Dipinti Antichi

15 OTTOBRE 2013

Dipinti Antichi

Asta, 0058

Firenze
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26


Esposizione

FIRENZE
da sabato 5 a lunedì 14 ottobre 2013
orario 10.00 - 13.00 / 14.00 - 19.00
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   500 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 181
10
Bottega di Vittore Carpaccio, primo quarto sec. XVI
CRISTO REDENTORE
olio su tavola, cm 29x24
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
L’immagine del nostro Cristo redentore, di chiara derivazione carpaccesca, rappresentato frontalmente a mezza figura nell’atto di benedire e di sorreggere il globo, trae le sue origini dalle decorazioni di cuspidi ed absidi caratteristiche dell’alto Medioevo. Tale motivo iniziò ad essere utilizzato per la devozione privata in tavole di piccolo formato nella pittura fiamminga del Quattrocento e incontrò successivamente, nel tardo Quattrocento e nel primo Cinquecento, grande diffusione a Venezia in particolare grazie agli esempi di Giovanni Bellini e Antonello da Messina.
La nostra opera per l'impostazione frontale del Cristo a mezzobusto trova un valido termine di paragone con il Salvator Mundi e quattro santi di Vittore Carpaccio oggi conservata presso la Fondazione Luciano e Agnese Sorlini di Carzago (Brescia), già passata in importanti collezioni tra cui la Contini Bonacossi di Firenze e la Stanley Moss di Riverdale-on-Hudson, considerata una delle primissime opere dell’artista, eseguita probabilmente alla fine del decennio 1480-90. Simile è il modo di concepire la mano sinistra di Cristo, presa in forte scorcio, e quella destra sorreggente il globo oltre all’evidente semplificazione geometrica delle forme che attestano una chiara ammirazione per le opere di Antonello.
Strette affinità si riscontrano inoltre con il Salvator Mundi di Carpaccio del New Orleans Museum of Art (inv. 61.72), già proveniente dalla collezione Contini Bonacossi (1937) e successivamente Kress collection di New York (1938), databile attorno al 1510.
Più simile al dipinto di New Orleans per la scelta di rappresentare il Redentore senza altre figure stagliato contro un cielo attraversato da nubi, il nostro dipinto presenta tuttavia un’interpretazione in parte diversa, legata nell'impostazione ai modelli più arcaici del Cristo pantocratore e della Maestà e nell'espressione addolcita del volto dimostra una riflessione sul classicismo che a partire da Perugino e Raffaello si era diffuso nella penisola. Nella preziosa tavola si rilevano pertanto alcuni aspetti tipici e ricorrenti nell’iconografia del soggetto come la presenza del nimbo dorato, del panneggio di colore verde che ricade sulla spalla sinistra e la posizione più classica della mano benedicente e di quella che sorregge il globo.
 
Bibliografia di riferimento: P. Humfrey, Carpaccio. Catalogo completo dei dipinti, Firenze 1991, pp. 14-15, fig. 1, 150 fig. 53
 
Per le ricerche e la redazione della scheda di catalogo da noi curata ringraziamo Anchise Tempestini per le preziose indicazioni bibliografiche e riferimenti.
 
Stima    40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
14
Cima da Conegliano e bottega
(Conegliano 1459/60-1517/18)
MADONNA CON BAMBINO
olio su tavola, cm 45,5x37,5
 
Bibliografia: P. Humfrey, Cima da Conegliano, Cambridge 1983, p. 171 n.180, pl. 92b
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
Il dipinto qui presentato è da riferire a Giovan Battista Cima da Conegliano e alla sua bottega come indicato da Peter Humfrey nella monografia dell’artista. Lo studioso, al quale non era nota la collocazione del dipinto e la sua provenienza, conosceva l’opera unicamente attraverso una fotografia e pertanto non ebbe modo di giudicarne appieno l’alta qualità e la raffinatezza esecutiva.
Raffigurata in atto di allattare il Bambino secondo un’iconografia senza precedenti nel catalogo dell’artista, la Vergine si staglia contro un tendaggio aperto parzialmente su un terso e cristallino paesaggio con borgo cittadino d’ispirazione belliniana. Cima, infatti, fu ampiamente influenzato da Giovanni Bellini dal quale riprese spesso talune composizioni o singole citazioni, come l’uso di un parapetto marmoreo, quale espediente formale utile a razionalizzare lo spazio e inquadrare le figure all’interno della composizione. Presente anche nel nostro dipinto, il parapetto reca un cartellino con iscrizione attualmente non leggibile ma verosimilmente recante un tempo il nome dell’artista. Cima mostra tuttavia una precisa autonomia di linguaggio: dissolve le ieratiche simmetrie belliniane lasciando spazio a una maggiore naturalezza e ad un’apparente casualità, come possiamo dedurre anche dal nostro dipinto in cui la Madonna viene rappresentata di tre-quarti nel gesto tenero e delicato di offrire il seno al figlio, quasi una moderna e ben più terrena Galactotrophousa.
Humfrey metteva in relazione la nostra Madonna con Bambino con un gruppo di altri quattro dipinti simili per composizione, tutti ritenuti appartenere alla bottega di Cima o desunti da suoi cartoni. Tra questi, la versione più vicina al nostro dipinto è una Madonna di collezione privata milanese da tempo nota (cat. 91, fig. 92 a), in cui si ritrova lo stesso paesaggio con borgo, ripreso tuttavia più in lontananza, che si estende questa volta anche nella parte a destra della Vergine, a causa dell’assenza del tendaggio. Questo è presente invece in un’altra versione (cat. 179 e fig. 93 a) di qualità più modesta e compromessa nella conservazione. In altri due dipinti il più noto dei quali al Museo Pushkin di Mosca (cat. 181, fig. 93 b, e cat. 101, fig. 93 c) forse realizzati al di fuori della bottega di Cima, al modello originale sono state aggiunte, rispettivamente, le figure di Sant’Antonio e di San Giuseppe.
Già ad un primo confronto emerge chiaramente che la nostra versione costituisce quella di maggiore qualità per raffinatezze formali ed esecutive, ravvisabili ad esempio nella resa dell’aggraziato ovale della Madonna e nell’uso di una luce limpida che descrive con maestria i volumi come se fossero solidi geometrici, memori della lezione di Bartolomeo Montagna oltre che di Giovanni Bellini.
Una precedenza della nostra tavola sulla versione milanese potrebbe essere confermata anche dalla persistenza del panneggio, progressivamente rimosso da Cima a partire dagli anni ’90 del Quattrocento per lasciare il posto ad un paesaggio sempre più ampio. Caduta la data intorno al 1494 che il Lasareff riferiva al dipinto del Pushkin, oggi concordemente espunto dal catalogo dell’artista, una datazione nei primi anni del Cinquecento è stata proposta da Peter Humfrey in base a considerazioni sulla composizione e l’uso dello spazio nella nostra “Madonna del latte”.
 
Per le ricerche e la redazione della scheda di catalogo da noi curata ringraziamo Anchise Tempestini per le preziose indicazioni bibliografiche e riferimenti.
 
Stima    60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
23
Antonello Gagini, 1505 ca
(Palermo 1477/1478-1536)
SAN GIOVANNI BATTISTA GIOVINETTO
scultura in marmo di Carrara, cm 79,5x35x23,5
 
Provenienza: Palazzo Paternò, Palermo;
Heim Gallery, Londra;
Établissement Rustique, Vaduz;
Casa d’aste Semenzato, Venezia;
collezione Sordi, Villa medicea di Lappeggi (Bagno a Ripoli);
collezione privata, Firenze
 
Bibliografia: Heim Gallery, Forty Paintings & Sculptures from the Gallery’s Collections. Autumn Exhibition, catalogo della mostra (3 novembre-21 dicembre), London 1966, p. 10, n. 21; 5a Biennale Mostra Mercato Internazionale dell’Antiquariato, catalogo della mostra (22 settembre-22 ottobre), Firenze 1967, p. 337; Casa d’Aste Franco Semenzato, Asta in Firenze, Palazzo Michelozzi, catalogo della vendita (15-16 giugno), Firenze 1988, n. 693; F. Negri Arnoldi, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Napoli 1997, pp. 290, 296 fig. 276.
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
Accompagnato da parere scritto di Giancarlo Gentilini e Lorenzo Principi, 28 agosto 2013, Firenze
 
Un imberbe, ancora giovinetto San Giovanni Battista, quasi ignaro dei patimenti del deserto e in odore dei primi entusiasmi della pubertà, viene raffigurato in questa garbata e preziosa scultura in atto di sostenere i consueti attributi iconografici del Precursore che annuncia la venuta di Cristo: il cartiglio profetico e un mite agnellino allusivo al sacrificio del Redentore. Il marmo è caratterizzato da un’armoniosa dicotomia in cui alla conduzione spigolosa e densa del panneggio si contrappone una cedevole, accarezzata definizione del volto incorniciato da lunghe e arricciate ciocche di capelli simili a serpentelli. È proprio da questa dualità che si evidenziano le coordinate stilistiche e cronologiche dell’opera. Infatti, se da una parte l’autore mostra un chiaro interesse per alcuni protagonisti della scultura fiorentina del Quattrocento, ben noti anche in ambito napoletano, sia nel forbito naturalismo d’impronta maianesca della figura che nell’andamento spettinato a ciuffetti dei capelli di matrice donatelliana, dall’altra il panneggio affilato a pieghe parallele, quasi fossero cascate, ci induce a cercarlo fra gli eredi dell’esplosivo temperamento di Domenico Gagini, diretto testimone e principale interprete di quella vitale congiuntura partenopea. Chiare peculiarità gaginiane, esemplate sulla Madonna col Bambino nella cappella di Santa Barbara di Castelnuovo a Napoli (1458 ca) e sulla Pietà in San Domenico di Palermo (1460-1470), emergono dall’andamento angoloso della veste del Battista come a imitare sottili canne svuotate che si chiudono con terminazioni a occhielli. Sicuri della genesi dell’opera nella principale bottega scultorea attiva nel Regno Aragonese, da Napoli a Palermo e Messina, tra la seconda metà del Quattrocento e la fine del secolo successivo, potremo però più agevolmente circoscrivere la sua realizzazione entro il primo decennio del Cinquecento e confermare, nonostante le perplessità espresse da Negri Arnoldi (1997), la tradizionale attribuzione ad Antonello, figlio di Domenico, squisito e originale protagonista del Rinascimento in Trinacria: paternità con la quale fu presentata nel 1966 in una mostra della prestigiosa galleria londinese Heim.
D’accordo con Francesco Caglioti nell’ipotizzare un tirocinio fiorentino dell’artista nella bottega di Benedetto da Maiano tra il 1492 e il 1498, seguito da un periodo di attività fino al 1503 nella Sicilia orientale favorito dalla committenza calabrese, prolifico di statue desunte dalla Madonna della Neve del maestro fiorentino a Terranova Sappo Minulio, come le Vergini di Nicotera (1498-1499), Mesoraca (1504), Morano Calabro (1505) e Amantea (1505), riteniamo di poter riferire il marmo in esame al ritorno dello scultore nella sua città natale, quando, forte delle proficue esperienze nell’Italia centrale e meridionale, poté riprendere il magistero paterno “con la consapevolezza ed insieme il distacco dello scultore provetto” (Caglioti 2002, p. 1001). Se, infatti, nella prima delle opere realizzate durante il soggiorno messinese, la Madonna col Bambino inviata a Nicotera, è ancora esclusiva la filiazione dal ductus fiorentino, procedendo verso le Vergini di Caltagirone (1505 ca) e di Sinopoli (1508) si registra una sottile inversione di marcia ed una nuova intromissione nel lessico antonelliano dei valori formali espressi da Domenico, evidente nella caduta dei tessuti con una fitta rete di pieghe parallele e aggettanti, quale appunto ritroviamo nel nostro San Giovanni Battista. Sono proprio i confronti con questi lavori a indirizzarci verso una plausibile attribuzione della scultura ad Antonello che si rafforza paragonandola, per la tessitura dei drappeggi, con la prima opera del catalogo palermitano del Gagini, ovvero la Madonna della Scala nella Cattedrale di Palermo, firmata e datata 1503. Conferma inoltre la paternità di Antonello la tipica configurazione della testa caratterizzata dal tenue profilo del volto, su cui s’innestano la stretta bocca appena incavata e occhi lievemente affusolati, e dall’acconciatura dai sinuosi boccoli che si chiudono a uncino: peculiarità che permettono decisivi raffronti con l’angelo in primo piano a sinistra nel Tabernacolo eucaristico di Messina (1504 ca), i due San Giovanni Evangelista della Tribuna palermitana (1511-1512) e della Cattedrale di Vibo Valentia (1525-1530), l’Angelo Annunziante della Gancia (1510-1520), e i Santi Sebastiano e Girolamo dalle paraste dell’Altare di San Giorgio in San Francesco di Palermo (1520-1526).
A corroborare un’attribuzione ad Antonello poco dopo il suo definitivo trasferimento a Palermo, tra la Madonna della Scala (1503) e l’inizio dei lavori per la grandiosa Tribuna della Cattedrale (1507 ca), concorre infine la memoria di una nobile provenienza dal palazzo Paternò di questa città, già riferita nel catalogo Heim del 1966. Infatti il principale investitore di tale impresa fu proprio il vescovo Giovanni Paternò (1431-1511), per il quale Antonello eseguì anche un perduto Ciborio, che fonti locali ricordano già in precedenza scolpito per il Duomo, il San Giovanni Battista della chiesa del convento di Baida (1507-1510) e l’effigie funebre per il sepolcro del prelato posto nella stessa Cattedrale. Chissà, dunque, che questo gentile marmo non sia uno dei primi esiti del duraturo rapporto instaurato con la prestigiosa famiglia catanese, attestato almeno fino al 1519, realizzato forse, come suggeriscono le dimensioni contenute e l’affabile intonazione domestica, per venerare all’interno del palazzo il santo eponimo del facoltoso vescovo di Palermo.
 
Bibliografia di riferimento: G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Palermo 1880; H.W. Kruft, Antonello Gagini und seine Söhne, München 1980; F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. Valtieri, Roma 2002, pp. 977-1042.
 
Stima    20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 181