Importanti Maioliche Rinascimentali

1 OTTOBRE 2015

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0046
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
Ore 17.00
Esposizione

FIRENZE
24 Settembre al 1 Ottobre2015
orario 10 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1500 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 65
10

ALBARELLO

MONTELUPO, 1470-1480

Maiolica dipinta in policromia con giallo citrino e blu di cobalto.

Alt. cm 18; diam. bocca cm 10,3; diam. piede cm 9.

 

 

Il vaso apotecario ha un’imboccatura larga con orlo appena estroflesso e con profilo tagliato a stecca. Il collo è breve e cilindrico, la spalla pronunciata dal profilo angolato, cui fa seguito un corpo cilindrico appena rastremato al centro. Il piede è basso, a base piana.

La decorazione, coerente con quella dell’esemplare che segue in questo stesso catalogo (n. 11), rivela sul fronte uno stemma centrato da una fascia orizzontale attorno alla quale sono disposti tre gigli, due sopra e uno sotto: la fascia e i gigli sono dipinti in colore giallo. Lo stemma è circondato da una ghirlanda a piccole foglie alla quale è agganciato un drappo, mentre il resto della composizione mostra un ornato a foglie d’edera disposto a fasce parallele sul corpo e orizzontalmente lungo la spalla.

I due vasi, entrambi presenti in questo catalogo, sono già stati pubblicati da Carmen Ravanelli Guidotti come confronti dell’albarello apotecario appartenente alla collezione Fanfani oggi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1).

La studiosa rimarca come ci si trovi davanti ad esempi ancora eccellenti di opere “a zaffera”, d’ispirazione italo-moresca, soffermandosi sull’aspetto araldico della serie di vasi raccolti attorno all’esemplare “Fanfani”: le differenze nelle forme e nelle configurazioni riguardano l’apparato decorativo e la differente redazione dell'arma. Per Carmen Ravanelli Guidotti si potrebbe trattare comunque di un’unica committenza iniziale, cui hanno fatto seguito più produzioni, e la studiosa concorda con Wallis riguardo all’ipotesi che si tratti di una famiglia non fiorentina. Il collezionista inglese riconobbe infatti nello stemma dell’esemplare ora conservato al Victoria and Albert Museum (2), quello della famiglia bolognese dei Mezzovillani. Per Carmen Ravanelli Guidotti si dovrebbe comunque indagare in ambito romagnolo e bolognese, dove altre famiglie esibiscono un blasone assai prossimo (3).

Analizzando nel dettaglio i due vasi notiamo che questo ha affinità maggiori con il vaso della collezione Glaser al Fitzwilliam Museum (4), fatta eccezione per la presenza di una fascia decorativa in orizzontale, anche nella parte bassa del vaso, mentre lo stemma ha una distribuzione dei gigli analoga: condivide l’ornato anche il già citato albarello del museo di Faenza.

L’ornato principale è ampiamente documentato tra i prodotti delle fornaci di Montelupo ed è noto come motivo a foglie verticali nel gruppo di decori di derivazione orientale “a damaschino” (5). Fausto Berti ritiene che questo tipo d’impianto decorativo appartenga a una fase più avanzata rispetto a quelli “a zaffera” o a quelli in “azzurro prevalente”: si tratta di un momento di passaggio verso una tavolozza più ricca. I tocchi di giallo citrino anticipano una fase successiva, in cui comincerà ad apparire anche il verde: ci si trova comunque ancora nell’ambito dei colori a tavolozza fredda. L’ornato prevede una foglia di forma lanceolata, nella quale le nervature sono incise nella campitura a colore, in questo caso ancora prevalentemente caratterizzata dall’uso del blu di cobalto. In altri esemplari le foglie si alternano con altre dipinte in manganese, come nell’albarello presentato da Berti nella mostra sulla maiolica di Montelupo (6).

Entrambi gli esemplari sono noti per la loro vendita all’asta Sotheby’s di Londra nel 1973 (7).          

 

 

1-RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 52-54 n. 17, tavv. 17c e 17f.

2-Inv. 1136-1904 Wallis Collection databile al 1450-1475, RACKHAM 1977, n. 80.

3-Famiglie Candenelli e Speciotti.

4- RACKHAM 1987, n. 2166, datato alla metà del secolo XV.

5- Il motivo a “foglia di edera” deriva dalle maioliche ispano moresche: per gli esemplari che recano questo decoro si veda ad esempio l’albarello raffigurato da Hugo Van Der Goes sullo sfondo della tavola Portinari nel 1473-1475 circa (VAN DE PUT 1904, p. 88 n. XXVI).

6-BERTI 2002, pp. 99-100 n. 16.

7-SOTHEBY’S 1973, lotto 7.

                               

Stima   € 12.000 / 18.000
11

ALBARELLO

MONTELUPO 1470-1480

Maiolica dipinta in policromia con giallo citrino, blu di cobalto e bruno di manganese.

Alt. cm 17,8; diam. bocca cm 8,8; diam. piede cm 9.


Il contenitore ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo angolato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana.

La decorazione, coerente con l’opera che precede (lotto 10), mostra sul fronte uno stemma centrato da una fascia orizzontale, lasciata a risparmio, sopra la quale sono tratteggiati tre gigli separati da una fascia merlata inversa di colore bruno di manganese. L’emblema è circondato da una ghirlanda a piccole foglie che sorregge un drappo, mentre il resto della composizione è costituito da un ornato a foglia d’edera, disposto in fasce verticali dall’andamento sinuoso, che continua sulla serie di foglie del collo. Rispetto all’esemplare che precede inoltre le fasce sono qui visibilmente separate da linee di colore giallo citrino, mentre intorno alle foglie sono disposti decori minuti realizzati con sottili righe blu che riempiono le campiture vuote.

Anche questo vaso condivide con il precedente la pubblicazione a cura di Carmen Ravanelli Guidotti come confronto dell’albarello apotecario oggi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1). Pur condividendo con il precedente sia i confronti sia la fonte d’ispirazione valenciana, presenta alcune differenze nella forma e nella decorazione, e soprattutto nella realizzazione dell’emblema araldico.

Sono tuttavia numerose le affinità con la serie di contenitori apotecari con bordo orlato dal motivo a foglie d’edera racchiuso sul corpo in fasce di andamento ondulato. Un esempio pregnante ci deriva dall’albarello studiato da Wallis al Victoria and Albert Museum, con la sola variante dell’arma nella quale i gigli sono tutti compresi nella parte superiore dello stemma. Un altro confronto, per questo vaso, con la stessa variante nello stemma (2).

Come detto per il lotto precedente, entrambi gli albarelli sono noti perché transitati sul mercato all’asta Sotheby’s di Londra nel 1973 (3).

 

1-RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 52-54 n. 17, tavv. 17c e 17f.

2-CORA 1973, tav. 178b.

3-SOTHEBY’S 1973, lotto 7.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
12

ALBARELLO

MONTELUPO, 1480-1505 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio nel tono arancio, blu di cobalto, verde ramina, bruno di manganese nei toni del viola.

Alt cm 24,6; diam. bocca cm 9,4; diam. piede cm 9,3.

 

Il contenitore apotecario presenta un’imboccatura ampia con orlo inclinato, rifinito a stecca, collo breve, spalla incurvata dal profilo allungato a spigolo vivo, che scende in un corpo cilindrico appena rastremato per terminare in un calice troncoconico con base piana.

Il decoro mostra sul collo e sul calice un motivo a righe parallele, blu e manganese-viola, compreso in due fasce orizzontali colorate in viola e arancio. Sul fronte, entro un medaglione tondeggiante rimarcato da pennellate blu, giallo arancio e viola, si scorge un simbolo di spezieria a sua volta delineato in blu.

Sul retro un motivo a “penna di paona” è accostato a un decoro “alla porcellana”,realizzato con tocchi rapidi, utilizzato a riempimento delle campiture.

La forma dell’albarello è ancora vicina alle fogge quattrocentesche, che trovano riscontro in opere unite a decori alla “damaschina” o comunque d’influenza orientale come l’albarello del Victoria and Albert Museum di Londra (1). L’influenza orientale nel nostro esemplare è rappresentata dal decoro alla “penna di paona”, interpretato dalle manifatture montelupine in maniera rapida e corriva, più accorta nella stesura coloristica rispetto all’impianto disegnativo.

Questo ornato segna, unitamente a quello alla “palmetta persiana”, il momento di passaggio dalle decorazioni medievali a quelle più schiettamente rinascimentali. La derivazione da opere orientali trae origine probabilmente dall’area persiana che, tra il XIII e XIV secolo, propone questo decoro in lustro metallico. Utilizzato nella seconda metà del XV secolo come ornato accessorio, esso diviene poi decorazione principale, prevalentemente in forme aperte solo nel secolo successivo (2). Fin dall’esordio è realizzato in forma stilizzata e, in questo caso, ancora legato a una connotazione fitomorfa, quasi floreale, che diverrà sempre più decorativa semplificandosi vieppiù in forma di fascia secondaria. Questo decoro non fu comunque tra i più in voga presso i vasai di Montelupo. Sono scarsi gli esemplari di confronto su forme chiuse e tutti quelli individuati lo utilizzano come motivo principale (3). Ciononostante siamo portati a ritenere il vaso in analisi vicino per morfologia e stile alle produzioni del primo Cinquecento, e comunque posteriore agli anni ‘70 del secolo precedente.

 

1-RACKHAM 1977, pp. 21-23 n. 83.

2-BERTI 1998, pp. 109.

3-BERTI 1999, pp. 257 nn. 54-55.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
13

ALBARELLO

MONTELUPO, 1505-1515 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio e blu di cobalto; smaltatura all’interno.

Alt cm 20; diam. bocca cm 8,5; diam. piede cm 9,3.

 

 

Il contenitore apotecario presenta un’imboccatura ampia con orlo inclinato, rifinito a stecca. II collo è breve; la spalla piana, con stacco a spigolo vivo, scende in un corpo cilindrico appena rastremato, terminante in un calice troncoconico che si assottiglia per finire in un piede con base piana. Lo smalto è di colore bianco rosato, molto crettato,  e alcune colature dall’orlo della bocca ne denunciano lo spessore.

Il vaso mostra, lungo il corpo, un decoro “alla porcellana” in monocromia blu e sul fronte, entro una cornice rotonda, uno stemma con una croce blu decorata da cinque stelline ad asterisco di colore giallo. Una catena continua corre lungo la spalla, mentre il collo e le fasce limitrofe alla decorazione principale sono dipinti con linee parallele. Nella decorazione predomina il colore blu cobalto in vari gradi di diluizione applicato con tecnica sapiente, come ad esempio nella cornice dello scudo di colore azzurro chiaro o nei nastri che la adornano tracciati a punta di pennello. Unica nota differente di colore il giallo delle stelle all’interno dello scudo.

La forma è ancora tardo-quattrocentesca e si può accostare per confronto a quella di un albarello già in collezione Cora, ora al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza che presenta decori “alla porcellana”, ma in una versione policroma e accostata a ornati più complessi (1). Il decoro del nostro esemplare, abbinato all’emblema della farmacia, ci sembra però influenzato da dettami stilistici già di primo Cinquecento e comunque ormai slegato dagli ornati d’ispirazione strettamente mediorientale. Il gusto è prossimo a quello degli albarelli già descritti in questo stesso catalogo (lotti 10-11) ma se ne discosta. L’influenza stilistica guarda all’estremo oriente: ai modelli della famiglia blu e del nodo orientale, qui declinati in un modo più corrivo, ma non meno elegante di quello generalmente proposto nelle forme aperte provenienti dal pozzo dei lavatoi a Montelupo.

Il gruppo di appartenenza potrebbe essere pertanto il 40.6 della classificazione di Berti (2), allorché il tralcio naturalistico perde consistenza e si destruttura in elementi più sottili e meno incisivi: gli elementi araldici sono spesso presenti in questa fase.

Si pensa pertanto a una datazione attorno al primo trentennio del secolo XVI.

 

1-BOJANI 1985, p.177, n. 440.

 2-BERTI 1998, p. 148 gruppo 40.6 .

 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

ALBARELLO

DERUTA, 1510-1520

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, verde rame, blu di cobalto, giallo, arancio.

Alt. cm 20,2, diam. bocca cm 10,2; diam. piede cm 9,9.

Sotto il piede traccia di etichetta e timbro dell’ufficio di esportazione della Sovrintendenza di Firenze.

 

Il contenitore apotecario ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo arrotondato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana con orlo aggettante.

Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno dei vasi, che non sono rivestiti da smalto, ma solo da invetriatura. Lo smalto di colore panna–grigiastro mostra numerose cavillature e distacchi dovuti alla presenza del contenuto.

La decorazione, coerente con quella dell’esemplare che segue, mostra sul fronte una corona fogliata con bacche che circonda una riserva contenente la scritta apotecaria redatta in caratteri capitali di colore blu “GRASSO.D.BECHO”. Il cartiglio funge da cornice al decoro principale, che qui raffigura un ariete fermo su un prato, con uno sfondo giallo e che riempie, solo parzialmente, lo spazio riservato dalla corona fogliata a sua volta centrata dallo stemma della farmacia. Quest’ultimo, non identificato, mostra uno scudo semplice con tre mezzelune attorno a una palla tagliata in tre porzioni.

Il retro del vaso mostra un decoro a nastro sinuoso, delineato in verde, interrotto da due ornati a rombi che vanno a incorniciare la sigla A MA.

L’albarello, con l’esemplare che segue, deriva da una farmacia non individuata e mostra, per caratteristiche tecniche formali e stilistiche, affinità con i corredi farmaceutici attribuiti alle manifatture derutesi (1) o comunque della zona dell’Umbria e Alto Lazio dei primi decenni del secolo XVI.

Il confronto morfologico trova molti riscontri in ambito derutese: si veda ad esempio, e solo a livello morfologico, l’albarello con ritratto di donna recentemente presentato nella mostra sulla maiolica delle Marche (2) e databile al primo ventennio del XVI secolo.

Anche il confronto, sempre prettamente morfologico, con gli albarelli pubblicati nel catalogo della collezione Fanfani del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (3) ci conforta nell’attribuzione, pur nella consapevolezza dell’estrema diversità e originalità della decorazione dell’esemplare in esame e del vaso che lo accompagna.

Nonostante una certa rapidità nella stesura della decorazione, soprattutto delle figure centrali, e la ripetitività propria dei corredi farmaceutici, ci troviamo davanti ad un esempio decisamente inconsueto e sicuramente collegato a un corredo importante. Tuttavia, solo la corretta lettura dello stemma e della sigla potrebbe portare all’identificazione definitiva dell’opera in esame.

Il preparato indicato nel cartiglio fa forse riferimento all’Hysopo, corruzione di oesypum humida, un preparato a base di lana sudicia ricca di lanolina, a indicare il grasso di lana usato in farmacopea per ammorbidire, per mitigare il dolore e per fortificare (4).

 

1 Già attribuiti ad area senese e durantina.

2 SANNIPOLI 2010, p. 80 n. 1.11.

3 RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 169-170 nn. 97-98.

4 MASINO 1988, p. 104.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
21

ALBARELLO

DERUTA, 1510-1520

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, verde rame, blu di cobalto, giallo, arancio.

Alt. cm 20; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 9,7.

Sotto il piede etichetta con scritto a mano a inchiostro il numero 100 e timbro dell’ufficio di esportazione della Sovrintendenza di Firenze.

 

 

Il contenitore apotecario ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo arrotondato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana con orlo aggettante.

Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno del vaso, che non è rivestito da smalto ma solo da invetriatura.

La decorazione, coerente con quella dell’esemplare precedente (lotto 20), mostra sul fronte una corona fogliata con bacche che circonda una porzione a forma di medaglione contenente il cartiglio, redatto in caratteri capitali di colore blu, attorno alla figura di una fanciulla con un piccolo libro in mano. Il cartiglio recita “INFRIGIDANS GALLIE”.

Lo stemma della farmacia sovrasta il medaglione centrale: uno scudo semplice con tre mezzelune attorno ad una palla tagliata in tre porzioni.

Il retro mostra un decoro a nastro sinuoso delineato in verde e interrotto da due ornati a rombi che vanno a incorniciare la sigla A MA.

Per confronti e analisi tecnica si rimanda a quanto già detto nell’esemplare che precede salvo aggiungere un confronto stilistico per la figura umana che, pur mantenendo caratteristiche disegnative meno efficaci, ci sembra simile a quelle dipinte sull’importante serie di bottiglie farmaceutiche conservate al Museo del Louvre (1).

L’Infrigidans Gallie fa probabilmente riferimento all’infrigidans alleni, un unguento a base di altea campestre bianca, rosa, limone putrido, fiori di papaveri erratici e altro ancora con scopo antipiretico e antisudorifero.

 

1 GIACOMOTTI 1974, pp. 142-144 nn. 481-487.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
56

ALBARELLO

CASTELLI D’ABRUZZO, BOTTEGA DI ORAZIO POMPEI, 1550-1560 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, verde rame, giallo, giallo arancio, bruno di manganese e bianco di stagno.

Alt. cm 24,4; diam. bocca cm 10; diam. piede 11,8. 

 

Il vaso apotecario ha una bocca larga con orlo estroflesso, un collo corto che scende in una spalla obliqua, breve e dal profilo appena arrotondato. Il corpo è cilindrico con base alta e carenata che termina in un piede basso dal profilo svasato.

Il decoro, realizzato in piena policromia, mostra nella parte anteriore, racchiuso in una metopa delimitata da due fasce con motivo a corona fogliata, il busto di una giovane donna raffigurata di tre quarti con i capelli raccolti, vestita di una camiciola bianca e un abito verde con le maniche arancio. Subito sotto si legge il cartiglio farmaceutico che recita: “atanasia” in lettere gotiche (1). Sulla spalla corre un motivo a girali arancio su fondo giallo, mentre la base ha sul fronte un riquadro con lo stesso motivo, più sottile, in blu su fondo azzurro.

Il volto è tracciato in blu di cobalto a creare una riserva sul fondo smaltato. I campi riservati sono poi riempiti di colore: giallo variamente diluito nei capelli, verde intenso nel corpetto e così via. Il fondo blu cupo è reso con ampie pennellate appena dietro alla figura, quasi a creare una nicchia; lo sfondo è poi riempito da una campitura più aperta, diluita con piccoli tratti, quasi a nuvolette. I tratti sottili, appena rimarcati, sottolineano il naso, la bocca e la capigliatura. Il blu ombreggia tutto l’ornato in sapiente e rapido contrasto con le campiture di altro colore.

Il vaso appartiene a una serie di contenitori prodotti a Castelli d’Abruzzo per il cosiddetto corredo Orsini Colonna, di cui abbiamo parlato nella scheda che precede (lotto 55). Dal catalogo della celebre mostra tenutasi a Castelli nel 1989, si nota come fossero già state individuate più mani nella realizzazione del celebre corredo. La produzione è da situarsi prevalentemente nel secondo terzo del XVI secolo. Dai dati di scavo è emerso soprattutto come questo tipo di produzione sia ben attestato nei butti. La complessità dei decori e la qualità dei materiali impiegati ne fecero fin dal secolo XVI un materiale di lusso. La bottega o le botteghe interessate nella produzione di queste opere mostrano una perizia tecnica esemplare per l’epoca: i decori e il repertorio morfologico, spesso assai complesso, non sono di uso comune, ma in linea con un mercato che richiedeva sempre di più opere di qualità medio-alta. A tale richiesta il cosiddetto corredo Orsini Colonna sembra rispondere pienamente.

I decori presenti sull’opera in analisi ci aiutano a inserirla cronologicamente all’interno di una produzione specifica: in particolare il ritratto femminile associato al motivo a girali della spalla e del piede, ma soprattutto il motivo di fondo, ci fanno ritenere l’opera ascrivibile alla seconda fase del secondo Gruppo, secondo la classificazione proposta nell’ultimo studio monografico sulle produzioni castellane del Cinquecento (2), cui rimandiamo per i confronti. Si tratta pertanto della produzione assegnabile per morfologia e per decoro al primo terzo del XVI secolo.

 

1 Indica la destinazione farmaceutica del vaso atto a contenere, probabilmente sotto forma di unguento, l’erba che identifichiamo, secondo la classificazione di Linneo, come Tanaceto (Tanacetum vulgare): pianta erbacea perenne a fiori gialli, appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Il nome deriva dal greco ”athanasia” (immortale, di lunga durata). Alcuni testi fanno riferimento alla credenza che le bevande fatte con le foglie di questa pianta conferissero vita eterna. In particolare le sono associate le seguenti proprietà: amare, toniche (rafforza l'organismo in generale), digestive, vermifughe (elimina i vermi intestinali), astringenti (limita la secrezione dei liquidi), febbrifughe (abbassa la temperatura corporea) e vulnerarie (guarisce le ferite).

2 DE POMPEIS 1985, pp. 83-85.

 

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
58

ALBARELLO

NAPOLI, MAESTRO DELLA CAPPELLA BRANCACCIO (ATTR.), 1470-1480

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, bruno di manganese nei toni del marrone, violaceo e del nero.

Alt. cm 34; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 10.

 

L’albarello ha forma cilindrica appena rastremata al centro, con spalla e calice angolati, collo breve con orlo estroflesso tagliato a stecca e piede appena concavo tanto da poggiare solo sui bordi esterni, aggettante all’esterno. Lo smalto che ricopre l’intera superficie è povero, di colore bianco-crema con inclusioni, ruvido al tatto, e presenta bolliture prevalentemente sul collo e crettature; l’interno non è smaltato.

Il collo del vaso è interamente decorato con un bel motivo a palmette a ventaglio, motivi puntinati e semi-palmette a ventaglio, racchiuse in un archetto e alternate a piccole foglie trilobate, mentre la spalla è rimarcata da righe blu e gialle. Il corpo è interessato, nella parte anteriore, dalla raffigurazione di un uccello fantastico dal viso di giovinetto (1), ritratto di profilo e conchiuso in una cornice che ne segue i contorni. Intorno si estende un motivo a foglie accartocciate con spirali e punti dipinti a riempimento degli spazi vuoti.

Il volto è abilmente ombreggiato con sottili pennellate, il lungo collo abbellito da una fascia gialla, il piumaggio realizzato con una stesura del pigmento diluita con diversa densità sia sulle ali, sia sul corpo.

Il sistema di incorniciare le figure in una riserva che ne circonda i contorni è tipico del primo Rinascimento e sembra interessare trasversalmente tutte le manifatture italiane del periodo.

Guido Donatone, che ha pubblicato l’opera (2), nel confronto con una piastrella del Pavimento Gaetani di Capua, sottolinea la rarità della tecnica lavorativa, e segnala come anche le foglie che decorano il verso trovino riscontro in ambito napoletano nel retro dell’albarello con probabile profilo del Sannazaro (3) e con altri pavimenti poi attribuiti allo stesso pittore: proprio su queste basi ha avanzato l’ipotesi di una produzione napoletana. Lo stesso studioso affianca l’opera a un albarello del Museo del Bargello (4) con il profilo di un airone, con caratteri peculiari simili a quelli che si riscontrano nelle opere del Maestro della Cappella Brancaccio, escludendo di conseguenza l’attribuzione dello stesso a botteghe pesaresi.

Un albarello della medesima tipologia, e con attribuzione analoga, è recentemente transitato sul mercato (5): la morfologia, le dimensioni importanti e il decoro secondario a foglie accartocciate avvicinano i due esemplari e ci sostengono nell’attribuzione. Le precedenti assegnazioni ad ambito faentino, romano (6) o siciliano (7) sono ormai superate.

Anche per questo esemplare ci pare corretta la datazione suggerita dal confronto con i vasi con stemmi aragonesi recanti le armi di Alfonso II d’Aragona e della moglie Ippolita Sforza, che ci danno un’indicazione cronologica compresa tra il 1465 e il 1484 (8).

Il nostro albarello, ancora con attribuzione ad ambito toscano o faentino, è transitato sul mercato in un’asta Sotheby’s a Milano nel 1997 (9).

 

1 Un animale fantastico ancora legato alle rappresentazioni simboliche di gusto medievale o di derivazione orientale, variante dell’arpia o della sirena classiche con il corpo d’uccello e il volto di donna e della simbologia a esse correlata. O forse una rilettura occidentale di un mito orientale come per esempio quello dell’uccello Garuda: un uccello dal volto umano usato da Vishnu come cavalcatura.

2 DONATONE 2013, p. 44, tavv. 31a, 37d.

3 DONATONE 1993, tav. 117b.

4 CONTI 1971, n. 584.

5 ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p. 264 n. 60.

6 DE RICCI 1927, n. 42 per il nostro esemplare e nn. 39-47 per il gruppo.

7 GIACOMOTTI 1974, nn. 96-98; BORENIUS 1931, tavv. VII.A, VII.B e p. 5.

8 DE VASSELLOT 1903, pp. 338-343 n. 97.

9 SOTHEBY’S, Milano 11 giugno 1997.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
1

BOCCALE

VITERBO, 1450 CIRCA
Maiolica, corpo ceramico color ocra chiaro, smalto color crema di consistenza friabile, con qualche inclusione, di lucentezza poco marcata, steso in uno strato spesso fino a ricoprire, in parte, anche l’interno dell’imboccatura. Decoro in “zaffera blu” con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 18; diam. bocca cm 7 x 6,5; diam. piede cm 6,3.

 

Il contenitore piriforme presenta pancia rigonfia che scende fino al piede basso con orlo arrotondato e base piana, non smaltato. Il collo, distinto dal corpo da un collarino sagomato in rilievo a formare un motivo a corda, sale per aprirsi in un’imboccatura con beccuccio dal profilo poco marcato e con orlo appena arrotondato. Appena al di sotto della bocca, sulla parte posteriore, si diparte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al di sotto della massima espansione del vaso.

Il decoro, che interessa prevalentemente la parte anteriore del vaso, mostra una lepre, gradiente a sinistra, tra foglie di quercia, con piccole puntinature di manganese a riempire gli spazi vuoti. Al fianco dell’ansa si scorgono due linee parallele decorate da un alternarsi di asterischi manganese e punti blu a zaffera, mentre un motivo a gocce che scendono da una linea (1) sottolinea l’orlo e adorna il collo alternandosi a piccoli asterischi.

La morfologia del boccale, con il collarino a rilievo, la bocca trilobata con un andamento molto aperto e poco marcato, il corpo e il collo allungati, ci porta a ritenere che l’opera in esame sia stata prodotta in un’area influenzata dalla scuola viterbese. Il boccale si può pertanto attribuire all’area umbro-laziale più che toscana con una datazione, a nostro avviso, più prossima alle tipologie arcaiche, confermata anche dalla qualità della zaffera che si presenta in forma molto rilevata. Anche la distribuzione del decoro al centro del vaso, con una porzione molto larga tra il corpo e il piede, ci porta a collocare l’oggetto in ambito dell’Alto Lazio.

Ci conforta infine anche il confronto con opere provenienti dalla Tuscia con decoro con “lepre in corsa”, pur nelle differenti caratteristiche morfologiche.

Si vedano, ad esempio, il boccale con lepre alla scheda 37 della mostra sulla zaffera del 1991 e i confronti da collezioni private mostrati in repertorio (2).

L’unicità della foggia del nostro boccale lo distingue dagli altri di forma più comune, dove non è presente un collarino a rilievo dal decoro tanto meticoloso.

Il boccale è stato pubblicato da Galeazzo Cora (3)nel suo monumentale studio sulla ceramica di Firenze e del contado, che lo considerava opera fiorentina della prima metà del XV secolo, indicandone la provenienza dalla C

 

1-Decoro conosciuto come “motivo a vaio”.

2-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1990, p. 236 n. 37 e p. 288 nn. 10-11.

3-CORA 1973, tav. 77a.

 

 

 

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
2

BOCCALE

VITERBO O TUSCIA, 1450 CIRCA
Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro, smalto di colore bianco-azzurrato di buona consistenza e lucentezza con qualche inclusione, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito con colature.

Alt. cm 26,3; diam.della bocca cm 7,5 x 9,8; diam. del piede cm 10,2.

 

 

Il contenitore ha un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo marcato, collo leggermente troncoconico che si allarga in un corpo piriforme con pancia rigonfia che scende fino al basso piede a disco, con orlo arrotondato e base piana non smaltata.

Nella parte posteriore, appena sotto l’imboccatura parte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al punto di massima espansione del vaso: l’ansa è decorata da sottili tratti orizzontali in bruno di manganese. Ai lati della presa si distingue una decorazione tipica, dipinta ancora in bruno di manganese, con motivo “a file di crocette”(1). Sulla parte anteriore del vaso si sviluppa la decorazione principale: un uccello con le ali spiegate, nell’atto di spiccare il volo, circondato da foglie di quercia e fogliette trilobate che si protendono da sottili rametti arcuati. Un motivo “a vaio”, cui fa seguito un motivo a “dente di lupo” capovolto, adorna il collo.

Anche quest’opera, insieme a quella che precede (lotto 1), per morfologia e decoro s’inserisce nella produzione Alto-Laziale, che ha trovato nel centro di Viterbo l’area principale di sviluppo, pur interessando altre zone produttive nell’area geografica della Tuscia.

Alcuni confronti, come ad esempio un analogo contenitore con uccello, ma realizzato in zaffera verde e molto simile anche per dimensioni (2) , confermano pienamente l’ambito produttivo sopraindicato.

Il boccale ritenuto opera fiorentina della prima metà del XV secolo, è stato pubblicato da Galeazzo Cora (3) nel suo monumentale studio sulla ceramica di Firenze e del contado. Oggi, alla luce degli scavi più recenti, non possiamo più concordare con tale paternità: la morfologia non corrisponde ai boccali toscani, ma ci fa propendere per una produzione dell’Alto Lazio.

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1990, p. 198: la tavola della tipologia dei decori secondari mostra nell’ornato descritto nelle schede 30, 36, 40, 44 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.

2- ANVERSA 2004, p. 38 n. 10.

3- CORA 1973, tav. 64b.

                

                                                                          

                                                                          

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

BOCCALE

VITERBO, 1450 CIRCA

Maiolica, corpo ceramico di colore beige chiaro molto poroso, smalto color grigio di scarsa lucentezza con inclusioni, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 22,7; diam. della bocca cm 8,3 x 8,7; diam. del piede cm 9.

 

 

Il contenitore è piriforme con pancia rigonfia che scende assottigliandosi, fino a formare un piede basso a disco con orlo arrotondato e base piana priva di smalto. Il collo cilindrico sale e si apre in un’imboccatura trilobata, dal profilo poco marcato e rifinito con un orlo appena arrotondato e sottolineato da una sottile centinatura. Appena sotto la bocca, sulla parte posteriore, s’intravvede l’attacco dell’ansa che doveva scendere fino a sotto il punto di massima espansione del vaso.

Sul retro, ai lati dell’ansa ora mancante, si scorge una decorazione tipica realizzata in bruno di manganese con motivo cosiddetto a “filo ondulato” (1). Il decoro principale interessa la parte anteriore del vaso e mostra un giovane paggio in abiti eleganti che, brandendo nella mano sinistra un’ascia, si avvicina a una pianta con foglie trilobate, mentre con la destra avvicina un corno alla bocca. Il giovane è circondato da un fitto decoro con alberi fogliati dallo stelo sottile, mentre la campitura restante è riempita, come di consueto, da puntinature di manganese. Un motivo a goccioloni che scendono da una linea marca l’orlo e guarnisce il collo.

Anche quest’opera, come le precedenti (lotti 1 e 2), per morfologia e ornato si può collocare nella zona alto laziale che si estende attorno a Viterbo fino a tutta l’area geografica della Tuscia e della Maremma.

Tra i decori di questa tipologia ceramica quello della figura umana non è comune: sono noti solo rari esempi, tra i quali quelli con figura femminile sembrano anticipare i decori amatori (2). La figura del paggio, vestito elegantemente, ha pochi esempi di confronto: si ricorda come meno importante, ma comunque rappresentativa, la figura presente nella bella fiasca da collezione privata, databile alla metà del secolo XV, considerata un’antesignana delle fiasche nuziali, dove però l’autore non dimostra grande dimestichezza nella rappresentazione umana (3). In questo caso invece la cura per i dettagli è notevole: il gonnellino con le pieghe sottolineate da linee curve campite in manganese diluito, le maniche che grazie all’effetto di rilievo della zaffera rendono l’idea di un pesante velluto, il copricapo sottolineato da un sottile gallone, il volto realizzato di profilo con il mento molto pronunciato, secondo l’iconografia corrente. Si vedano a titolo di confronto il volto, invero più delicato, della figura femminile sul boccale da collezione privata viterbese (4), e l’orlatura del copricapo della figura mostruosa del boccale viterbese, sempre ascrivibile alla metà del secolo (5).

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 198 la tavola della tipologia dei decori a delimitazione delle decorazioni principali mostra nel decoro s24 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.

2-Sulla figura femminile nella ceramica del medioevo e riguardo a un interessante accostamento tra i ritratti sulla ceramica e quelli raffigurati sulla ceramica antica o sugli affreschi “italici” ed etruschi della zona si veda MAZZA 1990.

3-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 243 n. 43.

4-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 243 n. 42.

5-GARDELLI 1989, tav. 6 n. 43.

 

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
4

BOCCALE

VITERBO O TUSCIA, 1450 CIRCA

Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro molto poroso, smalto color bianco-grigio di buona consistenza e lucentezza poco marcata, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 22,4; diam. della bocca cm 8 x 8,4; diam. del piede cm 9.

 

Il contenitore è piriforme con pancia rigonfia che scende fino a un piede basso a disco, non smaltato, con orlo arrotondato e base piana. Il collo sale per aprirsi in un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo poco marcato, con orlo appena arrotondato e sottolineato da una sottile centinatura. La forma è del tutto simile a quella del boccale precedente (lotto 3).

Sotto la bocca, sulla parte posteriore, si diparte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al di sotto della massima espansione del vaso: l’ansa mostra un decoro a sottili tratti orizzontali in bruno di manganese. Ai lati dell’ansa si scorge una tipica decorazione, sempre in manganese, con motivo cosiddetto a “filo ondulato” (1).

Il decoro principale interessa la parte anteriore del vaso e mostra un uccello dalle lunghe zampe intento a beccare da terra, tra foglie di quercia che si allargano su sottili ramoscelli, mentre piccole puntinature di manganese riempiono gli spazi vuoti; goccioloni scendono da una linea, mentre il “motivo a vaio” sottolinea l’orlo e adorna il collo.

Anche quest’opera per morfologia e decoro s’inserisce appieno nella produzione alto-laziale, che ha trovato nel centro di Viterbo l’area principale di sviluppo. La zaffera viterbese e laziale ha uno sviluppo più tardivo rispetto a quella dell’area fiorentina e ha un repertorio decorativo piuttosto vasto nonostante l’esiguità e la brevità della produzione. La figura decorativa più presente è quella animale, associata a foglie di quercia o a elementi decorativi geometrico - floreali.

Il boccale in oggetto si inserisce pienamente nell’ambito produttivo sopraindicato e ha mostra numerosi confronti da un punto di vista morfologico (2), mentre dal punto di vista decorativo, pur riprendendo il motivo della figura animale, la presenta in un modo più articolato ed elegante, posizionando l’uccello in un atteggiamento già quasi naturalistico. Un’opera prossima a quella in analisi può essere il boccale con cigno conservato al Museo del Vino di Torgiano (3).

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 198: la tavola della tipologia dei decori secondari mostra nell’ornato s24 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.

2-Si veda ad esempio lo stesso boccale a figura umana (lotto 3) di questa medesima selezione, molto simile anche per dimensioni.

3-FIOCCO GHERARDI 1991, n. 9

 

                                                   

                                                                          

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
8

BOCCALE

AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1430-1440

Maiolica, corpo ceramico di colore ocra chiaro camoscio, smalto bianco grigiastro con consistenza tenera, spesso ma poco lucente e con qualche inclusione. Decorato in zaffera blu di cobalto e piombo con effetto molto rilevato, con tratti di bruno di manganese anch’esso con abbondanza di pigmento.

Alt. cm 16,5; diam. della bocca cm 12,5 x 11; diam. del piede cm 12.
 

Il boccale ha una forma che ben si adatta alle morfologie tipiche dell’area fiorentina: corpo rigonfio che si stringe alla base mostrando un piede basso arrotondato, appena visibile, e poggiante su una base piana. In alto la strozzatura rastremata si chiude in un collo basso e cilindrico che si apre in una bocca trilobata appena estroflessa con orlo tagliato a stecca. Dal collo scende un’ansa a bastoncello raddoppiato, che si ferma appiattendosi all’altezza di massima espansione dell’invaso. L’ansa è decorata da trattini orizzontali che delimitano spazi bianchi, decorati in alternanza da puntini o croci. Un motivo “a trifoglio” in blu interessa il punto di raccordo tra l’ansa e il corpo del contenitore.

La decorazione principale interessa una larga metopa, delineata sul fronte del vaso e incorniciata da linee parallele, dove un leone rampante e un trampoliere sono riprodotti affrontati: gli animali sono circondati e incorniciati da foglie di quercia su rami sottili che sostengono piccoli frutti rotondi stilizzati. Il collo è decorato da un motivo “a bacche”, che prevede una fila continua di punti tondi e sottili tratti di manganese.

Le figure del leone e dell’uccello sono spesso impiegate, singolarmente, sulle ceramiche di questa tipologia, in posizione gradiente.

Il leone trova un riscontro stilistico in una figura analoga, ma in posa differente, dipinta su un boccale morfologicamente simile, ma di dimensioni maggiori, conservato in una collezione privata a Siena e databile al secondo quarto del secolo XV: il leone con criniera avanza a destra con la lingua all’infuori ed è circondato da foglie di quercia (1). Ma, nonostante la somiglianza, ci pare che il nostro esemplare si possa annoverare tra le opere ascrivibili alla prima fase di questa tipologia produttiva. La qualità della zaffera molto rilevata, alcuni caratteri decorativi ancora vicini alla ceramica arcaica e la forma con ansa a doppio bastoncello ci indurrebbero ad anticiparne la datazione di circa un ventennio.

Il leone rampante è spesso rappresentato da solo o in coppia su molti orcioli di produzione montelupina della fase iniziale della “zaffera” (2). Particolarmente prossimo al nostro esemplare è il leone presente su un orciolo, pubblicato da Galeazzo Cora, già della collezione Liechtenstein (3) : molto vicini sia lo stile pittorico con il quale è realizzato l’animale sia la scelta decorativa secondaria; l’opera è datata da Cora alla prima metà del secolo XV.

Da rimarcare poi sia la rarità della scelta morfologica del contenitore (4)sia l’importanza dell’impianto decorativo, impreziosito dalla presenza contemporanea dei due animali affrontati.

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 78 n. 18 e confronti.

2-Si veda in merito la selezione proposta dagli autori del catalogo della nota mostra sulla Zaffera di alcuni anni orsono con oggetti realizzati in modalità stilistiche più o meno simili al nostro esemplare (CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, pp. 254-255 nn. 32, 33, 34, 59-66 e bibliografia relativa).

3-CORA 1973, tav. 81 (81a).

4-Il quartone, di produzione toscana: attestato nel periodo (BERTI 1997 p. 348 n. 67)

                                    

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
54

CALAMAIO

URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, INIZIO SECOLO XVII

Maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, verde, blu e bruno di manganese nei toni del marrone e bianco di stagno.

cm 26 x 19 x 14.

 

 

Il calamaio raffigura una dama intenta a verificare una lavorazione, forse un rotolo di pizzo: la donna è rappresentata seduta in abiti rinascimentali con una camiciola dall’ampio collo, aperta sul davanti, un soprabito smanicato, trattenuto in vita da una cinta sottile, che ricopre un abito azzurro dalle maniche lunghe (1). La donna ha i capelli raccolti sul capo e guarda di fronte, mentre con la mano destra scorre il pizzo che trattiene con la sinistra. Il rotolo è contenuto in un cestino che la donna, seduta su una seggiolina da camino, tiene sulle ginocchia. Ai piedi della sedia un vasetto verde per contenere l’inchiostro.

Queste plastiche, destinate a un uso privato, frutto di commissione o di dono, sono state attribuite da Carmen Ravanelli Guidotti alla bottega Patanazzi con una datazione coerente a quella già proposta dal Ballardini (2), in base ad un esemplare con stemma Aldobrandini, alla fine del Cinquecento e ai primi anni del Seicento.

La studiosa ha superato la tradizionale attribuzione a Faenza di questa tipologia in virtù di particolari caratteristiche: le figure in genere modellate con alcuni dettagli realizzati in serie e aggiunti in corso d’opera; la plastica non raffinatissima; lo spessore alto dello smalto, e soprattutto l’associazione delle plastiche al decoro a raffaellesche. Tutti questi elementi avvalorano una paternità urbinate.

Il confronto con esemplari simili, anch’essi plasmati con personaggi di genere, ci conforta nell’attribuzione. Si vedano ad esempio “il suonatore di organo”, con tratti fisiognomici del volto molto vicini al nostro esemplare, raffigurato sul calamaio del Victoria and Albert Museum recante un cartiglio con la scritta “Urbino” (3); il “Bacco ubriaco” dello stesso museo che, in forma di fontana, riproduce lo stile e il gusto dei calamai urbinati (4); il calamaio con figura di “San Girolamo” del Museo di Leningrado con analoga datazione (5) e le belle plastiche presentate in una mostra sulle maioliche rinascimentali nello stato di Urbino di qualche anno fa (6), in particolare il “San Matteo” (7) della Cassa di Risparmio di Rimini, il “Mosè con le tavole della legge” e la “coppia di figurine” in cui compare un personaggio femminile.

La figura femminile appare comunque poco rappresentata, e sarebbe quindi interessante verificarne la quantità nell’elenco delle plastiche nell’Inventario Ducale del 1609 (8).

 

1 L’abito di foggia tardo-cinquecentesca, già influenzato dalla moda francese e inglese, conferma la produzione nella seconda metà del secolo.

2 BALLARDINI 1950, pp. 99-103.

3 RACKHAM 1977, p. 283 n. 852 (inv. 8400-1863).

4 RACKHAM 1977, pp. 283-284 N. 853 (inv . C.665-1920).

5 IVANOVA 2003, p.111 n. 97.

6 GARDELLI 1987, p. 159.

7 GARDELLI 1987, p. 152 n. 65.

8 SANGIORGI 1976.

 

 

Stima   € 7.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
17

CANESTRO DI FRUTTA                                                        

GIOVANNI DELLA ROBBIA, 1520-1525 CIRCA                                    

Terracotta decorata in policromia a pigmento e invetriata.                

Alt. cm 18; diam. cm 26.                                                  


La scultura è a forma di canestro con composizione di frutta. Il contenitore ha un'imboccatura ampia, con una strozzatura a metà del corpo e piede piano: limitazione del vimini nella struttura è accorta e dettagliata. La parte alta del contenitore ospita una grande quantità di frutta, di verdura e alcuni fiori: uva, melograno, cetriolo, limoni, noci, fiordaliso, fiori darancio e altro. La composizione è disposta con grande naturalezza e arricchita da elementi quali una piccola raganella verde e una lumaca.                                                            

Di questa tipologia sono conosciuti alcuni esemplari con varianti: si ricordano tra le altre la cestina del Museo Bardini di Firenze (1) attribuita a Giovanni della Robbia; le cestine esposte alla Mostra di Fiesole sui della Robbia (2), anchesse assegnabili al medesimo ambito; la cestina della collezione Cagnola di Varese di officina robbiana forse vicino a Giovanni o Luca della Robbia (3).                                

Questo tipo di oggetto si affianca alle produzioni non scultoree della bottega della Robbia, che comprendeva anche i vasi di gusto classicistico e i vasi con coperchio plasmato a guisa di cespo di fiori o di frutta, come ad esempio quello del Fitzwilliam di Cambridge, in cui ci pare di vedere una comunanza nello stile del decoro a frutta con il nostro cestino (4).  

Queste opere dovevano probabilmente essere utilizzate come ornamento dellaltare o anche come gameli nuziali (5).                               

Giancarlo Gentilini ricorda come si tratti di una produzione limitata, dove i panieri erano realizzati a calco dal vero, mentre la frutta e gli animali da orto erano modellati, e assegna queste opere al periodo di Giovanni e  Luca il Giovane nella prima metà del Cinquecento (6).                     

Qualche analogia va segnalata anche con un canestro, di dimensioni superiori al consueto, abitato come il nostro esemplare da piccoli animaletti, databile agli anni venti del Cinquecento per il modellato e le scelte cromatiche (7).

La produzione si nserisce in un preciso programma culturale dei della Robbia che ha un suo illustre precedente nellantichità classica, quando opere in terracotta raffiguranti i frutti della terra erano esposte nelle dimore per alludere alla fertilità e all'abbondanza (8).                              

 

1 GENTILINI 1992, inv.1923 n. 877, p. 281.                                

2 QUINTERIO in GENTILINI 1998, p. 279 n. III, 21a,b.                      

3 AUSENDA 1999, p. 165 n. 2.                                              

4 POOLE 1997, p. 30 n. 10, attribuito a bottega di Andrea della Robbia.   

5 GENTILINI 1992, p. 221.                                                 

6 GENTILINI 1998, pp. 221 e 359. Ne parla il Piccolpasso indicando le varie

tecniche della maiolica (PICCOLPASSO 1976, p. 87).                        

7 QUINTERIO in GENTILINI 1998, p. 280 n. III, 22.                         

8 GENTILINI 1980, p. 85.   

                              

Stima   € 12.000 / 18.000
29

COPPA

FAENZA, BALDASSARE MANARA, 1539

Maiolica, dipinta in policromia con arancio, giallo antimonio, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 5,8, diam. bocca cm 25, diam. piede cm 10,5.

Sul retro la data “1539” entro cartiglio in color ocra.

 

La coppa presenta un cavetto concavo e tesa alta terminante in un orlo sottile arrotondato;  poggia su un piede basso e privo di anello.

La rappresentazione si adatta alla forma del manufatto, assecondandone le curve e le convessità e raffigura un soggetto mitologico ambientato in un paesaggio racchiuso da alberi e quinte di montagne sullo sfondo. Una città turrita si confonde nel paesaggio tra montagne, prati ondeggianti e fiumi. I due protagonisti della scena, Marte e Venere, si affrontano al centro del piatto: Marte appoggiato a un albero, ai cui piedi si scorge Cupido intento a guardare la madre, ritta sulla destra del piatto con la mano alzata ad indicare il cielo dove un amorino appare reggendo nelle mani un arco, probabilmente destinato a Cupido, già armato di faretra. Poco distante due personaggi, intenti a dialogare, sembrano avvicinarsi alla radura in cui si svolge la vicenda.

Lo smalto è steso con abbondanza, i pigmenti trattati con estrema perizia, anche se sul retro sono presenti qualche difetto di cottura e qualche colatura all’orlo.

Il verso è dipinto interamente in ocra con motivo a embricazioni, al centro un cartiglio a fondo bruno marrone con scritta giallo antimonio “1539”, intorno al quale risaltano due rami di ulivo.

Si tratta a nostro avviso di un episodio dell’amore tra Marte e Venere di cui ci narra Ovidio nelle Metamorfosi (1). Carmen Ravanelli Guidotti, che ha pubblicato l’opera qualche anno fa, pensava invece a Vulcano e Venere, ma a conferma della nostra ipotesi ci sembra di ritrovare una concreta somiglianza del personaggio raffigurato nel nostro piatto con il  Marte di una incisione di Giulio Bonasone, con la sola variante del braccio alzato con la spada che pare comunque un attributo più idoneo al dio della Guerra.

La coppa in esame, pur in assenza di firma, si avvicina molto all’opera del maestro faentino, al punto che è stata inserita da Carmen Ravanelli Guidotti nella monografia su Baldassarre Manara (2). La studiosa conferma l’attribuzione dell’opera al pittore faentino con la prudenza dovuta alla mancanza di verifica autoptica sul pezzo, noto solo per le numerose pubblicazioni (3). Di grande interesse, oltre alla ricostruzione della storia collezionistica del pezzo, è il paragone che la studiosa introduce con le opere del “Pittore di Argo”, attivo in questo arco cronologico in area marchigiana, non escludendo un’influenza di questo tipo di pittura sul grande artefice faentino ormai giunto alla maturità artistica.

La presenza della data colloca la coppa tra le opere mature di Baldassarre Manara, quando, ormai affermato, tende a firmare o a datare i propri lavori.

Le notizie biografiche su questo celebre pittore sono scarse, ma la sua attività si colloca nella prima metà del XVI secolo. Sappiamo che proveniva da una famiglia di vasari, nota nella città di Faenza. Le attestazioni archivistiche sono scarse e abbiamo notizie dal 1529 fino al 1546-1547, anno supposto della morte (4).

Il corpus di oggetti di Baldassarre Manara è vasto e comprende decine di opere, alcune delle quali conservate nei più importanti musei del mondo.

Il confronto stilistico con questi esemplari, nei quali è chiaramente riconoscibile l’impianto disegnativo caratteristico di questo pittore, con contorni definiti e ombreggiature a chiaroscuro ottenute con sapiente dosaggio del pigmento e con una velata sovrapposizione di bianco di stagno, conferma ulteriormente la paternità della coppa.

Altra riprova ci deriva dal marcato linearismo delle figure, impreziosito spesso da un cromatismo brillante, qui sostituito da una gamma cromatica che predilige i colori caldi. comunque rappresentata in alcune opere di confronto, come la coppa con L’adorazione dei pastori ora al Museo Internazionale delle Ceramica di Faenza (5). Anche il soggetto, mitologico, è coerente con le fonti d’ispirazione del Manara.

Stilisticamente il confronto con alcuni dettagli, caratteristici dell’opera del maestro, rafforza ulteriormente l’attribuzione. Si vedano ad esempio il volto di Marte, nel nostro piatto, e quello di profilo dal San Paolo caduto da cavallo della coppa conservata nella raccolta di Arti Applicate del Castello Sforzesco a Milano, opera del 1535 circa (6). Oppure si vedano anche le figure sullo sfondo del nostro piatto, che richiamano la grazia dei due personaggi collocati alle spalle di Giasone nel piatto con Atalanta e Ippomene del Fitzwilliam Museum (7). Il dettaglio della figura femminile e in particolare quello delle mani con l’indice alzato è stato già ampiamente analizzato da Carmen Ravanelli Guidotti in un articolo su “Faenza”(8).

Infine l’ambientazione con quinte arboree, greti sassosi e ruscelli, con sfondi “a paese” spesso abitati da città turrite circondate o appoggiate a montagne, costituiscono un corpus di elementi che ritroviamo nelle opere del pittore faentino (9).

L’opera compare nel catalogo della vendita della celebre collezione Adda (10), e già nella schedatura operata da Rackham nel 1959 (11) era attribuita a Baldassarre Manara.

È stata in seguito pubblicata da Giovanni Conti nel catalogo di una mostra tenutasi presso la galleria antiquaria di Milano di Carla Silvestri (12).

La coppa è accompagnata dalla documentazione che ne attesta il passaggio dalla galleria milanese alla collezione dove è stata fino a oggi custodita.

 

 

 

1-Ovidio, Metamorfosi, IV, vv. 167-189 Venere, moglie di Vulcano, si innamora di Marte e con lui tradisce il marito. Il Sole scopre l’adulterio e lo rivela a Vulcano. Questi, infuriatosi, si vendica costruendo una rete invisibile, da legare attorno al letto. I due amanti, colti in flagrante durante il loro incontro, sono intrappolati. Vulcano chiama tutti gli dei a raccolta per essere testimoni del fatto e umiliare i due amanti, liberati in seguito solo grazie all’intercessione di Nettuno.

2- RAVANELLI GUIDOTTI 1996, p. 222 n. A2.

3- Nella pubblicazione il piatto è riprodotto capovolto rispetto all’originale.

4- RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 90-91: nel primo atto notarile Baldassarre Manara è chiamato a testimone in una causa, riguardo alla morte invece abbiamo notizia da un altro documento in data 20 giugno 1547 nel quale la moglie è definita come “olim uxor”.

5- RAVANELLI GUIDOTTI 1996, n. 31.

6- RAVANELLI GUIDOTTI in AUSENDA 2000, pp. 118-119 n. 114.

7- RAVANELLI GUIDOTTI 1996, pp. 142-144 n. 12 fig.12g.

8- RAVANELLI GUIDOTTI 1991, tav. XXXVIIIC.

9-RAVANELLI GUIDOTTI 1996, figg.10f,10g,11f/g/i o la tipologia della città nelle figure 13b/c.

10- ADDA SALE 1965.

11- RACKHAM 1959, n. 301.

12- CONTI 1984, scheda 34.

 

 

 

Stima   € 90.000 / 120.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

COPPA

CASTELDURANTE, 1535

Maiolica, dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 5,5, diam. cm 23, diam. piede cm 12.

Sul fronte entro cartiglio in caratteri capitali “Battista”.

 

 

La coppa ha cavetto concavo con tesa alta terminante in un orlo sottile arrotondato e larga tesa appena inclinata. Poggia su un piede alto dall’orlo appena estroflesso.

Il ritratto nel piatto è realizzato di fronte: la giovane donna indossa una camicetta plissettata chiusa al collo da un gallone ricamato, e s’intravede appena un bustino giallo ocra chiuso sul seno da un laccio. Lo sguardo è rivolto verso il basso e la piccola bocca è chiusa. I capelli, raccolti sulla nuca, sono trattenuti da un nastro arancio dal quale scendono alcuni sottili nastri che cadono a lato del volto.

Dietro il ritratto appare un cartiglio che si srotola sinuosamente e che reca la scritta BATISTA.

Anche questa coppa, come quella che segue (lotto 34), appartiene alla tipologia delle “belle” e condivide con essa anche il confronto tipologico stilistico con la coppa del Museo di Lione (1). La grande perizia tecnica nella stesura dei colori è ben esemplificata nel modo di realizzare i nastri che scendono dal capo: sono assai sottili e realizzati a risparmio rispetto al blu dello sfondo, che è steso con pennellate parallele molto fitte e continue. La perizia dell'autore ben si evince anche dalla stesura di sottili tocchi di bianco di stagno, a dare luce ai tratti del volto.

Il confronto più prossimo alla nostra coppa ci deriva da un esemplare morfologicamente affine, oggi conservato al Victoria and Albert Museum (2), nel quale il ritratto femminile, raffigurato di fronte, è decorato a lustro metallico in un tono giallo oro: la coppa è attribuita a Casteldurante, inserita tra le opere lustrate a Gubbio (3) in un ambito cronologico compreso tra il 1535 e il 1540, e reca alle spalle della “bella” la scritta “amaro chi me amara”. 

Lo stile delle due figure è, a nostro avviso, sovrapponibile, salvo alcuni particolari nella scelta della raffigurazione, di fronte e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, e l’applicazione del lustro che, oltre a lumeggiare il ritratto, si estende nella scritta e decora lo sfondo blu con stelle. Coincide anche la rappresentazione della veste e del sottile nastro, che scende dalla larga fascia che ferma l’acconciatura, e la forma dell’orecchio. Vicina a questa sensibilità anche la coppa con la frase Aura che con li ocie et acende il sole conservata al Louvre (4).

La coppa è stata esposta alla mostra culturale “Belle, bellissime su maiolica” tenutasi a Verona parallelamente alla V Biennale antiquariaTesori dal tempo nella primavera del 2001 (5).

 

 

1-GHERARDI-FIOCCO 2001, p. 207 n. 141.

2-RACKAHAM 1977, p. 237 n. 716 (Inv. 8886-1863).

3-Una più recente ipotesi suggerisce che fossero i lustratori eugubini a spostarsi nel ducato per lustrare le opere e non il contrario (FIOCCO-GHERARDI 2007).

4-GIACOMOTTI 1974, p. 246 n. 811
5-“Ceramica Antica” XI, n. 4, 2001, p. 6.

 

 

 

Stima   € 30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
34

COPPA

CASTELDURANTE O URBINO E DUCATO, 1540 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 6, diam. cm 22, diam. piede cm 10,5.

Sul fronte entro cartiglio in caratteri capitali LUCIA. BE[LLA].

 

La coppa presenta corpo concavo con tesa alta terminante in un orlo sottile arrotondato e poggia su un piede basso.

Sul fronte un bel ritratto femminile di faccia, alle spalle del quale si snoda un cartiglio che reca la scritta LUCIA. BE[LLA], a indicare il nome della protagonista. La giovane donna è dipinta con il volto verso lo spettatore, il busto è compresso nel piatto e indossa un peplo all’antica, drappeggiato e fermato sulle spalle, appena visibili attraverso i panneggi, da due fermagli rotondi di color verde. Lo sguardo è rivolto a sinistra, la bocca chiusa e atteggiata a un sorriso un poco trattenuto; attraverso la folta capigliatura di colore fulvo, raccolta in una morbida acconciatura sul capo, si scorge un orecchio.

La coppa appartiene alla tipologia delle “belle”, utilizzate com’è noto per celebrare le future spose da parte del promesso, o come dono di fidanzamento.

Questa coppa trova numerosi confronti in collezioni private e pubbliche: fra queste indichiamo quella con figura femminile del Victoria and Albert Museum (1), il bel ritratto di “Girolama” in una coppa conservata al Museo del Louvre, anche se forse più leggero nel tratto, soprattutto nel modo di trattare la capigliatura, rispetto alla coppa in esame, e anche la coppa con ritratto di “Bartolomea” del Metropolitan Museum of Art di New York, databile attorno agli anni 1525-1530, che condivide con il nostro esemplare la resa dello sguardo e alcune particolarità tecniche (2).

Particolarmente vicino per il modo di trattare l’incarnato con tecnica di velature di bianco su bianco, bistro e tocchi di arancio, per la resa degli occhi con l’interno sottolineato da una zona rosata e le ombreggiature sottilissime in bianco, ma anche per i capelli raccolti sulla nuca e altro ancora, è il frammento di coppa conservato al Bargello a Firenze e datato 1546 (3).

Non lontano dal nostro ritratto è quello di “Dianora bella” del Museo di Lione (4), simile per la medesima impostazione del ritratto che interessa l’intera coppa, per la sapiente capacità tecnica nella resa dell’incarnato, per il modo di sottolineare il naso solo nella parte terminale lasciando al gioco cromatico il compito di delinearne la forma e infine per il medesimo modo di far cadere alcuni ciuffi arricciati delineati con un sol tocco di pennello.

Anche alla luce di questi confronti ci sembra pertanto corretto inserire quest’opera nella produzione durantina della metà circa del secolo XVI.

La coppa è stata esposta alla Mostra culturale “Belle, bellissime su maiolica” che si tenne a Verona parallelamente alla V Biennale antiquaria Tesori dal tempo nella primavera del 2001 (5)

 

1-RACKHAM 1977, p. 186 n. 554 (Inv. 8930-1863), per il quale viene indicata una produzione durantina e una datazione attorno al 1530 circa

2- Lehamann Collection, inv. 1975.1.1103.

3- CONTI 1971, n. 466.

4- GHERARDI-FIOCCO 2001, p. 207 n. 141.

5-“Ceramica Antica” XI, n. 4, 2001, p. 6.

 

Stima   € 28.000 / 35.000
37

COPPA

URBINO E DUCATO DI URBINO, AMBITO DI NICOLA DA URBINO, 1525-1535 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,5; diam. cm 25,7.

 

 

La coppa ha cavetto concavo e tesa bassa, terminante in un orlo sottile e arrotondato. Si presenta priva di piede.

La scena si svolge all’interno di un porticato a pianta centrale, con volte a vela e un’esedra sullo sfondo, pavimentato a grandi lastre quadrate. Al centro della composizione è collocato un altare dalla forma “a candelabro” (1) con ricca decorazione a foglie d'acanto, sul quale è acceso un focolare. Ai piedi dell'altare, un sacerdote barbato sacrifica un animale con una spada dalla lama larga e ricurva. Alle sue spalle un uomo, anch'esso barbato e avvolto in un manto arancio (2), assiste alla scena, mentre sul lato opposto una donna velata accompagna un fanciullo che sorregge con la mano destra un animale da sacrificare. Sullo sfondo, dietro le architetture, un paesaggio accennato spicca in ombra sul cielo al tramonto.

La composizione richiama, con molte varianti, quella replicata in un’incisione di Marco Dente tratta da un disegno realizzato da Raffaello per le Logge Vaticane e già utilizzata in maiolica presso le botteghe urbinati (3).

Una scena di sacrificio, invero più affollata, attribuita alla bottega di Guido Durantino, è conservata al Museo di Berlino (4) e mostra una figura di vecchio che sacrifica un capro davanti ad un altare, in presenza di un sacerdote con il capo velato e davanti a numerosi personaggi: i modi stilistici sono vicini a quelli della cerchia di Nicola da Urbino.

La nostra coppa era stata attribuita a Nicola Pellipario da Rackham, che in una lettera al proprietario, datata 24 novembre 1962, scriveva: “Non ci sono dubbi che tu sia il proprietario di un altro lavoro di Nicola Pellipario (5). Daterei la coppa al 1520 o forse al 1525”(6). Tale attribuzione è accolta anche da Maria Cristina Villa, che pubblica la coppa come confronto in un articolo su un istoriato inedito di Nicola da Urbino (7). Nell’articolo vengono raffrontate alcune opere del maestro urbinate nelle quali si riscontrano effettivamente molti elementi comuni, vuoi nella resa delle figure vuoi in quella dei personaggi.

L’architettura con il porticato ha invece un riscontro in un altro piatto pubblicato nello stesso articolo e conservato al Castello di Wawel a Varsavia (8), nel quale la vicenda narrata si svolge in un porticato del tutto coerente con il nostro: Maria Cristina Villa fornisce tutti i dettagli relativi alle fonti d’ispirazione e all’utilizzo delle stesse da parte di Nicola e della sua cerchia.

Tra le opere di confronto, ci colpisce un piatto del Museo di Amburgo, nel quale le figure attorno all’altare comprendono un personaggio barbato avvolto in un mantello sulla sinistra del piatto e due figure erette sulla destra; il vecchio non mostra riscontri stilistici affini a quello raffigurato sul nostro piatto, ma ne potrebbe comunque costituire una fonte d’ispirazione. Nei personaggi femminili l’attenzione è focalizzata sulla forma del viso, che ritroviamo nelle figure rappresentate nel nostro piatto con varianti: nell’opera in analisi i personaggi sono uno maschile e uno femminile e le vesti sono differenti.

Il confronto più calzante ci pare comunque quello con la coppa dell’Ashmolean Museum di Oxford (9) raffigurante la Presentazione al tempio, nella quale le modalità stilistiche nella raffigurazione dei personaggi ci paiono prossime a quelle dell’opera in esame: in particolare ci colpiscono la raffigurazione della pavimentazione, il volto del sacerdote velato e quello della figura in abito giallo dietro al rabbino.

Le affinità che abbiamo riscontrato potrebbero però essere spiegate con quanto ormai conosciamo sull’utilizzo delle fonti incisorie nelle botteghe che produssero decori istoriati.

La vicinanza con Nicola ci deriva da alcuni elementi stilistici e da alcune scelte decorative ben caratterizzanti: ad esempio l’architettura con nicchia che accoglie un altare decorato che si ritrova nel piatto da collezione privata con la scena dell’Uccisione di Achille (10), presente anche in altre opere del maestro urbinate come la Conversione di Sergio Paolo delle Civiche Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano (11).

Anche la forma scelta nel descrivere il cerbiatto che viene sacrificato ci sembra ricordare le modalità stilistiche di Nicola: si veda ad esempio il cerbiatto che compare sullo sfondo di un piatto del Museo del Louvre con le Storie di Sant’Eustachio (12).

Inevitabile, comunque, il confronto con artisti che operano vicino al maestro urbinate. Tra questi il “Pittore di Marsia di Milano”, attivo a Urbino tra il 1525 e il 1535. Un nucleo coerente di sue opere, tra le quali il piatto eponimo conservato a Milano, è stato studiato da Timothy Wilson in occasione della classificazione e pubblicazione della raccolta delle ceramiche del museo milanese (13). L’autore ci ricorda come John V.G. Mallet avesse già citato il piatto del Pittore di Marsia in un convegno nel 1980, costituendo un primo nucleo di opere di un pittore che mostra grandi analogie formali con Xanto Avelli e con Nicola da Urbino, con una personalità artistica però inferiore. È andato in seguito ad aumentare il numero di opere attribuite al pittore attorno a questo primo nucleo: si tratta pertanto di un piatto tipo per le attribuzioni, il cui arco cronologico è compreso tra il 1525 e il 1535 (14). Per quanto riguarda la presenza di un’iscrizione sul retro del piatto milanese, Wilson ci fa notare che, fatta eccezione per cinque pezzi (15), la maggior parte degli esemplari attribuiti a questo pittore sono privi d’iscrizione.

Il confronto con il piatto con Apollo e Dafne attribuito al Pittore di Marsia mostra affinità stilistiche con la nostra coppa, anche se vi riconosciamo comunque un tratto e una resa cromatica differenti. Il modo di rendere gli zigomi della figura anziana nel piatto milanese e nei nostri personaggi barbati, basata sull’alternanza tra il chiaro e lo scuro, con la guancia incorniciata da una mezzaluna in tono più scuro, avvicina il piatto a quest’oggetto.

A riprova di quanto da noi pensato per l’attribuzione, va annoverata anche la marcata vicinanza con alcune opere attribuite da Wilson al Pittore di Marsia, non ultimo il piatto eponimo, come si osserva nel volto delle figure femminili sulla destra del piatto con L’uccisione dei figli di Niobe (16), delle figure a cavallo presenti sull’altro piatto con medesimo soggetto (17) o del vecchio sulla destra del piatto con Latona e Lici. In tutti si riscontrano affinità nei modi di descrivere il paesaggio sullo sfondo con colline squadrate ombreggiate di blu e file di alberelli tondeggianti, ma in queste opere la cura per i dettagli ci pare maggiore e lo stile, invece, meno disinvolto e spontaneo.

Anche il confronto con esemplari che si pensano prodotti da altri pittori della cerchia di Nicola da Urbino rivela somiglianze con l’opera in studio, come ad esempio il piatto con Muzio Scevola sempre del museo milanese (18).

Il nostro piatto, con il titolo Sacrificio sotto una loggia, proviene dalla Collezione Scott-Taggart (19) ed è transitato poi dalla Galleria Barberi.

 

1-Ispirato forse da oggetti come quelli raffigurati nelle incisioni di Enea Vico, come suggerisce ad esempio Maria Cristina Villa (VILLA 2001, p. 42), o come il Candelabro a Cariatidi (BARTSCH 30, 15).

2-Ci sembra che possa derivare dalla figura presente tra il pubblico della Predica di San Paolo ad Atene in una incisione di Marcantonio Raimondi da un cartone di Raffaello, eseguito per uno degli arazzi vaticani; l’incisione è pubblicata alla scheda n. 38 di questo catalogo.

3- Ne è un esempio una crespina con scena di sacrificio in RAVANELLI GUIDOTTI 2000, p. 131 n. 18.

4- HAUSMANN 1972, pp. 281-282 n. 205.

5- Dalla seconda metà dell’Ottocento si parla di Nicola Pellipario come del più grande maestro della pittura su ceramica, più tardi identificato come Nicola da Urbino e oggi finalmente riportato alla sua posizione di “pellicciaio”; il Pellipario è solo il padre del capo bottega Guido Durantino che da Castel Durante si sposta a Urbino fondando una propria bottega. Nicola di Gabriele Sbraghe detto Nicola da Urbino è una personalità a sé stante nata e attiva a Urbino, alla quale oggi si riferiscono le opere un tempo attribuite al Pellipario. Nel 1968 Wallen dimostrò che in realtà Nicola Pellipario e Nicola da Urbino erano due artisti distinti, ma soprattutto che Pellipario era molto probabilmente un conciatore di pelli. Per dettagli si veda: WILSON 1987, p. 44; l’elenco degli studi si trova in THORNTON-WILSON 2009, p. 230; importante la lista delle opere proposta da Mallet nel 2007 (MALLET 2007B).

6- Il testo della lettera è riportato tra la documentazione relativa alla provenienza dell’opera nella scheda d’asta della collezione Scott-Taggart; SOTHEBY’S, aprile 1980, lotto 17.

7- VILLA 2001, pp. 38-62.

8- PIATKIEWICZ-DERENIOVA 1991, n. 33.

9- Inv. LI206.16.

10- PAOLINELLI in MALLET 2002.

11- WILSON in AUSENDA 2000.

12- GIACOMOTTI 1974, p. 272 n. 867.

13 WILSON in AUSENDA 2000, pp. 190-192 n. 199.

14-Per approfondimenti e ipotesi in merito al “Pittore di Marsia di Milano”, si vedano RASMUSSEN 1984-1989; WATSON 1986; per la questione cronologica, WILSON 1996, pp. 188-191.

15- Ai quali lo studioso ne aggiunge altri due.

16-WILSON in AUSENDA 2000, p. 192 n. 201.

17-WILSON in AUSENDA 2000, p. 191 n. 200.

18- WILSON in AUSENDA 2000, pp. 194-195 n. 204: la scheda ricorda anche altri autori avvicinati dagli studiosi a Nicola da Urbino; si rimanda in merito alla bibliografia relativa.

19-CHRISTIE’S, Londra, 14 aprile 1980, lotto 17.

 

Stima   € 35.000 / 45.000
Aggiudicazione  Registrazione
40

COPPA

URBINO, SECONDO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con azzurro, verde ramina, bruno di manganese, giallo ocra, blu di cobaltoe bianco di stagno.

Alt. cm 5,2; diam. cm 26,5; diam. del piede cm 12,6.

 

 

La coppa, poggiante su piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La scena istoriata raffigura Il sacrificio di Marco Curzio (1), avvenuto quando, per un terremoto o per un'altra causa naturale, il suolo franò nel centro del foro romano, lasciando aperta un'ampia voragine. Nonostante tutti vi gettassero della terra non si riusciva a riempirla, fino a quando, su preciso monito degli dèi, gli indovini sostennero che si doveva consacrare quel luogo con “l'elemento principale della forza del popolo romano”, se si voleva che la Repubblica romana durasse in eterno. Allora Marco Curzio, un giovane distintosi in guerra, riconoscendo nel valore militare ciò che gli dèi richiedevano, si offrì in voto e, montato in groppa a un cavallo, si gettò armato nella voragine: la folla, colpita dal gesto, lanciò frutta e libagioni su di lui e la voragine ne fu colma (2).

Questa vicenda riscontrò un grande successo nell’iconografia rinascimentale e in particolar modo sulla maiolica istoriata. Si vedano ad esempio i piatti del Museo di Pesaro che, con modalità stilistiche differenti, in alcuni casi accomunati dalle medesime incisioni di riferimento, raffigurano questa stessa scena (3); ma l’elenco di come questo episodio sia stato trattato in maiolica sarebbe assai lungo.

Notiamo nell’analisi della coppa che l’autore ha associato più incisioni nella formazione del soggetto da raffigurare: si riconosce nei personaggi assembrati ad assistere al sacrificio del giovane valoroso, una parte del popolo che affolla l’agorà nell’incisione di Marcantonio Raimondi che raffigura La predica di San Paolo nell'Areopago di Atene (4) (vedi fig. 1). La figura del Marco Curzio da Marcantonio Raimondi invece non ci pare possa costituire il riferimento iconografico corretto per l’opera in esame, pur essendo probabilmente assai nota nelle botteghe urbinati.

Stilisticamente la coppa ci pare vicina alle produzioni urbinati, o comunque di una bottega attiva nel Ducato di Urbino: anche la forma della coppa è assai usata nel ducato stesso. E anche l’uso di più fonti incisorie, secondo l’abitudine delle botteghe marchigiane, e la capacità di unirle in una corretta proporzione ci conforta sull’area produttiva e ci fa pensare a un pittore esperto. Ciò che ci colpisce è l’abilità dell’artefice di disporre con grande maestria le figure all’esergo del piatto delineandole con libertà, nonostante il riferimento alle incisioni.

I pigmenti sono variamente diluiti per dare profondità alle pieghe delle vesti, i volti sono illuminati da tocchi di stagno che fanno spiccare i nasi, dritte le bocche chiuse, il cavallo è ben descritto grazie a un sapiente gioco di chiaroscuro e con ombreggiature con tocchi di bistro, così come il cavaliere: si noti per esempio la cura nella realizzazione dell’elmo. Ma sono le architetture dello sfondo, il muro arcuato (5), le cupole, i fornici ad arco, unitamente agli alberi dal tronco scuro e sinuoso, che ci portano a ragionare e a confrontarci con autori attivi della prima metà del secolo e con maestranze che conoscono l’operato di Nicola da Urbino.

La coppa è transitata sul mercato antiquario ed è pubblicata nel catalogo dell’asta del 1976 (6), dove veniva indicata come piatto di Urbino del 1540 circa.

 

1 Livio, Ab Urbe condita, VII, 6.

2 Secondo alcune versioni il lago Curzio prese il nome da questo eroe e non da Curzio Mezio, soldato di Tito Tazio in tempi più remoti.

3 Inv. 4314 FONTEBUONI 1985, n. 179, inv. 4199; infine inv. 4359, che il Mallet dava già opera come del ”Maestro S” FONTEBUONI 1985, n. 219.

4 La predica di San Paolo nell'Areopago, bulino, da un cartone di Raffaello oggi al Victia and Albert Museum preparatorio per un arazzo nella Pinacoteca Vaticana (BARTSCH XXVI/14, n. 44 e H. SHOEMAKER 1981, n. 47).

5 Il richiamo va ad alcune opere di Xanto Avelli o al piatto datato circa al 1533 attribuito a Nicola da Urbino in MALLET 2008, p. 132 n. 42, oppure p. 86 n. 20.

6 SOTHEBY’S, 22 ottobre 1976, lotto 40.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
41

PIATTO

PESARO, PITTORE DEL PIANETA VENERE (?), 1542-1548 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. piede cm 11.

Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto “presa de Iosefe/ Dalifratelli”.
 

Il piatto presenta ampio cavetto, tesa larga e obliqua terminante in orlo arrotondato. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso, molto ricco e materico con vetrina brillante lucida e vetrosa sia sul fronte, sia sul retro e abbondante uso dei pigmenti. Vi sono ombreggiature verdi sul retro, ornato da righe gialle concentriche che ne sottolineano gli stacchi di forma: al centro del cavetto la scritta in blu di cobalto “presa de Iosefe/ Dalifratelli”.

La scena delineata sul fronte interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura l’episodio biblico del rapimento di Giuseppe da parte dei fratelli (1). Giuseppe era nato da Rachele, seconda moglie di Giacobbe, dopo anni di sterilità: alla sua nascita il padre Giacobbe era già anziano e lui divenne il figlio prediletto. Questa preferenza del padre alimentò la gelosia dei suoi fratellastri, che complottarono contro di lui. Il primogenito si oppose all'uccisione di Giuseppe, preferendo che fosse gettato in fondo a un pozzo, ma infine si decise di venderlo per venti monete d'argento a una carovana di mercanti di passaggio: Giuseppe, schiavo, fu condotto in Egitto. I suoi fratelli quindi utilizzarono la tunica, donatagli dal padre come segno di predilezione, cosparsa di sangue di capra per far credere al padre Giacobbe che Giuseppe fosse stato ucciso da una bestia feroce.

Nel piatto il giovane è disegnato con le mani legate tra i fratelli che lo conducono verso il pozzo, dove li attende uno di loro, il maggiore, che ne indica il fondo. Un’alta roccia fa da quinta alla scena, mentre sullo sfondo si scorge un paesaggio con montagne alte dal profilo arrotondato e un villaggio con cupole e torri cuspidate si specchia in un lago.

Le figure sono dipinte con uno stile dal tratto deciso: i volti e i dettagli sono illuminati da tocchi di bianco di stagno, in contrasto con la scelta cupa dei colori molto materici.

Un confronto stilisticamente pertinente si ritrova nel piatto con la contesa di Pan e Apollo della Wallace Collection di Londra, attribuito al Ducato di Urbino negli anni 1540 circa (2). Si noti come il volto di Apollo si avvicini molto a quello di uno dei fratelli di Giuseppe, così come quello del personaggio barbato seduto nel piatto londinese è molto simile a quello dei fratelli più anziani dipinti nel nostro piatto. Si vedano inoltre lo stile delle mani, le braccia robuste, la forma delle chiome degli alberi a ciuffi larghi e appiattiti, le rocce allungate e scontornate, ma soprattutto la forma delle montagne e dei villaggi con cupole e torri dal tetto acuminato, molto rassomiglianti nelle due opere.

Gli stessi volti allungati con le orecchie dall’attaccatura bassa, i piedi dalle dita allungate, le architetture con le facciate chiare, i tetti spioventi rossi e le finestre piccole rimarcate da una linea chiara si ritrovano poi in un altro piatto della stessa collezione londinese, raffigurante Latona che punisce il popolo della Licia e che reca sul verso la data 1551: qui però la grafia della scritta ci pare differente.

Un articolo di Riccardo Gresta ci propone alcuni piatti in cui molte caratteristiche stilistiche si avvicinano a quelle fino ad ora individuate nel piatto oggetto di studio. Lo studioso analizza un certo numero di opere, mettendole in correlazione con il noto bacile del Museo d’Arti Applicate del Castello Sforzesco che ha dato il nome al Pittore del Pianeta Venere. Il confronto con le opere raccolte da Gresta ci fa pensare a una possibile attribuzione a questo pittore attivo a Pesaro tra il 1542 e il 1548 circa (3).

Il piatto è appartenuto alla nota raccolta Murray, che fu esitata in una celebre asta nel 1929: il piatto compare al n. 121 come opera urbinate della metà del secolo XVI (4).

 

1 Genesi, 30, 24

2 NORMAN 1976, pp. 246-247 n. c. 121: si fa riferimento alla vicinanza di questo piatto con le opere attribuite da Rackham al pittore dei miti in abiti moderni (Cat. p. 243 n. 735).

3 GRESTA 1992, p. 41.

4 MURRAY SALE 1929, p. 32 tav. XXI.

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
43

PIATTO

URBINO, BOTTEGA FONTANA (DURANTINO), 1540 CIRCA

Maiolica dipinta a policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. del piede cm 11.

Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto è delineata la scritta “Tutia porta/Al temple aqua col cribulo”.

 

 

Il piatto ha un ampio cavetto e una tesa larga e obliqua, terminante in un orlo che sul retro presenta due filettature concentriche, seguite da altre due linee gialle a sottolineare i contorni. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso e molto ricco, con vetrina brillante sia sul fronte sia sul retro. Il decoro è realizzato con abbondante uso dei pigmenti e sono presenti alcune ombreggiature verdi sul retro.

La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura il Sacrificio della Vestale Tuccia che, ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità (incestum), chiese di poter provare la propria innocenza sottoponendosi a una pena di prova, consistente nel tentare di raccogliere l'acqua del Tevere con un setaccio: la prova riuscì dopo l’invocazione alla dea Vesta e Tuccia fu ritenuta innocente.

La donna è raffigurata con il setaccio ricolmo d’acqua tra le mani mentre si avvicina all’altare, su cui arde un fuoco, accolta da due sacerdoti barbati e con il capo velato. L’ara è collocata di fronte a un tempio porticato e con una copertura a cupola; sullo sfondo si scorge una città con edifici arrotondati, cupole e torri sormontate da curiosi e alti pennoni, e tra le due parti scorre un fiume.

Questo soggetto fu caro alla pittura su maiolica nel Rinascimento (1).

Un confronto, che ci aiuta a delimitare l’area di produzione, ci viene fornito da una splendida coppa, conservata al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (2), già attribuita a Nicola da Urbino, che raffigura una Scena di sacrificio al tempio di Apollo, come si deduce dall’iscrizione apposta sul retro nei modi grafici del maestro urbinate. Le due opere, stilisticamente molto differenti, condividono lo stesso humus culturale, più semplificato e corrivo nella nostra opera, più sofisticato e colto nell’opera del museo faentino.

Ma è il confronto con un piatto del Museo Fitzwilliam di Cambridge (3) che ci fornisce una collocazione più precisa: si tratta di un piatto istoriato con La regina di Saba che ascolta il giudizio di Salomone, firmato “nella Bottega di Maestro Guido Durantino” e databile agli anni ‘30 del Cinquecento (4). Lo stile, un poco corrivo, a larghe pennellate, e la forma delle architetture, in particolare quella della gradinata, ci inducono ad avvicinare con buona sicurezza l’opera in esame a quella del museo inglese.

 

1 Si pensi ad esempio alle varie redazioni che ne fece Xanto Avelli (MALLET 2008, p.154 n. 53).

2 Inv. 540, già pubblicato in BERNARDI 1980, pp. 47-48 n. 55.

3 POOLE 1997, p. 68 n. 29.

4 MALLET, “Burlington Magazine” 1987 pp. 284-298.

 

 

Stima   € 22.000 / 30.000
44

COPPA

PESARO, BOTTEGA DI GIROLAMO LANFRANCO DALLE GABICCE, 1540 CIRCA

Maiolica dipinta a policromia con colori arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, bistro e bianco di stagno.

Alt. cm 6,4; diam. cm 26,4; diam. piede cm 12,9.

 

La coppa presenta cavetto concavo con tesa alta terminante in orlo arrotondato e larga tesa appena inclinata. Poggia su alto piede rifinito a stecca.

La scena figurata occupa tutto il cavetto e raffigura la sfida tra Poseidone e Atena per la protezione della città di Atene. Il Fato aveva predetto che l’Attica sarebbe diventata la regione più forte, ricca e importante di tutta la Grecia e così gli dèi decisero di insediarsi nelle varie città, dove ognuno di loro avrebbe avuto il suo culto personale. Per Atene si svolse una gara il cui tema era quello di produrre la cosa che sarebbe stata più utile agli uomini. Le versioni sono qui discordanti: per alcune Poseidone per primo si recò in Attica, vibrò un colpo di tridente in mezzo all’Acropoli e fece apparire una fonte di acqua salata, mentre secondo un’altra versione del mito Poseidone avrebbe offerto in dono il primo cavallo, simbolo di guerra e potenza. Dopo di lui venne comunque Atena che piantò un ulivo simbolo di pace e fertilità. Ne nacque una contesa: per Apollodoro (1) lo stesso Zeus li fece smettere chiamando a giudici tutti gli altri dèi dell’Olimpo. Il loro giudizio, grazie alla testimonianza di Cecrope che asserì che la dea avesse per prima piantato l’ulivo, fu a favore di Atena, dalla quale la città ebbe il nome. Poseidone, con l'animo pieno d'ira, allagò per vendetta la pianura Triasia e fece sommergere dal mare tutta l'Attica.

Il pittore sviluppa la scena su più livelli prospettici. In primo piano le due divinità al centro: Poseidone che con la destra regge il tridente e con la sinistra il cavallo (2), che s’impenna esprimendo tutta la sua potenza, e un poco in disparte, sulla sinistra, Atena entra nella scena avanzando a larghi passi e indicando alle sue spalle l’albero di ulivo. Sullo sfondo il porto di Atene e la città turrita che s’innalza su un colle. Su un albero è appeso uno stemma bipartito forse a indicare un matrimonio. Allo stato attuale degli studi non ci pare di poter riconoscere le famiglie nobiliari, anche se è forse possibile ipotizzare, per la sola metà a destra dello stemma, che si tratti della famiglia fiorentina dei Bardi (3).

Lo smalto è grasso, spesso, i colori brillanti, la stesura è sicura; i tratti somatici dei volti sono delineati in bruno e la prospettiva è resa con sicurezza, mentre il paesaggio sullo sfondo è ricco di particolari, come ad esempio la torre bianca con il tetto acuminato che svetta sul cielo al tramonto.

La coppa trova preciso riscontro in un esemplare del tutto analogo per morfologia e sintassi decorativa, ma privo dello stemma, conservato al museo di Pesaro e attribuito alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce attorno al 1542 (4). La scena e la disposizione sono veramente molto simili, facendoci pensare ad un soggetto di successo presso la bottega di produzione, ma la mano è differente: più leggera ma anche più imprecisa nella coppa del museo pesarese, più incisiva, ma anche più irrigidita nella resa dei personaggi, nel nostro esemplare.

Riccardo Gresta nell’analisi della coppa del museo pesarese aveva già ipotizzato la possibile collaborazione di più mani nella stessa opera: lo studioso per la composizione geometrica degli abitati pensa a una paternità del Pittore di Cadmo (5), individuando una mano diversa per le figure (6).

Nello sfondo e nei dettagli delle case, nelle lumeggiature in bianco di stagno delineate con precisione e perizia, nella resa del cavallo in bianco su bianco con ombreggiature di bistro, e in quella dell’incarnato e della muscolatura della divinità marina, si ha la sensazione, nella nostra opera, di una maggiore uniformità pittorica e di trovarsi di fronte a un artista esperto.

L’opera di  Girolamo Lanfranco dalle Gabicce fu studiata e ben definita da Grazia Biscontini Ugolini (7) e da allora si sono potuti raccogliere e individuare molti esemplari ascrivibili a questa importante personalità, fra i quali la bella coppa con la creazione conservata al Victoria and Albert Museum datata 1540 e dichiarata come “fatta in Pesaro”, dove ci pare di ravvisare le stesse modalità decorative soprattutto nella resa di alcuni elementi del paesaggio.

 

1 PSEUDO APOLLODORO, Biblioteca, III, 14.1.

2 La figura del cavallo e della divinità, come suggerito da GRESTA 1998, dovrebbe essere ispirata da un bulino di Giulio Bonasone inciso per illustrare un emblema di Achille Bocchi (MASSARI 1983, p. 139), cui pensiamo sia stata associata la figura dl Poseidon dal Quos Ego di Raffaello (vedi lotto 38 di questo stesso catalogo).

3 Lo stemma dei Bardi consiste in alcune losanghe rosse (da cinque a sette) messe in banda in campo giallo. Nonostante l’avvenuto fallimento della famiglia di banchieri avvenuta nel 1345, la stessa mantenne un certo prestigio a Firenze annoverando una parentela con i Medici: Contessina de’ Bardi fu sposa infatti di Cosimo de’ Medici.

4 FONTEBUONI 1985-1986, scheda n. 32, inv. 4161.

5 GARDELLI 1987, pp. 96-97.

6 GRESTA 1998, pp. 43-44.

7 BISCONTINI UGOLINI 1979, pp. 27-32.

 

 

 

 

Stima   € 28.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

COPPA O CRESPINA

FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica con impasto giallo camoscio rosato, dipinta in bicromia con azzurro e giallo su smalto bianco.

Alt. cm 7,5, diam. cm 29, diam. piede cm 15.

Sotto il piede n. 299 dipinto in rosso. 

 

Coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata a conchiglie e orlo sagomato. La coppa poggia su alto piede appena aggettante. La forma a “crespina” ricorda quella dell’esemplare precedente (lotto 31) da cui si distingue per la maggior leggibilità dello stampo attraverso lo smalto bianco spesso, ricco e lucente, che vede affiancati alle conchiglie dei bei mascheroni a rilievo distribuiti lungo l’orlo.

In comune con il lotto precedente anche il decoro con i colori tipici del cosiddetto “periodo compendiario”, che ha determinato gran fama per le botteghe della città romagnola.

L’opera mostra al centro dell’umbone una figura femminile che avanza sostenendo una colonna e sullo sfondo un paesaggio montano di grande impatto. La figura è attorniata da una decorazione a mazzi di foglie sparsi disordinatamente sulla tesa salvo alcuni ciuffi fogliati, di colore azzurro collocati in quattro punti simmetrici.

Si tratta della rappresentazione della Forza, secondo la raffigurazione cristiana, che la vede come una virtù vincitrice sull’istinto brutale e sulle false divinità. La sua personificazione è una donna recante una colonna, di solito spezzata, per collegamento con la vicenda di Sansone (1), distruttore del tempio.

Un primo confronto ci viene fornito da una coppa della bottega Enea Utili (2), nella quale si scorge una figurina maschile che avanza con passo svelto. L’opera, diversa per stile pittorico, ci fornisce un’idea della sintassi decorativa in uso nella bottega faentina, con ciuffi di fiori sparsi sulla tesa. Assai simile invece il decoro secondario che leggiamo sui vasi da farmacia, raggruppati da Carmen Ravanelli Guidotti attorno ai due albarelli del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (3) ancora non ascritti a una bottega certa e databili alla fine del secolo. Non riscontriamo invece alcuna somiglianza stilistica nelle figure principali, che mostrano uno stile molto caratterizzato, in contrasto con la nostra figurina che è invece tradizionale e delicata, nonostante la forza decorativa del paesaggio di sfondo.

L’impostazione del decoro, le modalità stilistiche, la grande qualità tecnica sia dello stampo che dello smalto, e la ricercatezza nell’impostazione del decoro ci confermano, comunque, la provenienza di quest’opera da una bottega faentina della seconda metà del XVI.

                                                             

1- GIUDICI, 16, 29

2- RAVANELLI GUIDOTTI 1996, p. 244 n. 56.

3-RAVANELLI GUIDOTTI 1996, pp. 368-371 n. 94, n. 56, ora conservata alla Pinacoteca di Varallo Sesia (ANVERSA 2004, p. 102 n. 42).

                                                                          

Stima   € 6.000 / 8.000
45

COPPA SU BASSO PIEDE

URBINO O DUCATO DI URBINO, 1530 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con verde, giallo antimonio, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero, nero-marrone e viola, tocchi di bianco di stagno.

Alt. cm 4,5; diam. cm 24; diam. piede cm 13.

Sul retro in blu di cobalto è scritta la legenda “di Circia et glauco”.

 

La coppa poggia su un piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La decorazione istoriata interessa l’intera superficie del cavetto. Sul verso, decorato da linee concentriche gialle a sottolineare i profili, è delineata all’interno del piede la scritta “di Circia et glauco”.

La scena raffigurata mostra Circe seduta all’interno del suo palazzo con un ampio porticato sormontato da un terrazzo, arricchito da una vite che poggia su alcuni pilastri: di fronte a lei Glauco in abiti romani.

Il mito è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (1) e racconta del pescatore Glauco che, innamorato di Scilla ma incapace di sedurla, attraversa lo stretto per recarsi da Circe e ottenere una formula d’amore. Circe, figlia del Sole, s’innamora di Glauco e gli offre, giacendo con lei, di assecondare con un solo gesto chi lo ama e, contemporaneamente, di vendicarsi di chi lo disprezza, ma il giovane rifiuta e fugge lontano. Allora Circe infuriata muta la rivale in un mostro. Anche Glauco, in una seconda parte del mito, si muterà di sua volontà in divinità marina (2).

Il soggetto è dipinto con grande cura e i personaggi sono delineati con attenzione e notevole senso delle proporzioni: Glauco, in piedi, ha il busto un poco ritorto e avanza un passo verso la maga, seduta e coperta da un’ampia veste color arancio.

Il pittore è abile nell’utilizzare il colonnato come suddivisione spazio-temporale: al centro il colloquio sopradescritto, ai lati del piatto due scene erotiche, nelle quali però mutano i personaggi, che forse sono la rappresentazione dei due amori desiderati e mai realizzati. Tra due colonne a sinistra un personaggio, probabilmente Glauco stesso, fugge, mentre dall’altro lato un cigno avvolge il collo attorno a una colonna, forse una vittima della maga, forse un’interpretazione della metamorfosi di Scilla.

La narrazione è complessa e la scenografia di grande eleganza: i dettagli architettonici tipicamente rinascimentali e l’apertura di uno scorcio paesaggistico proprio al centro del piatto è di grande impatto.

Le caratteristiche stilistiche e la sintassi decorativa ci portano a orientare la nostra ricerca tra le maggiori botteghe operative nella città di Urbino nella prima metà del Cinquecento, anche se un’attribuzione di questa coppa a una bottega specifica del ducato di Urbino comporta qualche difficoltà.

L’analisi di confronto dell’architettura con esemplari che mostrano edifici con caratteristiche simili ci porterebbe a escludere l’intervento della mano di Francesco Durantino. Il pittore ci pare usare una modalità stilistica differente e soprattutto un modo di distribuire i suoi personaggi poco convenzionale rispetto alle architetture che li circondano: non le abitano, né ne usufruiscono, ma vi ruotano intorno. Si vedano ad esempio il piatto del Museo di Amburgo (3) con Procne e Filomena, nel quale l’architettura è protagonista e i personaggi appena la sfiorano o semplicemente la osservano nella concatenazione cronologica degli eventi raffigurati sopra, di fronte o di fianco all’edificio. Una simile distribuzione si ritrova in un altro piatto di questo autore con Dedalo e Icaro, ora alla Pinacoteca di Varallo Sesia (4), e anche qui i personaggi abitano l’architettura. Un elemento in comune con il piatto di Amburgo è invece l’uso della pavimentazione, che funge da base all’intera scena quasi accompagnando lo spettatore a salire la bassa gradinata all’esergo del piatto. Il medesimo espediente lo ritroviamo in un piatto con una danza dei puttini (5) conservato nella galleria estense di Modena (6) e attribuito alla bottega di Guido Durantino (7), databile tra il 1525 e il 1576.

Un’altra coppa, anch’essa assegnata a bottega urbinate degli anni 1535-1540, con una quinta architettonica che funge da scenografia per una complessa narrazione, è quella conservata al Museo del Louvre con La festa di Romolo per onorare Nettuno (8). Qui l’elemento architettonico è abitato da figure che mostrano alcune caratteristiche stilistiche simili a quelle raffigurate sul nostro piatto: si veda la figura di spalle che sorregge per mano un bambino, il modo di dipingere le gambe con il polpaccio tornito e i piedi sottili, lo sfondo con la montagna cuspidata che ritroveremo in seguito in opere della bottega Fontana (9).

Ci sembra di poter riconoscere un confronto morfologico e stilistico anche in una coppa a basso piede conservata al Museo d’Arti Decorative di Lione (10), dove nel disordine compositivo in cui si svolge il Rapimento di Proserpina ci pare di poter individuare lo stile veloce e nervoso con il quale il pittore ha delineato anche le figure del nostro esemplare: i volti di tre quarti, le figure di spalle, i corpi abbracciati ricordano i personaggi della nostra coppa. L’opera del museo francese è attribuita con qualche incertezza alla bottega di Guido Durantino e reca sul retro la data 1543.

Ci incoraggia a escludere, almeno per il momento, una paternità pesarese il confronto con una coppa o scudella transitata sul mercato lo scorso anno (11) e attribuita a Sforza di Marcantonio, nella quale compaiono elementi architettonici, un baldacchino con una figura coricata con caratteristiche morfologiche e impostazione decorativa che si ritrovano anche in piatti con quinte architettoniche più complesse.

 

1 OVIDIO, Metamorfosi, XIII-XIV. Per l’analisi del mito vedi anche ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p.159 n. 36.

2 Si nutre dell’erba magica che ha rianimato i pesci appoggiati su un prato dopo la pesca.

3 LESSMANN 1979, p. 182 n. 172.

4 ANVERSA 2004, p. 156 n. 70.

5 Documentato su diversi supporti materici, tra cui gli arazzi dei Gonzaga, lo schema deriva da uno schizzo realizzato da Raffaello per la Loggia di Psiche alla villa Farnesina, riprodotto da Marcantonio Raimondi tra il 1517 e il 1520 e da Cesare Remondino tra il 1531 e il 1546, con l’aggiunta appunto di archi e rovine all’antica.

6 Inv. 1996.

7 Per un inquadramento della bottega del maestro e una corretta storicizzazione si veda MALLET 1987, pp. 284-298.

8 GIACOMOTTI 1974, p. 281 n. 889.

9 Si veda ad esempio la montagna di sfondo nel piatto con Callisto e Diana conservato al Victoria and Albert Museum attribuito a Guido Durantino e al 1540 circa (inv. 708-1902).

10 FIOCCO-GHERARDI 2001, p. 246 n. 164.

11 ANVERSA in PANDOLFINI 2014, p. 212 n. 47.

 

 

Stima   € 22.000 / 30.000
28

COPPIA DI ALBARELLI

FAENZA, 1530-1550 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno. Smaltati all'interno.

a) Saladino: alt. cm 32; diam. cm 11,7; diam. piede cm 11;

b) Soldato romano: alt. cm 31,2; diam. cm 11,7; diam. piede cm 11,4.

Sul fronte iscrizioni in catrtiglio: a) Rcqfo :minor; b) S. Cufcute; e sul retro - a2) R;qfo: minor, b2) S. Cufcute. Tutte con leggera variazione nelle grafia gotica.
 

La forma ripropone la morfologia classica degli albarelli faentini con bocca larga appena estroflessa e collo breve con marcata rastrematura che si ripropone anche nella parte inferiore, il corpo ha forma leggermente troncoconica, con spalla e calice dal profilo angolato.

Lo smalto abbondante presenta microcavillature, ossidi ferrosi e tracce di bruciato sotto il piede, con applicazione d’ingobbiatura a crudo per coprire il difetto.

Il decoro, realizzato in due varianti di colore per dare la possibilità di mutare l’aspetto dell’intero scaffale apotecario, prevede l’estensione a tutta la superficie dei vasi con una vivace policromia nei toni del blu e dell’arancio.

La spalla e il piede sono decorati con un motivo a piccoli frutti tondeggianti su un ramo sinuoso, delineati in giallo e giallo arancio su fondo verde intenso. Il corpo dei vasi mostra invece un decoro “bifronte” “a grottesche” con teste di amorini, mascheroni, racemi accartocciati e delfini, presenti simmetricamente sui due lati del contenitore con uno sfondo blu su un lato, e giallo arancio sull’altro. Il decoro è centrato da un medaglione contenete un busto maschile con turbante e scritta in caratteri capitali SALADINO nel primo albarello, mentre sull’altro il medaglione, di analoga proporzione, è decorato da un cagnolino in corsa. Sotto il medaglione corre poi un cartiglio con la scritta apotecaria in caratteri gotici Rcqfo:minor(um). Nell’altro albarello si ripropone il medesimo decoro, con un busto di soldato romano a variare il protagonista del medaglione; il cartiglio presenta la scritta S. Cufcute sempre in caratteri gotici.

Per ductus e scelta pittorica i vasi potrebbero essere opera di due mani differenti come si desume dallo stile dissimile nella resa dei dettagli disegnativi e nella loro effettiva realizzazione: più calligrafici e sicuri nell'albarello con Saladino, più diluiti e meno incisivi in quello con ritratto di soldato romano. Ciononostante si pensa a un periodo di produzione coeva e alla destinazione per la medesima farmacia.

Per confronti si veda l’albarello con profili di Rodamote e Carlo della Wallace Collection di Londra (1): di dimensioni minori, si distingue per il decoro su fondo berettino, ma rimane affine per morfologia e per stile decorativo. I serafini e le foglie di quercia accartocciate sono delineati con cura e mostrano affinità con le opere in esame.

Altri esemplari di confronto sono conservati nei principali musei italiani e stranieri, tra cui quelli indicati nella scheda di pubblicazione dei nostri albarelli in uno studio sui vasi da farmacia rinascimentali di qualche anno fa (2). Il decoro sulla spalla e sul calice si trova, in forma di girale con foglie, in un esemplare del Museo di Sévres, con forma molto rastremata al centro (3).

I due vasi si distinguono comunque dalla media proprio per la decorazione a grottesche e per l’accorta realizzazione pittorica della stessa.

La coppia di albarelli è translata sul mercato antiquario nel 1976, pubblicata nel catalogo d’asta in due lotti distinti come opere faentine del XVI secolo (4).

 

 1-NORMANN 1976, pp. 121-122 n. c53.

 2-COLAPINTO- CASATI- MAGNANI 2002, p. 214 nn. 95, 96.

 3-GIACOMOTTI 1974, p. 313 n. 920 e p. 315 n. 964, ma con decoro a quartieri.

 4-SOTHEBY’S, Firenze, 22 ottobre 1976, lotti 53-54

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
30

CRESPINA

FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, blu di cobalto, verde rame, bruno di manganese.

Alt. cm 5,8; diam. cm 24,8; diam. piede cm 9,5.

 

Coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata a conchiglia e orlo sagomato. La coppa poggia su alto piede, tagliato all’altezza dell’orlo, che risulta pertanto dritto e non aggettante. La forma, altresì nota come “crespina” dall’andamento ondulato dell’orlo, è decorata a policromia sulla tesa con motivo “a quartieri” con settori di forma romboidale, alternati a piccoli petali, disposti simmetricamente attorno all’umbone centrale, che mostra entro una cornice poligonale un amorino in un paesaggio montuoso.

Entro le riserve sono dipinti tralci fogliati, foglie stilizzate e delfini su fondo arancio, verde e blu. Sul retro un motivo a corolla nei colori blu e giallo arancio si dispone simmetricamente a ornare le pareti della coppa.

Si tratta di una crespina “a quartieri”, tipica della produzione faentina, che ebbe grande successo intorno alla metà del Cinquecento. I caposaldi cronologici di questa produzione ci derivano da esemplari datati, e sono stati ampiamente studiati da Carmen Ravanelli Guidotti nel Thesaurus (1) della maiolica di Faenza: si tratta di esemplari che vanno dal 1538 (2) fino al 1547 (3). Questa tipologia decorativa perdura parallelamente all’insorgere della moda dei “ bianchi” ed è rappresentata insieme con le coppe compendiarie nelle principali botteghe e almeno fino al 1575 nella bottega Utili (4).

Numerosi sono gli esemplari di confronto: simile per impostazione la coppa della collezione del Banco di Sicilia (5), che sottolinea la tematica amatoria del decoro con la scritta “non la lassa”, che sottintende la frase “Amor non la lascia”, ma anche la coppa del Museo del Louvre con un amorino in corsa (6) o quella del Museo di Sévres con variante di forma e disposizione del decoro (7). Un’altra crespina con un putto inserito in un paesaggio “già di gusto compendiario” è conservata al Victoria and Albert Museum (8) e, se accostata alla nostra, mostra una disposizione della cromia invertita con predominanza di arancio rispetto alla maggiore concentrazione di blu di cobalto nei “ quartieri” del nostro esemplare.

Ci pare infine di ravvisare una particolare vicinanza stilistica nella crespina con putto nell’umbonatura centrale del Museo Civico di Pesaro, già pubblicata come esempio del genere “a quartieri” nel volume sulla maiolica in Italia di Giovanni Conti (9).

 

1-RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 378 n. 94.

2-Crespine del Museo Correr di Venezia.

3- La crespina del Museo Civico di Pesaro (MANCINI 1979, n. 198).

4- RAVANELLI GUIDOTTI 1998, pp. 379-380 n. 95.

 5-RAVANELLI GUIDOTTI in AUSENDA 2010, p. 126 n. 47.

6-GIACOMOTTI 1974, n. 952.

7-GIACOMOTTI 1974, n. 954.

 8-RACKHAM 1977, inv. 1807-1855.

9-CONTI 1973, n. 190.

 

Stima   € 5.000 / 7.000
31

CRESPINA

FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in bicromia  con azzurro e giallo su smalto bianco in un ricco e spesso strato.

Alt. cm 7,6; diam. cm 31; diam. piede cm 14

Sul retro iscrizione “VR AF” sormontata da omega, delineata in blu

 

La coppa ha un umbone centrale rilevato, tesa baccellata a mascheroni e orlo sagomato. Poggia su alto piede appena aggettante. La forma a “crespina” è simile a quella dell’esemplare che segue (lotto 32) dal quale si distingue per la sagomatura, modellata con mascheroni, poco leggibili per l’alto spessore dello smalto, al posto delle conchiglie.

Il decoro, realizzato secondo i dettami dello stile compendiario, utilizza pochi colori standardizzati: blu, giallo e giallo arancio su uno spesso smalto bianco e lucente, volutamente scelto come colore che maggiormente richiama l’argento. Questo deriva proprio dal progetto produttivo del periodo, che trae a stampo le forme mutuandole direttamente dai modelli metallici; idea che perdurerà per tutto il secolo.

L’opera mostra al centro dell’umbone uno stemma con leone rampante delineato in giallo arancio su fondo giallo antimonio più chiaro. Sulla tesa, a completamento dell’ornato, corre una ghirlanda di fioretti a campanula dalla foggia arrotondata e foglie, collegati fra loro da una girale sottile dipinta in blu. I pigmenti sono applicati in abbondanza fino a ottenere quasi un effetto di rilievo nelle parti in giallo ferraccia utilizzato per simulare il rosso.

Le cavillature sottilissime presenti nello smalto ne denunciano lo spessore volutamente abbondante, indice di un prodotto particolarmente ricercato, come confermato dall’apposizione sul retro, sotto il piede, della sigla “VR AF” sormontata da omega. È questa la sigla attribuita alla bottega di Virgiliotto Calamelli che sappiamo attiva dal 1531 al 1579, per circa nove anni dopo la morte del maestro.

Interessante al fine della comprensione di questa tipologia di opere l’elenco della produzione della bottega, Descriptio, in data 1556, dal quale si evince come la tipologia compendiaria fosse molto rappresentata nella produzione della bottega e ci dia “la misura della solidità e dell’ampiezza della bottega Calamelli”. Il repertorio della bottega Calamelli è molto diversificato e comprende busti all’antica, amorini, figure di guerriero, ma anche raffigurazioni istoriate, più o meno complesse fino all’istoriato policromo vero e proprio.

La raffigurazione degli stemmi nobiliari s’inserisce appieno in questo repertorio e alcuni esemplari con questo tipo di decoro sono stati pubblicati nel volume monografico sui Bianchi di Faenza di Carmen Ravanelli Guidotti: ad esempio la crespina, di foggia più semplice, con stemma del vescovo Annibale Grassi, e quella con uno stemma non identificato, sormontato da cherubino.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
48

CRESPINA

CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA

Maiolica, dipinta in policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero n, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,6; diam. cm 25.

 

 

Crespina formata a stampo con umbone centrale rilevato, orlo mosso e corpo sbalzato.

La decorazione è dipinta su uno smalto ricco con una vetrina brillante e lucida sia sul fronte sia sul retro, dove le baccellature della forma vengono sottolineate da un decoro a linee blu.

Al centro dell'umbone spicca l'episodio di Muzio Scevola, tramandato dalla tradizione romana come esempio di coraggio. Intorno, lungo la tesa, quattro figure di arcieri si alternano a rami di ulivo a loro volta intervallati lungo il bordo da quattro lune antropomorfe e alate.

L’episodio, narrato da Tito Livio (1), si svolge durante l’assedio di Roma ad opera dell’etrusco Porsenna. Mentre nella città cominciavano a scarseggiare i viveri, il giovane aristocratico Muzio Cordo si offrì per andare a uccidere il comandante etrusco; infiltratosi nelle linee nemiche, e armato di un pugnale, raggiunse l'accampamento, ma nell’azione sbagliò persona uccidendo un funzionario del re. Catturato dalle guardie e portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire che avrebbe punito la mano che aveva sbagliato, e la pose su un braciere fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso romano assunse il nome di "Muzio Scevola" (Muzio il mancino). Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberarlo.

Questo soggetto ebbe grande successo durante il Rinascimento e fu spesso raffigurato su supporto ceramico, come dimostrano i numerosi esempi che vanno dalla coppa di Francesco Xanto Avelli fino a esemplari che possiamo accostare per stile e paternità a quello in studio. Ci riferiamo alla coppa che ripropone lo stesso episodio, conservata al Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo (2): la diversità nella disposizione dei personaggi e della scena ci conferma la presenza di più fonti incisorie di riferimento, ma soprattutto l’ecletticità e la capacità di tradurre la stessa scena con modalità assai differenti tra loro. Nel nostro esemplare è riprodotto l’accampamento con una vasta tenda, al centro il focolare su cui il giovane pone la mano; nella coppa di Arezzo si ha la disposizione tradizionale degli episodi di storia antica con il re assiso in trono, possibilmente in posizione rilevata e su un lato del piatto, e di fronte l’antagonista (3). Tuttavia lo stile pittorico è il consueto che ben possiamo riconoscere nelle opere che precedono questa scheda (lotti 45-46): i volti piccoli e racchiusi in elmi scuri, arrotondati, le loriche a fasce parallele di colore blu o ocra, le capigliature arricciate, le bocche piccole un poco imbronciate, le gambe muscolose, un poco tozze, ombreggiate con sottili tratti arancio e lumeggiate con bianco di stagno.

Ma nella crespina in esame la disposizione dei personaggi intorno al fuoco è più accorta, rendendo la concitazione del momento, e il paesaggio notturno che s’intravede nel cielo scuro, con le consuete nuvolette a chiocciola, dà una profondità alla scena non sempre riuscita nelle opere della bottega marchigiana. La decorazione della tesa intorno all’umbone ci stupisce per eleganza e inventiva: i quattro arcieri seminudi, realizzati con grande minuzia, inseriti in quattro riserve con sfondi sfumati alternati in giallo e azzurro e incorniciati da arcuati rami di ulivo, spiccano sulla superficie irregolare delle baccellature della coppa. Infine le lune dal volto antropomorfo, sorrette da due alucce colorate, rendono l’opera di ancor maggiore interesse, ma coerente con quello stile grottesco e un poco scanzonato che caratterizza l’opera della bottega durantina.

Un riscontro di questa stessa disposizione decorativa lo troviamo nella crespina baccellata conservata nel Museo Nazionale delle Marche, raffigurante al centro l’episodio di Piramo e Tisbe (4), circondato dalla stessa partitura in riserve con personaggi, in questo caso con una torcia in mano, alternati a figure di leoni, ma sempre incorniciati da rami di ulivo e piccoli leoni. Lo stesso decoro con i leoni si ritrova in un’altra coppa con al centro la storia di Diana e Atteone mutato in cervo, però con foggia differente (5), e ancora in una coppa Contini Bonaccossi degli Uffizi (6).

Molto affine, per concludere, anche per la presenza di un volto caricaturale simile a quello delle nostre lune, quello presente nella crespina con arcieri e scena centrale di Nettuno che crea il cavallo, conservata al British Museum di Londra, alla schedatura della quale rimandiamo per un elenco delle poche opere analoghe presenti nel tempo nelle principali raccolte europee (7), cui possiamo ora aggiungere la nostra.

 

1 Tito Livio, Ab urbe condita, II, 12.

2 Inv. 14699.

3 Si tratta dell’impianto decorativo che compare spesso nelle opere ceramiche, e che pare prendere spunto dallo schema iconografico di un niello del British Museum databile alla fine del secolo XV e riprodotto, oltre che nelle maioliche, anche in numerose placchette di bronzo (MUSCOLINO in MARINI 2010, p. 262 n. 36).

4 DAL POGGETTO 2003, p. 347 n. 488.

5 Palazzo Madama, inv. C 2743.

6 MARINI 2003, n. 17.

7 THORNTON–WILSON 2009, pp. 390-391 n. 232.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
15

CRESPINA O PSEUDOCRESPINA

MONTELUPO, 1505-1515 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia su smalto con arancio, blu, verde, rosso e bianco.

Alt. cm 3,3; diam cm 21,3; diam. piede cm 10,2.

 

 

Il piatto ha forma poco profonda, umbone centrale rilevato e separato dalla tesa da una cornice centinata; la tesa ha forma baccellata a rilievo e termina in un orlo rilevato dal profilo arrotondato, mentre il piatto poggia su un basso piede leggermente incavato. Anche sul retro sono visibili le baccellature. La forma, che imita i piatti metallici sbalzati del primo Rinascimento, era realizzata a crudo dal vasaio tramite l’applicazione sul retro del piatto di uno stampo che veniva compresso sul disco di argilla poi lavorato.

Il decoro dipendeva dalla morfologia dell’oggetto, e quello proposto su quest’opera è particolarmente significativo: le baccellature sono rimarcate dalla bicromia giallo-blu che dà rilievo alla forma, evidenziata e riservata per mezzo di una sottile filettatura in blu di cobalto. Tra le baccellature e la tesa si scorge un piccolo motivo a punta di diamante, esaltato anch’esso dall’uso della bicromia in rosso ferro e verde. Gli spazi vuoti sono poi riempiti da sottili spirali blu. Il centro dell’umbone è interessato da una scacchiera fitta, con sottili decori blu, a riempimento delle parti a riserva, tra le quadrettature verdi e rosse. Il retro non mostra decori, ed è ricoperto da un ingobbio di color nocciola, steso con rapidità e con una vetrina sottile.

Il piattello si trova documentato già nello studio di Galeazzo Cora, che lo pubblica come esempio importante della categoria a sbalzo, a somiglianza appunto di recipienti metallici, appartenente al Gruppo XVI C che circoscrive a un periodo cronologico prossimo alla fine del secolo XV (1).

I documenti di scavo pubblicati da Berti lo inseriscono invece tra le produzioni meno rappresentate, collocabili cronologicamente nel primo periodo rinascimentale, ben documentato negli scavi di Valdarno, e  lo classificano nel gruppo 38 (2).

Si aggiungono a questa serie di confronti, un piatto con decoro appena differente sull’orlo della tesa, conservato al British Museum (3), e uno conservato al Louvre con diversa cromia (4).

Il raffronto con l’immagine fotografica di un piatto delle raccolte prebelliche del British Museum, attribuito a Montelupo negli anni 1500-1515, molto vicino per morfologia e decoro al nostro oggetto e purtroppo andato distrutto nell’ultima guerra (5), ci pare poi particolarmente interessante.

Anche il confronto con i reperti dallo scavo “del pozzo dei lavatoi”, unitamente a quanto sopra detto, ci conduce dunque a una datazione precoce e circoscritta al primo quindicennio del secolo XVI.

 

1 CORA 1973, vol. I, p. 154; vol. II, fig. 273b.

2 BERTI 1997-2003, II, pp. 134-135 tav. 131 e II, p. 134 figg. 131-132.

3 THORNTON-WILSON 2009, p. 204; n. 128.

4 GIACOMOTTI 1974, n.442.

5 THORNTON-WILSON 2009, Appendix p. 716  tav. A15.

 

 

Stima   € 5.000 / 7.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 65