.

Puntuale il riscontro tra i SS. Giovanni Battista e Sebastiano nelle tavole laterali qui in oggetto e i SS. Giovanni Battista e Michele Arcangelo in analoga posizione nel complesso di Liveri: figure monumentali, quasi per un richiamo al classicismo esasperato dei romanisti nordici, che come le nostre si stagliano sullo sfondo di un paesaggio di ascendenza leonardesca nella variazione atmosferica dello sfondo azzurrino. Ancora vivo, negli Apostoli della predella, il ricordo di Polidoro da Caravaggio, costante ispirazione per Marco Cardisco.

È infine da ricordare che la sua attività non si limitò a Napoli e al suo territorio: fu infatti chiamato a dipingere a fresco la cappella Turchi nella chiesa romana di Trinità dei Monti, accanto ai pittori più rinomati del suo tempo, tra cui Perin del Vaga e Daniele da Volterra.

Opera dichiarata di interesse particolarmente importante dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, con D. M. del 9/12/1988.

Trattativa Privata 
Maestro di Popiglio
(attivo a Pistoia e a Pisa nel secondo e terzo quarto del sec. XIV)
MADONNA COL BAMBINO E QUATTRO ANGELI, 1360 circa
tempera su tavola sagomata, fondo oro, cm 132x70

Corredato da parere scritto di Andrea De Marchi e Linda Pisani di cui pubblichaimo un estratto.
La tavola qui in esame è inedita e, secondo quanto comunica l’attuale proprietario, fu acquistata, circa quarant’anni addietro, da un collezionista di Toledo in Spagna.  Il dipinto, che, per le dimensioni, è immaginabile come il centro di un trittico o polittico, appare ben leggibile e giudicabile, nonostante i segni lasciati da vecchi interventi di restauro su alcune porzioni della superficie pittorica.Le sigle e la cultura figurativa dell’opera sono ben riconoscibili e permettono di identificare l’autore col cosiddetto Maestro di Popiglio, attivo fra il territorio pistoiese e quello pisano dagli anni trenta agli anni sessanta del Trecento. La tavola oggetto di questa scheda, inoltre, anche per parametri esterni come i dati della moda (si pensi agli scolli delle vesti, caratterizzati da una linea netta, come negli affreschi della Cappella Guidalotti Rinuccini di Giovanni da Milano), sembra appartenere alla fase tarda del maestro, sul 1360 circa.Il Maestro di Popiglio (noto anche, ma impropriamente, come Maestro del 1336 e sovrapponibile in parte al cosiddetto Francesco pisano o Francesco dell’Orcagna) deriva il proprio nome critico da un pentittico raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Lorenzo, Pietro, Giacomo Maggiore e Giovanni Battista conservato nel Museo d’arte sacra di Popiglio, ma un tempo presso la chiesa parrocchiale del paese di Popiglio, sulla montagna pistoiese.Alcune delle opere più antiche di questo maestro rivelano i suoi debiti nei confronti di un altro anonimo, il cosiddetto Maestro del 1310, protagonista della scuola pistoiese del primo Trecento e caratterizzato da una tempra espressiva ancor più forte. Non è un caso che, commentando il pentittico del Maestro di Popiglio raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Francesco, Giovanni Battista, Andrea ed Antonio abate, un tempo presso la cappella di Santa Lucia nella collegiata di Empoli ed oggi al museo della Collegiata, si sia parlato, di volta in volta, e con lessico colorito,  di “figure aggrondanti“e di una “ferinità insieme raffinata e popolare”.  Alle opere principali del Maestro di Popiglio (il namepiece, il pentittico empolese e la Madonna col Bambino della collezione Acton nella Villa La Pietra di Firenze) rinviano anche alcuni dettagli della Madonna con il Bambino ed angeli qui in esame: simili sono, sebbene meno incisivi ed appuntiti, i lineamenti del volto del Bambino, i suoi densi boccoli biondi e persino la collanina su cui spiccano un vistoso ciondolo apotropaico in corallo ed una crocellina dorata, che, per la sua sistemazione sbilenca, sembra esser rimasta impigliata fra i ricami che impreziosiscono la veste del piccolo Gesù.Tuttavia, come si accennava, la datazione della tavola sembra collocarsi nel decennio successivo alla metà del secolo, a notevole distanza dalle opere citate. Il prosieguo del percorso del maestro, che ha anche immediati riverberi nel territorio pistoiese, come mostrano una tavola ed un affresco a Montecatini Alto, sembra puntare in direzione di Pisa e del suo circondario. Si tratta però di opere molto discusse, la cui piena definizione critica attende ancora un assestamento definitivo. Come nel caso del polittico, molto impegnato, giunto alla Collezione Cini di Venezia dalla raccolta Toscanelli di Pontedera e raffigurante San Paolo in trono fra i santi Giovanni Battista, Pietro, Filippo e Giovanni Evangelista (cfr. F. Zeri, Dipinti toscani e oggetti d’arte della collezione Vittorio Cini, Vicenza 1984, pp. 13-16 e ora la scheda di F. Siddi, nel nuovo catalogo in corso di preparazione a cura di A. Bacchi e A. De Marchi), di cui ancora aperta è l'indagine che potrebbe portarlo a leggerlo quale esito della fase finale del percorso del Maestro di PopiglioI punti di maggior contatto fra la tavola qui schedata e il polittico Cini chiamano in causa soprattutto la raffigurazione dell’Annunciazione: basti pensare al profilo dell’Arcangelo da affiancare idealmente ad uno degli angeli in profilo che fanno corona alla Madonna col Bambino. Oltre alla somiglianza dei tratti (fatta eccezione per una certa sommarietà nella definizione delle mani), colpisce soprattutto il chiaroscuro intenso usato con funzione modellante.
In sintesi, sembra da proporre una datazione all’inizio degli anni sessanta del Trecento ed un inquadramento nella tarda attività del Maestro di Popiglio.
Trattativa Privata 
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