Mobili arredi ed oggetti d'Arte

11 OTTOBRE 2011

Mobili arredi ed oggetti d'Arte

Asta, 0104
Firenze, Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo Albizi, 26
 
 
 

Tutte le categorie

241 - 270  di 332
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Altobello Melone (Cremona 1490/91-ante 1543) RESURREZIONE DI CRISTO olio su tavola, cm 61x46 sul retro: timbri in ceralacca ed iscrizione C. Morasso Adorno Provenienza: già collezione Morasso Adorno, Genova; mercato antiquario, Roma; collezione Prof. Luigi Grassi e Luciana Ferrara Grassi, Roma; eredi Grassi-Ferrara, Firenze Esposizioni: Mostra di Girolamo Romanino. Catalogo, Brescia 1965; I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, Milano 1985; Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, Milano 2006. Limportante opera qui proposta è stata resa nota da Luigi Grassi (1913-1995), storico dellarte e professore universitario, e da lui attribuita ad Altobello Melone in unampia ricostruzione sullattività dellartista pubblicata nel 1950. Lattribuzione è stata unanimemente riconosciuta dalla critica successiva e sullartista, importante interprete della cultura artistica cremonese del primo Cinquecento, si sono espressi autorevoli studiosi. Roberto Longhi, già nel 1917, ricordava il pittore come uno dei giovani più moderni ed audaci che contasse nei primi decenni del Cinquecento la pittura dellItalia settentrionale (R. Longhi, Cose bresciane del Cinquecento, in LArte, XX, 1917, pp. 99-114, p. 106), cui hanno fatto seguito importanti contributi tra i quali segnaliamo quelli di Federico Zeri, Ferdinando Bologna e Mina Gregori, fino agli studi più recenti di Alessandro Ballarin e Francesco Frangi. Lopera proviene dalla prestigiosa collezione di Luigi Grassi che acquistò il dipinto sul mercato antiquario romano nel 1942, come già proveniente dalla collezione Morasso Adorno di Genova. La tavola, sempre rimasta nella medesima collezione, viene riproposta in questa occasione sul mercato antiquario dopo oltre sessantanni. Fu Grassi a riconoscere per primo i tratti tipici dellartista evidenziandone il carattere nordico del luminismo altobelliano e lattrazione per la cultura artistica doltralpe. Lo studioso metteva in relazione la Resurrezione con lomonima incisione di Albrect Dü dal ciclo della Grande Passione del 1510, sottolineando loriginalità interpretativa del pittore cremonese che non si era soffermato ad una mera derivazione iconografica. La datazione al 1518, poi anticipata al 1517 da Ballarin, venne proposta da Grassi per via delle strette analogie con la Cattura di Cristo del ciclo di affreschi del Duomo di Cremona. Lopera già esposta e inserita nel catalogo della Mostra di Girolamo Romanino (1965), è stata successivamente presentata con una scheda di Frangi nellesposizione I Campi e la cultura artistica cremonese (1985) in cui la curatrice Mina Gregori definiva lartista come uno degli eccentrici protagonisti dei movimenti anticlassici sviluppatisi in Italia settentrionale (Mina Gregori, Altobello Melone, in I Campi e la cultura artistica cremonese, Cremona 1985, pp. 85-88, p. 87). Il più recente contributo sul dipinto si deve a Frangi per la mostra Romanino: un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano (2006) nel quale lo studioso riafferma le tangenze della tavola con lincisione di Dü e i riscontri stilistici con gli affreschi del Duomo cremonese, collaudati nel 1517 da Girolamo Romanino con cui Altobello, seppur in un momento dintenso dialogo, manifesta una differente ricezione della pittura tizianesca in virtù di una sensibilità formale calligrafica e minuziosa, non priva, in certi brani di una secchezza perfino arcaizzante ben leggibile ad esempio nella statica e ossuta figura del Cristo. Lo studioso inoltre sottolinea leffervescente vivacità della condotta pittorica che, sollecitata dal confronto con larte nordica, si accende in una scrittura appuntita e nervosa, capace di restituire magnificamente i bagliori di luce che scuotono la penombra, infrangendosi in particolare sui metalli crepitanti delle armature dei soldati. Bibliografia: L. Grassi, Ingegno di Altobello Meloni, in Proporzioni, III, 1950, pp. 143-163, tav. CLXXVI, fig. 23; F. Zeri, Altobello Melone: quattro tavole, in Paragone, IV, 39, 1953, pp. 40-44; G. Testori, Inediti del Cerano giovane, in Paragone, VI, 67, 1955, pp. 13-21; F. Bologna, Altobello Meloni, in The Burlington Magazine, XCVII, 629, 1955, pp. 240-250; A. Mezzetti, Dosso e Battista Ferraresi, Ferrara 1965, p. 15; Mostra di Girolamo Romanino. Catalogo, a cura di G. Panazza, Brescia 1965, p. 161, n. 81 bis, fig. 153 bis; B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance. Central and North Italian School, I, London 1968, p. 4; A. Ballarin, La Salomè del Romanino. Corso di lezioni sulla giovinezza del pittore bresciano, dispense del corso universitario, a.a. 1970-1971, Università di Ferrara, Ferrara 1971; I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, catalogo a cura di M. Gregori, Milano 1985, scheda a cura di F. Frangi, n. 1.7.6, pp. 92-93; M.Tanzi, Girovaghi, eccentrici ponentini. Francesco Casella, Cremona 1517, in Brera mai vista, 11, Milano 2004, p. 37; Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, catalogo a cura di L. Camerlengo, Milano 2006, scheda a cura di F. Frangi, n. 11, pp. 118-119.

Altobello Melone (Cremona 1490/91-ante 1543) RESURREZIONE DI CRISTO olio su tavola, cm 61x46 sul retro: timbri in ceralacca ed iscrizione C. Morasso Adorno Provenienza: già collezione Morasso Adorno, Genova; mercato antiquario, Roma; collezione Prof. Luigi Grassi e Luciana Ferrara Grassi, Roma; eredi Grassi-Ferrara, Firenze Esposizioni: Mostra di Girolamo Romanino. Catalogo, Brescia 1965; I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, Milano 1985; Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, Milano 2006. Limportante opera qui proposta è stata resa nota da Luigi Grassi (1913-1995), storico dellarte e professore universitario, e da lui attribuita ad Altobello Melone in unampia ricostruzione sullattività dellartista pubblicata nel 1950. Lattribuzione è stata unanimemente riconosciuta dalla critica successiva e sullartista, importante interprete della cultura artistica cremonese del primo Cinquecento, si sono espressi autorevoli studiosi. Roberto Longhi, già nel 1917, ricordava il pittore come uno dei giovani più moderni ed audaci che contasse nei primi decenni del Cinquecento la pittura dellItalia settentrionale (R. Longhi, Cose bresciane del Cinquecento, in LArte, XX, 1917, pp. 99-114, p. 106), cui hanno fatto seguito importanti contributi tra i quali segnaliamo quelli di Federico Zeri, Ferdinando Bologna e Mina Gregori, fino agli studi più recenti di Alessandro Ballarin e Francesco Frangi. Lopera proviene dalla prestigiosa collezione di Luigi Grassi che acquistò il dipinto sul mercato antiquario romano nel 1942, come già proveniente dalla collezione Morasso Adorno di Genova. La tavola, sempre rimasta nella medesima collezione, viene riproposta in questa occasione sul mercato antiquario dopo oltre sessantanni. Fu Grassi a riconoscere per primo i tratti tipici dellartista evidenziandone il carattere nordico del luminismo altobelliano e lattrazione per la cultura artistica doltralpe. Lo studioso metteva in relazione la Resurrezione con lomonima incisione di Albrect Dü dal ciclo della Grande Passione del 1510, sottolineando loriginalità interpretativa del pittore cremonese che non si era soffermato ad una mera derivazione iconografica. La datazione al 1518, poi anticipata al 1517 da Ballarin, venne proposta da Grassi per via delle strette analogie con la Cattura di Cristo del ciclo di affreschi del Duomo di Cremona. Lopera già esposta e inserita nel catalogo della Mostra di Girolamo Romanino (1965), è stata successivamente presentata con una scheda di Frangi nellesposizione I Campi e la cultura artistica cremonese (1985) in cui la curatrice Mina Gregori definiva lartista come uno degli eccentrici protagonisti dei movimenti anticlassici sviluppatisi in Italia settentrionale (Mina Gregori, Altobello Melone, in I Campi e la cultura artistica cremonese, Cremona 1985, pp. 85-88, p. 87). Il più recente contributo sul dipinto si deve a Frangi per la mostra Romanino: un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano (2006) nel quale lo studioso riafferma le tangenze della tavola con lincisione di Dü e i riscontri stilistici con gli affreschi del Duomo cremonese, collaudati nel 1517 da Girolamo Romanino con cui Altobello, seppur in un momento dintenso dialogo, manifesta una differente ricezione della pittura tizianesca in virtù di una sensibilità formale calligrafica e minuziosa, non priva, in certi brani di una secchezza perfino arcaizzante ben leggibile ad esempio nella statica e ossuta figura del Cristo. Lo studioso inoltre sottolinea leffervescente vivacità della condotta pittorica che, sollecitata dal confronto con larte nordica, si accende in una scrittura appuntita e nervosa, capace di restituire magnificamente i bagliori di luce che scuotono la penombra, infrangendosi in particolare sui metalli crepitanti delle armature dei soldati. Bibliografia: L. Grassi, Ingegno di Altobello Meloni, in Proporzioni, III, 1950, pp. 143-163, tav. CLXXVI, fig. 23; F. Zeri, Altobello Melone: quattro tavole, in Paragone, IV, 39, 1953, pp. 40-44; G. Testori, Inediti del Cerano giovane, in Paragone, VI, 67, 1955, pp. 13-21; F. Bologna, Altobello Meloni, in The Burlington Magazine, XCVII, 629, 1955, pp. 240-250; A. Mezzetti, Dosso e Battista Ferraresi, Ferrara 1965, p. 15; Mostra di Girolamo Romanino. Catalogo, a cura di G. Panazza, Brescia 1965, p. 161, n. 81 bis, fig. 153 bis; B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance. Central and North Italian School, I, London 1968, p. 4; A. Ballarin, La Salomè del Romanino. Corso di lezioni sulla giovinezza del pittore bresciano, dispense del corso universitario, a.a. 1970-1971, Università di Ferrara, Ferrara 1971; I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, catalogo a cura di M. Gregori, Milano 1985, scheda a cura di F. Frangi, n. 1.7.6, pp. 92-93; M.Tanzi, Girovaghi, eccentrici ponentini. Francesco Casella, Cremona 1517, in Brera mai vista, 11, Milano 2004, p. 37; Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, catalogo a cura di L. Camerlengo, Milano 2006, scheda a cura di F. Frangi, n. 11, pp. 118-119.
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Scultore lombardo (Bresciano?) tra Tamagnino e Coirano, 1500 circa TRE ANGELI REGGICORONA scultura in marmo, cm 83x 62x29 Provenienza: già Firenze, Conte Alessandro Contini Bonacossi. Opera notificata con decreto del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, 26 giugno 1992. Lopera è corredata da parere scritto di Marco Tanzi, Cremona , 11 agosto 2011. Ho pubblicato la scultura ventanni fa, sulla base di una fotografia frontale della Soprintendenza di Firenze: il riferimento, dubitativo, era a Giovanni Antonio Piatti, del quale nella circostanza ricostruivo lArca dei Martiri persiani già in San Lorenzo a Cremona (cfr. M. Tanzi, Novità per lArca dei Martiri persiani, in  63, 1991, pp. 51-62, fig. 26; Idem, Giovanni Antonio Piatti e la messa in opera del monumento per Giovanni Borromeo, in Scultura lombarda del Rinascimento. I monumenti Borromeo, a cura di M. Natale, Torino 1996, p. 257). In seguito non mi sono più occupato dei Tre angeli, convinto di averne frainteso la cronologia, ben più avanti rispetto alla morte di Piatti, avvenuta nel 1480, e di non averne valutato al meglio, a causa della conoscenza solo fotografica, i dati stilistici. In questi angeli non cè traccia dellespressionismo elettrizzato di Piatti, bensì una consapevolezza monumentale che, nella Lombardia di quegli anni, vuole dire soprattutto Bramante e Bramantino. Non possono prescindere dagli Uomini darme di Bramante ora a Brera, 1486-1488, e da Bramantino ben dentro lultimo decennio del Quattrocento; su tutto aleggia una temperatura sentimentale leonardesca derivata dalla seconda Vergine delle rocce, quella di Londra, circa 1490. Anche lo zucchetto che indossano, che non si vedeva nella foto, spinge a una situazione della moda post 1490, come in certi ritratti di Ambrogio De Predis o al cosiddetto Galeazzo Maria Sforza di Briosco nel Museo del Duomo di Milano o alle effigi di Gian Galeazzo tra rilievi e monetazione. Va ripensata la funzione della scultura, che è un elemento di una composizione più ampia, collocata forse in una nicchia non è scolpita sul retro , verosimilmente unIncoronazione della Vergine, non troppo lontana da quella messa in opera nel 1513 da Antonio della Porta detto il Tamagnino con il nipote Pace Gagini nel sacrario a destra dellaltare maggiore della Certosa di Pavia. Proprio intorno a Tamagnino, al milanese Gasparo Coirano e agli scultori attivi a Brescia tra Quattrocento e Cinquecento si focalizza il problema dei Tre angeli, per le analogie con le opere di Santa Maria dei Miracoli (1489-1490) e della Loggia (1493-1505; per i Cesari Gasparo è citato nel De Sculptura di Pomponio Gaurico, del 1504). A Brescia e nel territorio i documenti danno a Coirano due chiavi di volta del Duomo Vecchio (1491), il sepolcro di Gaspare Brunelli in San Francesco (1496-1500), il portale del Duomo di Salò insieme ad Antonio Mangiacavalli (1506-1509), e il portale della parrocchiale di Chiari, ora nei Musei Civici di Brescia (1513). Queste sono le opere certe, intorno alle quali è ora assemblato un catalogo ampio e non sempre omogeneo (V. Zani, Gasparo Cairano e la scultura monumentale del Rinascimento a Brescia (1489-1517 ca.), Roccafranca 2010) che postula legemonia esclusiva di Coirano nellarea bresciana quando invece le carte darchivio rivelano un panorama assai più articolato di lapicidi e picapreda. Qualche esempio: non è facile tenere insieme lAdorazione dei pastori oggi in San Francesco, ancora  e lArca di SantApollonio in Duomo Nuovo,  Briosco che trascina con sé la Madonna con il Bambino in trono tra Santi e donatori Kress della National Gallery di Washington o le chiavi di volta della sacrestia di San Francesco (se Zani non avesse cancellato dalla scultura in marmo bresciana Maffeo Olivieri sarei orientato a mantenere il gruppo sotto il suo nome): tutte opere che non hanno stringenti relazioni formali con quelle documentate a Coirano. Nella decorazione di San Pietro in Oliveto, invece, bisognerebbe tenere nella giusta considerazione il ruolo di Antonio da Medaglia,  et architecto prefati monasteri Daltra parte il Mausoleo Martinengo dei Musei Civici e laltare di San Gerolamo in San Francesco sembrano a loro volta costituire gruppo a parte, superiore per qualità e con un diverso approccio a fonti visive e modelli di trasmissione; oltretutto a date scivolose per la vicenda di Coirano (che è già morto nel 1517), se nellestate del 1516 il mausoleo non è finito e laltare difficilmente si può sganciare dal 1520 circa. Gli sono riferite, infine, anche sculture da  umbratile come una Fede in mano privata e un San Giovanni Evangelista nellomonimo monastero di Parma (Zani 2010, figg. 168-169). I Tre angeli apteri hanno quella componente che, banalizzando, si è detta  ma che è in realtà proprio  Piatti la caduta delle vesti sulle gambe magre rimanda al San Lorenzo dellArca dei Martiri persiani, ora a Sarasota, mentre le abbreviature formali e gli sguardi vuoti richiamano certi volti delle formelle rimontate nei pulpiti del Duomo di Cremona. Cè forse più Tamagnino che Coirano: gli angeli sembrano fratelli di quelli nella cupola dei Miracoli per abbigliamento e acconciature, senza raggiungere la qualità sottile di Antonio ma con suggestivi agganci, nella semplificazione dei tratti, ad alcuni degli apostoli di Gasparo la frontalità grifagna di quello glabro, lo schematismo tagliente di quello intento alla lettura e agli angeli a mezzo busto della fascia che sovrasta le nicchie. Credo che

Scultore lombardo (Bresciano?) tra Tamagnino e Coirano, 1500 circa TRE ANGELI REGGICORONA scultura in marmo, cm 83x 62x29 Provenienza: già Firenze, Conte Alessandro Contini Bonacossi. Opera notificata con decreto del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, 26 giugno 1992. Lopera è corredata da parere scritto di Marco Tanzi, Cremona , 11 agosto 2011. Ho pubblicato la scultura ventanni fa, sulla base di una fotografia frontale della Soprintendenza di Firenze: il riferimento, dubitativo, era a Giovanni Antonio Piatti, del quale nella circostanza ricostruivo lArca dei Martiri persiani già in San Lorenzo a Cremona (cfr. M. Tanzi, Novità per lArca dei Martiri persiani, in  63, 1991, pp. 51-62, fig. 26; Idem, Giovanni Antonio Piatti e la messa in opera del monumento per Giovanni Borromeo, in Scultura lombarda del Rinascimento. I monumenti Borromeo, a cura di M. Natale, Torino 1996, p. 257). In seguito non mi sono più occupato dei Tre angeli, convinto di averne frainteso la cronologia, ben più avanti rispetto alla morte di Piatti, avvenuta nel 1480, e di non averne valutato al meglio, a causa della conoscenza solo fotografica, i dati stilistici. In questi angeli non cè traccia dellespressionismo elettrizzato di Piatti, bensì una consapevolezza monumentale che, nella Lombardia di quegli anni, vuole dire soprattutto Bramante e Bramantino. Non possono prescindere dagli Uomini darme di Bramante ora a Brera, 1486-1488, e da Bramantino ben dentro lultimo decennio del Quattrocento; su tutto aleggia una temperatura sentimentale leonardesca derivata dalla seconda Vergine delle rocce, quella di Londra, circa 1490. Anche lo zucchetto che indossano, che non si vedeva nella foto, spinge a una situazione della moda post 1490, come in certi ritratti di Ambrogio De Predis o al cosiddetto Galeazzo Maria Sforza di Briosco nel Museo del Duomo di Milano o alle effigi di Gian Galeazzo tra rilievi e monetazione. Va ripensata la funzione della scultura, che è un elemento di una composizione più ampia, collocata forse in una nicchia non è scolpita sul retro , verosimilmente unIncoronazione della Vergine, non troppo lontana da quella messa in opera nel 1513 da Antonio della Porta detto il Tamagnino con il nipote Pace Gagini nel sacrario a destra dellaltare maggiore della Certosa di Pavia. Proprio intorno a Tamagnino, al milanese Gasparo Coirano e agli scultori attivi a Brescia tra Quattrocento e Cinquecento si focalizza il problema dei Tre angeli, per le analogie con le opere di Santa Maria dei Miracoli (1489-1490) e della Loggia (1493-1505; per i Cesari Gasparo è citato nel De Sculptura di Pomponio Gaurico, del 1504). A Brescia e nel territorio i documenti danno a Coirano due chiavi di volta del Duomo Vecchio (1491), il sepolcro di Gaspare Brunelli in San Francesco (1496-1500), il portale del Duomo di Salò insieme ad Antonio Mangiacavalli (1506-1509), e il portale della parrocchiale di Chiari, ora nei Musei Civici di Brescia (1513). Queste sono le opere certe, intorno alle quali è ora assemblato un catalogo ampio e non sempre omogeneo (V. Zani, Gasparo Cairano e la scultura monumentale del Rinascimento a Brescia (1489-1517 ca.), Roccafranca 2010) che postula legemonia esclusiva di Coirano nellarea bresciana quando invece le carte darchivio rivelano un panorama assai più articolato di lapicidi e picapreda. Qualche esempio: non è facile tenere insieme lAdorazione dei pastori oggi in San Francesco, ancora  e lArca di SantApollonio in Duomo Nuovo,  Briosco che trascina con sé la Madonna con il Bambino in trono tra Santi e donatori Kress della National Gallery di Washington o le chiavi di volta della sacrestia di San Francesco (se Zani non avesse cancellato dalla scultura in marmo bresciana Maffeo Olivieri sarei orientato a mantenere il gruppo sotto il suo nome): tutte opere che non hanno stringenti relazioni formali con quelle documentate a Coirano. Nella decorazione di San Pietro in Oliveto, invece, bisognerebbe tenere nella giusta considerazione il ruolo di Antonio da Medaglia,  et architecto prefati monasteri Daltra parte il Mausoleo Martinengo dei Musei Civici e laltare di San Gerolamo in San Francesco sembrano a loro volta costituire gruppo a parte, superiore per qualità e con un diverso approccio a fonti visive e modelli di trasmissione; oltretutto a date scivolose per la vicenda di Coirano (che è già morto nel 1517), se nellestate del 1516 il mausoleo non è finito e laltare difficilmente si può sganciare dal 1520 circa. Gli sono riferite, infine, anche sculture da  umbratile come una Fede in mano privata e un San Giovanni Evangelista nellomonimo monastero di Parma (Zani 2010, figg. 168-169). I Tre angeli apteri hanno quella componente che, banalizzando, si è detta  ma che è in realtà proprio  Piatti la caduta delle vesti sulle gambe magre rimanda al San Lorenzo dellArca dei Martiri persiani, ora a Sarasota, mentre le abbreviature formali e gli sguardi vuoti richiamano certi volti delle formelle rimontate nei pulpiti del Duomo di Cremona. Cè forse più Tamagnino che Coirano: gli angeli sembrano fratelli di quelli nella cupola dei Miracoli per abbigliamento e acconciature, senza raggiungere la qualità sottile di Antonio ma con suggestivi agganci, nella semplificazione dei tratti, ad alcuni degli apostoli di Gasparo la frontalità grifagna di quello glabro, lo schematismo tagliente di quello intento alla lettura e agli angeli a mezzo busto della fascia che sovrasta le nicchie. Credo che
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Scultore fiorentino prossimo a Donatello, secondo quarto sec. XV COPPIA DI PUTTI ALATI CHE SORREGGONO FESTONI due altorilievi angolari in marmo bianco (parte di un fregio), cm 49x21x35 e 49x22,5x32 Lopera è corredata da parere scritto di Giancarlo Gentilini, Firenze, 22 luglio 2011 Questa vivace coppia di gagliardi puttini alati - genietti, amorini o piuttosto creature angeliche - in atto di sorreggere festoni vegetali con nastri svolazzanti, scolpiti ad altorilievo con simili pose speculari in soluzione angolare su due blocchi marmorei posti in origine alle estremità di un fregio monumentale (poi di recente reimpiegati come sostegni di un pregevole sarcofago di età adrianea), costituiscono una testimonianza inedita particolarmente significativa, per la notevole qualità plastica e la datazione precoce, della fortuna dellantico nella scultura del Quattrocento e della cosiddetta invenzione del putto rinascimentale. Palese, nellinsolita disposizione in angolo aggettante e nellenergica postura a gambe divaricate caratterizzata dalla torsione allindietro del braccio esterno sollevato sopra la testa (ora mutilo), appare infatti la loro derivazione da un sarcofago romano del secondo secolo D.C. con Nereidi ed Eroti che sostengono festoni, secondo una tipologia nota al tempo in almeno due redazioni: una integra (con tre putti e due scene poste nelle anse dei due festoni) conservata nel Camposanto di Pisa, laltra frammentaria (con un solo festone sorretto da due putti) oggi nellabbazia di Grottaferrata, che nel Quattrocento si poteva vedere nella zona archeologica romana di Montecavallo, lattuale piazza del Quirinale, come attesta unattenta copia del Codex Escurialensis, già riferito a Domenico Ghirlandaio ma ritenuto ora di un anonimo dei primi anni del Cinquecento. La posa più eretta e un analogo andamento dei nastri inducono a privilegiare come modello dei nostri marmi il reperto, più facilmente accessibile e meglio conservato, del Camposanto pisano: luogo che offriva unampia raccolta di sarcofagi antichi - fonte dispirazione ricorrente per gli artisti fiorentini del primo Rinascimento - dai quali era desumibile anche la variante del braccio steso adottata nel putto a destra (come, ad esempio, nellErote che regge il festone sul laterale di un sarcofago dionisiaco con Pan e Prigionieri). Peraltro, la complessa gestualità ed articolazione spaziale di questi putti è riscontrabile in altri rilievi romani al centro di attenti studi e puntali derivazioni (da Raffaello a Sodoma, da Tiziano a Palma il Vecchio), come nel Pan ebbro trasportato da amoretti e da un satiro scolpito sul laterale sinistro di un noto sarcofago con il corteo di Bacco e Arianna che si trovava nella piazza di Santa Maria Maggiore a Roma (oggi al British Museum di Londra), già disegnato prima della metà del Quattrocento da due anonimi artisti inclini al nuovo naturalismo dimpronta archeologica (Parigi, Louvre; Milano, Biblioteca Ambrosiana) e citato allinterno di una composizione marmorea dambito donatelliano (Parigi, Louvre) nellangiolino intento a sostenere una Madonna col Bambino del tipo Dudley. Ma si pensi soprattutto alle celebri lastre frammentarie del fregio augusteo raffigurante amorini che recano gli attributi di varie divinità attestate fin dal Medio Evo in San Vitale a Ravenna: il cosiddetto Trono di Nettuno (tuttora in San Vitale, in due redazioni), oggetto di numerose copie tra le quali un precoce disegno databile intorno al 1420-25 riferito oggi al Pisanello (Parigi, É des Beaux-Arts) e la stampa incisa nel 1519 da Marco Dente, il Trono di Saturno (Venezia, Museo Archeologico), trasferito a Venezia intorno al 1335 dal notaio trevigiano Oliviero Forzetta, pioniere del collezionismo di antichità e il Trono di Giove (Firenze, Uffizi), posseduto forse da Lorenzo il Magnifico. Il primo appassionato e consapevole interprete di tali modelli antichi, capace di coglierne appieno le implicazioni formali e concettuali, fu certamente Donatello, che a partire dagli anni Venti del Quattrocento ripropone sempre più spesso simili movenze particolarmente vive e ardite, al punto da suscitare perplessità nei contemporanei - veggo dalla natura quasi mai le mani levarsi sopra il capo, né le gomita sopra la spalla scriveva nel 1436 Leon Battista Alberti -, e figure che, come qui, sembrano varcare la dimensione virtuale dellimmagine, debordando dalle partiture o persino sovrapponendosi alle cornici, quasi volessero entrare a far parte dello spazio tangibile dellosservatore. Lo vediamo nei cherubini reggiscudo che si sporgono circospetti dal tempietto nel pastorale del San Ludovico di Tolosa già in Orsanmichele (Firenze, Museo di Santa Croce), negli angeli spaventati dallaltezza che sorreggono festoni sul coronamento dellAnnunciazione Cavalcanti in Santa Croce, e soprattutto in quelli che danzano sfrenati nel Pulpito esterno del Duomo di Prato e nella Cantoria di Santa Maria del Fiore (Firenze, Museo dellOpera del Duomo), dove una formella del registro inferiore dichiara la conoscenza dei marmi ravennati citando la composizione del Trono di Cerere (ora nel Museo Arcivescovile). Sono anni in cui linteresse di Donatello per i sarcofagi romani, enfatizzato dal Vasari ricordandone lentusiastico apprezzamento per la perfezione e la bontà di magistero di un pilo antico bellissimo reimpiegato come sepoltura cristiana nella Pieve di Cortona (oggi nel Museo Diocesano) che avrebbe immediatamente contagiato Brunelleschi, è ben documentato da alcune lettere scritte nel 1428-30 da un suo collaboratore, Nanni di Miniato detto Fora, al facoltoso patrizio fiorentino Matteo Strozzi in merito a due sepolture antiche reperibili nel territorio pisano, una delle quali proprio con spiritelli, ossia puttini alati, che il maestro aveva lodate per cose buone. Laccostamento dei nostri marmi allattività donatelliana che qui si propone trova ulteriori, efficaci conferme in varie soluzioni stilistiche, come la fluenza grafica dei capelli, la penetrante vivacità degli sguardi, le

Scultore fiorentino prossimo a Donatello, secondo quarto sec. XV COPPIA DI PUTTI ALATI CHE SORREGGONO FESTONI due altorilievi angolari in marmo bianco (parte di un fregio), cm 49x21x35 e 49x22,5x32 Lopera è corredata da parere scritto di Giancarlo Gentilini, Firenze, 22 luglio 2011 Questa vivace coppia di gagliardi puttini alati - genietti, amorini o piuttosto creature angeliche - in atto di sorreggere festoni vegetali con nastri svolazzanti, scolpiti ad altorilievo con simili pose speculari in soluzione angolare su due blocchi marmorei posti in origine alle estremità di un fregio monumentale (poi di recente reimpiegati come sostegni di un pregevole sarcofago di età adrianea), costituiscono una testimonianza inedita particolarmente significativa, per la notevole qualità plastica e la datazione precoce, della fortuna dellantico nella scultura del Quattrocento e della cosiddetta invenzione del putto rinascimentale. Palese, nellinsolita disposizione in angolo aggettante e nellenergica postura a gambe divaricate caratterizzata dalla torsione allindietro del braccio esterno sollevato sopra la testa (ora mutilo), appare infatti la loro derivazione da un sarcofago romano del secondo secolo D.C. con Nereidi ed Eroti che sostengono festoni, secondo una tipologia nota al tempo in almeno due redazioni: una integra (con tre putti e due scene poste nelle anse dei due festoni) conservata nel Camposanto di Pisa, laltra frammentaria (con un solo festone sorretto da due putti) oggi nellabbazia di Grottaferrata, che nel Quattrocento si poteva vedere nella zona archeologica romana di Montecavallo, lattuale piazza del Quirinale, come attesta unattenta copia del Codex Escurialensis, già riferito a Domenico Ghirlandaio ma ritenuto ora di un anonimo dei primi anni del Cinquecento. La posa più eretta e un analogo andamento dei nastri inducono a privilegiare come modello dei nostri marmi il reperto, più facilmente accessibile e meglio conservato, del Camposanto pisano: luogo che offriva unampia raccolta di sarcofagi antichi - fonte dispirazione ricorrente per gli artisti fiorentini del primo Rinascimento - dai quali era desumibile anche la variante del braccio steso adottata nel putto a destra (come, ad esempio, nellErote che regge il festone sul laterale di un sarcofago dionisiaco con Pan e Prigionieri). Peraltro, la complessa gestualità ed articolazione spaziale di questi putti è riscontrabile in altri rilievi romani al centro di attenti studi e puntali derivazioni (da Raffaello a Sodoma, da Tiziano a Palma il Vecchio), come nel Pan ebbro trasportato da amoretti e da un satiro scolpito sul laterale sinistro di un noto sarcofago con il corteo di Bacco e Arianna che si trovava nella piazza di Santa Maria Maggiore a Roma (oggi al British Museum di Londra), già disegnato prima della metà del Quattrocento da due anonimi artisti inclini al nuovo naturalismo dimpronta archeologica (Parigi, Louvre; Milano, Biblioteca Ambrosiana) e citato allinterno di una composizione marmorea dambito donatelliano (Parigi, Louvre) nellangiolino intento a sostenere una Madonna col Bambino del tipo Dudley. Ma si pensi soprattutto alle celebri lastre frammentarie del fregio augusteo raffigurante amorini che recano gli attributi di varie divinità attestate fin dal Medio Evo in San Vitale a Ravenna: il cosiddetto Trono di Nettuno (tuttora in San Vitale, in due redazioni), oggetto di numerose copie tra le quali un precoce disegno databile intorno al 1420-25 riferito oggi al Pisanello (Parigi, É des Beaux-Arts) e la stampa incisa nel 1519 da Marco Dente, il Trono di Saturno (Venezia, Museo Archeologico), trasferito a Venezia intorno al 1335 dal notaio trevigiano Oliviero Forzetta, pioniere del collezionismo di antichità e il Trono di Giove (Firenze, Uffizi), posseduto forse da Lorenzo il Magnifico. Il primo appassionato e consapevole interprete di tali modelli antichi, capace di coglierne appieno le implicazioni formali e concettuali, fu certamente Donatello, che a partire dagli anni Venti del Quattrocento ripropone sempre più spesso simili movenze particolarmente vive e ardite, al punto da suscitare perplessità nei contemporanei - veggo dalla natura quasi mai le mani levarsi sopra il capo, né le gomita sopra la spalla scriveva nel 1436 Leon Battista Alberti -, e figure che, come qui, sembrano varcare la dimensione virtuale dellimmagine, debordando dalle partiture o persino sovrapponendosi alle cornici, quasi volessero entrare a far parte dello spazio tangibile dellosservatore. Lo vediamo nei cherubini reggiscudo che si sporgono circospetti dal tempietto nel pastorale del San Ludovico di Tolosa già in Orsanmichele (Firenze, Museo di Santa Croce), negli angeli spaventati dallaltezza che sorreggono festoni sul coronamento dellAnnunciazione Cavalcanti in Santa Croce, e soprattutto in quelli che danzano sfrenati nel Pulpito esterno del Duomo di Prato e nella Cantoria di Santa Maria del Fiore (Firenze, Museo dellOpera del Duomo), dove una formella del registro inferiore dichiara la conoscenza dei marmi ravennati citando la composizione del Trono di Cerere (ora nel Museo Arcivescovile). Sono anni in cui linteresse di Donatello per i sarcofagi romani, enfatizzato dal Vasari ricordandone lentusiastico apprezzamento per la perfezione e la bontà di magistero di un pilo antico bellissimo reimpiegato come sepoltura cristiana nella Pieve di Cortona (oggi nel Museo Diocesano) che avrebbe immediatamente contagiato Brunelleschi, è ben documentato da alcune lettere scritte nel 1428-30 da un suo collaboratore, Nanni di Miniato detto Fora, al facoltoso patrizio fiorentino Matteo Strozzi in merito a due sepolture antiche reperibili nel territorio pisano, una delle quali proprio con spiritelli, ossia puttini alati, che il maestro aveva lodate per cose buone. Laccostamento dei nostri marmi allattività donatelliana che qui si propone trova ulteriori, efficaci conferme in varie soluzioni stilistiche, come la fluenza grafica dei capelli, la penetrante vivacità degli sguardi, le
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Bottega di Benedetto da Maiano, ultimo quarto sec. XV MADONNA CON BAMBINO CHE STRINGE UN CARDELLINO bassorilievo in stucco dipinto e dorato, cm 41x31,5; entro cornice coeva ad ancoretta intagliata e dipinta, cm 91x52. Nella lunetta della cornice raffigurazione dipinta con Tobiolo e langelo e nella parte inferiore della medesima stemma della famiglia Grifoni. sul retro: etichetta con iscrizione: stucco di Antonio Rossellino con tabernacolo originale del 400 Fiorentino (Brunelleschiano). Lopera è corredata da parere scritto di Giancarlo Gentilini, Firenze, 22 luglio 2011 Questo delicato, affabile rilievo raffigura la Vergine che, seduta su di un faldistorio del quale affiora la voluta di un bracciolo ornata da un minuto, vivace serafino, sostiene affettuosamente sulle ginocchia un tenero Bambin Gesù dal volto paffuto e i folti capelli mossi dal vento, intento a stringere al petto un cardellino, secondo una diffusa iconografia promossa nellarte fiorentina del Quattrocento per le immagini destinate alla devozione domestica dai precetti del domenicano Giovanni Dominici. La posa in scorcio del Bambino rivela la natura umana del Verbo fatto carne, così come ne prefigura la Passione il trastullo infantile, secondo la popolare leggenda cristiana del cardellino che avrebbe estratto le spine della corona di Cristo crocifisso tingendosi il capo di rosso col suo sangue. Conferisce ulteriore pregio e interesse a questopera loriginaria, elegante cornice ad anconetta centinata ( con una lunetta dipinta raffigurante Tobiolo accompagnato nel suo viaggio di affari da Raffaele, larcangelo taumaturgo: un tema assai caro ai mercanti fiorentini del tempo, spesso adottato come immagine votiva per gli adolescenti in procinto di lasciare la propria abitazione. Sul peduccio è inoltre dipinto uno scudo a mandorla con arme araldica riferibile alla famiglia Grifoni, tra le più eminenti a Firenze nel Rinascimento. Nella vastissima produzione di analoghi rilievi in stucco o terracotta dipinta praticata dai maggiori scultori fiorentini del Quattrocento, perlopiù in modo seriale replicando a calco un prototipo marmoreo, la nostra Madonna si distingue come esemplare autorevole di una tipologia ancora ignota alla critica, della quale al momento sfuggono ulteriori repliche. Si segnala però lesistenza di una versione marmorea, sostanzialmente identica se non per il gesto benedicente della mano destra del Bambino, in Santa Maria sopra Minerva a Roma, inserita allinterno della tomba di Agostino Maffei, raffinato umanista e collezionista di antichità morto nel 1496, attribuita al lombardo Luigi Capponi. Estraneo ai modi bregneschi del Capponi, questo marmo sembra peraltro nato in modo autonomo, ed è plausibile ipotizzare che fosse stato riutilizzato nel sepolcro Maffei in quanto immagine appartenuta e cara al defunto ( Del resto lopera in esame, già riferita ad Antonio Rossellino (come dichiara una vecchia etichetta dattiloscritta), trova convincenti riscontri nellattività di Benedetto da Maiano, protagonista della scultura fiorentina di fine Quattrocento che ben conosciamo anche come responsabile di una consistente produzione di simili Madonne col Bambino in stucco dipinto. Tra queste si segnala una composizione in forma di medaglione col Bambino benedicente, dove la figura della Vergine ripropone in controparte la nostra Madonna nellovale gentile del volto, nel gesto delicato della mano assottigliata, nella foggia dellabito e nella profonda sacca creata dalla curva del manto: caratteri riscontrabili anche nella tipologia che fa capo al marmo Blumenthal (New York, Metropolitan Museum), nella Madonna in terracotta del Victoria and Albert Museum di Londra e in altri lavori del maestro ( Frequenti nelle Madonne di Benedetto sono inoltre le fattezze pingui e la postura rannicchiata del Bambino, ed offrono puntuali conferme i dettagli decorativi, quali il serafino iscritto come un cammeo nella voluta del faldistorio, identico a quelli nel fregio di un Tabernacolo del Sacramento di collezione privata (già Torino, Antichi Maestri Pittori), e la cornicetta a foglie e perline, adottata anche negli stucchi di una diffusa tipologia mariana col San Giovannino. Ispirata da alcune celebri Madonne marmoree di Desiderio da Settignano e di Antonio Rossellino, maestri che segnano la formazione di Benedetto, questa composizione sembra riferibile alla prima attività autonoma intorno al 1470 ( A Benedetto da Maiano, o ad uno dei fratelli Giuliano e Giovanni, responsabili di una prolifica bottega di legname, è verosimilmente da ricondurre anche la cornice lignea dellanconetta, di un modello ben attestato nella pittura fiorentina del secondo Quattrocento, in particolare in opere dello Pseudo Pier Francesco Fiorentino e del Maestro di San Miniato. Probabilmente la policromia dello stucco fu invece affidata, come duso, ad un pittore esterno alla bottega, che sappiamo in stretti rapporti con maestri come Cosimo Rosselli e Lorenzo di Credi, ma anche con personalità minori, come il misterioso Stefano di Francesco documentato proprio per aver dipinto un rilievo di Benedetto da Maiano. E al medesimo ignoto artista sembra riferibile anche la lunetta, che traduce il noto dipinto del Botticini già nella Compagnia dellArcangelo Raffaele in Santo Spirito (ora agli Uffizi), con modi sensibili alla pittura di Jacopo del Sellaio ed esiti più compendiari prossimi al Maestro di Marradi, autore di unanconetta dotata di una simile carpenteria (Avignone, Musé du Petit Palais). Bibliografia di riferimento: R.Kecks, Madonna und Kind, Berlin 1988; Maestri e botteghe. Pittura a Firenze alla fine del Quattrocento, catalogo della mostra a cura di M.Gregori e altri, Firenze 1992; Giuliano e la bottega dei Da Maiano, atti del convegno a cura di D.Lamberini e altri (1991), Firenze 1994; D.Carl, Benedetto da Maiano. A Florentine Sculptor

Bottega di Benedetto da Maiano, ultimo quarto sec. XV MADONNA CON BAMBINO CHE STRINGE UN CARDELLINO bassorilievo in stucco dipinto e dorato, cm 41x31,5; entro cornice coeva ad ancoretta intagliata e dipinta, cm 91x52. Nella lunetta della cornice raffigurazione dipinta con Tobiolo e langelo e nella parte inferiore della medesima stemma della famiglia Grifoni. sul retro: etichetta con iscrizione: stucco di Antonio Rossellino con tabernacolo originale del 400 Fiorentino (Brunelleschiano). Lopera è corredata da parere scritto di Giancarlo Gentilini, Firenze, 22 luglio 2011 Questo delicato, affabile rilievo raffigura la Vergine che, seduta su di un faldistorio del quale affiora la voluta di un bracciolo ornata da un minuto, vivace serafino, sostiene affettuosamente sulle ginocchia un tenero Bambin Gesù dal volto paffuto e i folti capelli mossi dal vento, intento a stringere al petto un cardellino, secondo una diffusa iconografia promossa nellarte fiorentina del Quattrocento per le immagini destinate alla devozione domestica dai precetti del domenicano Giovanni Dominici. La posa in scorcio del Bambino rivela la natura umana del Verbo fatto carne, così come ne prefigura la Passione il trastullo infantile, secondo la popolare leggenda cristiana del cardellino che avrebbe estratto le spine della corona di Cristo crocifisso tingendosi il capo di rosso col suo sangue. Conferisce ulteriore pregio e interesse a questopera loriginaria, elegante cornice ad anconetta centinata ( con una lunetta dipinta raffigurante Tobiolo accompagnato nel suo viaggio di affari da Raffaele, larcangelo taumaturgo: un tema assai caro ai mercanti fiorentini del tempo, spesso adottato come immagine votiva per gli adolescenti in procinto di lasciare la propria abitazione. Sul peduccio è inoltre dipinto uno scudo a mandorla con arme araldica riferibile alla famiglia Grifoni, tra le più eminenti a Firenze nel Rinascimento. Nella vastissima produzione di analoghi rilievi in stucco o terracotta dipinta praticata dai maggiori scultori fiorentini del Quattrocento, perlopiù in modo seriale replicando a calco un prototipo marmoreo, la nostra Madonna si distingue come esemplare autorevole di una tipologia ancora ignota alla critica, della quale al momento sfuggono ulteriori repliche. Si segnala però lesistenza di una versione marmorea, sostanzialmente identica se non per il gesto benedicente della mano destra del Bambino, in Santa Maria sopra Minerva a Roma, inserita allinterno della tomba di Agostino Maffei, raffinato umanista e collezionista di antichità morto nel 1496, attribuita al lombardo Luigi Capponi. Estraneo ai modi bregneschi del Capponi, questo marmo sembra peraltro nato in modo autonomo, ed è plausibile ipotizzare che fosse stato riutilizzato nel sepolcro Maffei in quanto immagine appartenuta e cara al defunto ( Del resto lopera in esame, già riferita ad Antonio Rossellino (come dichiara una vecchia etichetta dattiloscritta), trova convincenti riscontri nellattività di Benedetto da Maiano, protagonista della scultura fiorentina di fine Quattrocento che ben conosciamo anche come responsabile di una consistente produzione di simili Madonne col Bambino in stucco dipinto. Tra queste si segnala una composizione in forma di medaglione col Bambino benedicente, dove la figura della Vergine ripropone in controparte la nostra Madonna nellovale gentile del volto, nel gesto delicato della mano assottigliata, nella foggia dellabito e nella profonda sacca creata dalla curva del manto: caratteri riscontrabili anche nella tipologia che fa capo al marmo Blumenthal (New York, Metropolitan Museum), nella Madonna in terracotta del Victoria and Albert Museum di Londra e in altri lavori del maestro ( Frequenti nelle Madonne di Benedetto sono inoltre le fattezze pingui e la postura rannicchiata del Bambino, ed offrono puntuali conferme i dettagli decorativi, quali il serafino iscritto come un cammeo nella voluta del faldistorio, identico a quelli nel fregio di un Tabernacolo del Sacramento di collezione privata (già Torino, Antichi Maestri Pittori), e la cornicetta a foglie e perline, adottata anche negli stucchi di una diffusa tipologia mariana col San Giovannino. Ispirata da alcune celebri Madonne marmoree di Desiderio da Settignano e di Antonio Rossellino, maestri che segnano la formazione di Benedetto, questa composizione sembra riferibile alla prima attività autonoma intorno al 1470 ( A Benedetto da Maiano, o ad uno dei fratelli Giuliano e Giovanni, responsabili di una prolifica bottega di legname, è verosimilmente da ricondurre anche la cornice lignea dellanconetta, di un modello ben attestato nella pittura fiorentina del secondo Quattrocento, in particolare in opere dello Pseudo Pier Francesco Fiorentino e del Maestro di San Miniato. Probabilmente la policromia dello stucco fu invece affidata, come duso, ad un pittore esterno alla bottega, che sappiamo in stretti rapporti con maestri come Cosimo Rosselli e Lorenzo di Credi, ma anche con personalità minori, come il misterioso Stefano di Francesco documentato proprio per aver dipinto un rilievo di Benedetto da Maiano. E al medesimo ignoto artista sembra riferibile anche la lunetta, che traduce il noto dipinto del Botticini già nella Compagnia dellArcangelo Raffaele in Santo Spirito (ora agli Uffizi), con modi sensibili alla pittura di Jacopo del Sellaio ed esiti più compendiari prossimi al Maestro di Marradi, autore di unanconetta dotata di una simile carpenteria (Avignone, Musé du Petit Palais). Bibliografia di riferimento: R.Kecks, Madonna und Kind, Berlin 1988; Maestri e botteghe. Pittura a Firenze alla fine del Quattrocento, catalogo della mostra a cura di M.Gregori e altri, Firenze 1992; Giuliano e la bottega dei Da Maiano, atti del convegno a cura di D.Lamberini e altri (1991), Firenze 1994; D.Carl, Benedetto da Maiano. A Florentine Sculptor
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