Dipinti Antichi

15 OTTOBRE 2013

Dipinti Antichi

Asta, 0058

Firenze
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26


Esposizione

FIRENZE
da sabato 5 a lunedì 14 ottobre 2013
orario 10.00 - 13.00 / 14.00 - 19.00
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   500 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 181
173
Abraham-Louis Ducros
(Moudon 1748- Losanna 1810)
IL VESUVIO DA CASTELLAMMARE
penna e inchiostro di china, acquarello e tempera su fogli di carta uniti e incollati su tela, cm 77x117
 
Obbligato a lasciare Roma a causa dei disordini seguiti a una insurrezione antifrancese nel gennaio 1793, Ducros si trasferì a Napoli nell’estate di quell’anno avendo lasciato nella Città eterna, affidati all’architetto Asprucci, il contenuto del suo studio e i materiali raccolti in oltre quindici anni di lavoro in Italia. A Napoli, dove si era recato una prima volta nel 1778 nel corso di un lungo viaggio nel Regno delle due Sicilie, l’artista svizzero rinnovò i contatti con Sir William Hamilton, che già nel 1791 aveva acquistato suoi acquarelli e con il ministro John Francis Edward Acton, per il quale sembra eseguisse un numero così elevato di paesaggi e vedute da arredare un’intera stanza. Almeno sei di queste opere di grande formato, tra cui quelle raffiguranti il varo di una nave nel cantiere di Castellammare, da poco terminato e la villa di proprietà del ministro affacciata sul golfo sono oggi identificate.
Sebbene la provenienza del nostro dipinto, inedito e non replicato, non sia documentata, non c’è dubbio che esso sia stato eseguito in relazione all’esplorazione di Castellammare e dei suoi pittoreschi dintorni compiuta nel 1794-95. E’ quello infatti il punto di vista di questa veduta, che al di là del bosco inquadra il golfo con l’isolotto fortificato di Rovigliano, la pianura alla foce del Sarno e, sullo sfondo, il Vesuvio. Il complesso monastico sulla riva del mare compare, inquadrato a distanza, nella Veduta di Villa Acton a Castellammare un tempo a Londra presso Hazlitt, firmata e datata del 1794 (In the Shadow of Vesuvius. Views of Naples from Baroque to Romanticism 1631-1830, Napoli 1880, pp. 119-20; ill. p. 90) tanto da far supporre che il nostro punto di vista sia il “bosco” appena a destra della villa. Anche l’inquadratura romantica della veduta al di là del fogliame, così diversa dal taglio ampio e disteso dei suoi soggetti romani, appare tipica dell’ultimo periodo italiano di Ducros.
Probabilmente di invenzione il parapetto che in primo piano racchiude una sorta di belvedere animato dalle figurine; queste sono aggiunte, come di consueto, dalla mano di un collaboratore non identificato, forse dopo il ritorno dell’artista a Losanna, nel 1807 e l’apertura di una accademia che operò fino alla sua morte improvvisa nel 1810.
 
Stima    7.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
67
Andrea di Giovanni da Murano
(documentato a Venezia dal 1463- Castelfranco Veneto 1512)
MADONNA ADORANTE IL BAMBINO
tempera su tavola parchettata, cm 32,8x26,4
alcuni restauri
 
Provenienza: già vendita G. von Hallmann 12 giugno 1918, Berlino (da un’annotazione sul cartone di una foto conservata presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze)
 
Corredato da parere scritto di Andrea de Marchi
 
L’opera qui presentata è stata ricondotta dallo studioso all'artista veneto Andrea di Giovanni da Murano grazie ad alcuni caratteri distintivi del pittore come “l’effetto di pittura sbalzata, il taglio forte delle palpebre, i lacrimatoi marcati da lustri soffusi, lo scorcio tagliente della narice o il risalto delle labbra increstate” della Madonna e “la contrazione nervosa del gesto, nelle ombre bronzate sulla carne pienotta o nell’esuberante capigliatura a riccioli inanellati” del Bambino.
Andrea di Giovanni da Murano è documentato a Venezia dal 1463 e probabilmente la sua formazione è da ricondursi a un sodalizio con Bartolomeo Vivarini benchè l’artista dimostri anche un diretto confronto, tra settimo e ottavo decennio, con Giovanni Bellini. L’insistito sbalzo di volumi della nostra tavola richiama infatti la pittura più disegnata di Bartolomeo anche se la tenerezza sentimentale mostra l’ammirazione per le invenzioni di Bellini, come emerge anche dal confronto con la Madonna col Bambino Davis del Metroplitan Museum. Come nella Madonna Davis si ripete nel nostro dipinto l’iconografia, peraltro molto frequente in laguna, della Madonna che a mani giunte adora il Bambino, rappresentato vestito con un corto abitino cinto alla vita e sul petto. Per le analogie compositive e per la rappresentazione del Bambino nudo e assopito, presagio della morte, vanno citati due dipinti di Andrea da Murano quali la Madonna conservata presso il Princeton University art Museum e il frammentario dipinto del Museo di Castelvecchio di Verona.
Caratteristiche quali la “tensione contratta e lo sbalzo metallico” del dipinto hanno portato inoltre lo studioso ad un accostamento con il trittico di San Pietro Martire a Murano (databile dopo il 1477-78) e quindi ad una proposta di datazione attorno al nono decennio, nel passaggio tra l’attività lagunare e il definitivo trasferimento del pittore a Castelfranco nel 1485.
 
Bibliografia di confronto: A. De Nicolò Salmazo, Per una ricostruzione dela prima attività di Andrea da Murano, in "Saggi e memorie di storie dell'arte", X, 1976, pp. 9-29; F. Zeri, A Note on Andrea da Murano, in "The Art Quarterly", 1968, ried. in Giorno per giorno nella pittura. Scritti sull'arte dell'Italia settentrionale dal Trecento al primo Cinquecento, Torino 1988
 
Stima    15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
23
Antonello Gagini, 1505 ca
(Palermo 1477/1478-1536)
SAN GIOVANNI BATTISTA GIOVINETTO
scultura in marmo di Carrara, cm 79,5x35x23,5
 
Provenienza: Palazzo Paternò, Palermo;
Heim Gallery, Londra;
Établissement Rustique, Vaduz;
Casa d’aste Semenzato, Venezia;
collezione Sordi, Villa medicea di Lappeggi (Bagno a Ripoli);
collezione privata, Firenze
 
Bibliografia: Heim Gallery, Forty Paintings & Sculptures from the Gallery’s Collections. Autumn Exhibition, catalogo della mostra (3 novembre-21 dicembre), London 1966, p. 10, n. 21; 5a Biennale Mostra Mercato Internazionale dell’Antiquariato, catalogo della mostra (22 settembre-22 ottobre), Firenze 1967, p. 337; Casa d’Aste Franco Semenzato, Asta in Firenze, Palazzo Michelozzi, catalogo della vendita (15-16 giugno), Firenze 1988, n. 693; F. Negri Arnoldi, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Napoli 1997, pp. 290, 296 fig. 276.
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
Accompagnato da parere scritto di Giancarlo Gentilini e Lorenzo Principi, 28 agosto 2013, Firenze
 
Un imberbe, ancora giovinetto San Giovanni Battista, quasi ignaro dei patimenti del deserto e in odore dei primi entusiasmi della pubertà, viene raffigurato in questa garbata e preziosa scultura in atto di sostenere i consueti attributi iconografici del Precursore che annuncia la venuta di Cristo: il cartiglio profetico e un mite agnellino allusivo al sacrificio del Redentore. Il marmo è caratterizzato da un’armoniosa dicotomia in cui alla conduzione spigolosa e densa del panneggio si contrappone una cedevole, accarezzata definizione del volto incorniciato da lunghe e arricciate ciocche di capelli simili a serpentelli. È proprio da questa dualità che si evidenziano le coordinate stilistiche e cronologiche dell’opera. Infatti, se da una parte l’autore mostra un chiaro interesse per alcuni protagonisti della scultura fiorentina del Quattrocento, ben noti anche in ambito napoletano, sia nel forbito naturalismo d’impronta maianesca della figura che nell’andamento spettinato a ciuffetti dei capelli di matrice donatelliana, dall’altra il panneggio affilato a pieghe parallele, quasi fossero cascate, ci induce a cercarlo fra gli eredi dell’esplosivo temperamento di Domenico Gagini, diretto testimone e principale interprete di quella vitale congiuntura partenopea. Chiare peculiarità gaginiane, esemplate sulla Madonna col Bambino nella cappella di Santa Barbara di Castelnuovo a Napoli (1458 ca) e sulla Pietà in San Domenico di Palermo (1460-1470), emergono dall’andamento angoloso della veste del Battista come a imitare sottili canne svuotate che si chiudono con terminazioni a occhielli. Sicuri della genesi dell’opera nella principale bottega scultorea attiva nel Regno Aragonese, da Napoli a Palermo e Messina, tra la seconda metà del Quattrocento e la fine del secolo successivo, potremo però più agevolmente circoscrivere la sua realizzazione entro il primo decennio del Cinquecento e confermare, nonostante le perplessità espresse da Negri Arnoldi (1997), la tradizionale attribuzione ad Antonello, figlio di Domenico, squisito e originale protagonista del Rinascimento in Trinacria: paternità con la quale fu presentata nel 1966 in una mostra della prestigiosa galleria londinese Heim.
D’accordo con Francesco Caglioti nell’ipotizzare un tirocinio fiorentino dell’artista nella bottega di Benedetto da Maiano tra il 1492 e il 1498, seguito da un periodo di attività fino al 1503 nella Sicilia orientale favorito dalla committenza calabrese, prolifico di statue desunte dalla Madonna della Neve del maestro fiorentino a Terranova Sappo Minulio, come le Vergini di Nicotera (1498-1499), Mesoraca (1504), Morano Calabro (1505) e Amantea (1505), riteniamo di poter riferire il marmo in esame al ritorno dello scultore nella sua città natale, quando, forte delle proficue esperienze nell’Italia centrale e meridionale, poté riprendere il magistero paterno “con la consapevolezza ed insieme il distacco dello scultore provetto” (Caglioti 2002, p. 1001). Se, infatti, nella prima delle opere realizzate durante il soggiorno messinese, la Madonna col Bambino inviata a Nicotera, è ancora esclusiva la filiazione dal ductus fiorentino, procedendo verso le Vergini di Caltagirone (1505 ca) e di Sinopoli (1508) si registra una sottile inversione di marcia ed una nuova intromissione nel lessico antonelliano dei valori formali espressi da Domenico, evidente nella caduta dei tessuti con una fitta rete di pieghe parallele e aggettanti, quale appunto ritroviamo nel nostro San Giovanni Battista. Sono proprio i confronti con questi lavori a indirizzarci verso una plausibile attribuzione della scultura ad Antonello che si rafforza paragonandola, per la tessitura dei drappeggi, con la prima opera del catalogo palermitano del Gagini, ovvero la Madonna della Scala nella Cattedrale di Palermo, firmata e datata 1503. Conferma inoltre la paternità di Antonello la tipica configurazione della testa caratterizzata dal tenue profilo del volto, su cui s’innestano la stretta bocca appena incavata e occhi lievemente affusolati, e dall’acconciatura dai sinuosi boccoli che si chiudono a uncino: peculiarità che permettono decisivi raffronti con l’angelo in primo piano a sinistra nel Tabernacolo eucaristico di Messina (1504 ca), i due San Giovanni Evangelista della Tribuna palermitana (1511-1512) e della Cattedrale di Vibo Valentia (1525-1530), l’Angelo Annunziante della Gancia (1510-1520), e i Santi Sebastiano e Girolamo dalle paraste dell’Altare di San Giorgio in San Francesco di Palermo (1520-1526).
A corroborare un’attribuzione ad Antonello poco dopo il suo definitivo trasferimento a Palermo, tra la Madonna della Scala (1503) e l’inizio dei lavori per la grandiosa Tribuna della Cattedrale (1507 ca), concorre infine la memoria di una nobile provenienza dal palazzo Paternò di questa città, già riferita nel catalogo Heim del 1966. Infatti il principale investitore di tale impresa fu proprio il vescovo Giovanni Paternò (1431-1511), per il quale Antonello eseguì anche un perduto Ciborio, che fonti locali ricordano già in precedenza scolpito per il Duomo, il San Giovanni Battista della chiesa del convento di Baida (1507-1510) e l’effigie funebre per il sepolcro del prelato posto nella stessa Cattedrale. Chissà, dunque, che questo gentile marmo non sia uno dei primi esiti del duraturo rapporto instaurato con la prestigiosa famiglia catanese, attestato almeno fino al 1519, realizzato forse, come suggeriscono le dimensioni contenute e l’affabile intonazione domestica, per venerare all’interno del palazzo il santo eponimo del facoltoso vescovo di Palermo.
 
Bibliografia di riferimento: G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Palermo 1880; H.W. Kruft, Antonello Gagini und seine Söhne, München 1980; F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. Valtieri, Roma 2002, pp. 977-1042.
 
Stima    20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
120
Attribuito a Girolamo Forabosco
(Venezia 1605-Padova 1679)
IL SACRIFICIO D'ISACCO
olio su tela, cm 173x122
 
Provenienza: probabilmente già collezione Orsetti, Lucca;
collezione privata Cittadella, Lucca
 
L’opera compare nell’inventario per successione ereditaria della famiglia Cittadella, insieme ad opere d’importanti artisti fra le quali alcune tele di Pietro Paolini, redatto ai primi dell’Ottocento dai pittori lucchesi Pietro Nocchi, Raffaele Giovanetti e Michele Ridolfi con la seguente descrizione: “Il Sacrificio di Abramo Del Palma vecchio 25/ 50 zecchini
 
Il dipinto è corredato da parere scritto di Patrizia Giusti Maccari, Lucca, 3 giugno 2007
 
“L'attribuzione a Girolamo Forabosco di questo Sacrificio di Isacco, formulata nella prima metà dell'Ottocento da Pietro Nocchi, Raffaele Giovannetti e Michele Ridolfi, per quanto poi rivelatasi imprecisa in riferimento all'identità del suo autore e alla cronologia d'esecuzione, non risulta del tutto fuorviante, costituendo, anzi, un punto di riferimento importante per la definizione della sua corretta paternità. […]
Il dipinto è da intendersi come significativa e qualificante espressione di quella corrente pittorica che a Venezia, nella prima metà del Seicento, riscopre e ripropone formule, cifre compositive e tonalità cromatiche cinquecentesche, ponendosi in alternativa a quella cosiddetta ‘tenebrosa’, frutto dell’ondata naturalistica, postcaravaggesca irradiatasi da Roma. Uno dei più qualificati interpreti di tale corrente, volutamente arcaizzante, risulta essere Girolamo Forabosco (Venezia 1605-Padova 1679), cui deve essere assegnato il dipinto qui in esame. […]
Se il movimento rotatorio e lo scorcio da sotto in su impresso alle figure di Abramo e di Isacco sono di derivazione tardomanieristica, come quella muscolosa e quasi sovradimensionata del più anziano dei due, l’attenzione alla resa psicologica dell’affollarsi dei sentimenti che si palesa sui loro volti, la minuzia descrittiva dei particolari decorativi, anche dal punto di vista coloristico, dell’abbigliamento del patriarca, appartengono indubitabilmente alla metà del Seicento. L’accentuata, realistica puntigliosità nel rappresentare il volto di Abramo, caratterizzato dalla fitta rete di rughe che si dipana come una ragnatela intorno agli occhi, e dalla barba bianca, definita ricciolo per ricciolo, sono elementi che parimenti riconducono al Forabosco, noto e frequentemente impiegato proprio per la sua abilità ritrattistica, specialmente tra il 1630 e il 1650. Appare ugualmente consentaneo al linguaggio stilistico da lui messo a punto il volto di Isacco, per tipologia dei tratti fisionomici assai prossimo a quello di David nel dipinto ora presso il Museo di Vaduz. Il pietismo sentimentale che lo contraddistingue testimonia l’apertura al gusto classicista bolognese diffusosi a Venezia attorno al 1650 grazie alla presenza di Guido Cagnacci, gusto a cui anche il Forabosco si mostra sensibile.
Al momento si ignora quando il Sacrificio, che reca sul retro il numero 22 vergato con grafia antica, sia entrato a far parte della quadreria Cittadella. La bellissima cornice coeva che lo custodisce, pregevole esempio della capacità tecnica degli intagliatori e doratori lucchesi, testimonia dell’arrivo in loco della tela in epoca immediatamente posteriore alla sua realizzazione. Del resto, per motivi commerciali ed artistici i contatti tra le due Repubbliche aristocratiche erano più che frequenti. Non si esclude che l’opera possa essere appartenuta originariamente ai conti Orsetti, il cui palazzo di via Burlamacchi, completo degli arredi, era passato per via ereditaria a Chiara di Giuseppe Orsetti, moglie dal 1771 di Ferrante Cittadella.
A conclusione, per ribadire ancora come l’errore attributivo formulato da Nocchi, Giovannetti e Ridolfi sia ‘giustificato’, si riporta uno dei concetti espressi da Safarik sul Forabosco in un articolo apparso nel 1983 su “Arte Veneta”: ‘La morbida plasticità delle sue forme può far considerare un suo quadro come un Palma o un Lotto trasposto nel Seicento”.
 
 
Stima    25.000 / 35.000
126
Bartolomeo Bettera
(Bergamo 1639-documentato fino al 1688)
GLOBO TERRESTRE, STRUMENTI MUSICALI E SPARTITI SU UN PIANO COPERTO DA TAPPETO ORIENTALE
olio su tela, cm 118,5x156
 
Provenienza: già collezione Wertheimer, Parigi;
Mortimer Brandt, New York
 
Bibliografia: “The Art Journal” XXVI, 1966-67, 2 (riprodotto); M. Rosci, Baschenis, Bettera & Co. Produzione e mercato della natura morta del Seicento in Italia, Milano 1971, pp. 61, 63 nota 15, e 152, fig. 148; M. Rosci, Bartolomeo e Bonavenura Bettera. In I Pittori Bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Seicento, III, Bergamo 1985, p. 164, n. 19; p. 178, fig.1.
 
Pubblicato per la prima volta come opera di Evaristo Baschenis, il dipinto qui presentato è stato restituito a Bartolomeo Bettera da Marco Rosci, che per primo ha affrontato in maniera sistematica la distinzione tra i due maggiori protagonisti della natura morta bergamasca, esaminando la fortuna collezionistica delle loro invenzioni e la loro ripetizione nelle rispettive botteghe.
Oltre a tracciare un catalogo sostanzialmente attendibile dei due maestri, lo studioso ha distinto altresì le personalità minori del cosiddetto “Monogrammista BB” e di Bonaventura Bettera che ne divulgano temi e invenzioni volgarizzandole nella cosiddetta “maniera bergamasca”, non priva di tangenze con la scuola romana e in particolare con l’opera del Maltese e dei suoi seguaci.
Interessato a una descrizione quasi inventariale degli oggetti preziosi che compongono la “natura silente” (tra gli strumenti musicali del nostro dipinto si intravede uno scrigno) inquadrata da un ricco tendaggio a motivi dorati, Bartolomeo Bettera è ormai lontano dalle astratte geometrie spaziali di Evaristo Baschenis, rigorose e ardite nella loro essenzialità. ipica di Bettera è poi la resa estremamente realistica della trama del tappeto orientale su cui posano gli strumenti; nella tela qui presentata i suoi riflessi rosati scaldano appena la dominante tra il grigio e il bruno della composizione, su cui si accende la raffinatissima cromia del globo terrestre in primo piano a sinistra.
Presumibilmente collocabile nella tarda attività del pittore bergamasco in considerazione dell’ascendente esercitato sulla produzione del figlio Bonaventura (in particolare sulla natura morta firmata per esteso a Mosca, Museo Pushkin e su quelle nei musei di Vienna e Lubiana che ad essa si legano), il nostro dipinto è accostato dal Rosci alle tele già nella raccolta Venino a Bosto di Varese, tra le migliori della sua maturità (M. Rosci, 1971, figg. 146 e 147). A queste si può aggiungere la coppia illustrata dallo studioso in collezione Festa a Vicenza (ibidem, figg. 151 e 152), confrontabile sotto il profilo iconografico e compositivo.
 
Stima    30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
10
Bottega di Vittore Carpaccio, primo quarto sec. XVI
CRISTO REDENTORE
olio su tavola, cm 29x24
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
L’immagine del nostro Cristo redentore, di chiara derivazione carpaccesca, rappresentato frontalmente a mezza figura nell’atto di benedire e di sorreggere il globo, trae le sue origini dalle decorazioni di cuspidi ed absidi caratteristiche dell’alto Medioevo. Tale motivo iniziò ad essere utilizzato per la devozione privata in tavole di piccolo formato nella pittura fiamminga del Quattrocento e incontrò successivamente, nel tardo Quattrocento e nel primo Cinquecento, grande diffusione a Venezia in particolare grazie agli esempi di Giovanni Bellini e Antonello da Messina.
La nostra opera per l'impostazione frontale del Cristo a mezzobusto trova un valido termine di paragone con il Salvator Mundi e quattro santi di Vittore Carpaccio oggi conservata presso la Fondazione Luciano e Agnese Sorlini di Carzago (Brescia), già passata in importanti collezioni tra cui la Contini Bonacossi di Firenze e la Stanley Moss di Riverdale-on-Hudson, considerata una delle primissime opere dell’artista, eseguita probabilmente alla fine del decennio 1480-90. Simile è il modo di concepire la mano sinistra di Cristo, presa in forte scorcio, e quella destra sorreggente il globo oltre all’evidente semplificazione geometrica delle forme che attestano una chiara ammirazione per le opere di Antonello.
Strette affinità si riscontrano inoltre con il Salvator Mundi di Carpaccio del New Orleans Museum of Art (inv. 61.72), già proveniente dalla collezione Contini Bonacossi (1937) e successivamente Kress collection di New York (1938), databile attorno al 1510.
Più simile al dipinto di New Orleans per la scelta di rappresentare il Redentore senza altre figure stagliato contro un cielo attraversato da nubi, il nostro dipinto presenta tuttavia un’interpretazione in parte diversa, legata nell'impostazione ai modelli più arcaici del Cristo pantocratore e della Maestà e nell'espressione addolcita del volto dimostra una riflessione sul classicismo che a partire da Perugino e Raffaello si era diffuso nella penisola. Nella preziosa tavola si rilevano pertanto alcuni aspetti tipici e ricorrenti nell’iconografia del soggetto come la presenza del nimbo dorato, del panneggio di colore verde che ricade sulla spalla sinistra e la posizione più classica della mano benedicente e di quella che sorregge il globo.
 
Bibliografia di riferimento: P. Humfrey, Carpaccio. Catalogo completo dei dipinti, Firenze 1991, pp. 14-15, fig. 1, 150 fig. 53
 
Per le ricerche e la redazione della scheda di catalogo da noi curata ringraziamo Anchise Tempestini per le preziose indicazioni bibliografiche e riferimenti.
 
Stima    40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
127
Carlo Manieri
(Taranto? documentato a Roma dal 1662 al 1700)
NATURA MORTA CON TAPPETO, CUSCINO, CHITARRA E SPADA
olio su tela, cm 82,5x110,5
 
Provenienza: già Galleria Giorgio Caretto, Torino
 
Bibliografia: M. Natale, La natura morta in Lombardia, in F. Porzio (a cura di), La natura morta in Italia, Milano 1989, I, pp. 210-211, fig. 236 p. 208 (come Anonimo pittore lombardo)
 
E’ piuttosto recente la riscoperta di Carlo Manieri, pittore di natura morta specializzato nella raffigurazione di sontuosi interni popolati da oggetti preziosi, tappeti e strumenti musicali, ma anche di fiori e frutta sullo sfondo di elaborate prospettive architettoniche. Attivo per le principali famiglie della Roma barocca dopo aver lavorato per un rivenditore di quadri, l’artista fu certo a capo di una bottega prolifica e ben organizzata, tale da soddisfare le richieste di una clientela sempre più propensa all’ostentazione del lusso, almeno dipinto.
La ricostruzione del suo imponente catalogo, come dei rapporti con altre personalità minori della scena romana attive nella stessa specialità, si deve alle ricerche di Ulisse e Gianluca Bocchi (Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Casalmaggiore 2005, pp. 525-576) che hanno accolto e sviluppato una proposta di Eduard Safarik. Già nel 1991 quest’ultimo aveva suggerito di riconoscere in una coppia di tele siglate “C.M.” e “C.M.F.” l’opera di Carlo Manieri, noto fino a quel momento quale autore di opere di tale soggetto descritte negli inventari di Filippo II Colonna (1714) e di Benedetto Pamphilj (1725) ma non rintracciate; altri dipinti di uguali caratteristiche recanti la medesima sigla si sono poi aggiunti al nucleo iniziale confermando questa ipotesi identificativa. Altre ricerche dei Bocchi su vari artisti minori documentati sulla scena romana quali Gian Domenico Valentino, ovvero il “Monogrammista G.D.V.” e Antonio ibaldi, hanno suggerito di riportare a Roma, quale centro di produzione e non solo di scambio, una serie di opere che ricerche precedenti avevano invece collocato in area lombarda, alcune sotto l’etichetta della “bottega bergamasca” coniata per indicare una produzione vastissima e discontinua, in qualche modo legata agli esempi di Baschenis e dei Bettera ma aperta, per l’appunto, al gusto romano e in particolare alla produzione dell’allora misterioso Francesco Maltese.
E’ appunto il caso del nostro dipinto, pubblicato nel 1989 come opera di anonimo artista lombardo e ritenuto tra i gli esemplari più alti di questa tendenza. Sembra oggi opportuno restituirlo invece al catalogo di Carlo Manieri, di cui rappresenta a nostro avviso uno dei numeri più interessanti e più alti per qualità: straordinario è infatti il rigore compositivo con cui gli oggetti sono presentati, per una volta in numero ridotto ma non per questo meno opulenti; raffinatissimi gli accordi cromatici dei tessuti preziosi, restituiti con eccezionale maestria nei loro ricami e nelle pieghe pesanti. Un quadro, dunque, paragonabile ad analoghi dettagli presenti nelle opere migliori dell’artista romano tra quelle contraddistinte con la sua sigla.
 
Stima    30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 181