Dipinti antichi

4 APRILE 2012

Dipinti antichi

Asta, 0096

Firenze
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo Albizi, 26


 
 
 

Tutte le categorie

31 - 60  di 125
68

Attribuito a Girolamo Forabosco (Venezia 1605-Padova 1679) IL SACRIFICIO D'ISACCO olio su tela, cm 173x122 Provenienza: probabilmente già collezione Orsetti, Lucca; collezione privata Cittadella, Lucca Il dipinto compare nellinventario per successione ereditaria della famiglia Cittadella, insieme ad altre importanti opere fra le quali si ricordano alcune tele di Pietro Paolini, redatto ai primi dellOttocento dai pittori lucchesi Pietro Nocchi, Raffaele Giovanetti e Michele Ridolfi con la seguente descrizione: Il Sacrificio di Abramo Del Palma vecchio 25/ 50 zecchini Il dipinto è corredato da parere scritto di Patrizia Giusti Maccari, Lucca, 3 giugno 2007 L'attribuzione a Girolamo Forabosco di questo Sacrificio di Isacco, formulata nella prima metà dell'Ottocento da Pietro Nocchi, Raffaele Giovannetti e Michele Ridolfi, per quanto poi rivelatasi imprecisa in riferimento all'identità del suo autore e alla cronologia d'esecuzione, non risulta del tutto fuorviante, costituendo, anzi, un punto di riferimento importante per la definizione della sua corretta paternità Ai tre pittori, nella veste di tecnici ed esperti responsabili della Commissione per la Conservazione delle Belle Arti istituita da pochi anni da Elisa Baciocchi come strumento di salvaguardia del patrimonio artistico lucchese, incaricati della divisione in lotti per motivi di successione ereditaria della quadreria della nobile famiglia Cittadella, appena estintasi, va infatti il merito di avere correttamente indicato nella scuolas pittorica veneziana larea culturale di provenienza della grande tela. Scuola della quale, in linea con i tempi, possedevano una conoscenza non circostanziata e di tipo specialistico, come attualmente, ma incentrata sulle personalità pittoriche da sempre conosciute e apprezzate anche fuori dai confini della città lagunare. Questa visione compendiaria del variegato e complesso tessuto artistico veneziano, pur consentendo di riconoscere nel Sacrificio le caratteristiche tecnico-stilistiche peculiari, non permette loro di individuare correttamente lartefice del dipinto e la cronologia desecuzione, resa difficile dallintonazione marcatamente cinquecentesca da cui esso è investito nellimpaginazione compositiva come nella resa dei personaggi, concentrati in primissimo piano. In realtà il dipinto è da intendersi come significativa e qualificante espressione di quella corrente pittorica che a Venezia, nella prima metà del Seicento, riscopre e ripropone formule, cifre compositive e tonalità cromatiche cinquecentesche, ponendosi in alternativa a quella cosiddetta tenebrosa, frutto dellondata naturalistica, postcaravaggesca irradiatasi da Roma. Uno dei più qualificati interpreti di tale corrente, volutamente arcaizzante, risulta essere Girolamo Forabosco (Venezia 1605-Padova 1679), cui deve essere assegnato il dipinto qui in esame. Il Forabosco, nel primo quarto del Novecento tirato fuori dalloblio in cui era sprofondato nel secolo precedente da Giuseppe Fiocco e da Hermann Voss, non si limita però a riproporre pedissequamente questa corrente conservativa, derivatagli dal discepolato presso la bottega di Alessandro Varotari detto il Padovanino - tra i primi aderenti ad essa ma lo rivisita con toni di accentuato realismo. Ecco così che i grandi maestri del secolo passato, Giorgione, Palma il Vecchio e Lorenzo Lotto, vengono tradotti e reinterpretati con una cifra stilistica di accezione più moderna. La riproposizione con sensibilità seicentesca di questo glorioso passato pittorico costituisce una delle maggiori caratteristiche distintive della produzione, abbastanza scarsa, lasciata dal Forabosco; caratteristiche, peraltro, tutte riscontrabili nel Sacrificio. Se il movimento rotatorio e lo scorcio da sotto in su impresso alle figure di Abramo e di Isacco sono di derivazione tardomanieristica, come quella muscolosa e quasi sovradimensionata del più anziano dei due, lattenzione alla resa psicologica dellaffollarsi dei sentimenti che si palesa sui loro volti, la minuzia descrittiva dei particolari decorativi, anche dal punto di vista coloristico, dellabbigliamento del patriarca, appartengono indubitabilmente alla metà del Seicento. Laccentuata, realistica puntigliosità nel rappresentare il volto di Abramo, caratterizzato dalla fitta rete di rughe che si dipana come una ragnatela intorno agli occhi, e dalla barba bianca, definita ricciolo per ricciolo, sono elementi che parimenti riconducono al Forabosco, noto e frequentemente impiegato proprio per la sua abilità ritrattistica, specialmente tra il 1630 e il 1650. Appare ugualmente consentaneo al linguaggio stilistico da lui messo a punto il volto di Isacco, per tipologia dei tratti fisionomici assai prossimo a quello di David nel dipinto ora presso il Museo di Vaduz. Il pietismo sentimentale che lo contraddistingue testimonia lapertura al gusto classicista bolognese diffusosi a Venezia attorno al 1650 grazie alla presenza di Guido Cagnacci, gusto a cui anche il Forabosco si mostra sensibile. Al momento si ignora quando il Sacrificio, che reca sul retro il numero 22 vergato con grafia antica, sia entrato a far parte della quadreria Cittadella. La bellissima cornice coeva che lo custodisce, pregevole esempio della capacità tecnica degli intagliatori e doratori lucchesi, testimonia dellarrivo in loco della tela in epoca immediatamente posteriore alla sua realizzazione. Del resto, per motivi commerciali ed artistici i contatti tra le due Repubbliche aristocratiche erano più che frequenti. Non si esclude che lopera possa essere appartenuta originariamente ai conti Orsetti, il cui palazzo di via Burlamacchi, completo degli arredi, era

Attribuito a Girolamo Forabosco (Venezia 1605-Padova 1679) IL SACRIFICIO D'ISACCO olio su tela, cm 173x122 Provenienza: probabilmente già collezione Orsetti, Lucca; collezione privata Cittadella, Lucca Il dipinto compare nellinventario per successione ereditaria della famiglia Cittadella, insieme ad altre importanti opere fra le quali si ricordano alcune tele di Pietro Paolini, redatto ai primi dellOttocento dai pittori lucchesi Pietro Nocchi, Raffaele Giovanetti e Michele Ridolfi con la seguente descrizione: Il Sacrificio di Abramo Del Palma vecchio 25/ 50 zecchini Il dipinto è corredato da parere scritto di Patrizia Giusti Maccari, Lucca, 3 giugno 2007 L'attribuzione a Girolamo Forabosco di questo Sacrificio di Isacco, formulata nella prima metà dell'Ottocento da Pietro Nocchi, Raffaele Giovannetti e Michele Ridolfi, per quanto poi rivelatasi imprecisa in riferimento all'identità del suo autore e alla cronologia d'esecuzione, non risulta del tutto fuorviante, costituendo, anzi, un punto di riferimento importante per la definizione della sua corretta paternità Ai tre pittori, nella veste di tecnici ed esperti responsabili della Commissione per la Conservazione delle Belle Arti istituita da pochi anni da Elisa Baciocchi come strumento di salvaguardia del patrimonio artistico lucchese, incaricati della divisione in lotti per motivi di successione ereditaria della quadreria della nobile famiglia Cittadella, appena estintasi, va infatti il merito di avere correttamente indicato nella scuolas pittorica veneziana larea culturale di provenienza della grande tela. Scuola della quale, in linea con i tempi, possedevano una conoscenza non circostanziata e di tipo specialistico, come attualmente, ma incentrata sulle personalità pittoriche da sempre conosciute e apprezzate anche fuori dai confini della città lagunare. Questa visione compendiaria del variegato e complesso tessuto artistico veneziano, pur consentendo di riconoscere nel Sacrificio le caratteristiche tecnico-stilistiche peculiari, non permette loro di individuare correttamente lartefice del dipinto e la cronologia desecuzione, resa difficile dallintonazione marcatamente cinquecentesca da cui esso è investito nellimpaginazione compositiva come nella resa dei personaggi, concentrati in primissimo piano. In realtà il dipinto è da intendersi come significativa e qualificante espressione di quella corrente pittorica che a Venezia, nella prima metà del Seicento, riscopre e ripropone formule, cifre compositive e tonalità cromatiche cinquecentesche, ponendosi in alternativa a quella cosiddetta tenebrosa, frutto dellondata naturalistica, postcaravaggesca irradiatasi da Roma. Uno dei più qualificati interpreti di tale corrente, volutamente arcaizzante, risulta essere Girolamo Forabosco (Venezia 1605-Padova 1679), cui deve essere assegnato il dipinto qui in esame. Il Forabosco, nel primo quarto del Novecento tirato fuori dalloblio in cui era sprofondato nel secolo precedente da Giuseppe Fiocco e da Hermann Voss, non si limita però a riproporre pedissequamente questa corrente conservativa, derivatagli dal discepolato presso la bottega di Alessandro Varotari detto il Padovanino - tra i primi aderenti ad essa ma lo rivisita con toni di accentuato realismo. Ecco così che i grandi maestri del secolo passato, Giorgione, Palma il Vecchio e Lorenzo Lotto, vengono tradotti e reinterpretati con una cifra stilistica di accezione più moderna. La riproposizione con sensibilità seicentesca di questo glorioso passato pittorico costituisce una delle maggiori caratteristiche distintive della produzione, abbastanza scarsa, lasciata dal Forabosco; caratteristiche, peraltro, tutte riscontrabili nel Sacrificio. Se il movimento rotatorio e lo scorcio da sotto in su impresso alle figure di Abramo e di Isacco sono di derivazione tardomanieristica, come quella muscolosa e quasi sovradimensionata del più anziano dei due, lattenzione alla resa psicologica dellaffollarsi dei sentimenti che si palesa sui loro volti, la minuzia descrittiva dei particolari decorativi, anche dal punto di vista coloristico, dellabbigliamento del patriarca, appartengono indubitabilmente alla metà del Seicento. Laccentuata, realistica puntigliosità nel rappresentare il volto di Abramo, caratterizzato dalla fitta rete di rughe che si dipana come una ragnatela intorno agli occhi, e dalla barba bianca, definita ricciolo per ricciolo, sono elementi che parimenti riconducono al Forabosco, noto e frequentemente impiegato proprio per la sua abilità ritrattistica, specialmente tra il 1630 e il 1650. Appare ugualmente consentaneo al linguaggio stilistico da lui messo a punto il volto di Isacco, per tipologia dei tratti fisionomici assai prossimo a quello di David nel dipinto ora presso il Museo di Vaduz. Il pietismo sentimentale che lo contraddistingue testimonia lapertura al gusto classicista bolognese diffusosi a Venezia attorno al 1650 grazie alla presenza di Guido Cagnacci, gusto a cui anche il Forabosco si mostra sensibile. Al momento si ignora quando il Sacrificio, che reca sul retro il numero 22 vergato con grafia antica, sia entrato a far parte della quadreria Cittadella. La bellissima cornice coeva che lo custodisce, pregevole esempio della capacità tecnica degli intagliatori e doratori lucchesi, testimonia dellarrivo in loco della tela in epoca immediatamente posteriore alla sua realizzazione. Del resto, per motivi commerciali ed artistici i contatti tra le due Repubbliche aristocratiche erano più che frequenti. Non si esclude che lopera possa essere appartenuta originariamente ai conti Orsetti, il cui palazzo di via Burlamacchi, completo degli arredi, era
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Rutilio Manetti (Siena 1571-1639) MADONNA CON BAMBINO olio su tela, cm 78x58 al recto in basso a destra stemma dipinto della famiglia Tantucci Provenienza: già collezione Tantucci, Siena; asta Sotheby's, Londra, 1969; asta Christie's, Londra, 1971; collezione privata, Firenze. Bibliografia: Londra, Sotheby's, 12 novembre 1969, n. 56; Londra, Christie's, 16 luglio 1971, p. 41, n. 120; Catalogo Bolaffi della Pittura Italiana del 600 e del 700. N. 1, Torino, 1974, p. 123; F. Todini, Rutilio Manetti: note in margine a una mostra, in Paragone, XXX, 1978, 347, p. 69, fig. 54; A. Bagnoli, Il San Giorgio vittorioso di Sebastiano Conca. Un restauro e tre acquisti per la collezione della Banca Monte dei Paschi di Siena, Siena, 2006, p. 17, fig. 8; M. Ciampolini, Pittori Senesi del Seicento, Siena, 2010, p. 258, tav. col. 145. Si deve a Marco Ciampolini la nota critica qui pubblicata: Il dipinto è passato, con la corretta attribuzione al Manetti, prima in un'asta Sotheby's, Londra 1969 e successivamente da Christie's, Londra 1971. Ricordato (1974) nel Catalogo Bolaffi della Pittura Italiana del 600 e del 700, è stato pubblicato da Filippo Todini nel 1979 nella sua recensione alla memorabile mostra sul pittore, tenutasi a Siena l'anno precedente e curata da Alessandro Bagnoli. Il dipinto era al tempo in collezione privata a Firenze ed era stato segnalato al Todini da Mina Gregori. Lo studioso, notando il rude vigore naturalista, lo accostava all'intenso Sant'Antonio Abate che libera un'indemoniata, firmato e datato 1628, in San Domenico a Siena. La datazione proposta dal Todini è sostanzialmente accettata da Bagnoli, che nota come con poche varianti per la figura della Madonna, la bella soluzione della madre che sorregge amorosamente un grasso neonato colto in un profondo sonno era già stata usata dal pittore per un pannello del cataletto (1625) della Compagnia dei Santi Niccolò e Lucia (Siena, in deposito nella Pinacoteca Nazionale). Analizza inoltre lo stemma in basso a destra osservando che si tratta dell'arme Tantucci, con capo dell'ordine di Santo Stefano, sormontato da cappello vescovile. L'opera è stata infine da me analizzata nel repertorio sui Pittori senesi del Seicento, nell'occasione è stato possibile recuperare l'intera bibliografia e pubblicarla a colori. L'identificazione dello stemma con il cappello vescovile permette di riconoscere il committente in Girolamo Tantucci, vescovo di Grosseto dal 1622 al 1637, anno della sua morte, ed entro questi termini si dovrà necessariamente collocare l'esecuzione dell'opera. Questo prelato fu certamente coinvolto nelle questioni artistiche del tempo, in quanto nel 1625 lo troviamo abitante a Roma, assieme a due pittori, Francesco Rustici detto il Rustichino, che con il Manetti condivise il ruolo di massimo esponente del caravaggismo senese, e l'ancora ignoto Sebastiano Granucci (Roma, Archivio del Vicariato, San Lorenzo in Damaso 64, cc. 31rv; B. Sani, Il Cinquecento e il Seicento, in G. Chelazzi Dini, A. Angelini, B. Sani, Pittura Senese, Milano, Federico Motta Editore, 1997, pp. 434, 457, nota 30; M. Ciampolini, Pittori Senesi del Seicento, Siena, Nuova Immagine Editrice, 2010, p. 672). La questione dell'amicizia fra il vescovo e il Rustichino suscita un'ulteriore ipotesi. La commissione del cataletto fu passata dal Rustici al Manetti nel 1625 visto che il primo, assente da Siena, non riusciva ad ottemperarla o forse semplicemente a completarla. Non è improbabile che il pannello del cataletto con la Madonna e il Bambino rifletta effettivamente una composizione del Rustichino rimasta allo stato ideativo e poi ripresa e definita dal Manetti. Il classicismo statuario delle figure, animato da un'intensa poetica degli affetti, avvalora questa ipotesi. Il vescovo Tantucci potrebbe aver così richiesto al Manetti una Madonna che adombrasse quella ideata dall'amico, scomparso nel 1626. Questa interessante ipotesi, al momento non verificabile, permetterebbe di approssimare l'opera alla morte del Rustichino e quindi reputarla di poco anteriore al 1628.

Rutilio Manetti (Siena 1571-1639) MADONNA CON BAMBINO olio su tela, cm 78x58 al recto in basso a destra stemma dipinto della famiglia Tantucci Provenienza: già collezione Tantucci, Siena; asta Sotheby's, Londra, 1969; asta Christie's, Londra, 1971; collezione privata, Firenze. Bibliografia: Londra, Sotheby's, 12 novembre 1969, n. 56; Londra, Christie's, 16 luglio 1971, p. 41, n. 120; Catalogo Bolaffi della Pittura Italiana del 600 e del 700. N. 1, Torino, 1974, p. 123; F. Todini, Rutilio Manetti: note in margine a una mostra, in Paragone, XXX, 1978, 347, p. 69, fig. 54; A. Bagnoli, Il San Giorgio vittorioso di Sebastiano Conca. Un restauro e tre acquisti per la collezione della Banca Monte dei Paschi di Siena, Siena, 2006, p. 17, fig. 8; M. Ciampolini, Pittori Senesi del Seicento, Siena, 2010, p. 258, tav. col. 145. Si deve a Marco Ciampolini la nota critica qui pubblicata: Il dipinto è passato, con la corretta attribuzione al Manetti, prima in un'asta Sotheby's, Londra 1969 e successivamente da Christie's, Londra 1971. Ricordato (1974) nel Catalogo Bolaffi della Pittura Italiana del 600 e del 700, è stato pubblicato da Filippo Todini nel 1979 nella sua recensione alla memorabile mostra sul pittore, tenutasi a Siena l'anno precedente e curata da Alessandro Bagnoli. Il dipinto era al tempo in collezione privata a Firenze ed era stato segnalato al Todini da Mina Gregori. Lo studioso, notando il rude vigore naturalista, lo accostava all'intenso Sant'Antonio Abate che libera un'indemoniata, firmato e datato 1628, in San Domenico a Siena. La datazione proposta dal Todini è sostanzialmente accettata da Bagnoli, che nota come con poche varianti per la figura della Madonna, la bella soluzione della madre che sorregge amorosamente un grasso neonato colto in un profondo sonno era già stata usata dal pittore per un pannello del cataletto (1625) della Compagnia dei Santi Niccolò e Lucia (Siena, in deposito nella Pinacoteca Nazionale). Analizza inoltre lo stemma in basso a destra osservando che si tratta dell'arme Tantucci, con capo dell'ordine di Santo Stefano, sormontato da cappello vescovile. L'opera è stata infine da me analizzata nel repertorio sui Pittori senesi del Seicento, nell'occasione è stato possibile recuperare l'intera bibliografia e pubblicarla a colori. L'identificazione dello stemma con il cappello vescovile permette di riconoscere il committente in Girolamo Tantucci, vescovo di Grosseto dal 1622 al 1637, anno della sua morte, ed entro questi termini si dovrà necessariamente collocare l'esecuzione dell'opera. Questo prelato fu certamente coinvolto nelle questioni artistiche del tempo, in quanto nel 1625 lo troviamo abitante a Roma, assieme a due pittori, Francesco Rustici detto il Rustichino, che con il Manetti condivise il ruolo di massimo esponente del caravaggismo senese, e l'ancora ignoto Sebastiano Granucci (Roma, Archivio del Vicariato, San Lorenzo in Damaso 64, cc. 31rv; B. Sani, Il Cinquecento e il Seicento, in G. Chelazzi Dini, A. Angelini, B. Sani, Pittura Senese, Milano, Federico Motta Editore, 1997, pp. 434, 457, nota 30; M. Ciampolini, Pittori Senesi del Seicento, Siena, Nuova Immagine Editrice, 2010, p. 672). La questione dell'amicizia fra il vescovo e il Rustichino suscita un'ulteriore ipotesi. La commissione del cataletto fu passata dal Rustici al Manetti nel 1625 visto che il primo, assente da Siena, non riusciva ad ottemperarla o forse semplicemente a completarla. Non è improbabile che il pannello del cataletto con la Madonna e il Bambino rifletta effettivamente una composizione del Rustichino rimasta allo stato ideativo e poi ripresa e definita dal Manetti. Il classicismo statuario delle figure, animato da un'intensa poetica degli affetti, avvalora questa ipotesi. Il vescovo Tantucci potrebbe aver così richiesto al Manetti una Madonna che adombrasse quella ideata dall'amico, scomparso nel 1626. Questa interessante ipotesi, al momento non verificabile, permetterebbe di approssimare l'opera alla morte del Rustichino e quindi reputarla di poco anteriore al 1628.
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95

Alessandro Rosi (Firenze 1627-1697) ANNUNCIAZIONE olio su tela, cm 72x96,5 Lopera è corredata da parere scritto di Alessandro Marabottini, Firenze, 22 febbraio 2012  dipinto riprodotto su questa fotografia e rappresentante lAnnunciazione (olio su tela, cm. 72x96,5) è opera certa di Alessandro Rosi (Firenze o dintorni 1627-Firenze 1697), come dimostrano alcuni confronti fra alcune parti di questa tela e opere sicure e pubblicate del pittore: la testa della Vergine è quasi identica a quella appena più di profilo di Maria nella Fuga in Egitto in collezione privata (Cfr. E. Acanfora, Alessandro Rosi, Edifir, Firenze, 1994, p. 157, fig. 47); la figura a mezzo busto dellAngelo è similissima a quella di Agar nel dipinto con Agar e Ismaele salvati dallAngelo in collezione privata a Milano (cfr. Acanfora, cit., p. 167, fig. 57); la mano sinistra che la Madonna stringe al petto la ritroviamo esatta nella figura giovanile del dipinto con lAngelo custode, anchesso in collezione privata (cfr. Acanfora, cit., p. 172, fig. 62), e i raffronti potrebbero continuare con quasi tutte le opere del ricostruito corpus del Rosi, soprattutto per la tipologia molto caratteristica dei panneggi. Il dipinto in esame, di eccellente qualità si distingue anche per loriginalità della composizione, con due figure a mezzo busto fortemente avvicinate ad occupare tutta della tela, mentre anche gli spazi residui sono invasi da teste di cherubini, cosicchè quasi non vi è alcun respiro di sfondo e le immagini sembrano emergere come in un altorilievo. Alessandro Rosi fu allievo di Cesare Dandini dal quale trasse, specie nelle cose più giovanili, la tipologia di molti volti. Ma a confronto con lalgida eleganza del Dandini, il Rosi parla un linguaggio assai più terrestre. Lo mostra bene in questa Annunciazione il colloquio ravvicinato e quasi casalingo, privo di ogni suggestione soprannaturale, fra lAngelo e la Vergine, del tutto nuovo anche dal punto di vista iconografico, mentre i panneggi sovrabbondanti ricchi di colore e di plastica corposità appaiono come rigonfi, assai più memori di modelli del Cigoli, che non dei modi assai più asciutti e lucenti del Dandini. Questo modo ridondante di panneggiare è tipico delle opere del Rosi eseguite nellottavo e nel nono decennio del 600, cioè nella fase più matura e nota del pittore, alla quale deve appartenere questa Annunciazione

Alessandro Rosi (Firenze 1627-1697) ANNUNCIAZIONE olio su tela, cm 72x96,5 Lopera è corredata da parere scritto di Alessandro Marabottini, Firenze, 22 febbraio 2012  dipinto riprodotto su questa fotografia e rappresentante lAnnunciazione (olio su tela, cm. 72x96,5) è opera certa di Alessandro Rosi (Firenze o dintorni 1627-Firenze 1697), come dimostrano alcuni confronti fra alcune parti di questa tela e opere sicure e pubblicate del pittore: la testa della Vergine è quasi identica a quella appena più di profilo di Maria nella Fuga in Egitto in collezione privata (Cfr. E. Acanfora, Alessandro Rosi, Edifir, Firenze, 1994, p. 157, fig. 47); la figura a mezzo busto dellAngelo è similissima a quella di Agar nel dipinto con Agar e Ismaele salvati dallAngelo in collezione privata a Milano (cfr. Acanfora, cit., p. 167, fig. 57); la mano sinistra che la Madonna stringe al petto la ritroviamo esatta nella figura giovanile del dipinto con lAngelo custode, anchesso in collezione privata (cfr. Acanfora, cit., p. 172, fig. 62), e i raffronti potrebbero continuare con quasi tutte le opere del ricostruito corpus del Rosi, soprattutto per la tipologia molto caratteristica dei panneggi. Il dipinto in esame, di eccellente qualità si distingue anche per loriginalità della composizione, con due figure a mezzo busto fortemente avvicinate ad occupare tutta della tela, mentre anche gli spazi residui sono invasi da teste di cherubini, cosicchè quasi non vi è alcun respiro di sfondo e le immagini sembrano emergere come in un altorilievo. Alessandro Rosi fu allievo di Cesare Dandini dal quale trasse, specie nelle cose più giovanili, la tipologia di molti volti. Ma a confronto con lalgida eleganza del Dandini, il Rosi parla un linguaggio assai più terrestre. Lo mostra bene in questa Annunciazione il colloquio ravvicinato e quasi casalingo, privo di ogni suggestione soprannaturale, fra lAngelo e la Vergine, del tutto nuovo anche dal punto di vista iconografico, mentre i panneggi sovrabbondanti ricchi di colore e di plastica corposità appaiono come rigonfi, assai più memori di modelli del Cigoli, che non dei modi assai più asciutti e lucenti del Dandini. Questo modo ridondante di panneggiare è tipico delle opere del Rosi eseguite nellottavo e nel nono decennio del 600, cioè nella fase più matura e nota del pittore, alla quale deve appartenere questa Annunciazione
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Vincenzo Dandini (Firenze 1609-1675) SUONATORE DI FLAUTO olio su tela, cm 81x76,5 Si tratta di una delle versioni conosciute di questo elegante Suonatore di flauto che ha lungamente impegnato la critica in merito allattribuzione. E ben noto infatti lesemplare degli Uffizi cui è strettamente legato il dipinto qui proposto seppur con alcune piccole varianti interpretative che è stato riferito a Cesare Dandini (M. Gregori, 1970) successivamente assegnato a Vincenzo Dandini e pubblicato nella monografia dellartista da (S. Bellesi, 2003) e presentato con tale attribuzione alla mostra Luce e Ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, Pontedera, 2005 e recentemente riferito a Simon Vouet da Gianni Papi (G. Papi, 2010) sulla scorta di una incisione raffigurante un giovane in posizione simile al Suonatore di flauto. Si segnala una versione del Suonatore di flauto pubblicato da Giancarlo Sestieri (G. Sestieri, 1985) con attribuzione a Cesare Dandini che appare simile nellesecuzione, identico nelle dimensioni e potrebbe pertanto trattarsi verosimilmente del nostro dipinto. Lopera è corredata da parere scritto di Mina Gregori, Firenze, 16 maggio 2007, in cui la studiosa chiarisce le vicende attributive relative a questo soggetto. A Vincenzo Dandini è stata attribuita una versione di questo soggetto conservata nelle Gallerie fiorentine. Altre se ne conoscono di varia qualità Questa è una delle più valide e deve considerarsi esemplare autografo. Le caratteristiche portano ad affermare il nome di Vincenzo Dandini. La rappresentazione a mezza figura del giovane suonatore assiso su una sedia di cui si scorge il bracciolo e la ricchezza della manica avvolta in un drappo rosato da cui esce la camicia, il berretto di pelliccia e stoffa rossa costituiscono un composto di grande originalità coloristica e chiaroscurale che qualifica l'opera a un livello molto alto. Si aggiungano l'abilità nel caratterizzare le mani, colpite dalla luce, e le ombre profonde che conferiscono al viso del giovane musicista un alone di mistero e al contempo un'intensità che bene gli si addice Riguardo allesemplare degli Uffizi la studiosa indica che  'Suonatore' fu da me attribuito a Cesare Dandini negli anni delle prime scoperte di questo bellissimo pittore, che credevo di riconoscere soprattutto nelle pieghe luminose delle maniche e nell'atteggiamento con cui il protagonista è presentato. Al contempo avanzai l'ipotesi di una derivazione dal pittore francese Simon Vouet, derivazione che ha trovato in seguito una conferma grazie a un'incisione. Si è poi scoperta l'attività del fratello di Cesare, Vincenzo, a cui il 'Suonatore' è stato ultimamente attribuito. Lo spostamento da Cesare Dandini a Vincenzo mi trova assolutamente favorevole. Bibliografia di riferimento: M. Gregori, 70 pitture e sculture del '600 e '700 fiorentino, catalogo della mostra, Firenze, 1965, pp. 14-15, 46; M. Gregori, in E. Borea, Caravaggio e Caravaggeschi nelle Gallerie di Firenze, catalogo della mostra, Firenze, 1970, pp. 62-63; G. Sestieri, La figura nella pittura di genere, 1985, p. 14, ill.; S. Bellesi, in Il Corrioio Vasariano agli Uffizi, a cura di C. Caneva, Cinisello Balsamo (Milano), 2002, pp. 126-127 n. 15; S. Bellesi, Vincenzo Dandini e la pittura a Firenze alla metà del Seicento, Ospedaletto (Pisa), 2003, pp. 76-77 n. 4; S. Bellesi, in Luce e Ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, catalogo della mostra a cura di P. Carofano, Pontedera, Ospedaletto (Pisa), 2005, pp. 108-111 n. 39; G. Papi, in Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, catalogo della mostra, Firenze, Prato, 2010, pp. 280-281 n. 81

Vincenzo Dandini (Firenze 1609-1675) SUONATORE DI FLAUTO olio su tela, cm 81x76,5 Si tratta di una delle versioni conosciute di questo elegante Suonatore di flauto che ha lungamente impegnato la critica in merito allattribuzione. E ben noto infatti lesemplare degli Uffizi cui è strettamente legato il dipinto qui proposto seppur con alcune piccole varianti interpretative che è stato riferito a Cesare Dandini (M. Gregori, 1970) successivamente assegnato a Vincenzo Dandini e pubblicato nella monografia dellartista da (S. Bellesi, 2003) e presentato con tale attribuzione alla mostra Luce e Ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, Pontedera, 2005 e recentemente riferito a Simon Vouet da Gianni Papi (G. Papi, 2010) sulla scorta di una incisione raffigurante un giovane in posizione simile al Suonatore di flauto. Si segnala una versione del Suonatore di flauto pubblicato da Giancarlo Sestieri (G. Sestieri, 1985) con attribuzione a Cesare Dandini che appare simile nellesecuzione, identico nelle dimensioni e potrebbe pertanto trattarsi verosimilmente del nostro dipinto. Lopera è corredata da parere scritto di Mina Gregori, Firenze, 16 maggio 2007, in cui la studiosa chiarisce le vicende attributive relative a questo soggetto. A Vincenzo Dandini è stata attribuita una versione di questo soggetto conservata nelle Gallerie fiorentine. Altre se ne conoscono di varia qualità Questa è una delle più valide e deve considerarsi esemplare autografo. Le caratteristiche portano ad affermare il nome di Vincenzo Dandini. La rappresentazione a mezza figura del giovane suonatore assiso su una sedia di cui si scorge il bracciolo e la ricchezza della manica avvolta in un drappo rosato da cui esce la camicia, il berretto di pelliccia e stoffa rossa costituiscono un composto di grande originalità coloristica e chiaroscurale che qualifica l'opera a un livello molto alto. Si aggiungano l'abilità nel caratterizzare le mani, colpite dalla luce, e le ombre profonde che conferiscono al viso del giovane musicista un alone di mistero e al contempo un'intensità che bene gli si addice Riguardo allesemplare degli Uffizi la studiosa indica che  'Suonatore' fu da me attribuito a Cesare Dandini negli anni delle prime scoperte di questo bellissimo pittore, che credevo di riconoscere soprattutto nelle pieghe luminose delle maniche e nell'atteggiamento con cui il protagonista è presentato. Al contempo avanzai l'ipotesi di una derivazione dal pittore francese Simon Vouet, derivazione che ha trovato in seguito una conferma grazie a un'incisione. Si è poi scoperta l'attività del fratello di Cesare, Vincenzo, a cui il 'Suonatore' è stato ultimamente attribuito. Lo spostamento da Cesare Dandini a Vincenzo mi trova assolutamente favorevole. Bibliografia di riferimento: M. Gregori, 70 pitture e sculture del '600 e '700 fiorentino, catalogo della mostra, Firenze, 1965, pp. 14-15, 46; M. Gregori, in E. Borea, Caravaggio e Caravaggeschi nelle Gallerie di Firenze, catalogo della mostra, Firenze, 1970, pp. 62-63; G. Sestieri, La figura nella pittura di genere, 1985, p. 14, ill.; S. Bellesi, in Il Corrioio Vasariano agli Uffizi, a cura di C. Caneva, Cinisello Balsamo (Milano), 2002, pp. 126-127 n. 15; S. Bellesi, Vincenzo Dandini e la pittura a Firenze alla metà del Seicento, Ospedaletto (Pisa), 2003, pp. 76-77 n. 4; S. Bellesi, in Luce e Ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, catalogo della mostra a cura di P. Carofano, Pontedera, Ospedaletto (Pisa), 2005, pp. 108-111 n. 39; G. Papi, in Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, catalogo della mostra, Firenze, Prato, 2010, pp. 280-281 n. 81
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