Importanti Maioliche Rinascimentali

1 OTTOBRE 2015

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0046
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
Ore 17.00
Esposizione

FIRENZE
24 Settembre al 1 Ottobre2015
orario 10 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   1500 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 65
19

MATTONELLA

SIENA, LIBRERIA PICCOLOMINI, 1502

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, rosso ferro, bruno di manganese.

Lato cm. 15,2, spessore cm 2.
 

 

La mattonella appartiene al celeberrimo pavimento della Biblioteca Piccolomini collocata all’interno della cattedrale di Siena. La libreria fu fatta costruire a partire dal 1492 dal cardinale Francesco Todeschini Piccolomini con intento di uso pratico: avrebbe dovuto contenere il cospicuo patrimonio librario del pontefice Pio II, Enea Silvio Piccolomini, con l’aggiunta di codici appartenuti al Todeschini e a suo fratello Giacomo, ma anche con chiaro significato simbolico celebrativo in onore della vita del papa umanista. L’opera, monumentale, fu completata dal bel ciclo di affreschi commissionato a Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio, che tuttora la ornano, mentre il pavimento fu sostituito nell’Ottocento con ambrogette romboidali (1). Le mattonelle originali, di forma triangolare e dimensioni minori, sono in parte conservate nei Depositi del Museo dell’Opera, in parte disperse e presenti in vari musei.

Gli affreschi del Pinturicchio e della sua bottega furono probabilmente terminati nel 1508 e si era pensato che la realizzazione e la messa a dimora del pavimento andasse fatta risalire alla progettazione architettonica dell’edificio e pertanto al primo periodo di costruzione: 1495-1497 (2). Questa proposta cronologica è stata discussa e si ritiene ormai più corretto posticiparla di pochi anni (3). Gli autori della schedatura delle mattonelle conservate al British Museum di Londra, che costituiscono per noi un valido raffronto, fanno notare, circa la datazione, come nessuno dei pavimenti già realizzati a Siena e in altre sedi abbia questa forma o riporti una luna crescente di questa tipologia e come questa foggia compaia solo nel basamento della statua realizzata a Roma nel 1502 e poi collocata nella Biblioteca a Siena. Questa data costituisce pertanto un terminus ante quem per la datazione del pavimento (4).

 

 

1 Del 1839 è il rifacimento a cura della fabbrica Ginori (CANTELLI in ANSELMI ZONDANARI–TORRITI 2012, pp. 214-216; MOORE VALERI 2006).

2 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 11.

3 Si vedano in merito anche BILENCHI FUCECCHI 2006.

4 THORNTON-WILSON 2009, pp. 606-608 nn. 376-377, dove si rammenta la storia degli studi di questo prezioso pavimento e si elencano gli esemplari fino ad ora noti.

 

 

Stima   € 1.500 / 2.000
Aggiudicazione  Registrazione
35

MATTONELLA DA PAVIMENTO DELLO STUDIOLO DI ISABELLA D’ESTE
PESARO BOTTEGA DI ANTONIO FEDELI (1493-1494)

Terracotta smaltata sul fronte e decorata in manganese nei toni del nero e del bruno violaceo, giallo ocra e blu di cobalto.

Cm 23,5x23,5x4,5.
 

La mattonella ha forma quadrata e buono spessore, il fronte è smaltato e decorato. Al verso è presente un profondo solco a forma di cerchio, espediente, questo, utilizzato per far asciugare prima la mattonella, per alleggerirla nel trasporto e per assicurarne un miglior ancoraggio al momento della posa.

La decorazione mostra un sole i cui raggi s’intrecciano a un cartiglio svolazzante che reca la scritta in blu di cobalto “PER UND/IXIR” in caratteri capitali: la profondità delle pieghe del cartiglio è ben realizzata grazie a sottili righe di ombreggiatura.

Il sole è dipinto in bruno di manganese, con un volto antropomorfo che s’intravede tra le larghe pennellate di manganese, che danno spessore alla sfericità dell’astro. Anche i raggi hanno uno spessore tridimensionale, sono a forma di cono e dipinti in giallo ocra e bruno di cobalto; intorno il calore irradiato è realizzato con elementi sinuosi. Lo smalto è povero e friabile, color crema, e mostra difetti di cottura, bolliture e puntinature.

La mattonella appartiene a una serie assai celebre, oggi custodita tra i principali musei del mondo (1), coerente per materia, dimensioni e decoro. Le mattonelle, di grande qualità artistica, appartenevano al pavimento che Giovanni Sforza fece realizzare per il cognato Francesco II Gonzaga e per la moglie Isabella d’Este per un camerino della Villa di Marmirolo (2). Dai documenti d’archivio sappiamo che Giovanni Sforza, Signore di Pesaro, aveva ordinato una grande quantità di mattonelle “quadrelle” secondo i desideri della cognata, che aveva precedentemente inviato il disegno del progetto decorativo (3). Le “quadrelle” arrivarono da Pesaro il 1° giugno e il 9 luglio del 1493 erano già in posa, come si evince da una lettera di Isabella d’Este, che ringrazia entusiasta il cognato.

Il pavimento reca le imprese dei Gonzaga e costituisce, anche grazie al corredo documentario che le accompagnano, un elemento cardine per gli studi sulla cultura del periodo.

La mattonella in oggetto riporta il motto “PER UN DIXIR”, motto di Ludovico II, e anche le altre mattonelle delle serie raccontano la storia dei Gonzaga attraverso le loro imprese: i leoncini di Boemia alludono al titolo conquistato dal Marchese Gianfrancesco nel 1433; la tortora sul nido e il motto “VRAI AMOUR NE SE CHANGE”, unitamente alla mattonella con il sole, si riferiscono al Marchese Ludovico; la cerva con il motto “BEDERCRAFT” si riferisce a Francesco I (1382-1407); lo scoglio con il diamante e il motto “AMUMOK” è stato interpretato come omaggio a Francesco I. E infine le imprese più antiche: il cane vigilante, la museruola con il motto “CAUTIUS”, la manopola con “buena fè non es mudable” in diverse versioni.

Lo studiolo di Isabella fu uno dei luoghi più preziosi del Rinascimento, ricco di opere artistiche realizzate dai più valenti autori del periodo. John Mallet ipotizza che anche l’autore dei disegni delle mattonelle dovesse appartenere al fortunato circolo culturale della Marchesa Isabella D’Este (4).

La bottega di produzione ci sarebbe invece nota grazie a una lettera datata 7 maggio 1496, nella quale Antonio Fedeli invia un sollecito per il pagamento per altri “quadri” che aveva dovuto realizzare, non sappiamo se come i precedenti, ma comunque per una nuova produzione (5).

Una recente analisi della documentazione parrebbe comunque confermare l’ipotesi della produzione nella bottega di Antonio Fedeli. Nella lettera ad Isabella d’Este il boccalaro si rivolge con un certo grado di confidenza, forse consentito per una vicinanza di parentela con l’erudita Cassandra Fedeli, allora presente nell’entourage della Marchesa (6), comunicandole di “aver fatto principiar li dicti quadri”, un’opera di bottega quindi.

Lo studiolo fu smembrato tra il 1519 e il 1520, dopo la morte del marchese Francesco II, per far posto ai nuovi appartamenti per la sposa di Federico Gonzaga: il nuovo progetto, ad opera di Giulio Romano, trasformò radicalmente la villa con il trasferimento dei gabinetti di Isabella d’Este nell’appartamento noto come “la Grotta”: i pavimenti furono modificati con un nuovo ornato ad ottagoni di produzione veneta (7).

 

1-Al Victoria and Albert di Londra (RACKHAM 1977, p. 62 n. 193, inv. 334-1903); al Jacquemart André e al Louvre di Parigi (OA6342 a-f); a Firenze (GIACOMOTTI 1974 pp. 44-46); al Fitzwilliam Museum (inv. C61-1927; POOLE 1995, n. 357); al Kunst und Gewerbe Museum di Amburgo (inv. 1908-7 in RASMUSSEN 1984, pp. 66-67). John Mallet ricorda la presenza di circa 40 mattonelle presenti nella collezione Portioli a Mantova (MALLET 1981, p. 173) e a Milano (BISCONTINI UGOLINI in AUSENDA 2000, pp. 239-243 nn. 249-256).

2- PALVARINI GOBBIO CASALI 1987.

3- VANZOLINI 1879, vol. I, p. 240.

4- MALLET 1992.

5- PALVARINI GOBBIO CASALI 1987, p. 156. È un elemento indiziario, non certo, ma assai probabile, data la provenienza del dono da Pesaro, dove la bottega dei Fedeli era tra le più importanti del periodo, documentata tra il 1458 e il 1508. Per un elenco aggiornato della documentazione d’archivio si veda CIARONI 2004, pp. 222 e segg., e pp. 97-117 per un inquadramento più dettagliato sui Fedeli.

6- CIARONI 2004, p. 54.

7- Forse per la scomparsa di Antonio Fedeli a Pesaro o forse più probabilmente per il mutare del panorama politico e dei rapporti tra Mantova e Urbino: i Della Rovere erano in quel frangente in esilio per volere di papa Leone X.

 

Stima   € 1.500 / 2.000
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1

BOCCALE

VITERBO, 1450 CIRCA
Maiolica, corpo ceramico color ocra chiaro, smalto color crema di consistenza friabile, con qualche inclusione, di lucentezza poco marcata, steso in uno strato spesso fino a ricoprire, in parte, anche l’interno dell’imboccatura. Decoro in “zaffera blu” con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 18; diam. bocca cm 7 x 6,5; diam. piede cm 6,3.

 

Il contenitore piriforme presenta pancia rigonfia che scende fino al piede basso con orlo arrotondato e base piana, non smaltato. Il collo, distinto dal corpo da un collarino sagomato in rilievo a formare un motivo a corda, sale per aprirsi in un’imboccatura con beccuccio dal profilo poco marcato e con orlo appena arrotondato. Appena al di sotto della bocca, sulla parte posteriore, si diparte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al di sotto della massima espansione del vaso.

Il decoro, che interessa prevalentemente la parte anteriore del vaso, mostra una lepre, gradiente a sinistra, tra foglie di quercia, con piccole puntinature di manganese a riempire gli spazi vuoti. Al fianco dell’ansa si scorgono due linee parallele decorate da un alternarsi di asterischi manganese e punti blu a zaffera, mentre un motivo a gocce che scendono da una linea (1) sottolinea l’orlo e adorna il collo alternandosi a piccoli asterischi.

La morfologia del boccale, con il collarino a rilievo, la bocca trilobata con un andamento molto aperto e poco marcato, il corpo e il collo allungati, ci porta a ritenere che l’opera in esame sia stata prodotta in un’area influenzata dalla scuola viterbese. Il boccale si può pertanto attribuire all’area umbro-laziale più che toscana con una datazione, a nostro avviso, più prossima alle tipologie arcaiche, confermata anche dalla qualità della zaffera che si presenta in forma molto rilevata. Anche la distribuzione del decoro al centro del vaso, con una porzione molto larga tra il corpo e il piede, ci porta a collocare l’oggetto in ambito dell’Alto Lazio.

Ci conforta infine anche il confronto con opere provenienti dalla Tuscia con decoro con “lepre in corsa”, pur nelle differenti caratteristiche morfologiche.

Si vedano, ad esempio, il boccale con lepre alla scheda 37 della mostra sulla zaffera del 1991 e i confronti da collezioni private mostrati in repertorio (2).

L’unicità della foggia del nostro boccale lo distingue dagli altri di forma più comune, dove non è presente un collarino a rilievo dal decoro tanto meticoloso.

Il boccale è stato pubblicato da Galeazzo Cora (3)nel suo monumentale studio sulla ceramica di Firenze e del contado, che lo considerava opera fiorentina della prima metà del XV secolo, indicandone la provenienza dalla C

 

1-Decoro conosciuto come “motivo a vaio”.

2-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1990, p. 236 n. 37 e p. 288 nn. 10-11.

3-CORA 1973, tav. 77a.

 

 

 

Stima   € 2.000 / 3.000
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2

BOCCALE

VITERBO O TUSCIA, 1450 CIRCA
Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro, smalto di colore bianco-azzurrato di buona consistenza e lucentezza con qualche inclusione, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito con colature.

Alt. cm 26,3; diam.della bocca cm 7,5 x 9,8; diam. del piede cm 10,2.

 

 

Il contenitore ha un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo marcato, collo leggermente troncoconico che si allarga in un corpo piriforme con pancia rigonfia che scende fino al basso piede a disco, con orlo arrotondato e base piana non smaltata.

Nella parte posteriore, appena sotto l’imboccatura parte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al punto di massima espansione del vaso: l’ansa è decorata da sottili tratti orizzontali in bruno di manganese. Ai lati della presa si distingue una decorazione tipica, dipinta ancora in bruno di manganese, con motivo “a file di crocette”(1). Sulla parte anteriore del vaso si sviluppa la decorazione principale: un uccello con le ali spiegate, nell’atto di spiccare il volo, circondato da foglie di quercia e fogliette trilobate che si protendono da sottili rametti arcuati. Un motivo “a vaio”, cui fa seguito un motivo a “dente di lupo” capovolto, adorna il collo.

Anche quest’opera, insieme a quella che precede (lotto 1), per morfologia e decoro s’inserisce nella produzione Alto-Laziale, che ha trovato nel centro di Viterbo l’area principale di sviluppo, pur interessando altre zone produttive nell’area geografica della Tuscia.

Alcuni confronti, come ad esempio un analogo contenitore con uccello, ma realizzato in zaffera verde e molto simile anche per dimensioni (2) , confermano pienamente l’ambito produttivo sopraindicato.

Il boccale ritenuto opera fiorentina della prima metà del XV secolo, è stato pubblicato da Galeazzo Cora (3) nel suo monumentale studio sulla ceramica di Firenze e del contado. Oggi, alla luce degli scavi più recenti, non possiamo più concordare con tale paternità: la morfologia non corrisponde ai boccali toscani, ma ci fa propendere per una produzione dell’Alto Lazio.

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1990, p. 198: la tavola della tipologia dei decori secondari mostra nell’ornato descritto nelle schede 30, 36, 40, 44 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.

2- ANVERSA 2004, p. 38 n. 10.

3- CORA 1973, tav. 64b.

                

                                                                          

                                                                          

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

BOCCALE

VITERBO, 1450 CIRCA

Maiolica, corpo ceramico di colore beige chiaro molto poroso, smalto color grigio di scarsa lucentezza con inclusioni, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 22,7; diam. della bocca cm 8,3 x 8,7; diam. del piede cm 9.

 

 

Il contenitore è piriforme con pancia rigonfia che scende assottigliandosi, fino a formare un piede basso a disco con orlo arrotondato e base piana priva di smalto. Il collo cilindrico sale e si apre in un’imboccatura trilobata, dal profilo poco marcato e rifinito con un orlo appena arrotondato e sottolineato da una sottile centinatura. Appena sotto la bocca, sulla parte posteriore, s’intravvede l’attacco dell’ansa che doveva scendere fino a sotto il punto di massima espansione del vaso.

Sul retro, ai lati dell’ansa ora mancante, si scorge una decorazione tipica realizzata in bruno di manganese con motivo cosiddetto a “filo ondulato” (1). Il decoro principale interessa la parte anteriore del vaso e mostra un giovane paggio in abiti eleganti che, brandendo nella mano sinistra un’ascia, si avvicina a una pianta con foglie trilobate, mentre con la destra avvicina un corno alla bocca. Il giovane è circondato da un fitto decoro con alberi fogliati dallo stelo sottile, mentre la campitura restante è riempita, come di consueto, da puntinature di manganese. Un motivo a goccioloni che scendono da una linea marca l’orlo e guarnisce il collo.

Anche quest’opera, come le precedenti (lotti 1 e 2), per morfologia e ornato si può collocare nella zona alto laziale che si estende attorno a Viterbo fino a tutta l’area geografica della Tuscia e della Maremma.

Tra i decori di questa tipologia ceramica quello della figura umana non è comune: sono noti solo rari esempi, tra i quali quelli con figura femminile sembrano anticipare i decori amatori (2). La figura del paggio, vestito elegantemente, ha pochi esempi di confronto: si ricorda come meno importante, ma comunque rappresentativa, la figura presente nella bella fiasca da collezione privata, databile alla metà del secolo XV, considerata un’antesignana delle fiasche nuziali, dove però l’autore non dimostra grande dimestichezza nella rappresentazione umana (3). In questo caso invece la cura per i dettagli è notevole: il gonnellino con le pieghe sottolineate da linee curve campite in manganese diluito, le maniche che grazie all’effetto di rilievo della zaffera rendono l’idea di un pesante velluto, il copricapo sottolineato da un sottile gallone, il volto realizzato di profilo con il mento molto pronunciato, secondo l’iconografia corrente. Si vedano a titolo di confronto il volto, invero più delicato, della figura femminile sul boccale da collezione privata viterbese (4), e l’orlatura del copricapo della figura mostruosa del boccale viterbese, sempre ascrivibile alla metà del secolo (5).

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 198 la tavola della tipologia dei decori a delimitazione delle decorazioni principali mostra nel decoro s24 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.

2-Sulla figura femminile nella ceramica del medioevo e riguardo a un interessante accostamento tra i ritratti sulla ceramica e quelli raffigurati sulla ceramica antica o sugli affreschi “italici” ed etruschi della zona si veda MAZZA 1990.

3-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 243 n. 43.

4-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 243 n. 42.

5-GARDELLI 1989, tav. 6 n. 43.

 

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
4

BOCCALE

VITERBO O TUSCIA, 1450 CIRCA

Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro molto poroso, smalto color bianco-grigio di buona consistenza e lucentezza poco marcata, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 22,4; diam. della bocca cm 8 x 8,4; diam. del piede cm 9.

 

Il contenitore è piriforme con pancia rigonfia che scende fino a un piede basso a disco, non smaltato, con orlo arrotondato e base piana. Il collo sale per aprirsi in un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo poco marcato, con orlo appena arrotondato e sottolineato da una sottile centinatura. La forma è del tutto simile a quella del boccale precedente (lotto 3).

Sotto la bocca, sulla parte posteriore, si diparte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al di sotto della massima espansione del vaso: l’ansa mostra un decoro a sottili tratti orizzontali in bruno di manganese. Ai lati dell’ansa si scorge una tipica decorazione, sempre in manganese, con motivo cosiddetto a “filo ondulato” (1).

Il decoro principale interessa la parte anteriore del vaso e mostra un uccello dalle lunghe zampe intento a beccare da terra, tra foglie di quercia che si allargano su sottili ramoscelli, mentre piccole puntinature di manganese riempiono gli spazi vuoti; goccioloni scendono da una linea, mentre il “motivo a vaio” sottolinea l’orlo e adorna il collo.

Anche quest’opera per morfologia e decoro s’inserisce appieno nella produzione alto-laziale, che ha trovato nel centro di Viterbo l’area principale di sviluppo. La zaffera viterbese e laziale ha uno sviluppo più tardivo rispetto a quella dell’area fiorentina e ha un repertorio decorativo piuttosto vasto nonostante l’esiguità e la brevità della produzione. La figura decorativa più presente è quella animale, associata a foglie di quercia o a elementi decorativi geometrico - floreali.

Il boccale in oggetto si inserisce pienamente nell’ambito produttivo sopraindicato e ha mostra numerosi confronti da un punto di vista morfologico (2), mentre dal punto di vista decorativo, pur riprendendo il motivo della figura animale, la presenta in un modo più articolato ed elegante, posizionando l’uccello in un atteggiamento già quasi naturalistico. Un’opera prossima a quella in analisi può essere il boccale con cigno conservato al Museo del Vino di Torgiano (3).

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 198: la tavola della tipologia dei decori secondari mostra nell’ornato s24 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.

2-Si veda ad esempio lo stesso boccale a figura umana (lotto 3) di questa medesima selezione, molto simile anche per dimensioni.

3-FIOCCO GHERARDI 1991, n. 9

 

                                                   

                                                                          

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
62

VASO

MANISES (VALENCIA), METÀ CIRCA DEL SECOLO XVI

Maiolica decorata in lustro dorato e blu di cobalto.

Alt. cm 13; diam. bocca cm 21; largh. massima cm 25; diam. base cm 17,2.

Sotto la base etichetta quadrata stampata con la scritta “EXPOSITION NATIONALE/ DE CÉRAMIQUE/ 1897/ SECTION RETROSPECTIVE” e a mano “356”. Altra etichetta rotonda stampata della COLLECTION IMBERT ROME, al centro numero scritto a mano poco leggibile.

 

Il vaso è prodotto al tornio e presenta un corpo cilindrico appena rastremato verso la base, che si presenta a fondo piano. La bocca si apre larga e aggettante con una tesa obliqua e un orlo arrotondato. Dall’orlo partono tre anse a S dal profilo cilindrico, che scendono fino al corpo.

Il rivestimento, in smalto stannifero color avorio, è ricoperto da una decorazione a lustro di colore rosso ramato che interessa l’intera superficie del vaso, anche nella parte interna. Il decoro è meno curato all’interno del contenitore, con un motivo a larghe foglie e spirali, e con puntinature a riempire i campi vuoti. Sulla tesa corre un motivo a piccoli fioretti quadripetali con lunghi pistilli e gambo fogliato dall’andamento mosso. Sul corpo, sui due lati principali, si scorge il tipico decoro a pardalot, circondato da fioretti sinuosi e puntinature. La base è anch’essa decorata con un motivo naturalistico dipinto con maggior rapidità. Il decoro deriva dal prototipo dei pardalot, da rintracciare quasi certamente nel tipo dell'aquila raffigurata sul rovescio di piatti valenciani della prima metà del IX-X secolo. Una stilizzazione di questo genere, evolvendosi nel tempo, diviene di uso comune sui prodotti valenciani fra il XII e il XVIII secolo.

Le decorazioni della parte interna del vaso e della base sono campite a lustro secondo modalità già tarde della produzione ispano-moresca. Invece, i due tipici uccelli dipinti sul fondo puntinato del corpo presentano tratti stilistici ancora antichi e non la tipica stilizzazione a fasci di linee secondo l’evoluzione del decoro. Per queste caratteristiche, ci pare di poter ascrivere l’opera ancora a una fase precoce o comunque di transizione.

La produzione valenciana di ceramiche a lustro metallico fu grandemente apprezzata nel Rinascimento italiano e le importazioni di maioliche iberiche estremamente ricercate, tanto che i pezzi decorati a lustro costituirono uno status symbol ambito dalle corti europee e ispirarono produzioni emulative in Italia. Con il Romanticismo e il sorgere del gusto per l’Oriente si scatena in Europa un collezionismo animatissimo di questo tipo di oggetti. La Spagna diventa di moda e la ceramica medievale a riflesso metallico diviene paradigma del collezionismo orientaleggiante (1). Non ci stupisce dunque l’esistenza di un’opera a lustro nella collezione Imbert ma, soprattutto, la presenza della stessa opera all’Exposition nationale de la céramique et de tous les arts du feu (Palais des Beaux-Arts du 15 mai au 31 juillet 1897).

Un esempio più recente di questo tipo di collezionismo è costituito dalla vasta raccolta di maioliche ispano-moresche donata al museo di Palazzo Venezia a Roma dall’antiquario romano Gustavo Corvisieri (2).

 

1 CASANOVAS 1996, pp. 42-60.

2 SCONCI-TORRE 2008.

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
63

GRANDE PIATTO

MANISES (VALENCIA) O SIVIGLIA, METÀ SECOLO XVI

Maiolica decorata in lustro dorato e blu di cobalto.

Alt. cm 16; diam. cm 38,6.
 

Il grande bacile mostra una forma tonda concava profonda, con tesa obliqua molto accentuata. Il cavetto è fondo e centrato da un umbone rilevato, a sua volta rimarcato da un motivo ad anello sottolineato in blu.

Il piatto è interamente rivestito anche sul retro da uno smalto stannifero color avorio decorato a lustro. L’ornato in blu si ripete sulla tesa, decorata da una sottile doppia linea sinuosa. Il blu è stato utilizzato per suddividere la decorazione, che è comparsa solo a seguito della seconda cottura.

Il decoro a foglie bipartite, intervallate simmetricamente da un rametto anch’esso fogliato, si ripete lungo la tesa e nel cavetto. Al retro un caratteristico motivo decorativo a “foglie di felce”, tipico dei decori di questo periodo storico, nell’incavo che si forma in corrispondenza del cavetto e si fa più accentuato con un fiore stellato o ruota, anch’esso tipico di questa fase di produzione. In base alla decorazione, che sul fronte riprende il motivo cosiddetto “ad arbusto” e sul retro un motivo tipico della serie popolare, possiamo ipotizzare una probabile datazione riconducibile alla fine del XVI secolo. Il piatto è comunque poco comune tra quelli pubblicati e presenti nelle collezioni italiane. Sebbene non mostri stemmi al centro dell’umbone, ha mantenuto ancora il gusto più arcaico per la bicromia grazie all’utilizzo dell’azzurro.

Il decoro del retro, di derivazione più antica, è spesso presente anche su pezzi chiusi, come gli albarelli, quale motivo secondario in associazione a decori più consistenti come la foglia (1).

Gli esemplari di confronto mostrano molteplici varianti del fronte, mentre si ha una maggiore uniformità per il decoro del retro, che come già detto ci aiuta nella datazione, da collocarsi intorno alla metà del secolo XVI. La forma della tesa, liscia e priva di baccellature, che richiama i bacili metallici, non è molto comune e la ritroviamo in alcuni piatti (2) delle Raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano. Il primo piatto, con decoro semplificato a grossi “nastri annodati” su un motivo a piccole spirali, mostra una grande sobrietà compositiva che gioca sul contrasto con alcuni tocchi di blu. Il secondo è più coerente con il progetto compositivo del nostro, con un ripetersi simmetrico di motivi ad alberelli alternati a metope dal decoro geometrico. Entrambi i confronti si possono datare alla fine del secolo XVI.

 

1 CAVIRÒ 1991, p. 184 e p. 195 per il decoro sul retro del piatto.

2 CAVIRÒ in AUSENDA 2002, pp. 260-261 nn. 362 e 364.

 

 

Stima   € 3.000 / 4.000
Aggiudicazione  Registrazione
13

ALBARELLO

MONTELUPO, 1505-1515 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio e blu di cobalto; smaltatura all’interno.

Alt cm 20; diam. bocca cm 8,5; diam. piede cm 9,3.

 

 

Il contenitore apotecario presenta un’imboccatura ampia con orlo inclinato, rifinito a stecca. II collo è breve; la spalla piana, con stacco a spigolo vivo, scende in un corpo cilindrico appena rastremato, terminante in un calice troncoconico che si assottiglia per finire in un piede con base piana. Lo smalto è di colore bianco rosato, molto crettato,  e alcune colature dall’orlo della bocca ne denunciano lo spessore.

Il vaso mostra, lungo il corpo, un decoro “alla porcellana” in monocromia blu e sul fronte, entro una cornice rotonda, uno stemma con una croce blu decorata da cinque stelline ad asterisco di colore giallo. Una catena continua corre lungo la spalla, mentre il collo e le fasce limitrofe alla decorazione principale sono dipinti con linee parallele. Nella decorazione predomina il colore blu cobalto in vari gradi di diluizione applicato con tecnica sapiente, come ad esempio nella cornice dello scudo di colore azzurro chiaro o nei nastri che la adornano tracciati a punta di pennello. Unica nota differente di colore il giallo delle stelle all’interno dello scudo.

La forma è ancora tardo-quattrocentesca e si può accostare per confronto a quella di un albarello già in collezione Cora, ora al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza che presenta decori “alla porcellana”, ma in una versione policroma e accostata a ornati più complessi (1). Il decoro del nostro esemplare, abbinato all’emblema della farmacia, ci sembra però influenzato da dettami stilistici già di primo Cinquecento e comunque ormai slegato dagli ornati d’ispirazione strettamente mediorientale. Il gusto è prossimo a quello degli albarelli già descritti in questo stesso catalogo (lotti 10-11) ma se ne discosta. L’influenza stilistica guarda all’estremo oriente: ai modelli della famiglia blu e del nodo orientale, qui declinati in un modo più corrivo, ma non meno elegante di quello generalmente proposto nelle forme aperte provenienti dal pozzo dei lavatoi a Montelupo.

Il gruppo di appartenenza potrebbe essere pertanto il 40.6 della classificazione di Berti (2), allorché il tralcio naturalistico perde consistenza e si destruttura in elementi più sottili e meno incisivi: gli elementi araldici sono spesso presenti in questa fase.

Si pensa pertanto a una datazione attorno al primo trentennio del secolo XVI.

 

1-BOJANI 1985, p.177, n. 440.

 2-BERTI 1998, p. 148 gruppo 40.6 .

 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
15

CRESPINA O PSEUDOCRESPINA

MONTELUPO, 1505-1515 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia su smalto con arancio, blu, verde, rosso e bianco.

Alt. cm 3,3; diam cm 21,3; diam. piede cm 10,2.

 

 

Il piatto ha forma poco profonda, umbone centrale rilevato e separato dalla tesa da una cornice centinata; la tesa ha forma baccellata a rilievo e termina in un orlo rilevato dal profilo arrotondato, mentre il piatto poggia su un basso piede leggermente incavato. Anche sul retro sono visibili le baccellature. La forma, che imita i piatti metallici sbalzati del primo Rinascimento, era realizzata a crudo dal vasaio tramite l’applicazione sul retro del piatto di uno stampo che veniva compresso sul disco di argilla poi lavorato.

Il decoro dipendeva dalla morfologia dell’oggetto, e quello proposto su quest’opera è particolarmente significativo: le baccellature sono rimarcate dalla bicromia giallo-blu che dà rilievo alla forma, evidenziata e riservata per mezzo di una sottile filettatura in blu di cobalto. Tra le baccellature e la tesa si scorge un piccolo motivo a punta di diamante, esaltato anch’esso dall’uso della bicromia in rosso ferro e verde. Gli spazi vuoti sono poi riempiti da sottili spirali blu. Il centro dell’umbone è interessato da una scacchiera fitta, con sottili decori blu, a riempimento delle parti a riserva, tra le quadrettature verdi e rosse. Il retro non mostra decori, ed è ricoperto da un ingobbio di color nocciola, steso con rapidità e con una vetrina sottile.

Il piattello si trova documentato già nello studio di Galeazzo Cora, che lo pubblica come esempio importante della categoria a sbalzo, a somiglianza appunto di recipienti metallici, appartenente al Gruppo XVI C che circoscrive a un periodo cronologico prossimo alla fine del secolo XV (1).

I documenti di scavo pubblicati da Berti lo inseriscono invece tra le produzioni meno rappresentate, collocabili cronologicamente nel primo periodo rinascimentale, ben documentato negli scavi di Valdarno, e  lo classificano nel gruppo 38 (2).

Si aggiungono a questa serie di confronti, un piatto con decoro appena differente sull’orlo della tesa, conservato al British Museum (3), e uno conservato al Louvre con diversa cromia (4).

Il raffronto con l’immagine fotografica di un piatto delle raccolte prebelliche del British Museum, attribuito a Montelupo negli anni 1500-1515, molto vicino per morfologia e decoro al nostro oggetto e purtroppo andato distrutto nell’ultima guerra (5), ci pare poi particolarmente interessante.

Anche il confronto con i reperti dallo scavo “del pozzo dei lavatoi”, unitamente a quanto sopra detto, ci conduce dunque a una datazione precoce e circoscritta al primo quindicennio del secolo XVI.

 

1 CORA 1973, vol. I, p. 154; vol. II, fig. 273b.

2 BERTI 1997-2003, II, pp. 134-135 tav. 131 e II, p. 134 figg. 131-132.

3 THORNTON-WILSON 2009, p. 204; n. 128.

4 GIACOMOTTI 1974, n.442.

5 THORNTON-WILSON 2009, Appendix p. 716  tav. A15.

 

 

Stima   € 5.000 / 7.000
Aggiudicazione  Registrazione
30

CRESPINA

FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, blu di cobalto, verde rame, bruno di manganese.

Alt. cm 5,8; diam. cm 24,8; diam. piede cm 9,5.

 

Coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata a conchiglia e orlo sagomato. La coppa poggia su alto piede, tagliato all’altezza dell’orlo, che risulta pertanto dritto e non aggettante. La forma, altresì nota come “crespina” dall’andamento ondulato dell’orlo, è decorata a policromia sulla tesa con motivo “a quartieri” con settori di forma romboidale, alternati a piccoli petali, disposti simmetricamente attorno all’umbone centrale, che mostra entro una cornice poligonale un amorino in un paesaggio montuoso.

Entro le riserve sono dipinti tralci fogliati, foglie stilizzate e delfini su fondo arancio, verde e blu. Sul retro un motivo a corolla nei colori blu e giallo arancio si dispone simmetricamente a ornare le pareti della coppa.

Si tratta di una crespina “a quartieri”, tipica della produzione faentina, che ebbe grande successo intorno alla metà del Cinquecento. I caposaldi cronologici di questa produzione ci derivano da esemplari datati, e sono stati ampiamente studiati da Carmen Ravanelli Guidotti nel Thesaurus (1) della maiolica di Faenza: si tratta di esemplari che vanno dal 1538 (2) fino al 1547 (3). Questa tipologia decorativa perdura parallelamente all’insorgere della moda dei “ bianchi” ed è rappresentata insieme con le coppe compendiarie nelle principali botteghe e almeno fino al 1575 nella bottega Utili (4).

Numerosi sono gli esemplari di confronto: simile per impostazione la coppa della collezione del Banco di Sicilia (5), che sottolinea la tematica amatoria del decoro con la scritta “non la lassa”, che sottintende la frase “Amor non la lascia”, ma anche la coppa del Museo del Louvre con un amorino in corsa (6) o quella del Museo di Sévres con variante di forma e disposizione del decoro (7). Un’altra crespina con un putto inserito in un paesaggio “già di gusto compendiario” è conservata al Victoria and Albert Museum (8) e, se accostata alla nostra, mostra una disposizione della cromia invertita con predominanza di arancio rispetto alla maggiore concentrazione di blu di cobalto nei “ quartieri” del nostro esemplare.

Ci pare infine di ravvisare una particolare vicinanza stilistica nella crespina con putto nell’umbonatura centrale del Museo Civico di Pesaro, già pubblicata come esempio del genere “a quartieri” nel volume sulla maiolica in Italia di Giovanni Conti (9).

 

1-RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 378 n. 94.

2-Crespine del Museo Correr di Venezia.

3- La crespina del Museo Civico di Pesaro (MANCINI 1979, n. 198).

4- RAVANELLI GUIDOTTI 1998, pp. 379-380 n. 95.

 5-RAVANELLI GUIDOTTI in AUSENDA 2010, p. 126 n. 47.

6-GIACOMOTTI 1974, n. 952.

7-GIACOMOTTI 1974, n. 954.

 8-RACKHAM 1977, inv. 1807-1855.

9-CONTI 1973, n. 190.

 

Stima   € 5.000 / 7.000
53

SALIERA

URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, 1580-1590 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, giallo arancio, verde, blu e bruno di manganese nei toni del marrone.

cm 20 x 22 x 12, piede cm 14x11,5.

 

 

La saliera poggia su una base ottagonale che sorregge l’invaso grazie a quattro sostegni a ricciolo e a zampa ferina alternati, ed è decorata con un motivo a baccellature e finto bugnato. Il corpo dell’invaso, modellato plasticamente, riproduce la classica forma a navicella con due mascheroni ai vertici che sostengono due putti reggi-conchiglia, e altri due mascheroni, posti sui lati lunghi, a coronamento del decoro. Al centro della vasca spicca la figurina di Cupido su uno sfondo verde, mentre la parete esterna è decorata da un motivo a mascheroni in una variante coloristica assai ricca.

Carmen Ravanelli Guidotti in uno studio concernente le credenze nuziali di Alfonso d’Este (1) esamina le saliere dei servizi da pompa dell’epoca, facendo riferimento alle caratteristiche di quelle cosiddette “a caprone”, e individua anche questa variante con putti reggi-conchiglia in diversi esemplari (2) . La studiosa ricorda che “il corpo a navicella su base poligonale stenta ad accogliere la grottesca, tanto la forma plastica è articolata in una strabiliante concatenazione di elementi plastici complementari (volute, mascheroni, zampe leonine, ecc.)…”.

Simile per concezione d’uso, ma con le modifiche alla forma che abbiamo già indicato, ovvero con l’aggiunta di valve di conchiglia porta sale sul lato lungo e con decoro con motivo a mostri marini, è la bella saliera conservata al Walters Art Museum di Baltimora (3), datata tra il 1575 e il 1600 e attribuita alla bottega Patanazzi.

Molto vicina, per la presenza dello stesso modello plastico con minime varianti, è invece la saliera del Museo di Arti Decorative di Lione (4), che si distingue rispetto alla nostra per una scelta cromatica più sobria. Altri esempi sono presenti al Victoria and Albert Museum di Londra (5) e al Louvre (6): tutti appartengono a una produzione urbinate della fine del Cinquecento e sono attribuiti alla celebre bottega dei Patanazzi.

 

 

1 RAVANELLI GUIDOTTI 2000, pp. 30-53.

2 RAVANELLI GUIDOTTI 2000, p. 47; tav. IX a, b, c.

3 Inv. n. 48.1361. PRENTICE VON ERDBERG-ROSS 1952, n. 73.

4 FIOCCO-GHERARDI 2001, p. 107 n. 180.

5 RACKHAM 1977, n. 887.

6 GIACOMOTTI 1974, n. 1116.

 

 

Stima   € 5.000 / 7.000
Aggiudicazione  Registrazione
64

PIATTO TONDO

SIENA, FERDINANDO MARIA CAMPANI, 1733-1745

Maiolica dipinta in policromia con bruno di manganese, verde ramina, giallo antimonio e blu di cobalto.

Alt. cm 2,6; diam. cm 25,8; diam. base cm 18.

Iscrizione in corsivo nero che corre sul retro lungo l’orlo interno della tesa Iacob ad puteum vidit rachel; et adaquato grege, indicavit et, quod frater esset patris sui; tre piccole etichette con cornice blu, su una è leggibile il numero ‘63’.

 

 

Piatto tondo con orlo liscio, ampia tesa orizzontale, corta balza e ampio cavetto. Il retro è interamente rivestito da un leggero strato di smalto stannifero che mostra sulla tesa pulci e i segni lasciati dai distanziatori di cottura. Attorno alla balza corre la scritta Iacob ad puteum vidit rachel; et adaquato grege, indicavit et, quod frater esset patris sui in corsivo nero di accurata calligrafia. L’orlo è color nocciola con un filetto bruno di manganese. Il dipinto è stato eseguito con i colori a gran fuoco sapientemente accostati. La scena è dominata dal blu dai toni molto forti nelle vesti delle figure e molto sfumati nel paesaggio, nelle lontane cime montuose, nel cielo; il modellato degli incarnati e del pellame animale è realizzato in giallo e bruno; tocchi di verde olivastro e smeraldo creano il prato, le fronde arboree e i ciuffi fogliati. Ed infine un sottile ripasso in bruno accentua i contorni delle figure e tocchi lumeggiati in giallo su prato e paesaggio ne vivacizzano il chiaroscuro.

In primo piano a destra, protagonista della scena istoriata, un giovane forte uomo barbuto con veste blu e manto giallo esprime fisicamente sorpresa nel vedere due giovani donne che si tengono per mano, circondate da pecore e capre che si abbeverano al pozzo. Come ci indica la scritta sul retro, è illustrata la scena della Bibbia (1) in cui si narra del primo incontro di Giacobbe con la bella cugina Rachele che, con la sorella Lia, aveva portato il gregge alla fonte. Giacobbe accettò di servire lo zio Làbano per sette anni per poterla sposare.

La scena figurata deriva fedelmente da un riquadro dell’affresco di Raffaello Sanzio su una volta della Loggia Vaticana (1517-1519). L’incisione ad acquaforte di Nicolas Chaperon, che la riprende, fa parte del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649 con 52 incisioni numerate. La nostra scena è la n. 22 e reca sotto il riquadro figurato la scritta: “Jacob ad puteum, vidit Rachel, et adaguato grege, indicavit ei/quod frater estet patris fui.Gen XXIX”: la scritta ripresa sul retro del piatto.

Vi sono alcuni piatti di maiolica dipinti nello stesso codice formale con scene derivate dalla medesima serie di incisioni raffaellesche e che recano l’iscrizione di identico tipo. Tre portano anche la firma dell’artista senese Ferdinando Maria Campani e la data “1733”. Un piatto che mostra raffigurata la colonna di nubi nell’accampamento ebraico è conservato al Kunstgewerbe Museum di Berlino (2). Due sono al British Museum di Londra: uno rappresenta la Creazione del Sole e della Luna, l’altro la Creazione di Eva (3). Un altro bellissimo pezzo con dipinto il Giudizio di Salomone raffaellesco porta la scritta sul retro ma non la data e firma dell’artista, come il nostro (4).

Ferdinando Maria Campani, nato a Siena nel 1702, era un pittore ad olio, considerato un buon ritrattista e copista di capolavori: sappiamo che aveva eseguito opere per incarico di Violante di Baviera, Principessa di Toscana (5).

Non ha ancora trovato una spiegazione documentaria il suo passaggio alla maiolica e l’assoluta coerenza stilistica con la formula decorativa di Bartolomeo Terchi, il celebre ceramista romano documentato attivo a Siena dal 1725. Gli studiosi ipotizzano che Campani sia stato tecnicamente educato alla decorazione su maiolica dal Terchi, già al servizio della famiglia Chigi da diversi anni a San Quirico d’Orcia (6). La passione per il revival della maiolica istoriata voluta dai Chigi e da Violante di Baviera porta il suo talento di copista alla ceramica.

Per un’altra serie di piatti “per S.A.R.”, forse la stessa Violante, i documenti senesi provano la volontà del “Campani Pittore da piatti” di far acquistare zaffera di alta qualità per fare “un buon turchino” che a Siena non si trovava, e di lamentarsi di “nol può copiare giusto stante la mancanza del color rosso che fa un gran pregiudizio all’originali” (7). E ancora nel 1748 sono registrati pagamenti dei Chigi diretti al Campani per “varie pitture di piatti di coccio situati appesi nelle sale della villa di Centinale opere assai graziosamente colorite e ragionevolmente disegnate” (8).

Il nostro piatto finemente istoriato, come i suoi simili, dal brillante blu apparteneva certamente ad una serie nobile.

Ancora oggi, molti considerano Ferdinando Maria Campani “the finest maiolica artist of the eighteenth century” (9).

 

Raffaella Ausenda

 

1 Genesi, 29, 9-20.

2 Inv. K2164, firmato “1733 Ferdinando Maria Campani Senese dipinxe” (PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 81 n. 68; HAUSMANN 1972, n. 307).

3 ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, p. 197.

4 Già collezione privata milanese: PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 77.

5 Vedi ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996; ANSELMI ZONDANARI, in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.

6 A. Cornice, voce, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 17 (1974).

7 2 agosto 1736, vedi G. Mazzoni, Regesto, doc. Archivio Monte dei Paschi, Archivio Sansedoni, in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 89.

8 G. Mazzoni, Cenni su B. Terchi e F. M. Campani, in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 1996, p. LVI doc. 1748; RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 196.

9 WILSON 1989, p. 76.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
31

CRESPINA

FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in bicromia  con azzurro e giallo su smalto bianco in un ricco e spesso strato.

Alt. cm 7,6; diam. cm 31; diam. piede cm 14

Sul retro iscrizione “VR AF” sormontata da omega, delineata in blu

 

La coppa ha un umbone centrale rilevato, tesa baccellata a mascheroni e orlo sagomato. Poggia su alto piede appena aggettante. La forma a “crespina” è simile a quella dell’esemplare che segue (lotto 32) dal quale si distingue per la sagomatura, modellata con mascheroni, poco leggibili per l’alto spessore dello smalto, al posto delle conchiglie.

Il decoro, realizzato secondo i dettami dello stile compendiario, utilizza pochi colori standardizzati: blu, giallo e giallo arancio su uno spesso smalto bianco e lucente, volutamente scelto come colore che maggiormente richiama l’argento. Questo deriva proprio dal progetto produttivo del periodo, che trae a stampo le forme mutuandole direttamente dai modelli metallici; idea che perdurerà per tutto il secolo.

L’opera mostra al centro dell’umbone uno stemma con leone rampante delineato in giallo arancio su fondo giallo antimonio più chiaro. Sulla tesa, a completamento dell’ornato, corre una ghirlanda di fioretti a campanula dalla foggia arrotondata e foglie, collegati fra loro da una girale sottile dipinta in blu. I pigmenti sono applicati in abbondanza fino a ottenere quasi un effetto di rilievo nelle parti in giallo ferraccia utilizzato per simulare il rosso.

Le cavillature sottilissime presenti nello smalto ne denunciano lo spessore volutamente abbondante, indice di un prodotto particolarmente ricercato, come confermato dall’apposizione sul retro, sotto il piede, della sigla “VR AF” sormontata da omega. È questa la sigla attribuita alla bottega di Virgiliotto Calamelli che sappiamo attiva dal 1531 al 1579, per circa nove anni dopo la morte del maestro.

Interessante al fine della comprensione di questa tipologia di opere l’elenco della produzione della bottega, Descriptio, in data 1556, dal quale si evince come la tipologia compendiaria fosse molto rappresentata nella produzione della bottega e ci dia “la misura della solidità e dell’ampiezza della bottega Calamelli”. Il repertorio della bottega Calamelli è molto diversificato e comprende busti all’antica, amorini, figure di guerriero, ma anche raffigurazioni istoriate, più o meno complesse fino all’istoriato policromo vero e proprio.

La raffigurazione degli stemmi nobiliari s’inserisce appieno in questo repertorio e alcuni esemplari con questo tipo di decoro sono stati pubblicati nel volume monografico sui Bianchi di Faenza di Carmen Ravanelli Guidotti: ad esempio la crespina, di foggia più semplice, con stemma del vescovo Annibale Grassi, e quella con uno stemma non identificato, sormontato da cherubino.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
32

COPPA O CRESPINA

FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI

Maiolica con impasto giallo camoscio rosato, dipinta in bicromia con azzurro e giallo su smalto bianco.

Alt. cm 7,5, diam. cm 29, diam. piede cm 15.

Sotto il piede n. 299 dipinto in rosso. 

 

Coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata a conchiglie e orlo sagomato. La coppa poggia su alto piede appena aggettante. La forma a “crespina” ricorda quella dell’esemplare precedente (lotto 31) da cui si distingue per la maggior leggibilità dello stampo attraverso lo smalto bianco spesso, ricco e lucente, che vede affiancati alle conchiglie dei bei mascheroni a rilievo distribuiti lungo l’orlo.

In comune con il lotto precedente anche il decoro con i colori tipici del cosiddetto “periodo compendiario”, che ha determinato gran fama per le botteghe della città romagnola.

L’opera mostra al centro dell’umbone una figura femminile che avanza sostenendo una colonna e sullo sfondo un paesaggio montano di grande impatto. La figura è attorniata da una decorazione a mazzi di foglie sparsi disordinatamente sulla tesa salvo alcuni ciuffi fogliati, di colore azzurro collocati in quattro punti simmetrici.

Si tratta della rappresentazione della Forza, secondo la raffigurazione cristiana, che la vede come una virtù vincitrice sull’istinto brutale e sulle false divinità. La sua personificazione è una donna recante una colonna, di solito spezzata, per collegamento con la vicenda di Sansone (1), distruttore del tempio.

Un primo confronto ci viene fornito da una coppa della bottega Enea Utili (2), nella quale si scorge una figurina maschile che avanza con passo svelto. L’opera, diversa per stile pittorico, ci fornisce un’idea della sintassi decorativa in uso nella bottega faentina, con ciuffi di fiori sparsi sulla tesa. Assai simile invece il decoro secondario che leggiamo sui vasi da farmacia, raggruppati da Carmen Ravanelli Guidotti attorno ai due albarelli del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (3) ancora non ascritti a una bottega certa e databili alla fine del secolo. Non riscontriamo invece alcuna somiglianza stilistica nelle figure principali, che mostrano uno stile molto caratterizzato, in contrasto con la nostra figurina che è invece tradizionale e delicata, nonostante la forza decorativa del paesaggio di sfondo.

L’impostazione del decoro, le modalità stilistiche, la grande qualità tecnica sia dello stampo che dello smalto, e la ricercatezza nell’impostazione del decoro ci confermano, comunque, la provenienza di quest’opera da una bottega faentina della seconda metà del XVI.

                                                             

1- GIUDICI, 16, 29

2- RAVANELLI GUIDOTTI 1996, p. 244 n. 56.

3-RAVANELLI GUIDOTTI 1996, pp. 368-371 n. 94, n. 56, ora conservata alla Pinacoteca di Varallo Sesia (ANVERSA 2004, p. 102 n. 42).

                                                                          

Stima   € 6.000 / 8.000
54

CALAMAIO

URBINO, BOTTEGA PATANAZZI, INIZIO SECOLO XVII

Maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, verde, blu e bruno di manganese nei toni del marrone e bianco di stagno.

cm 26 x 19 x 14.

 

 

Il calamaio raffigura una dama intenta a verificare una lavorazione, forse un rotolo di pizzo: la donna è rappresentata seduta in abiti rinascimentali con una camiciola dall’ampio collo, aperta sul davanti, un soprabito smanicato, trattenuto in vita da una cinta sottile, che ricopre un abito azzurro dalle maniche lunghe (1). La donna ha i capelli raccolti sul capo e guarda di fronte, mentre con la mano destra scorre il pizzo che trattiene con la sinistra. Il rotolo è contenuto in un cestino che la donna, seduta su una seggiolina da camino, tiene sulle ginocchia. Ai piedi della sedia un vasetto verde per contenere l’inchiostro.

Queste plastiche, destinate a un uso privato, frutto di commissione o di dono, sono state attribuite da Carmen Ravanelli Guidotti alla bottega Patanazzi con una datazione coerente a quella già proposta dal Ballardini (2), in base ad un esemplare con stemma Aldobrandini, alla fine del Cinquecento e ai primi anni del Seicento.

La studiosa ha superato la tradizionale attribuzione a Faenza di questa tipologia in virtù di particolari caratteristiche: le figure in genere modellate con alcuni dettagli realizzati in serie e aggiunti in corso d’opera; la plastica non raffinatissima; lo spessore alto dello smalto, e soprattutto l’associazione delle plastiche al decoro a raffaellesche. Tutti questi elementi avvalorano una paternità urbinate.

Il confronto con esemplari simili, anch’essi plasmati con personaggi di genere, ci conforta nell’attribuzione. Si vedano ad esempio “il suonatore di organo”, con tratti fisiognomici del volto molto vicini al nostro esemplare, raffigurato sul calamaio del Victoria and Albert Museum recante un cartiglio con la scritta “Urbino” (3); il “Bacco ubriaco” dello stesso museo che, in forma di fontana, riproduce lo stile e il gusto dei calamai urbinati (4); il calamaio con figura di “San Girolamo” del Museo di Leningrado con analoga datazione (5) e le belle plastiche presentate in una mostra sulle maioliche rinascimentali nello stato di Urbino di qualche anno fa (6), in particolare il “San Matteo” (7) della Cassa di Risparmio di Rimini, il “Mosè con le tavole della legge” e la “coppia di figurine” in cui compare un personaggio femminile.

La figura femminile appare comunque poco rappresentata, e sarebbe quindi interessante verificarne la quantità nell’elenco delle plastiche nell’Inventario Ducale del 1609 (8).

 

1 L’abito di foggia tardo-cinquecentesca, già influenzato dalla moda francese e inglese, conferma la produzione nella seconda metà del secolo.

2 BALLARDINI 1950, pp. 99-103.

3 RACKHAM 1977, p. 283 n. 852 (inv. 8400-1863).

4 RACKHAM 1977, pp. 283-284 N. 853 (inv . C.665-1920).

5 IVANOVA 2003, p.111 n. 97.

6 GARDELLI 1987, p. 159.

7 GARDELLI 1987, p. 152 n. 65.

8 SANGIORGI 1976.

 

 

Stima   € 7.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
57

PIATTO

CASTELLI D’ABRUZZO, 1580-89

Maiolica ricoperta di smalto blu di cobalto, con decoro in oro e bianco di stagno.

Alt. cm 4; diam. cm 28,4; diam. piede cm 10.

Sotto il piede, tracce di etichetta con scritte a mano poco leggibili in inchiostro nero.

 

 

Il piatto ha cavetto ampio e profondo con tesa obliqua,  poggia su un piede ad anello appena accennato ed è interamente ricoperto da smalto blu intenso che lascia scoperto solo il cercine del piede. Al centro del cavetto compare lo stemma del Cardinale Farnese con i sei gigli blu in campo d’oro, sormontato dal cappello cardinalizio con sei nappe e racchiuso in una cornice dipinta in bianco di stagno; intorno, il caratteristico motivo a fiori quadrangolari accompagnati da un decoro a groppi. Sulla tesa il motivo si ripete in una ghirlanda continua.

La storia di questa fornitura è ormai nota grazie all’esposizione dedicata alle collezioni e al servizio con stemma Farnese (1): il servizio fu eseguito in più riprese tra il 1574 e il 1589, anno della scomparsa del Cardinale Alessandro Farnese. L’attribuzione alle officine di Castelli (2), unanimemente accettata, si basa sul confronto con frammenti emersi dagli scavi condotti nella città abruzzese e trova riscontro in due opere del Museo di Capodimonte in cui compare una sigla interpretabile come Castellorum (3). Le varianti morfologiche e stilistiche tra le opere in “turchina” lasciano però aperti alcuni interrogativi riguardo alla definizione delle botteghe castellane autrici della fornitura e alla cronologia delle varianti esistenti.

La raffinata tecnica di produzione di questi prodotti “compendiari” sembra, attraverso l’analisi dei frammenti, caratterizzata da una pesante invetriatura monocroma, più che dall’applicazione di un vero e proprio smalto come nelle opere faentine (4). Ma la tecnica più sorprendente è quella dell’uso del terzo fuoco per la stesura dell’oro: questa procedura doveva essere causa di un gran numero di rotture dei manufatti durante e dopo la cottura, e comunque riservata dalla bottega incaricata ad una committenza particolare e non abituale, come dimostra l’esistenza di una produzione di turchina senza però applicazione di oro a terzo fuoco.

Come ricorda Luciana Arbace nelle schede relative a queste opere (5), il servizio è elencato tra gli arredi del Palazzo Farnese a Caprarola nel 1626, e si parla di un servizio da credenza di maiolica turchina miniata d’oro con l’arme del Cardinale Farnese ancora presente nella Loggia del Palazzo Farnese di Roma nel 1644, nel 1653 e qualche anno più tardi (6). Di queste opere tra il 1728 e il 1734 se ne conservavano 72, poi trasferite presso il Museo di Capodimonte nel 1760, mentre altre furono disperse.

Le caratteristiche decorative e formali eterogenee hanno fatto pensare non solo all’opera di più botteghe coinvolte nella commissione, ma anche all’esistenza di più di un servizio o committenza, forse anche per il cardinale Odoardo Farnese.

Il piatto in analisi appartiene al gruppo di opere conservate al Museo Duca di Martina a Napoli databile al 1580-1589. L’opera mostra al centro lo stemma del cardinale realizzato probabilmente per sottrazione o utilizzando una mascherina al momento dell’applicazione dell’oro, in modo da ottenere i gigli di colore blu su campo oro come richiesto dall’araldica.

Gli esemplari di confronto già citati sono quelli conservati al Museo di Capodimonte, cui si aggiunge un altro confronto, molto vicino: il piatto di dimensioni appena inferiori con verso privo di decorazione, conservato nel Württemberg Landes Museum di Stoccarda (7).

 

1 ARBACE 1995, pp. 372-374.

2 PESCARA 1989, pp. 126-140.

3 ARBACE 1995, p. 369.

4 RAVANELLI GUIDOTTI in PESCARA 1989, p. 127.

5 Redatte e pubblicate in occasione della celebre mostra di Colorno del 1995, ARBACE 1995

6 ARBACE 1995p. 368 e bibliografia relativa.

7 PESCARA 1989, n. 538.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

ALBARELLO

DERUTA, 1510-1520

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, verde rame, blu di cobalto, giallo, arancio.

Alt. cm 20,2, diam. bocca cm 10,2; diam. piede cm 9,9.

Sotto il piede traccia di etichetta e timbro dell’ufficio di esportazione della Sovrintendenza di Firenze.

 

Il contenitore apotecario ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo arrotondato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana con orlo aggettante.

Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno dei vasi, che non sono rivestiti da smalto, ma solo da invetriatura. Lo smalto di colore panna–grigiastro mostra numerose cavillature e distacchi dovuti alla presenza del contenuto.

La decorazione, coerente con quella dell’esemplare che segue, mostra sul fronte una corona fogliata con bacche che circonda una riserva contenente la scritta apotecaria redatta in caratteri capitali di colore blu “GRASSO.D.BECHO”. Il cartiglio funge da cornice al decoro principale, che qui raffigura un ariete fermo su un prato, con uno sfondo giallo e che riempie, solo parzialmente, lo spazio riservato dalla corona fogliata a sua volta centrata dallo stemma della farmacia. Quest’ultimo, non identificato, mostra uno scudo semplice con tre mezzelune attorno a una palla tagliata in tre porzioni.

Il retro del vaso mostra un decoro a nastro sinuoso, delineato in verde, interrotto da due ornati a rombi che vanno a incorniciare la sigla A MA.

L’albarello, con l’esemplare che segue, deriva da una farmacia non individuata e mostra, per caratteristiche tecniche formali e stilistiche, affinità con i corredi farmaceutici attribuiti alle manifatture derutesi (1) o comunque della zona dell’Umbria e Alto Lazio dei primi decenni del secolo XVI.

Il confronto morfologico trova molti riscontri in ambito derutese: si veda ad esempio, e solo a livello morfologico, l’albarello con ritratto di donna recentemente presentato nella mostra sulla maiolica delle Marche (2) e databile al primo ventennio del XVI secolo.

Anche il confronto, sempre prettamente morfologico, con gli albarelli pubblicati nel catalogo della collezione Fanfani del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (3) ci conforta nell’attribuzione, pur nella consapevolezza dell’estrema diversità e originalità della decorazione dell’esemplare in esame e del vaso che lo accompagna.

Nonostante una certa rapidità nella stesura della decorazione, soprattutto delle figure centrali, e la ripetitività propria dei corredi farmaceutici, ci troviamo davanti ad un esempio decisamente inconsueto e sicuramente collegato a un corredo importante. Tuttavia, solo la corretta lettura dello stemma e della sigla potrebbe portare all’identificazione definitiva dell’opera in esame.

Il preparato indicato nel cartiglio fa forse riferimento all’Hysopo, corruzione di oesypum humida, un preparato a base di lana sudicia ricca di lanolina, a indicare il grasso di lana usato in farmacopea per ammorbidire, per mitigare il dolore e per fortificare (4).

 

1 Già attribuiti ad area senese e durantina.

2 SANNIPOLI 2010, p. 80 n. 1.11.

3 RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 169-170 nn. 97-98.

4 MASINO 1988, p. 104.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
21

ALBARELLO

DERUTA, 1510-1520

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, verde rame, blu di cobalto, giallo, arancio.

Alt. cm 20; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 9,7.

Sotto il piede etichetta con scritto a mano a inchiostro il numero 100 e timbro dell’ufficio di esportazione della Sovrintendenza di Firenze.

 

 

Il contenitore apotecario ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo arrotondato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana con orlo aggettante.

Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno del vaso, che non è rivestito da smalto ma solo da invetriatura.

La decorazione, coerente con quella dell’esemplare precedente (lotto 20), mostra sul fronte una corona fogliata con bacche che circonda una porzione a forma di medaglione contenente il cartiglio, redatto in caratteri capitali di colore blu, attorno alla figura di una fanciulla con un piccolo libro in mano. Il cartiglio recita “INFRIGIDANS GALLIE”.

Lo stemma della farmacia sovrasta il medaglione centrale: uno scudo semplice con tre mezzelune attorno ad una palla tagliata in tre porzioni.

Il retro mostra un decoro a nastro sinuoso delineato in verde e interrotto da due ornati a rombi che vanno a incorniciare la sigla A MA.

Per confronti e analisi tecnica si rimanda a quanto già detto nell’esemplare che precede salvo aggiungere un confronto stilistico per la figura umana che, pur mantenendo caratteristiche disegnative meno efficaci, ci sembra simile a quelle dipinte sull’importante serie di bottiglie farmaceutiche conservate al Museo del Louvre (1).

L’Infrigidans Gallie fa probabilmente riferimento all’infrigidans alleni, un unguento a base di altea campestre bianca, rosa, limone putrido, fiori di papaveri erratici e altro ancora con scopo antipiretico e antisudorifero.

 

1 GIACOMOTTI 1974, pp. 142-144 nn. 481-487.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
12

ALBARELLO

MONTELUPO, 1480-1505 CIRCA

Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio nel tono arancio, blu di cobalto, verde ramina, bruno di manganese nei toni del viola.

Alt cm 24,6; diam. bocca cm 9,4; diam. piede cm 9,3.

 

Il contenitore apotecario presenta un’imboccatura ampia con orlo inclinato, rifinito a stecca, collo breve, spalla incurvata dal profilo allungato a spigolo vivo, che scende in un corpo cilindrico appena rastremato per terminare in un calice troncoconico con base piana.

Il decoro mostra sul collo e sul calice un motivo a righe parallele, blu e manganese-viola, compreso in due fasce orizzontali colorate in viola e arancio. Sul fronte, entro un medaglione tondeggiante rimarcato da pennellate blu, giallo arancio e viola, si scorge un simbolo di spezieria a sua volta delineato in blu.

Sul retro un motivo a “penna di paona” è accostato a un decoro “alla porcellana”,realizzato con tocchi rapidi, utilizzato a riempimento delle campiture.

La forma dell’albarello è ancora vicina alle fogge quattrocentesche, che trovano riscontro in opere unite a decori alla “damaschina” o comunque d’influenza orientale come l’albarello del Victoria and Albert Museum di Londra (1). L’influenza orientale nel nostro esemplare è rappresentata dal decoro alla “penna di paona”, interpretato dalle manifatture montelupine in maniera rapida e corriva, più accorta nella stesura coloristica rispetto all’impianto disegnativo.

Questo ornato segna, unitamente a quello alla “palmetta persiana”, il momento di passaggio dalle decorazioni medievali a quelle più schiettamente rinascimentali. La derivazione da opere orientali trae origine probabilmente dall’area persiana che, tra il XIII e XIV secolo, propone questo decoro in lustro metallico. Utilizzato nella seconda metà del XV secolo come ornato accessorio, esso diviene poi decorazione principale, prevalentemente in forme aperte solo nel secolo successivo (2). Fin dall’esordio è realizzato in forma stilizzata e, in questo caso, ancora legato a una connotazione fitomorfa, quasi floreale, che diverrà sempre più decorativa semplificandosi vieppiù in forma di fascia secondaria. Questo decoro non fu comunque tra i più in voga presso i vasai di Montelupo. Sono scarsi gli esemplari di confronto su forme chiuse e tutti quelli individuati lo utilizzano come motivo principale (3). Ciononostante siamo portati a ritenere il vaso in analisi vicino per morfologia e stile alle produzioni del primo Cinquecento, e comunque posteriore agli anni ‘70 del secolo precedente.

 

1-RACKHAM 1977, pp. 21-23 n. 83.

2-BERTI 1998, pp. 109.

3-BERTI 1999, pp. 257 nn. 54-55.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
9

ORCIOLO BIANSATO

AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1480-1490

Maiolica, corpo ceramico di colore camoscio molto chiaro; smalto color crema, coprente, di lucentezza piuttosto marcata, steso in uno strato spesso; la smaltatura si estende anche all’interno del contenitore.

Decoro realizzato in policromia, che vede associare la tecnica “a zaffera” in blu di cobalto e piombo, ma poco rilevata, al bruno di manganese e al giallo antimonio.

Alt. cm 14,7; diam. della bocca cm 9,4; diam. del piede cm 9.

 

Il vaso elettuario, destinato a contenere sostanze semiliquide o oleose, ha una forma simile a quelli già presentati in questa stessa raccolta (lotti 5-7). Il corpo globoso ovoidale è rastremato verso il piede che si mostra basso, appena espanso e con base piana. Il collo, breve e cilindrico, si alza appena e si apre in una bocca con orlo tagliato a stecca appena sporgente. Dalla spalla fino alla parte più esterna del corpo si allargano due brevi anse a nastro a piega ortogonale.

La decorazione è suddivisa in due metope che occupano gran parte del corpo, delimitate ai lati da sottili linee di manganese, mentre, nella porzione superiore e inferiore, sono rimarcate da una linea gialla che esalta i punti di strozzatura della forma. I riquadri sono centrati da un medaglione che racchiude un orso andante a sinistra sul fronte e un fiore quadripetalo sul retro. I medaglioni sono circondati da un motivo a foglie di quercia.

L’orciolo appartiene a una serie di cui sono noti alcuni esemplari recanti sotto l’ansa una “N” riferibile a una bottega attiva a Montelupo alla fine del XV secolo (1), periodo cui si fa risalire la fine della produzione a zaffera.

L’esemplare oggetto di studio si discosta ormai dalla tipologia a zaffera e ha un confronto molto prossimo conservato nella Pinacoteca di Varallo Sesia (2): entrambe le opere sono ormai interessate dall’uso di più colori e pertanto ascrivibili, a nostro parere, ad una fase più tardiva della produzione, inserendosi però a pieno titolo negli ordinativi di un corredo farmaceutico che doveva, dato il numero di esemplari noti, avere un certo rilievo (3): si pensa pertanto a una produzione di Montelupo degli anni 1480-1490 circa.

 

1-Molti gli esemplari presenti nelle maggiori collezioni di alcuni musei quali il Bargello o il Museo Internazionele della Ceramica di Faenza: per un repertorio si veda: CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI- RAVNELLI-LUZI 1991, pp. 92-93 nn. 32-34 e bibliografia relativa. Già studiato da CORA 1973, p. 83 tavv. 117 e 118 e da BERTI 1997, vol. III, p. 251.

2-ANVERSA 2007, p. 32 n 7: l’opera pubblicata era stata datata con relativa incertezza alla seconda metà del secolo XV. Oggi, alla luce delle nuove pubblicazioni e confronti, la datazione è accettabile.

3-Si vedano anche gli esemplari pubblicati in COLAPINTO-MIGLIORINI-CASATI-MAGNANI 2002, pp. 80-82 nn. 14-15.

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
25

PIATTO

DERUTA (?), INIZIO DEL SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, rosso ferraccia, giallo, arancio, verde rame in due toni, giallo antimonio, bistro e tocchi di manganese.

Alt. cm 9,8; diam. cm 42; diam. piede cm 14,5.

Sul retro etichetta di collezione dattiloscritta: “Plat rond raprésentant: Daphné cangée en laurier/dirigeant vers la gauche, une coupe chargée de feuilles posée/sur la tête . Dessin au trait bleu sur fond blanc. Au marii,/Faenza XVI siècle”.

 

 

L’esemplare ha la forma caratteristica dei piatti da pompa con un cavetto largo e profondo, una tesa ampia che termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su  un piede ad anello, anch’esso appena rilevato, e forato prima della cottura per consentirne l’esposizione. La foggia è tipica delle produzioni derutesi, ma utilizzata anche da altre botteghe della zona umbro-laziale, ed è destinata ad accogliere i celeberrimi ritratti di belle donne, stemmi nobiliari o soggetti importanti. Anche in questo caso, come per gli altri esemplari presenti in questa selezione, il piatto è dipinto a policromia e mostra una scena istoriata.

La giovane Dafne è raffigurata da sola mentre si sta tramutando in un albero di alloro: un cesto di foglie le ricopre il capo, quasi fosse un’erma decorativa, ma la trasformazione è più evidente nelle mani che si stanno mutando in rami fogliati, mentre l’espressione del volto è impassibile, quasi indifferente. Tutto intorno si estende un paesaggio roccioso dominato sullo sfondo, sulla cima di un colle, da una torre isolata e, più lontano, da una città fortificata che si specchia in un lago. La tesa mostra una ghirlanda d’infiorescenze, ognuna originata da gruppi di tre bacche gialle e terminante in un frutto verde puntinato di giallo, chiuso tra foglie blu arricciate. La policromia del decoro spicca sul fondo smaltato di bianco della tesa, in contrasto con la monocromia della scena centrale, vivacizzata appena dal colore di un serto di foglie che circonda la vita della protagonista. Il retro, coperto con una vetrina piombifera, mostra un rapido decoro costituito da tre larghe spirali dipinte con pennellate blu molto diluite.

Il motivo decorativo della tesa è poco utilizzato: lo ritroviamo, con modalità stilistiche appena differenti, in un vasetto dalla foggia tipicamente derutese, conservato nella collezione Chigi Saracini di Siena (1), nel quale il decoro ha un andamento a girali fogliati con corolle e bacche realizzate in forma più aperta. Carmen Ravanelli Guidotti analizzando l’opera suggerisce una possibile diversificazione della scelta decorativa nei manufatti ceramici a seconda che si trattasse di esemplari da rifinire a lustro o semplicemente a policromia. Tuttavia, mentre le girali del piccolo vaso sono prossime a quelle comunemente visibili sulle tese dei piatti da pompa della città umbra di Deruta, nel nostro esemplare si sviluppano in una corona continua, molto serrata e con modalità stilistiche ben caratterizzate: di contro, l’insolita scelta cromatica è molto simile.

Ancora più notevole è la comparazione con il piatto con Ercole e Anteo del Metropolitan Museum of Art, recentemente esposto in un’importante mostra fiorentina (2). Il confronto con il nostro mette in evidenza apprezzabili parentele: la modalità nel dipingere il cielo e le nuvole come piccoli monticelli in un campo riempito a linee parallele; l’uso di un tratto grafico sottile in monocromia blu; il contrasto coloristico così marcato tra tesa e cavetto; ed infine il paesaggio roccioso, di gusto gotico. Proprio quest’ultima caratteristica ci porta a considerare una cronologia precoce: ma si tratta semplicemente di una proposta, dato l’esiguo numero di confronti fino ad ora analizzati.

 

1 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, pp. 10-11 n. 28.

2 RASMUSSEN 1989, pp. 54-55 n. 32; MAZZOTTI in MARINI 2012, pp. 166-167 n. 1.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
26

PIATTO

DERUTA, SECONDA METÀ SECOLO XVI

Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, rosso ferraccia, giallo, arancio, verde rame in due toni, giallo antimonio, bistro e tocchi di manganese.

Alt. cm 8; diam. cm 38,2; diam. piede cm 13,3.

Sul retro tracce di etichetta con numero stampato ..61..

 

 

L’esemplare mostra la caratteristica forma dei piatti da pompa con un cavetto profondo e largo: la tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello, anch’esso appena rilevato e forato in origine, prima della cottura, per consentirne l’esposizione. La foggia è quella tipica delle produzioni derutesi, destinata ad accogliere i celeberrimi ritratti di belle donne, stemmi nobiliari o soggetti importanti, come le immagini di santi e di eroi, in questo caso dipinti a policromia con tecnica a risparmio su fondo maiolicato bianco. Il retro è ricoperto da uno spesso strato di bistro con un sottile velo di vetrina.

Il decoro mostra un soldato, con elmo e armatura, seduto su una roccia erbosa mentre indica con la mano destra un punto in lontananza, e sostiene, con la sinistra, un’alabarda appoggiata alla spalla; una lunga spada pende al suo fianco. La scena è compresa in un paesaggio con quinte di alberi e rocce chiuso all’orizzonte da una città turrita, che compare dopo una serie di avvallamenti dal profilo arrotondato. Intorno, su rocce sparse, spiccano fioretti colorati dallo stelo sinuoso.

La tesa è decorata da un motivo a ghirlanda stilizzata con palmette e infiorescenze, che spicca su un fondo di colore giallo arancio molto carico.

Il piatto trova numerosi riscontri in molte raccolte: quelli conservati nel Museo Regionale della Ceramica di Deruta, coerenti per decorazione della tesa e per stile pittorico(1), ci spingerebbero ad avvicinare l’opera in esame all’ambito della bottega Mancini, attiva a Deruta alla metà circa del secolo(2).

Tuttavia il confronto con opere particolarmente vicine per impostazione decorativa della tesa, una con un cavaliere con cappello piumato che mostra un paesaggio stilisticamente coerente con il nostro, conservata al Museo Duca di Martina a Napoli(3); e un’altra decorata da un guerriero in armatura, raffigurato a mezzo busto(4), dimostra analogie stilistiche molto marcate, al punto che, se accostati ad altri esempi, si è portati a pensare all’esistenza di una bottega produttiva coerente. La datazione proposta da Luciana Arbace per l’opera del museo napoletano, unitamente allo stile decorativo, ci incoraggia a pensare a una ripetizione, ormai tradizionale, di motivi più antichi, spostando la datazione di qualche decennio, fino alla seconda metà del secolo.

Il confronto infine con un piatto conservato al Museo di arti decorative di Lione(5)  nel quale compare una figura di giovane con un violino ci porta a ritenere l’opera in esame più coerente con le produzioni più tarde della bottega che, pur mantenendosi ad alto livello, tendono a ripetere i decoro del maestro in modo più seriale. La datazione proposta da Carola Fiocco e Gabriella Gherardi per questo esemplare si basa sull’affinità del decoro della tesa con un piatto del Museo di Amburgo(6) nel quale compare lo stemma del papa Giulio III il cui pontificato si svolse dal 1550 al 1555.

 

1 BUSTI COCCHI 1999, pp.193 e 195 nn. 83 e 85; p. 196 n. 87, nel quale riscontriamo affinità nel dipingere il paesaggio di sfondo abitato da città turrite, alcuni dettagli della tesa, ma anche lo stile nel delineare la figura e infine i dettagli dei fiori che spiccano cadenti dalle rocce, ci conforterebbero nell’attribuzione

2 Per un accurato approfondimento sulla bottega Mancini e adeguata storia degli studi si rimanda a quanto scritto in FIOCCO-GHERARDI 1984, pp. 403-416.

3 ARBACE 1997, n. 44

4 GIACOMOTTI 1974, p. 147 n. 496, che pure nota il colore rosso molto carico, e propone secondo la tradizione una datazione alla prima metà del secolo.

5 FIOCCO–GHERARDI 2001, p. 54 n. 88 e bibliografia relativa.

6 Inv. 1905 in Rasmussen 1984, pp. 153-154 n. 113.

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
65

TARGA

SAN QUIRICO D'ORCIA (SIENA), BARTOLOMEO TERCHI, 1717-1724

Maiolica dipinta in policromia con giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 1,6; lunghezza cm 52; larghezza cm 29.  

Un’antica etichetta cartacea incollata sul retro reca scritto in corsivo con inchiostro nero  “[…] de David in /magiolica di Rafael, o/ di Giulio Romano/ 84”.

 

Il corpo ceramico è composto dall’unione (a crudo) di tre piastre in terracotta chiara, rivestito da uno strato sottile di smalto stannifero sul fronte. Vi si notano sul retro due leggere colature. Due sottili linee nere profilano i margini nei lati minori del quadro pittorico. L’albero e le zolle di terra ondulate, che impostano la composizione in primo piano, sono dipinte in scuro bruno di manganese e in verde ramina. L’intera scena figurata è disegnata con una linea in bruno di manganese sottile e leggera, con la coloritura acquarellata in giallo-bruno degli incarnati e in azzurro-bruno di molte vesti. Arricchiscono un poco il cromatismo della scena effetti minori di cangiantismi in azzurro-giallo e qualche piccola zona tessile colorata in verde ramina. Al contrario, dominano il sistema visivo i campi gialli del carro e della cassa lignea. Le pennellate, che avrebbero dovuto lumeggiare diverse forme, hanno fatto difetto durante la cottura brunendosi probabilmente a causa della presenza di smalto stannifero: lo possiamo notare soprattutto nella veste della figura reale sul carro.

In questa lastra sono dipinti due episodi biblici, Il trionfo di Davide sugli Assiri e Il passaggio con l’arca dell’alleanza attraverso il fiume Giordano (1), composti in un unico corteo trionfale dell’ingresso di David a Gerusalemme, trionfante sui barbari, in un carro prezioso e, alle sue spalle, il trasporto dell’Arca dell’Eterna Alleanza in una cassa lignea dorata.

Ambedue sono derivati dagli affreschi di Raffaello Sanzio nelle Logge Vaticane, tramite le celebri incisioni di Nicolas Chaperon (1612-1656) del volume intitolato Sacrae Historiae Acta a Raphaele urbin. In Vaticanis xystis ad picturae miraculum expressa, pubblicato a Roma nel 1649.

La scena dipinta sulla maiolica mostra una notevole cura nel ripetere la posizione delle figure e dei cavalli in modo fedele al modello grafico. La qualità disegnativa è alta nelle figure protagoniste, ma diventa ben più corsiva nei volti delle figure secondarie. Il forte tronco frondoso e il corpo dei cavalli sono modellati con un sapiente chiaroscurare steso a piccoli tratti sottili, paralleli e talvolta incrociati. Nel blu le pennellate sono più diluite e il colore ha un tono celeste chiaro.

Questa targa è stata esposta all’importante mostra di storia della ceramica tenuta a San Quirico d’Orcia nel 1996. Allora apparteneva a una collezione privata ferrarese. Gianni Mazzoni, che ne compilò la scheda di catalogo, lo attribuì alla produzione di Bartolomeo Terchi degli anni ’20 del XVIII secolo a San Quirico o Siena (2). 

Bartolomeo Terchi era nato a Roma nel 1691 nel quartiere di Trastevere, forse da una famiglia di “vascellari” (3).  Nel 1717, ventitreenne, era giunto nel senese, a San Quirico d’Orcia, per lavorare nella bottega ceramica dei marchesi Chigi, producendo pezzi istoriati di alta qualità. Il suo grande successo artistico lo fece rimanere a lungo attivo in ambito chigiano, sfornando anche molte ceramiche destinate ai Medici, e trasferendosi a Siena nel 1725 per ben dieci anni. Piatti, piastre e grandi vasi decorati con scene figurate derivate da incisioni rinascimentali e barocche appartenenti alla collezione Chigi sono oggi esposti a Palazzo Chigi Saracini a Siena (4). Nel 1735 Bartolomeo, raggiunto e superato dal Campani, lasciò la Toscana per tornare in Lazio: è documentata la sua attività ceramica a Bassano di Sutri fino al 1753, poi a Roma e, nel 1766, a Viterbo (5).

Su una piastra rettangolare in maiolica, firmata “Bar: Terchi Romano/in San Quirico” ed esposta al Louvre (6), è dipinta una scena con Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Questo pezzo, proveniente dalla collezione Campana, venne acquisito dai musei nazionali francesi nel 1861. Lo stile pittorico e, soprattutto, il disegno dei volti delle figure secondarie mostrano un’assoluta coerenza con quelli del nostro pezzo.

Questo ci permette di considerare la nostra lastra dipinta tra il 1717 e il 1725 a San Quirico d’Orcia, forse nel primo periodo. Ravanelli Guidotti ha pubblicato un’altra lastra  stilisticamente affine conservata in un museo di Rouen che raffigura Mosè che mostra le tavole della legge (7).

La stessa scena raffaellesca col carro dorato di David è visibile su due grandi piatti senesi ma pittoricamente diversi perché opera di Ferdinando Maria Campani, il massimo concorrente di Bartolomeo Terchi. Uno, firmato e datato 1749 (8), porta lo stemma della Marchesa Rockingham del Wentworth Woodhouse, Yorkshire (9). L’altro, conservato in una collezione privata italiana, mostra la stessa scena dipinta con pari qualità artistica e con maggior carica cromatica (10).

Raffaella Ausenda  

 

 

1 Giosuè, 3 e 5.

2 MAZZONI in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 4 n. 4. In quell’occasione la rivista “CeramicAntica” del Giugno 1996 le dedicò la quarta di copertina (Anno VI, n. 6 (61)).

3 Fondamentali gli studi di PELLIZZONI-ZANCHI 1982 e di ANSELMI ZONDANARI in ANSELMI ZONDANARI-TORRITI 2012, pp. 155-210.

4 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, pp. 28-34 e 196-197.

5 S. Angeli, Non avere altro impiego e professione che quella di fabricatori di maioliche: Bartolomeo e Antonio Terchi e la ceramica viterbese del Settecento, in “Vascellari: rivista di storia della tradizione ceramica”, Anno 1, n. 1 (gen.-giu. 2003), pp. 142-163).

6  Di dimensioni cm 44 x 61, inv. n. OA 1852; GIACOMOTTI 1974, p. 458 n. 1357.

7 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 30.

8 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 79 n. 66.

9 Vedi piatto con lo stesso stemma e la scena allegorica de La Verità svelata dal Tempo, conservato all’Ashmolean Museum di Oxford.

10 PELLIZZONI-ZANCHI 1982, p. 97, e in ANSELMI ZONDANARI-CANTELLI-MAZZONI-TRALDI 1996, p. 13 n. 20.

 

 

 

Stima   € 12.000 / 16.000
Aggiudicazione  Registrazione
48

CRESPINA

CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA

Maiolica, dipinta in policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero n, marrone e bianco di stagno.

Alt. cm 3,6; diam. cm 25.

 

 

Crespina formata a stampo con umbone centrale rilevato, orlo mosso e corpo sbalzato.

La decorazione è dipinta su uno smalto ricco con una vetrina brillante e lucida sia sul fronte sia sul retro, dove le baccellature della forma vengono sottolineate da un decoro a linee blu.

Al centro dell'umbone spicca l'episodio di Muzio Scevola, tramandato dalla tradizione romana come esempio di coraggio. Intorno, lungo la tesa, quattro figure di arcieri si alternano a rami di ulivo a loro volta intervallati lungo il bordo da quattro lune antropomorfe e alate.

L’episodio, narrato da Tito Livio (1), si svolge durante l’assedio di Roma ad opera dell’etrusco Porsenna. Mentre nella città cominciavano a scarseggiare i viveri, il giovane aristocratico Muzio Cordo si offrì per andare a uccidere il comandante etrusco; infiltratosi nelle linee nemiche, e armato di un pugnale, raggiunse l'accampamento, ma nell’azione sbagliò persona uccidendo un funzionario del re. Catturato dalle guardie e portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire che avrebbe punito la mano che aveva sbagliato, e la pose su un braciere fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso romano assunse il nome di "Muzio Scevola" (Muzio il mancino). Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberarlo.

Questo soggetto ebbe grande successo durante il Rinascimento e fu spesso raffigurato su supporto ceramico, come dimostrano i numerosi esempi che vanno dalla coppa di Francesco Xanto Avelli fino a esemplari che possiamo accostare per stile e paternità a quello in studio. Ci riferiamo alla coppa che ripropone lo stesso episodio, conservata al Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo (2): la diversità nella disposizione dei personaggi e della scena ci conferma la presenza di più fonti incisorie di riferimento, ma soprattutto l’ecletticità e la capacità di tradurre la stessa scena con modalità assai differenti tra loro. Nel nostro esemplare è riprodotto l’accampamento con una vasta tenda, al centro il focolare su cui il giovane pone la mano; nella coppa di Arezzo si ha la disposizione tradizionale degli episodi di storia antica con il re assiso in trono, possibilmente in posizione rilevata e su un lato del piatto, e di fronte l’antagonista (3). Tuttavia lo stile pittorico è il consueto che ben possiamo riconoscere nelle opere che precedono questa scheda (lotti 45-46): i volti piccoli e racchiusi in elmi scuri, arrotondati, le loriche a fasce parallele di colore blu o ocra, le capigliature arricciate, le bocche piccole un poco imbronciate, le gambe muscolose, un poco tozze, ombreggiate con sottili tratti arancio e lumeggiate con bianco di stagno.

Ma nella crespina in esame la disposizione dei personaggi intorno al fuoco è più accorta, rendendo la concitazione del momento, e il paesaggio notturno che s’intravede nel cielo scuro, con le consuete nuvolette a chiocciola, dà una profondità alla scena non sempre riuscita nelle opere della bottega marchigiana. La decorazione della tesa intorno all’umbone ci stupisce per eleganza e inventiva: i quattro arcieri seminudi, realizzati con grande minuzia, inseriti in quattro riserve con sfondi sfumati alternati in giallo e azzurro e incorniciati da arcuati rami di ulivo, spiccano sulla superficie irregolare delle baccellature della coppa. Infine le lune dal volto antropomorfo, sorrette da due alucce colorate, rendono l’opera di ancor maggiore interesse, ma coerente con quello stile grottesco e un poco scanzonato che caratterizza l’opera della bottega durantina.

Un riscontro di questa stessa disposizione decorativa lo troviamo nella crespina baccellata conservata nel Museo Nazionale delle Marche, raffigurante al centro l’episodio di Piramo e Tisbe (4), circondato dalla stessa partitura in riserve con personaggi, in questo caso con una torcia in mano, alternati a figure di leoni, ma sempre incorniciati da rami di ulivo e piccoli leoni. Lo stesso decoro con i leoni si ritrova in un’altra coppa con al centro la storia di Diana e Atteone mutato in cervo, però con foggia differente (5), e ancora in una coppa Contini Bonaccossi degli Uffizi (6).

Molto affine, per concludere, anche per la presenza di un volto caricaturale simile a quello delle nostre lune, quello presente nella crespina con arcieri e scena centrale di Nettuno che crea il cavallo, conservata al British Museum di Londra, alla schedatura della quale rimandiamo per un elenco delle poche opere analoghe presenti nel tempo nelle principali raccolte europee (7), cui possiamo ora aggiungere la nostra.

 

1 Tito Livio, Ab urbe condita, II, 12.

2 Inv. 14699.

3 Si tratta dell’impianto decorativo che compare spesso nelle opere ceramiche, e che pare prendere spunto dallo schema iconografico di un niello del British Museum databile alla fine del secolo XV e riprodotto, oltre che nelle maioliche, anche in numerose placchette di bronzo (MUSCOLINO in MARINI 2010, p. 262 n. 36).

4 DAL POGGETTO 2003, p. 347 n. 488.

5 Palazzo Madama, inv. C 2743.

6 MARINI 2003, n. 17.

7 THORNTON–WILSON 2009, pp. 390-391 n. 232.

 

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
17

CANESTRO DI FRUTTA                                                        

GIOVANNI DELLA ROBBIA, 1520-1525 CIRCA                                    

Terracotta decorata in policromia a pigmento e invetriata.                

Alt. cm 18; diam. cm 26.                                                  


La scultura è a forma di canestro con composizione di frutta. Il contenitore ha un'imboccatura ampia, con una strozzatura a metà del corpo e piede piano: limitazione del vimini nella struttura è accorta e dettagliata. La parte alta del contenitore ospita una grande quantità di frutta, di verdura e alcuni fiori: uva, melograno, cetriolo, limoni, noci, fiordaliso, fiori darancio e altro. La composizione è disposta con grande naturalezza e arricchita da elementi quali una piccola raganella verde e una lumaca.                                                            

Di questa tipologia sono conosciuti alcuni esemplari con varianti: si ricordano tra le altre la cestina del Museo Bardini di Firenze (1) attribuita a Giovanni della Robbia; le cestine esposte alla Mostra di Fiesole sui della Robbia (2), anchesse assegnabili al medesimo ambito; la cestina della collezione Cagnola di Varese di officina robbiana forse vicino a Giovanni o Luca della Robbia (3).                                

Questo tipo di oggetto si affianca alle produzioni non scultoree della bottega della Robbia, che comprendeva anche i vasi di gusto classicistico e i vasi con coperchio plasmato a guisa di cespo di fiori o di frutta, come ad esempio quello del Fitzwilliam di Cambridge, in cui ci pare di vedere una comunanza nello stile del decoro a frutta con il nostro cestino (4).  

Queste opere dovevano probabilmente essere utilizzate come ornamento dellaltare o anche come gameli nuziali (5).                               

Giancarlo Gentilini ricorda come si tratti di una produzione limitata, dove i panieri erano realizzati a calco dal vero, mentre la frutta e gli animali da orto erano modellati, e assegna queste opere al periodo di Giovanni e  Luca il Giovane nella prima metà del Cinquecento (6).                     

Qualche analogia va segnalata anche con un canestro, di dimensioni superiori al consueto, abitato come il nostro esemplare da piccoli animaletti, databile agli anni venti del Cinquecento per il modellato e le scelte cromatiche (7).

La produzione si nserisce in un preciso programma culturale dei della Robbia che ha un suo illustre precedente nellantichità classica, quando opere in terracotta raffiguranti i frutti della terra erano esposte nelle dimore per alludere alla fertilità e all'abbondanza (8).                              

 

1 GENTILINI 1992, inv.1923 n. 877, p. 281.                                

2 QUINTERIO in GENTILINI 1998, p. 279 n. III, 21a,b.                      

3 AUSENDA 1999, p. 165 n. 2.                                              

4 POOLE 1997, p. 30 n. 10, attribuito a bottega di Andrea della Robbia.   

5 GENTILINI 1992, p. 221.                                                 

6 GENTILINI 1998, pp. 221 e 359. Ne parla il Piccolpasso indicando le varie

tecniche della maiolica (PICCOLPASSO 1976, p. 87).                        

7 QUINTERIO in GENTILINI 1998, p. 280 n. III, 22.                         

8 GENTILINI 1980, p. 85.   

                              

Stima   € 12.000 / 18.000
10

ALBARELLO

MONTELUPO, 1470-1480

Maiolica dipinta in policromia con giallo citrino e blu di cobalto.

Alt. cm 18; diam. bocca cm 10,3; diam. piede cm 9.

 

 

Il vaso apotecario ha un’imboccatura larga con orlo appena estroflesso e con profilo tagliato a stecca. Il collo è breve e cilindrico, la spalla pronunciata dal profilo angolato, cui fa seguito un corpo cilindrico appena rastremato al centro. Il piede è basso, a base piana.

La decorazione, coerente con quella dell’esemplare che segue in questo stesso catalogo (n. 11), rivela sul fronte uno stemma centrato da una fascia orizzontale attorno alla quale sono disposti tre gigli, due sopra e uno sotto: la fascia e i gigli sono dipinti in colore giallo. Lo stemma è circondato da una ghirlanda a piccole foglie alla quale è agganciato un drappo, mentre il resto della composizione mostra un ornato a foglie d’edera disposto a fasce parallele sul corpo e orizzontalmente lungo la spalla.

I due vasi, entrambi presenti in questo catalogo, sono già stati pubblicati da Carmen Ravanelli Guidotti come confronti dell’albarello apotecario appartenente alla collezione Fanfani oggi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1).

La studiosa rimarca come ci si trovi davanti ad esempi ancora eccellenti di opere “a zaffera”, d’ispirazione italo-moresca, soffermandosi sull’aspetto araldico della serie di vasi raccolti attorno all’esemplare “Fanfani”: le differenze nelle forme e nelle configurazioni riguardano l’apparato decorativo e la differente redazione dell'arma. Per Carmen Ravanelli Guidotti si potrebbe trattare comunque di un’unica committenza iniziale, cui hanno fatto seguito più produzioni, e la studiosa concorda con Wallis riguardo all’ipotesi che si tratti di una famiglia non fiorentina. Il collezionista inglese riconobbe infatti nello stemma dell’esemplare ora conservato al Victoria and Albert Museum (2), quello della famiglia bolognese dei Mezzovillani. Per Carmen Ravanelli Guidotti si dovrebbe comunque indagare in ambito romagnolo e bolognese, dove altre famiglie esibiscono un blasone assai prossimo (3).

Analizzando nel dettaglio i due vasi notiamo che questo ha affinità maggiori con il vaso della collezione Glaser al Fitzwilliam Museum (4), fatta eccezione per la presenza di una fascia decorativa in orizzontale, anche nella parte bassa del vaso, mentre lo stemma ha una distribuzione dei gigli analoga: condivide l’ornato anche il già citato albarello del museo di Faenza.

L’ornato principale è ampiamente documentato tra i prodotti delle fornaci di Montelupo ed è noto come motivo a foglie verticali nel gruppo di decori di derivazione orientale “a damaschino” (5). Fausto Berti ritiene che questo tipo d’impianto decorativo appartenga a una fase più avanzata rispetto a quelli “a zaffera” o a quelli in “azzurro prevalente”: si tratta di un momento di passaggio verso una tavolozza più ricca. I tocchi di giallo citrino anticipano una fase successiva, in cui comincerà ad apparire anche il verde: ci si trova comunque ancora nell’ambito dei colori a tavolozza fredda. L’ornato prevede una foglia di forma lanceolata, nella quale le nervature sono incise nella campitura a colore, in questo caso ancora prevalentemente caratterizzata dall’uso del blu di cobalto. In altri esemplari le foglie si alternano con altre dipinte in manganese, come nell’albarello presentato da Berti nella mostra sulla maiolica di Montelupo (6).

Entrambi gli esemplari sono noti per la loro vendita all’asta Sotheby’s di Londra nel 1973 (7).          

 

 

1-RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 52-54 n. 17, tavv. 17c e 17f.

2-Inv. 1136-1904 Wallis Collection databile al 1450-1475, RACKHAM 1977, n. 80.

3-Famiglie Candenelli e Speciotti.

4- RACKHAM 1987, n. 2166, datato alla metà del secolo XV.

5- Il motivo a “foglia di edera” deriva dalle maioliche ispano moresche: per gli esemplari che recano questo decoro si veda ad esempio l’albarello raffigurato da Hugo Van Der Goes sullo sfondo della tavola Portinari nel 1473-1475 circa (VAN DE PUT 1904, p. 88 n. XXVI).

6-BERTI 2002, pp. 99-100 n. 16.

7-SOTHEBY’S 1973, lotto 7.

                               

Stima   € 12.000 / 18.000
11

ALBARELLO

MONTELUPO 1470-1480

Maiolica dipinta in policromia con giallo citrino, blu di cobalto e bruno di manganese.

Alt. cm 17,8; diam. bocca cm 8,8; diam. piede cm 9.


Il contenitore ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo angolato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana.

La decorazione, coerente con l’opera che precede (lotto 10), mostra sul fronte uno stemma centrato da una fascia orizzontale, lasciata a risparmio, sopra la quale sono tratteggiati tre gigli separati da una fascia merlata inversa di colore bruno di manganese. L’emblema è circondato da una ghirlanda a piccole foglie che sorregge un drappo, mentre il resto della composizione è costituito da un ornato a foglia d’edera, disposto in fasce verticali dall’andamento sinuoso, che continua sulla serie di foglie del collo. Rispetto all’esemplare che precede inoltre le fasce sono qui visibilmente separate da linee di colore giallo citrino, mentre intorno alle foglie sono disposti decori minuti realizzati con sottili righe blu che riempiono le campiture vuote.

Anche questo vaso condivide con il precedente la pubblicazione a cura di Carmen Ravanelli Guidotti come confronto dell’albarello apotecario oggi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1). Pur condividendo con il precedente sia i confronti sia la fonte d’ispirazione valenciana, presenta alcune differenze nella forma e nella decorazione, e soprattutto nella realizzazione dell’emblema araldico.

Sono tuttavia numerose le affinità con la serie di contenitori apotecari con bordo orlato dal motivo a foglie d’edera racchiuso sul corpo in fasce di andamento ondulato. Un esempio pregnante ci deriva dall’albarello studiato da Wallis al Victoria and Albert Museum, con la sola variante dell’arma nella quale i gigli sono tutti compresi nella parte superiore dello stemma. Un altro confronto, per questo vaso, con la stessa variante nello stemma (2).

Come detto per il lotto precedente, entrambi gli albarelli sono noti perché transitati sul mercato all’asta Sotheby’s di Londra nel 1973 (3).

 

1-RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 52-54 n. 17, tavv. 17c e 17f.

2-CORA 1973, tav. 178b.

3-SOTHEBY’S 1973, lotto 7.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
5

ORCIOLO BIANSATO

AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1420-1430

Maiolica, corpo ceramico di colore ocra chiaro, appena rosato. Smalto color crema di lucentezza marcata, ma steso in uno strato poco spesso che lascia trasparire il colore dell’impasto; la smaltatura si estende anche all’interno del contenitore. Decoro “a zaffera” in blu di cobalto e piombo poco rilevato, orlato con tratti sottili di bruno di manganese piuttosto diluito.

Alt. cm 16; ingombro massimo cm 14; diam. della bocca cm 8,9; diam. del piede cm 8,4.

Sotto l’ansa il simbolo della bottega, le lettere “x” e “n” disposte in successione, associate da un lato ad un punto blu, dall’altro ad una croce.

 

Il vaso elettuario, destinato allo stoccaggio di unguenti, ha una forma arrotondata con un corpo globoso, che scende assottigliandosi verso il piede basso e con base piana. Il collo, cilindrico, è corto e privo di orlo. Dalla spalla, fino alla parte più esterna del corpo, si allargano due brevi anse a nastro a piega ortogonale.

La decorazione, suddivisa in due metope che occupano la gran parte del corpo, segnate da sottili linee di manganese, è caratterizzata da un motivo a foglie di quercia che si dipartono da un sottile ramo centrale, realizzato in manganese, per aprirsi lateralmente con andamento simmetrico. Le due metope sono separate tra loro dalle anse che, scendendo lungo il corpo, ne determinano l’impaginato decorativo. Il collo è ornato da una serie continua di punti blu, tra loro separati da una linea sinuosa in bruno di manganese (1).

Il decoro a foglia di quercia è molto frequente nelle produzioni di area fiorentina e la sua diffusione secondo alcuni studiosi è da mettere in relazione con l’obiettiva difficoltà tecnica della pittura a zaffera: il soggetto arrotondato e ripetitivo doveva facilitare la tenuta del colore, limitando sgradite sbavature (2).

L’orciolo trova precisa corrispondenza nell’esemplare n. 44 di questa stessa selezione, ma anche in un manufatto, di poco più grande, studiato da Galeazzo Cora prima e da Carmen Ravanelli Guidotti poi e infine pubblicato nell’esauriente studio sulla zaffera compiuto in occasione della mostra di Viterbo nel 1991 (3).

La marca è stata interpretata da Carmen Ravanelli Guidotti come una “z” e una “n” disposte in successione e riferita ad un gruppo di marche della produzione montelupina cosiddetta italo-moresca. In realtà, concordemente a quanto affermato da Berti nell’ampio studio sulla ceramica di Montelupo (4), se accettiamo una cronologia produttiva che va dagli anni ’70-’80 del Trecento per ai tardivi esemplari degli anni intorno al 1470 la “zaffera” precederebbe di non pochi anni lo sviluppo della italo-moresca. Per Berti infatti è proprio la scelta morfologica e decorativa, che si discosta dalle consuete composizioni geometrico-fitomorfe della ceramica arcaica, a costituire la principale innovazione e novità formale nella produzione ceramica del Quattrocento.

Lo stesso motivo qui riprodotto della “foglia di quercia” costituisce un’innovazione la cui fonte d’ispirazione non è ancora certa e il cui ruolo, come elemento decorativo, può avere una valenza principale o secondaria, come ad esempio nello splendido boccale (lotto 8) di questa selezione dove accompagna due elementi figurati animali.

Un esempio di confronto che ci pare particolarmente significativo è l’orciolo esposto alla mostra sulla ceramica di Montelupo nel 2002 (5): la forma, lo stile decorativo e la qualità materica sono assai prossimi a quelli dell’esemplare in esame; inoltre la presenza della sigla, che accomuna tutti gli esemplari oggetto di confronto, ci porta a ritenere l’opera in esame come prodotto di una bottega montelupina riferibile agli anni 1420-1430 circa.

 

1-Gli ornati delle ceramiche a zaffera sono stati studiati da MOORE-VALERI 1967, pp. 477-500, che ha individuato alcuni ornati come ispirati alle tappezzerie e ai tessuti di origine orientale. La foglia di quercia si distingue da questa fonte diretta d’ispirazione e fu spesso utilizzata come riempitivo delle parti che non erano occupate da figure umane, fantastiche o animali. Tale decoro è spesso parte del repertorio figurativo presente anche sulla ceramica arcaica. Per la studiosa l’origine assai precoce del decoro dovrebbe provenire dalla Sicilia Angioina, per poi trasferirsi attraverso l’esperienza degli orafi e dei tessitori lucchesi verso il centro della Toscana.

2-BERTI 2002, pp. 51-53.

3-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 91 n. 31 e n. 137 (già collezione Damiron, SOTHEBY’S 1975, n. 5) con zaffera decisamente meno rilevata.

4-BERTI 1997, p. 114.

5- BERTI 2002, pp. 54-56 n. 2 e datato al 1420-1430.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
8

BOCCALE

AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1430-1440

Maiolica, corpo ceramico di colore ocra chiaro camoscio, smalto bianco grigiastro con consistenza tenera, spesso ma poco lucente e con qualche inclusione. Decorato in zaffera blu di cobalto e piombo con effetto molto rilevato, con tratti di bruno di manganese anch’esso con abbondanza di pigmento.

Alt. cm 16,5; diam. della bocca cm 12,5 x 11; diam. del piede cm 12.
 

Il boccale ha una forma che ben si adatta alle morfologie tipiche dell’area fiorentina: corpo rigonfio che si stringe alla base mostrando un piede basso arrotondato, appena visibile, e poggiante su una base piana. In alto la strozzatura rastremata si chiude in un collo basso e cilindrico che si apre in una bocca trilobata appena estroflessa con orlo tagliato a stecca. Dal collo scende un’ansa a bastoncello raddoppiato, che si ferma appiattendosi all’altezza di massima espansione dell’invaso. L’ansa è decorata da trattini orizzontali che delimitano spazi bianchi, decorati in alternanza da puntini o croci. Un motivo “a trifoglio” in blu interessa il punto di raccordo tra l’ansa e il corpo del contenitore.

La decorazione principale interessa una larga metopa, delineata sul fronte del vaso e incorniciata da linee parallele, dove un leone rampante e un trampoliere sono riprodotti affrontati: gli animali sono circondati e incorniciati da foglie di quercia su rami sottili che sostengono piccoli frutti rotondi stilizzati. Il collo è decorato da un motivo “a bacche”, che prevede una fila continua di punti tondi e sottili tratti di manganese.

Le figure del leone e dell’uccello sono spesso impiegate, singolarmente, sulle ceramiche di questa tipologia, in posizione gradiente.

Il leone trova un riscontro stilistico in una figura analoga, ma in posa differente, dipinta su un boccale morfologicamente simile, ma di dimensioni maggiori, conservato in una collezione privata a Siena e databile al secondo quarto del secolo XV: il leone con criniera avanza a destra con la lingua all’infuori ed è circondato da foglie di quercia (1). Ma, nonostante la somiglianza, ci pare che il nostro esemplare si possa annoverare tra le opere ascrivibili alla prima fase di questa tipologia produttiva. La qualità della zaffera molto rilevata, alcuni caratteri decorativi ancora vicini alla ceramica arcaica e la forma con ansa a doppio bastoncello ci indurrebbero ad anticiparne la datazione di circa un ventennio.

Il leone rampante è spesso rappresentato da solo o in coppia su molti orcioli di produzione montelupina della fase iniziale della “zaffera” (2). Particolarmente prossimo al nostro esemplare è il leone presente su un orciolo, pubblicato da Galeazzo Cora, già della collezione Liechtenstein (3) : molto vicini sia lo stile pittorico con il quale è realizzato l’animale sia la scelta decorativa secondaria; l’opera è datata da Cora alla prima metà del secolo XV.

Da rimarcare poi sia la rarità della scelta morfologica del contenitore (4)sia l’importanza dell’impianto decorativo, impreziosito dalla presenza contemporanea dei due animali affrontati.

 

1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 78 n. 18 e confronti.

2-Si veda in merito la selezione proposta dagli autori del catalogo della nota mostra sulla Zaffera di alcuni anni orsono con oggetti realizzati in modalità stilistiche più o meno simili al nostro esemplare (CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, pp. 254-255 nn. 32, 33, 34, 59-66 e bibliografia relativa).

3-CORA 1973, tav. 81 (81a).

4-Il quartone, di produzione toscana: attestato nel periodo (BERTI 1997 p. 348 n. 67)

                                    

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 65