Dipinti Antichi

15 OTTOBRE 2013
Asta, 0058
23

Antonello Gagini, 1505 ca

Stima
20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
Antonello Gagini, 1505 ca
(Palermo 1477/1478-1536)
SAN GIOVANNI BATTISTA GIOVINETTO
scultura in marmo di Carrara, cm 79,5x35x23,5
 
Provenienza: Palazzo Paternò, Palermo;
Heim Gallery, Londra;
Établissement Rustique, Vaduz;
Casa d’aste Semenzato, Venezia;
collezione Sordi, Villa medicea di Lappeggi (Bagno a Ripoli);
collezione privata, Firenze
 
Bibliografia: Heim Gallery, Forty Paintings & Sculptures from the Gallery’s Collections. Autumn Exhibition, catalogo della mostra (3 novembre-21 dicembre), London 1966, p. 10, n. 21; 5a Biennale Mostra Mercato Internazionale dell’Antiquariato, catalogo della mostra (22 settembre-22 ottobre), Firenze 1967, p. 337; Casa d’Aste Franco Semenzato, Asta in Firenze, Palazzo Michelozzi, catalogo della vendita (15-16 giugno), Firenze 1988, n. 693; F. Negri Arnoldi, Scultura del Cinquecento in Italia Meridionale, Napoli 1997, pp. 290, 296 fig. 276.
 
Corredato da attestato di libera circolazione
 
Accompagnato da parere scritto di Giancarlo Gentilini e Lorenzo Principi, 28 agosto 2013, Firenze
 
Un imberbe, ancora giovinetto San Giovanni Battista, quasi ignaro dei patimenti del deserto e in odore dei primi entusiasmi della pubertà, viene raffigurato in questa garbata e preziosa scultura in atto di sostenere i consueti attributi iconografici del Precursore che annuncia la venuta di Cristo: il cartiglio profetico e un mite agnellino allusivo al sacrificio del Redentore. Il marmo è caratterizzato da un’armoniosa dicotomia in cui alla conduzione spigolosa e densa del panneggio si contrappone una cedevole, accarezzata definizione del volto incorniciato da lunghe e arricciate ciocche di capelli simili a serpentelli. È proprio da questa dualità che si evidenziano le coordinate stilistiche e cronologiche dell’opera. Infatti, se da una parte l’autore mostra un chiaro interesse per alcuni protagonisti della scultura fiorentina del Quattrocento, ben noti anche in ambito napoletano, sia nel forbito naturalismo d’impronta maianesca della figura che nell’andamento spettinato a ciuffetti dei capelli di matrice donatelliana, dall’altra il panneggio affilato a pieghe parallele, quasi fossero cascate, ci induce a cercarlo fra gli eredi dell’esplosivo temperamento di Domenico Gagini, diretto testimone e principale interprete di quella vitale congiuntura partenopea. Chiare peculiarità gaginiane, esemplate sulla Madonna col Bambino nella cappella di Santa Barbara di Castelnuovo a Napoli (1458 ca) e sulla Pietà in San Domenico di Palermo (1460-1470), emergono dall’andamento angoloso della veste del Battista come a imitare sottili canne svuotate che si chiudono con terminazioni a occhielli. Sicuri della genesi dell’opera nella principale bottega scultorea attiva nel Regno Aragonese, da Napoli a Palermo e Messina, tra la seconda metà del Quattrocento e la fine del secolo successivo, potremo però più agevolmente circoscrivere la sua realizzazione entro il primo decennio del Cinquecento e confermare, nonostante le perplessità espresse da Negri Arnoldi (1997), la tradizionale attribuzione ad Antonello, figlio di Domenico, squisito e originale protagonista del Rinascimento in Trinacria: paternità con la quale fu presentata nel 1966 in una mostra della prestigiosa galleria londinese Heim.
D’accordo con Francesco Caglioti nell’ipotizzare un tirocinio fiorentino dell’artista nella bottega di Benedetto da Maiano tra il 1492 e il 1498, seguito da un periodo di attività fino al 1503 nella Sicilia orientale favorito dalla committenza calabrese, prolifico di statue desunte dalla Madonna della Neve del maestro fiorentino a Terranova Sappo Minulio, come le Vergini di Nicotera (1498-1499), Mesoraca (1504), Morano Calabro (1505) e Amantea (1505), riteniamo di poter riferire il marmo in esame al ritorno dello scultore nella sua città natale, quando, forte delle proficue esperienze nell’Italia centrale e meridionale, poté riprendere il magistero paterno “con la consapevolezza ed insieme il distacco dello scultore provetto” (Caglioti 2002, p. 1001). Se, infatti, nella prima delle opere realizzate durante il soggiorno messinese, la Madonna col Bambino inviata a Nicotera, è ancora esclusiva la filiazione dal ductus fiorentino, procedendo verso le Vergini di Caltagirone (1505 ca) e di Sinopoli (1508) si registra una sottile inversione di marcia ed una nuova intromissione nel lessico antonelliano dei valori formali espressi da Domenico, evidente nella caduta dei tessuti con una fitta rete di pieghe parallele e aggettanti, quale appunto ritroviamo nel nostro San Giovanni Battista. Sono proprio i confronti con questi lavori a indirizzarci verso una plausibile attribuzione della scultura ad Antonello che si rafforza paragonandola, per la tessitura dei drappeggi, con la prima opera del catalogo palermitano del Gagini, ovvero la Madonna della Scala nella Cattedrale di Palermo, firmata e datata 1503. Conferma inoltre la paternità di Antonello la tipica configurazione della testa caratterizzata dal tenue profilo del volto, su cui s’innestano la stretta bocca appena incavata e occhi lievemente affusolati, e dall’acconciatura dai sinuosi boccoli che si chiudono a uncino: peculiarità che permettono decisivi raffronti con l’angelo in primo piano a sinistra nel Tabernacolo eucaristico di Messina (1504 ca), i due San Giovanni Evangelista della Tribuna palermitana (1511-1512) e della Cattedrale di Vibo Valentia (1525-1530), l’Angelo Annunziante della Gancia (1510-1520), e i Santi Sebastiano e Girolamo dalle paraste dell’Altare di San Giorgio in San Francesco di Palermo (1520-1526).
A corroborare un’attribuzione ad Antonello poco dopo il suo definitivo trasferimento a Palermo, tra la Madonna della Scala (1503) e l’inizio dei lavori per la grandiosa Tribuna della Cattedrale (1507 ca), concorre infine la memoria di una nobile provenienza dal palazzo Paternò di questa città, già riferita nel catalogo Heim del 1966. Infatti il principale investitore di tale impresa fu proprio il vescovo Giovanni Paternò (1431-1511), per il quale Antonello eseguì anche un perduto Ciborio, che fonti locali ricordano già in precedenza scolpito per il Duomo, il San Giovanni Battista della chiesa del convento di Baida (1507-1510) e l’effigie funebre per il sepolcro del prelato posto nella stessa Cattedrale. Chissà, dunque, che questo gentile marmo non sia uno dei primi esiti del duraturo rapporto instaurato con la prestigiosa famiglia catanese, attestato almeno fino al 1519, realizzato forse, come suggeriscono le dimensioni contenute e l’affabile intonazione domestica, per venerare all’interno del palazzo il santo eponimo del facoltoso vescovo di Palermo.
 
Bibliografia di riferimento: G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 2 voll., Palermo 1880; H.W. Kruft, Antonello Gagini und seine Söhne, München 1980; F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. Valtieri, Roma 2002, pp. 977-1042.