Dipinti Antichi

15 OTTOBRE 2013

Dipinti Antichi

Asta, 0058

Firenze
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26


Esposizione

FIRENZE
da sabato 5 a lunedì 14 ottobre 2013
orario 10.00 - 13.00 / 14.00 - 19.00
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   500 € - 60000 €

Tutte le categorie

121 - 150  di 181
123
Pittore alla corte di Rodolfo II di Praga, primo decennio sec. XVII
PSICHE SCOPRE L'IDENTITÀ DI AMORE
olio su tela, cm 201x257
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
Il dipinto narra la storia di Psiche e Amore, come tramandata da Apuleio nelle sue Metamorfosi. In particolare viene raffigurato il momento in cui Psiche, verificando la vera identità del suo amante, fa cadere una goccia di olio caldo dalla sua lucerna sul viso di Amore, il quale svegliandosi si allontana in volo dai baci e dalle braccia della disperata sposa.
L'affascinante tela qui proposta, di grande effetto scenografico denota aspetti riconducibili alla cultura artistica italiana (veneto-emiliana) particolarmente ravvisabili nel sensuale nudo di Psiche, al contempo reso con forte plasticismo, e nella figura di Amore, memore degli esempi del manierismo fiorentino. Il brano poetico, in secondo piano, con figure danzanti dinanzi ad una finestra aperta su uno scorcio di cielo notturno con uno spicchio di luna, ricorda altresì alcuni esempi della cultura emiliana.
A questi elementi si aggiungono evidenti richiami stilistici con l'ambiente artistico rudolfino che a seguito del trasferimento a Praga nel 1583, divenne un fervente centro culturale grazie agli interessi di Rodolfo II che aveva dato vita alla Camera delle meraviglie più grande del suo tempo ricca di curiosità, opere d'arte e oggetti tra i più disparati.
Si riscontrano infatti affinità tra il nostro dipinto e le composizioni e figure femminili dei tre maggiori protagonisti della corte quali Barthlomeus Spranger (Anversa 1546-Praga 1611), Joseph Heintz il Vecchio (Basilea, 1564-Praga, 1609) e Hans von Aachen (Colonia 1552-Praga 1615) .
Le eleganti contorsioni tardomanieriste delle figure femminili ritornano spesso nei dipinti di Spranger, si ricorda a questo proposito Ercole e Onfale del Kunsthistorisches Museum di Vienna, Venere e Bacco della Niedersächsische Landesgalerie di Hannover e la Diana del Museo di belle arti di Budapest: tutti i quadri illustrati nel catalogo della mostra Prag um 1600:. Kunst und Kultur am Hofe Rudolfs II., Essen 1988, cat. 154, 157, 160).
Ulteriori affinità sono ravvisabili con il dipinto del medesimo soggetto di Joseph Heintz il Vecchio, conservato presso la Deutsche Barockgalerie di Augsburgo databile al primo decennio del Seicento e con il Pan e Selene di Hans von Aachen di collezione privata (datata 1605) sia per la composizione sia per il gioco di luci e ombre che disvelano i nudi e conferiscono anche al nostro dipinto un aspetto teatrale e allusivo.
 
 
 
Stima    50.000 / 70.000
126
Bartolomeo Bettera
(Bergamo 1639-documentato fino al 1688)
GLOBO TERRESTRE, STRUMENTI MUSICALI E SPARTITI SU UN PIANO COPERTO DA TAPPETO ORIENTALE
olio su tela, cm 118,5x156
 
Provenienza: già collezione Wertheimer, Parigi;
Mortimer Brandt, New York
 
Bibliografia: “The Art Journal” XXVI, 1966-67, 2 (riprodotto); M. Rosci, Baschenis, Bettera & Co. Produzione e mercato della natura morta del Seicento in Italia, Milano 1971, pp. 61, 63 nota 15, e 152, fig. 148; M. Rosci, Bartolomeo e Bonavenura Bettera. In I Pittori Bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Seicento, III, Bergamo 1985, p. 164, n. 19; p. 178, fig.1.
 
Pubblicato per la prima volta come opera di Evaristo Baschenis, il dipinto qui presentato è stato restituito a Bartolomeo Bettera da Marco Rosci, che per primo ha affrontato in maniera sistematica la distinzione tra i due maggiori protagonisti della natura morta bergamasca, esaminando la fortuna collezionistica delle loro invenzioni e la loro ripetizione nelle rispettive botteghe.
Oltre a tracciare un catalogo sostanzialmente attendibile dei due maestri, lo studioso ha distinto altresì le personalità minori del cosiddetto “Monogrammista BB” e di Bonaventura Bettera che ne divulgano temi e invenzioni volgarizzandole nella cosiddetta “maniera bergamasca”, non priva di tangenze con la scuola romana e in particolare con l’opera del Maltese e dei suoi seguaci.
Interessato a una descrizione quasi inventariale degli oggetti preziosi che compongono la “natura silente” (tra gli strumenti musicali del nostro dipinto si intravede uno scrigno) inquadrata da un ricco tendaggio a motivi dorati, Bartolomeo Bettera è ormai lontano dalle astratte geometrie spaziali di Evaristo Baschenis, rigorose e ardite nella loro essenzialità. ipica di Bettera è poi la resa estremamente realistica della trama del tappeto orientale su cui posano gli strumenti; nella tela qui presentata i suoi riflessi rosati scaldano appena la dominante tra il grigio e il bruno della composizione, su cui si accende la raffinatissima cromia del globo terrestre in primo piano a sinistra.
Presumibilmente collocabile nella tarda attività del pittore bergamasco in considerazione dell’ascendente esercitato sulla produzione del figlio Bonaventura (in particolare sulla natura morta firmata per esteso a Mosca, Museo Pushkin e su quelle nei musei di Vienna e Lubiana che ad essa si legano), il nostro dipinto è accostato dal Rosci alle tele già nella raccolta Venino a Bosto di Varese, tra le migliori della sua maturità (M. Rosci, 1971, figg. 146 e 147). A queste si può aggiungere la coppia illustrata dallo studioso in collezione Festa a Vicenza (ibidem, figg. 151 e 152), confrontabile sotto il profilo iconografico e compositivo.
 
Stima    30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
127
Carlo Manieri
(Taranto? documentato a Roma dal 1662 al 1700)
NATURA MORTA CON TAPPETO, CUSCINO, CHITARRA E SPADA
olio su tela, cm 82,5x110,5
 
Provenienza: già Galleria Giorgio Caretto, Torino
 
Bibliografia: M. Natale, La natura morta in Lombardia, in F. Porzio (a cura di), La natura morta in Italia, Milano 1989, I, pp. 210-211, fig. 236 p. 208 (come Anonimo pittore lombardo)
 
E’ piuttosto recente la riscoperta di Carlo Manieri, pittore di natura morta specializzato nella raffigurazione di sontuosi interni popolati da oggetti preziosi, tappeti e strumenti musicali, ma anche di fiori e frutta sullo sfondo di elaborate prospettive architettoniche. Attivo per le principali famiglie della Roma barocca dopo aver lavorato per un rivenditore di quadri, l’artista fu certo a capo di una bottega prolifica e ben organizzata, tale da soddisfare le richieste di una clientela sempre più propensa all’ostentazione del lusso, almeno dipinto.
La ricostruzione del suo imponente catalogo, come dei rapporti con altre personalità minori della scena romana attive nella stessa specialità, si deve alle ricerche di Ulisse e Gianluca Bocchi (Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Casalmaggiore 2005, pp. 525-576) che hanno accolto e sviluppato una proposta di Eduard Safarik. Già nel 1991 quest’ultimo aveva suggerito di riconoscere in una coppia di tele siglate “C.M.” e “C.M.F.” l’opera di Carlo Manieri, noto fino a quel momento quale autore di opere di tale soggetto descritte negli inventari di Filippo II Colonna (1714) e di Benedetto Pamphilj (1725) ma non rintracciate; altri dipinti di uguali caratteristiche recanti la medesima sigla si sono poi aggiunti al nucleo iniziale confermando questa ipotesi identificativa. Altre ricerche dei Bocchi su vari artisti minori documentati sulla scena romana quali Gian Domenico Valentino, ovvero il “Monogrammista G.D.V.” e Antonio ibaldi, hanno suggerito di riportare a Roma, quale centro di produzione e non solo di scambio, una serie di opere che ricerche precedenti avevano invece collocato in area lombarda, alcune sotto l’etichetta della “bottega bergamasca” coniata per indicare una produzione vastissima e discontinua, in qualche modo legata agli esempi di Baschenis e dei Bettera ma aperta, per l’appunto, al gusto romano e in particolare alla produzione dell’allora misterioso Francesco Maltese.
E’ appunto il caso del nostro dipinto, pubblicato nel 1989 come opera di anonimo artista lombardo e ritenuto tra i gli esemplari più alti di questa tendenza. Sembra oggi opportuno restituirlo invece al catalogo di Carlo Manieri, di cui rappresenta a nostro avviso uno dei numeri più interessanti e più alti per qualità: straordinario è infatti il rigore compositivo con cui gli oggetti sono presentati, per una volta in numero ridotto ma non per questo meno opulenti; raffinatissimi gli accordi cromatici dei tessuti preziosi, restituiti con eccezionale maestria nei loro ricami e nelle pieghe pesanti. Un quadro, dunque, paragonabile ad analoghi dettagli presenti nelle opere migliori dell’artista romano tra quelle contraddistinte con la sua sigla.
 
Stima    30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
138
Pittore romano, sec. XVII
RITRATTO DI MAFFEO BARBERINI PRINCIPE DI PALESTRINA IN ARMATURA CON IL COLLARE DEL TOSON D’ORO
olio su tela, cm 221x150
al recto numero d’inventario 545 dipinto della collezione Barberini
 
Nell’importante dipinto qui presentato viene ritratto Maffeo Barberini (1631-1685), figlio di Taddeo Barberini ed Anna Colonna, nato a Roma il 19 agosto 1631 ed ivi morto l’11 novembre 1685. Quarto principe di Palestrina, duca di Montelibretti e di Monterotondo, marchese di Corese, signore di Capranica, sposò il 15 giugno 1653 Olimpia Giustiniani, da cui ebbe cinque figli: Costanza sposata Caetani, Camilla sposata Borromeo, Francesco divenuto cardinale, Urbano destinato a continuare la casata e Taddeo sposato Muti.
Maffeo Barberini, effigiato secondo i dettami del ritratto ufficiale a figura intera con una ricca armatura, sullo sfondo di un’architettura e di un paesaggio in lontananza, indossa il Toson d’oro, onorificenza ricevuta nel 1668. Tale elemento costituisce un utile termine post quem per la datazione della nostra opera, pertanto successiva al Ritratto del principe Maffeo Barberini eseguito da Carlo Maratta, conservato in collezione privata, in cui non viene rappresentata l’onorificenza. L’attenzione per la resa aulica dei dettagli e di una puntuale descrizione fisionomica ravvisabile nel nostro dipinto, come in quello eseguito da Maratta, dimostra lo sviluppo di una ritrattistica derivata da Ferdinand Voet (1639-1700 circa) divenuto specialista in tale genere molto in voga presso l’aristocrazia romana.
Il principe Barberini fu inoltre un importante mecenate: commissionò la costruzione della Chiesa di Santa Rosalia a Palestrina (inaugurata nel 1677) e nel 1653 riaprì il Teatro delle Quattro Fontane, dopo che era rimasto chiuso per più di dieci anni. Fu inoltre collezionista di opere d’arte, come molti membri della sua famiglia, e proprietario della raccolta di suo zio Antonio Barberini che comprendeva almeno tre dipinti di Caravaggio.
 
Bibliografia di riferimento: F. Petrucci, Il principe romano. Ritratti dell’aristocrazia pontificia nell’età barocca, catalogo della mostra, Museo nazionale di Castel Sant’Angelo, Roma 2007, n. XXVI p. 80
 
Stima    15.000 / 20.000
144
Luca Giordano e bottega
(Napoli 1634-1705)
ERMINIA RITROVA TANCREDI FERITO
olio su tela, cm 151x185,5
 
Corredato da parere scritto di Stefano Causa
 
Il dipinto raffigura un episodio tratto dall’ultima parte della Gerusalemme Liberata (Canto XIX, 103-114). Dopo lo scontro con Argante, il paladino Tancredi d’Altavilla viene trovato esanime dal suo scudiero Vafrino e dalla pastorella Erminia che, in principio si dispera, credendolo morto (‘…Al nome di Tancredi, ella veloce accorse in guisa d’ebra e forsennata Vista la faccia scolorita e bella non scese no, precipitò di sella; e in lui versò d’inessicabil vena lacrime e voce di sospiri mista ...). All’interno della fortuna figurativa del poema del Tasso (1581), la versione più toccante di queste ottave spetta ad un dipinto romano del Guercino, oggi alla Galleria Doria e databile nei primi anni 1620. Saggio esemplare di poetica degli affetti esso farà da traino a generazioni di artisti alle prese con il repertorio della Liberata – e, nello scomparto napoletano di primo ‘600, il pensiero corre a Bernardo Cavallino, a Paolo Finoglio e ad Andrea Vaccaro. Nondimeno il nostro dipinto va datato decisamente oltre la metà del secolo. Dopo un ripetuto esame, condotto prima sulle fotografie e, in un secondo momento sull’originale, si deve concludere che questo importante inedito, in eccellente stato di conservazione, appartiene alla mano di Luca Giordano. L’analisi dello stile lascia pochi dubbi. Anche solo limitandosi alla porzione sinistra della tela, sono firme inconfondibili del maggiore pittore napoletano del secondo ‘6oo: la tipologia femminile (desunta da modelli del Ribera) e la scrittura pittorica meticolosa, ma di grande scioltezza. Costituiscono, inoltre, momenti di gran pittura propri di Giordano: il modo in cui i capelli di Erminia si sciolgono sulle trasparenze dell’epidermide del collo; e soprattutto il contrasto con l’incarnato cereo del giovane (‘vista la faccia scolorita e bella…’). In primo piano, infine, Giordano ha isolato, come una natura morta, la corazza di Tancredi, dai riflessi metallici vivacizzati dalle macchie di sangue. Il tono appassionato del quadro - come di un Tasso disciolto e rivissuto in una formula pienamente barocca - culmina nel nudo sublime del giovane, dal braccio abbandonato in una posa che ricorre, come un leitmotiv, lungo il corso della pittura napoletana del ‘6 e del ‘7oo. Preso da solo, questo passo è, in ultima analisi ancora un ricordo del Caravaggio; ma compone, al tempo stesso, una delle più struggenti interpretazioni del passo tassesco, che ci abbia lasciato il ‘6oo (forse la più struggente dopo il Guercino). E quella posa ritorna in apici della bottega di Giordano (si pensi al Buon Samaritano di Nicola Malinconico custodito nel Museo di Prato, e noto in diverse redazioni autografe). Come collocare un dipinto del genere? La difficile cronologia di Giordano consiglia prudenza. Ma l’analisi formale indica una data provvisoria nella prima maturità del pittore, tra il 1665 e il ‘75. E’ la fase in cui Giordano, già affermatosi sul mercato locale, si comincia a far conoscere anche fuori, lavorando per chiese e committenti di Venezia. Si confronti, tra l’altro, la figura di Erminia con quella della Vergine nella pala con la Madonna col Bambino e Santi, detta il Riposo, già nella chiesa dello Spirito Santo a Venezia, oggi alla Pinacoteca di Brera. Appare, forse, leggermente più allentata nell’esecuzione - ma non direi nell’ideazione! - la porzione destra del nostro quadro. Da non scartare l’ipotesi che il Maestro lasciasse ad un collaboratore, sia pure ben pilotato, lo strappo di paese (un brano che ha un suo precipuo carattere napoletano); oppure che si limitasse a tracciare l’abbozzo del personaggio in piedi al centro (Vafrino) per quanto sia impossibile dire, allo stato delle conoscenze sull’officina giordanesca, a quale dei satelliti del pittore imputarne l’esecuzione (difficile decidersi per il nome di Giuseppe Simonelli, i cui esordi non dovettero cadere prima degli anni ’70).
 
Stima    50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
148
Luca Giordano e bottega
(Napoli 1634-1705)
DIANA E ENDIMIONE
olio su tela, cm 82x152,5
 
Inedito e di provenienza antica non accertata, il dipinto che qui si presenta costituisce una nuova e originale versione di un tema tratto dalla mitologia classica, altre volte affrontato da Luca Giordano a partire dalla metà degli anni Settanta ma con diversa modalità.
La nostra tela differisce infatti dalla più nota redazione del Museo di Castelvecchio a Verona e da due sue varianti in collezioni private non solo per il formato oblungo e le dimensioni più contenute, quanto per la raccolta intimità dei suoi personaggi, inquadrati a distanza ravvicinata e quasi privi di ambientazione paesistica. Si riferisce a questa composizione il foglio già a Londra presso Katherine Bellinger nel 1988 (Italian Drawings, n. 26; matita, penna e inchiostro nero, mm. 176x244) in cui la scena, incorniciata a matita, risulta identica alla nostra anche nel taglio inconsueto dei cani da caccia, le cui teste sporgono appena oltre il margine dell’inquadratura.
Nel pubblicare il disegno londinese Giuseppe Scavizzi (New drawings by Luca Giordano, in “Master Drawings” XXXVII, 1999, 2, pp. 116-17 e fig. 24) lo riteneva una prima idea, poi ulteriormente rielaborata, per il dipinto di Castelvecchio e ne agganciava quindi la datazione a quest’ultimo, tra il 1675 e il 1680, un’opinione ripetuta negli ultimi aggiornamenti al catalogo dell’artista (Oreste Ferrari – Giuseppe Scavizzi, Luca Giordano. Nuove ricerche e inediti, Napoli 2003, p. 111, D 087, illustrato a p. 228). Il ritrovamento del dipinto qui offerto in una raccolta privata corregge in parte questa ipotesi, consentendo di stabilire un nesso ben più immediato con il foglio in questione. Una datazione del nostro dipinto e del suo studio preparatorio nella prima metà degli anni Settanta (e dunque più vicino a quanto proposto per il disegno da Walter Vitzthum in una comunicazione privata alla galleria londinese) sembra comunque suggerita dal confronto con le due storie di Mosè a Pommersfelden, che al pari della nostra presentano un taglio ravvicinato dei suoi protagonisti, dilatati fino ad occupare per intero l’inquadratura. Il biondo Endimione addormentato è poi ripreso, oltre che nelle già citate versioni dello stesso tema, nella figura di Costantino abbandonato nel sonno nel dipinto di tale soggetto in collezione privata veneziana, del 1675-80 (O. Ferrari-G. Scavizzi, Luca Giordano, Milano 1992, A 297, fig. 401).
 
Stima    20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
151
Sebastiano Conca
(Gaeta 1680-1764)
IL TRASPORTO DELL’ARCA SANTA
olio su tela, cm 166x109
 
Esposizioni:
Civiltà del ‘700 a Napoli 1734-1799, Napoli, dicembre 1979-ottobre 1980;
Sebastiano Conca (1680-1764), Gaeta, Museo di Palazzo De Vio, luglio-ottobre 1981; Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, mostra a cura di Cesare de Seta, Caserta, Palazzo Reale, 16 dicembre 2000-16 marzo 2001
 
Bibliografia: N. Spinosa, in Civiltà del ‘700 a Napoli 1734-1799, catalogo della mostra di Napoli, Firenze 1979, p. 298, fig. 162;
Sebastiano Conca (1680-1764), catalogo della mostra di Gaeta, Gaeta 1981, pp. 328-330, fig. 122c; L. Romano, in Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, catalogo della mostra di Caserta a cura di Cesare de Seta, Napoli 2000, p. 201 n. 7, fig. 7
 
L’opera qui presentata costituisce il bozzetto preparatorio di Sebastiano Conca per l’affresco della volta della chiesa napoletana di Santa Chiara, firmato e datato 1753,eseguito dall’artista su incarico della Badessa Delia Bonito nell’ambito del rinnovamento dell’antica chiesa angioina realizzato attorno alla metà del Settecento.
Il bozzetto assume particolare importanza in quanto, insieme a quello di Giuseppe Bonito del Museo di Capodimonte, rappresenta la sola testimonianza della decorazione della volta, distrutta nel corso degli ultimi eventi bellici e documentata unicamente da fotografie anteriori all’incendio del 4 agosto 1943.
Si riferisce a questa composizione, salvo piccole varianti nella parte superiore, il disegno a inchiostro e acquarello conservato al Museo di San Martino a Napoli (inv. 20803) dalla raccolta Ferrara Dentice. Ritenuto autografo da Walter Vitzthum e da Marina Causa Picone, è stato invece ricondotto da Nicola Spinosa alla bottega dell'artista, parere condiviso da Giancarlo Sestieri.
L’affresco, come si può evincere dal bozzetto doveva essere stato realizzato secondo una ridondante scenografia barocca che sfruttava gli artifici che più colpiscono la fantasia dello spettatore. Dopo l’arrivo a Napoli nel 1752, Sebastiano Conca passò infatti da esperienze d’ispirazione classicheggiante ai canoni più grandiosi del barocco e del roccocò per i quali fu subito apprezzato e ricercato anche per via del mutamento di gusto che caratterizzava la committenza di corte e quella dei grandi Ordini Religiosi.
L’importante decorazione, iniziata nel 1752 e documentata da pagamenti per un totale di ben 2.000 ducati, comprendeva anche figure allegoriche nel presbiterio e l’affresco, eseguito nel 1754, raffigurante Salomone che riceve la regina di Saba. Anch’esso distrutto, è però documentato dal bozzetto preparatorio venduto da Christie’s a Milano il 25 maggio 2011 (lotto n. 56). Come la tela qui presentata, lo studio in questione iscrive la composizione in una cornice mistilinea, oltre la quale è in vista la preparazione rosata dello sfondo.
 
 
Stima    30.000 / 40.000
121 - 150  di 181